Mimma Forlani-Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina
Editore CartaCanta
Descrizione Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina il nuovo libro di Mimma Forlani ricostruisce la mappa del comune sentire, pensare, parlare di un paese rurale seguendo il giro delle stagioni negli anni 1958/59. Un momento importante per la civiltà contadina che, rimasta quasi immutata dai tempi di Virgilio, inizia a morire negli anni Sessanta quando i contadini abbandonano i campi per la fabbrica. Per raccontare luoghi e persone ormai scomparsi, l’autrice inventa una lingua che rievoca le sonorità della sua infanzia. Nel suo trattato narrativo di antropologia l’autrice ritorna al dialetto, ritrovato lungo il suo percorso di scrittura, all’italiano popolare-lombardo, senza escludere il latino dei riti della Chiesa pre-conciliare e la lingua colta degli studi successivi. L’autrice fa cosi rivivere la koiné di un piccolo borgo agricolo nel quale il dato realistico non esclude il gioco dell’invenzione e lo slancio lirico sottolineato da frammenti poetici. Si narra un duplice commiato: quello dell’autrice dal mondo contadino e quello di un popolo dalla propria vita. “Il paese delle aie” è un gesto d’affetto e di memoria. La vita faticosa e povera dei contadini sembra essere stata più appagante della nostra.
Estratto del libro di Mimma Forlani- Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina
A quei tempi
Bariano era un paese di aie.
C’era la corte di Jàcom-fólega1 con cavalloni di granoturco stesi
sulla graticola dell’essiccatoio
dove i bimbi sgusciavano come ratti
sui grani caldi.
C’erano le campate dei mezzadri
Àngel de’ Amastini, Pí de’ Ghéta,2 Santo Forlà, Pepi Resmí, Àngel de’ Lansí, Luciano Milani e Peder de’ Perèch
con le pannocchie appese sotto le travi.
Jàcom-fólega, nato a Bariano il giorno di San Pietro del 1877, era stato chiamato così perché, andando a caccia con il suo schioppettino, qualche volta riusciva a portare a casa una o due folaghe. Sposato con Margherita dei Finazzi, ebbe undici figli, due morti subito e nove sopravvissuti. Il più piccolo di statura e il più furbo, Jacumí-fulighí, nato nel 1917, sposò il 14 settembre del 1946 Maria dei Mossi, figlia a sua volta di Jàcom e di Angela de’ Ferrari, dalla quale ebbe una sola figlia, Jacumína-fulighina detta semplicemente la Fulighina.
Per Pí de’ Gheta si azzarda l’ipotesi che Ghéta sia una storpiatura di Ghita, mar- gherita; quindi figlio di Margherita. Ghéta, tuttavia, è parola che ha assonanza con ghéda, grembo, che compare nell’espressione tègn i mà ‘n ghéda, per lo più riferita alle donne che, quando stavano sedute, tenevano le mani incrociate sul grembo. Quella era la posizione abituale anche di Pí, Giuseppe, padre tirannico, che, da seduto, sorvegliava e comandava a suon di cinghia i propri figli.
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Là fuori nei campi, vicino al cimitero, c’era la nuova aia de Jacumí-fulighí, settimo dei nove figli vivi di Jàcom-fólega. Poi c’erano le aie dei diavoli.
Di notte, con le zampe caprine, buttavano all’aria la pula
riempivano i sacchi con il grano maturo e scappavano scalciando
Adío Pèp3 La buona farina è finita in crusca.
M’avvio?
La prima parola pronunciata dalla bambina sbucata fuori dalle marcite marzoline fu un grido di gioia strozzato in gola, un’altale- na di gridi gettati al cielo, un fuggi fuggi di zoccoletti sull’aia.
Fu anche altro.
Sicuramente altro: rumori, suoni, guizzi di un’infanzia dispersa da oltre cinquant’anni, che all’alba di una domenica risuona dalle vecchie foto in bianco e nero. In una, di gruppo, presa sul neva- io del monte Menna nell’alta Valle Brembana c’è una bimba con le trecce che spuntano dal fazzoletto legato in testa. Nove o dieci anni? Di certo è lei, la Fulighina, figlia di Jacumí-fulighí, figlio di Jàcom-fólega. Quel soprannome, che nell’infanzia i compagni di scuola le gettavano in faccia come un insulto per l’assonanza irri- dente con Folètina, le appariva ora buffo, persino comico in quel richiamo alla folaga un po’ fola e un po’ folletto.
Incominciò così a raccogliere i ricordi che nascevano sonori nella memoria come l’acqua dai fontanili della pianura, indovinò le singole voci, lasciò emergere gli assolo, i duetti, il coro d’ac- compagnamento e li lasciò suonare sulla pagina insieme alle voci
Espressione idiomatica del paese per dire al povero Pèpo, che una mattina ave- va trovato il pollaio vuoto, di mettersi il cuore in pace; delle galline non avrebbe più visto neppure una piuma.
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degli animali domestici e delle piante campestri in un’antica lin- gua, d’improvviso ritrovata. Quella mattina, e molte altre nei mesi successivi, dalla sua casa situata nell’antica città delle alte mura, prese a ruzzolare nei campi, a sgranare sul palmo della mano de- stra i chicchi di frumento ormai maturi, li ripulì con dita amorose dalla pula, li rigirò in piena luce, li mise in bocca, e li spezzò come il padre faceva alla vigilia del raccolto. Se il chicco che sfrigolava fuori dalla spina era duro, allora Jacumí-fulighí convocava i fal- ciatori: “Domà m’ regój!”. Domani raccogliamo, diceva a Nando de’ Corvis e a Àngel de’ Lansí. L’ordine veniva dato verso sera; e loro convenivano con il capo: il tempo era arrivato. Sfilavano le ranze dalla corda appesa alla ruvida parete del portico, incomin- ciavano a battere con il martello sulla lama posata su un sòch4 di legno, messo alla giusta distanza dai treppiedi su cui si erano se- duti. Dopo l’ultima sfregata con la cut5 alle lame lucide e sibilanti, infilavano sul manico una mezzaluna di alluminio, strumento ca- pace di tenere unite le spighe tagliate, trasformando l’umile ranza in nobile falce messoria e il misero falciatore in mietitore divino. “Domani, se Dio vuole, si raccoglie”. Già il padrone della treb- biatrice, certo Vittorio detto Mezzo-culo, era stata avvisato. Lui sarebbe stato nel campo alle sei, gli altri dovevano essere a fò6 un po’ prima. Alla vigilia tutti gli umani della corte, prima di andare a dormire, scrutavano il cielo, restavano a lungo lì, sui due piedi, a osservare gli alberi che reggevano il filo dell’orizzonte. Se il sole tramontando aveva lasciato una striscia rossa tra le cime delle pla- tine e delle pioppe,7 gli animi si rinfrancavano perché anche i sassi sapevano che rosso di sera, bel tempo si spera.
Intanto la bambina dalle treccine color terra saltava alla cor- da sull’aia o scalpitava sui sentieri dei campi insieme ai cugini, qualche mese più vecchi di lei, Jàcom de’ Lansí, Jàcom de’ Corvis e Gioàn de’ Mossi che, appena finita la quinta elementare, erano
Ceppo.
5. La cote, pietra nerastra ricca di quarzo, utilizzata per molare le lame. 6. Dal latino ad foras: fuori, al lavoro nei campi.
7. In dialetto il nome degli alberi è per lo più femminile.
Mimma Forlani < Il paese delle aie
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pronti per essere avviati al lavoro. Forse uno avrebbe voluto con- tinuare gli studi, ma soldi non ce n’erano, l’altro avrebbe fatto un corso professionale; quanto a Gioàn, già i suoi libri li aveva buttati nella mangiatoia e la mucca se li era divorati fino all’ultima pagina, con suo grande sollievo.
Quella mattina scandita dal suono delle campane, la figlia di Jacumí-fulighí rivede i s-cècc, gli schietti, sedersi uno accanto all’al- tro sulle rive rosse di papaveri, alzarsi poi di scatto per inseguire le libellule della Morla, la grande roggia che serviva a decquare8 i campi.
“Mio Dio, dove sono finiti?”
Eccoli tra i filari dei moroni9 carichi di ciciotte scure, nascosti dai soffioni che raccolgono a man bassa. Poi, seduti sulla riva er- bosa del canale, soffiano dentro le bolle i pappi volatili fino a farsi scoppiare le guance. Sentili ora starnutire come puledri pizzicati da qualche incauta mosca infilatasi su per le narici.
“Adesso dove sono?”
Stanno arrampicandosi sul fienile, mettono l’uno dopo l’altro i piedi nudi sui pioli di legno e si tuffano nel fieno maggengo. Ma certo, prima del taglio del frumento a quei tempi c’era quello del maggengo che anticipava l’estate: gioiosa stagione dei raccolti. Perché tutti sapevano allora che si semina nel pianto e si raccoglie nella gioia.
“Chissà se il tempo del raccolto è arrivato…” si chiede da dietro la scrivania la figlia di Jacumí-fulighí.
“Domani m’avvio. M’avvio sulla pagina bianca”.
A passi diversi
Se solo una volta, dico una volta,
i tuoi occhi di galaverna si fossero sciolti in fiocchi di neve, i sentieri dei campi
Irrigare. 9. Gelsi.
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li avrei percorsi a passi di danza.
Ho invece vagato a passi diversi sui sentieri di ghiaccio di un lago dal gelo sigillato,
e da altro, in verità.
Come folaga dispersa
mi sono infangata tra i giunchi della riva e attendo di volare
nel vento della vita.
Mimma Forlani < Il paese delle aie
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Cenni Biografici di Mimma Forlani
Mimma Forlani, giornalista pubblicista, ha pubblicato libri e saggi quali: Ruth Domino Tassoni, 1996; Sandro Angelini e Città Alta, 1999; Elena Milesi, Città Alta e altri luoghi della sua poesia, 2004; I luoghi di Gianandrea Gavazzeni-tra musica e parola, 2006-2021; Gli Scotti, la baronessa Ninì racconta gli antenati Francesco e Gianmaria, gli amici di casa Gaetano Donizetti e mons. Roncalli, 2009; Filippo Siebaneck, Cittadino esemplare di Bergamo, 2006; Di-sperare in terra di Palestina, 2009-2013; Variazioni sull’acqua(quattro conversazioni poetico-musicali), 2010; Enrico Gonzales, avvocato, socialista, galantuomo (con Francesco Giambelluca), 2012; Storie amene sotto il berceau, I e II,2016-2017; Sulle tracce di Gianmaria Scotti, nobile patriota del Risorgimento. Inchiesta storica sulla gioventù del Quarantotto: luoghi e ideali, 2020. è protagonista di numerose iniziative culturali a Bergamo e provincia.
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
L’Abruzzo ha un volto molto antico: quello dei suoi tratturi, bracci, tratturelli che ne segnano il territorio, là dove sono stati conservati e tutelati . Le antiche cartine d’Abruzzo mostrano una sorta di sistema vascolare di una regione che attraverso l’ “erbal fiume silente”, come d’Annunzio nella sua poesia “I pastori” definiva il tratturo, si alimentava ed alimentava la propria economia,quella della transumanza.
Il termine deriva da “ trans” forma avverbiale: attraverso e humum: terra : andare attraverso con il significato di trasferimento di persone e bestiame in estate ai pascoli della montagna e in autunno al piano.
Questo “sentiero naturale tracciato dalle greggi”, viene da molto lontano, perché già all’epoca dei Romani si individuavano come
“semita aspera qua pecora in montes ire solent” (aspri sentieri sui quali sogliono transitare le pecore sui monti). Su questi “sentieri” si svolgevano le partenze ed i ritorni, con un fenomeno chiamato
appunto transumanza.
Tratturo, che sui dizionari viene definito “largo sentiero erboso per far transitare greggi e armenti dalla Puglia ai monti degli Abruzzi e viceversa” è un termine moderno, che si incontra poco nella letteratura italiana, salvo nell’ ”Alcyone”, e nel libro terzo delle “Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi” del D’Annunzio.
La Transumanza: Storia
La transumanza è un sistema di allevamento antico diffuso in molte aree del bacino del Mediterraneo che prevede in estate lo sfruttamento dei pascoli dislocati a quote più elevate sui territori montani e d’inverno il trasferimento delle greggi in pianura anche a distanza di centinaia di Km . Nel caso dell’Abruzzo la transumanza orizzontale veniva praticata già in epoca italica dai Sanniti che si scontrarono con i Dauni della Puglia proprio per il controllo dei pascoli invernali. Durante il periodo romano la transumanza ebbe un forte incremento grazie ad una efficiente organizzazione dello stato. Alcune importanti città romane sorsero proprio sui tratturi per controllare lo spostamento delle greggi tra esse Peltuinum e Juvanum in Abruzzo e Sepino in Molise.
La seconda rivoluzione economica nel campo della pastorizia si ebbe alla metà del XV secolo per opera di Alfonso d’Aragona re di Napoli che prese a modello il sistema in uso da tempo nella penisola iberica dei pastori spagnoli chiamata mesta.Riorganizzò le vecchie “calles” romane che presero il nome di tratturi. Era tutto un mondo che si muoveva, tutta un’economia che si sviluppava intorno a queste vie che organizzata con precise leggi fiscali, è servita a sostenere per secoli le finanze del Regno di Napoli e delle Due Sicilie.
Alfonso I d’Aragona, con la Prammatica del 1 agosto 1447, istituì la Dogana per la “Mena delle pecore” in Puglia. Le terre di pascolo, dette locazioni, erano del Demanio Regio e si potevano utilizzare solo pagando la “fida”, un canone annuo, fissato in rapporto al numero delle pecore , ogni 100 pecore davano diritto ai pastori, detti locati, di utilizzare 24 ettari di terre non arate, chiamate poste.
Un sistema fiscale, duro per i piccoli pastori, che ha fruttato enormi entrate, fino al maggio 1806, quando Giuseppe Bonaparte, re di Napoli abolì le servitù sul Tavoliere di Puglia.
Con l’unità d’Italia alcuni dei tratturi principali furono assimilati alle strade nazionali e protetti, altri furono riassorbiti dall’agricoltura. Questo sistema di percorsi naturali, storicamente sedimentato, era incardinato su pochi valichi che limitavano e canalizzavano i collegamenti con il resto della penisola.
Una società gerarchica
Le greggi transumanti appartenevano a grandi proprietari detti armentari , ricchi possidenti che investivano i loro capitali nell’allevamento e nella produzione della lana. Ma anche gli ordini e le congregazioni religiose e i feudatari locali e gli esponenti dell’alta borghesia possedevano numerose greggi. I piccoli proprietari locali che per necessità si recavano nei pascoli invernali si riunivano in società per ridurre le spese dell’attività. Tra i pastori vigeva una ferrea organizzazione gerarchica .
A capo stava il padrone che si serviva del “massaro di pecore” che organizzava tutte le attività connesse al pascolo. Il “casaro” era addetto alla lavorazione e trasformazione del latte , il buttero sovrintendeva agli animali da soma e agli spostamenti logistici durante il periodo della transumanza. I “ pastori” erano addetti
alla custodia delle greggi . Ad ognuno veniva affidata una “ morra” di pecore composta da circa 200 animali , infine venivano i più giovani detti “ pastoricchi” a cui erano affidati i compiti minuti e umili .
Una vita dura
La vita dei pastori era fatta di sacrifici e rinunce. I pastori transumanti a settembre riprendevano mestamente la via delle Puglie dove rimanevano fino a maggio quando, dopo la fiera di Foggia, iniziava il viaggio di ritorno verso la montagna natia e le famiglie lasciate per molti mesi. Quando tornavano portavano nelle loro bisacce i doni per i loro bambini e le loro spose .
Drammatiche ed epiche insieme, le partenze a fine settembre separavano i nuclei familiari, affidati alle madri coraggio delle montagne abruzzesi, che si riunivano per poche settimane da maggio a giugno in un’atmosfera di ritrovati sentimenti e passioni e poi di nuovo in montagna nella solitudine dei pascoli in attesa di ridiscendere in paese . La vita del pastore non era facile
caratterizzata da privazioni e stenti. D’estate, quando seguiva le greggi sui pascoli della montagna era costretto a vivere all’interno delle grotte adibite sia a stazzo , ricovero degli animali durante la notte, sia a rifugio del pastore , e quando non vi erano ripari naturali costruivano rifugi in terra o in pietra o anche capanne a tholos dalla copertura a cupola a base circolare o quadrata. Il cibo scarseggiava ed era costituito essenzialmente da ricotta siero e pancotto una
semplice minestra fatta con il pane secco e condita con poco olio. Si mangiava carne solo quando qualche pecora moriva , per cause accidentali o divorata dai lupi. La giornata era lunga e scandita dagli astri. All’alba si alzavano quando in cielo splendeva il pianeta Venere a sera riposavano quando compariva la “ stella del pecoraio”.
Nel silenzio delle lunghe ore passate a guardia del gregge i pastori
impiegavano il tempo intagliando il legno, leggendo i racconti cavallereschi e le gesta dei Paladini di Francia o scrivendo i loro pensieri e le loro riflessioni ma anche risentimenti e rancori incidendoli sulla roccia . Esiste infatti una letteratura di tipo pastorale scritta sulle pietre della Maiella che va dal 1600 ai nostri giorni. Molti di umili origini avevano imparato a leggere e a scrivere proprio intorno al fuoco dello stazzo. Un’altra occupazione dei pastori era
suonare le zampogne o le ciaramelle strumenti musicali tradizionali che portavano sempre con loro durante il lungo periodo della transumanza.
La cultura della Transumanza: testimonianze, usi,rituali
Lungo le antiche vie i pastori transumanti portavano con sé diversi strumenti a dorso di muli ed asini. Per le loro necessità utilizzavano bisacce, tascapane, ciotole, posate di legno, corni di bue, inoltre sgabelli a tre piedi, secchi di legno, attrezzi per la tosatura, collari antilupo. Alcuni di questi oggetti venivano anche realizzati artigianalmente dagli stessi pastori. Durante gli spostamenti e le soste, i pastori raccoglievano verdure e radici commestibili che cucinavano a sera. Erano soggetti a continui pericoli come furti di
bestiame, assalti di lupi, morsi di serpenti perciò nella tradizione orale i pastori vengono rappresentati mentre dormono “con un occhio solo”. Per questa loro condizione di vita , quindi, l’invocazione della protezione divina dava la forza necessaria per affrontare i rischi del viaggio ed i sacrifici del mestiere, infatti, lungo i tratturi e nei territori attigui ,sono sorte durante i secoli molte chiese caratterizzate da un’arte strettamente legata al mondo pastorale esse erano molto importanti non solo dal punto di vista spirituale che ma anche commerciale. E’ in prossimità di queste strutture, infatti, si svolgevano anche delle fiere per la commercializzazione di prodotti artigianali e gastronomici.
Diversi furono i protettori dei pastori transumanti. Tra questi, San Michele al Gargano, San Nicola di Bari e la Madonna Incoronata di Foggia. L’anno religioso per i pastori si scandiva due volte l’anno, quello estivo e quello invernale e questi due cicli coincidevano con i festeggiamenti dei santi protettori della transumanza.
Lungo il tracciato tratturale, nel corso dei secoli sono sorte anche taverne, fontane, riposi. Le taverne, che erano delle osterie attrezzate con servizi ricettivi per i pastori e grosse stalle per gli animali, erano tante e frequentate sia da pastori che da viandanti occasionali. Gli abbeveratoi sono disseminati lungo tutti i percorsi , ma, per la necessità di acqua sorgiva, sono concentrati nelle zone medie e alte dei tracciati. Molte di queste architetture sono arrivate fino a noi e vengono ancora oggi utilizzate dai pastori stanziali. Questo patrimonio archeologico, seppur quasi del tutto sconosciuto, presenta notevoli caratteri di qualità ed originalità.
La rete tratturale
La rete tratturale che arriva ad uno sviluppo massimo di circa 3000 km, eracaratterizzata da connessioni e nodi. Così i tratturi, fiumi d’erba larghi fino a 111 metri, secondo le rigide regole che ne stabilirono la larghezza massima per evitare conflitti con i contadini, non erano solo corridoi di scorrimento, ma strutture dotate di servizi e attrezzature per uomini e animali. Lungo il percorso i pastori e gli armenti potevano trovare ricoveri dove trascorrere le notti più fredde, recinti, abbeveratoi e isolate chiese rupestri di cui sono rimasti stupendi esemplari . Tali punti di sosta rappresentavano momenti in cui la socializzazione dava luogo a scambi culturali tra persone provenienti da realtà geografiche diverse ancor più considerando la ridotta mobilità dei tempi.
I principali tratturi erano:
L’ Aquila – Foggia, detto Tratturo Magno. Si sceglieva tra due piste parallele:
Manoppello Guardiagrele Montenegro o
Bucchianico , Chieti , Lanciano
Celano – Foggia. Aggirava Pratola Peligna e
Sulmona, sosta ai riposi di Cesale e Taverna
del Piano, presso Rivisondoli. Costeggiava
Roccaraso, Lucito e Lucera.
Pescasseroli – Candela. Raggiungeva Castel
di Sangro, poi seguiva due tracciati: i monti
del Matese o il percorso sannitico
Pescolanciano – Campobasso
La Via dei Tratturi
“ E vanno pel tratturo antico al piano quasi per un erbal fiume silente su le vestigia degli antichi padri…” Così D’Annunzio descrive la discesa dei pastori verso il mare nella sua poesia “I pastori”.
Dopo la via Francigena e ll Cammino di Santiago il percorso dei “tratturi” le lunghe vie d’erba che collegavano la l’Abruzzo montano con il Tavoliere di Puglia, è tra le esperienze più suggestive. Consente infatti di ripercorrere gli stessi tracciati usati dai Sanniti, dai Romani, e dal 1200 in poi, da centinaia di pastori , milioni di pecore e carovane di muli carichi di masserizie che camminavano silenziosamente in mezzo a quelle ampie distese d’erba. E’ come fare un viaggio nel passato, nelle tradizioni nella cultura e nella religiosità delle genti d’Abruzzo che da sempre hanno legato la loro vita alla pastorizia transumante.
Partendo dai pascoli estivi del Tavoliere di Puglia si risale gradatamente tutto il Molise interno fino ad arrivare nei pascoli estivi delle montagne abruzzesi abitate ancora dal Lupo Appenninico, dall’Orso Bruno Marsicano antagonisti di sempre delle greggi e dei pastori.
Oggi di quelle antiche vie erbose rimane ben poco, come rimane ben poco di quella civiltà pastorale che le aveva generate , l’ ultimo
spostamento a piedi di pastori e pecore pare sia avvenuto nel 1972
Eppure una sensibilità nuova verso il passato sta coinvolgendo persone sensibili associazioni e istituzioni affinché queste testimonianze, o ciò che rimane di esse, non precipitino nell’oblio, insieme all’immenso patrimonio di storia e cultura che portano con sé.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email :
I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato , da “ Transumanza e società” di Raffaele Colapietra e da “ Pastori, lanaioli e contadini” di Aurelio Manzi e Giuseppe Manzi.
Città di Pescara- Se il biscotto diventa un gioiello-
Corso di decorazione al Museo delle Genti d’Abruzzo-
Pescara, 8 ottobre – Al Museo delle Genti d’Abruzzo Sta per iniziare un viaggio attraverso i sensi: la bellezza da guardare, il buono da assaggiare, la capacità di realizzare. E’ un corso che valorizza non solo la creatività, ma le tradizioni e le suggestioni della fantasia. Tre distinti eventi che la Fondazione Genti d’Abruzzo organizza avvalendosi della professionalità di Filomena Tavano cookie artist , ovvero decoratrice di biscotti. Da non confondere con la pasticceria. Tavano è una eccellenza nel suo settore: nasce, con i suoi studi, restauratrice e decoratrice e si perfeziona lavorando con importanti aziende, per poi trovare una strada alternativa, che le consente di coniugare il suo amore per la pittura con quello per la cucina: nasce così Dolcetto, che le frutta riconoscimenti a livello internazionale e la porta in giro a raccontare come si fa a trasformare un biscotto in un capolavoro.
Il calendario degli appuntamenti si apre sabato prossimo alle ore 16, con la decorazione del biscotto “Presentosa d’Abruzzo”, sabato 30 novembre con inizio alla stessa ora toccherà al “Cuore d’Abruzzo” per concludere il 7 dicembre con la più classica preparazione di piccole opere d’arte natalizie. Sarà possibile sia frequentare un solo evento, della durata di quattro ore, che partecipare all’intero percorso ed avere così una preparazione più completa. “Lavoriamo in un ambiente insolito – spiega Tavano – e proprio per questo presentiamo un prodotto che sia attinente al museo. Ma questa esperienza fa parte anche di un mio progetto, che ha mosso i primi passi nel corso di Mediterranea, che è quello di declinare la decorazione dei biscotti in funzione turistica, preparando delle scatole eleganti che siano riconoscibili come prodotti abruzzesi. Ho già collaborato con la Regione Puglia, lavorando sugli Ori di Taranto, anche per l’Abruzzo sarebbe bello poter avviare una produzione con una propria identità. Penso a una scuola di formazione che potrebbe, ad esempio, essere anche funzionale alla riqualificazione di donne che hanno perso il lavoro, ma anche un punto di partenza per chi decide di investire su un progetto innovativo”. La proposta che si svilupperà all’interno del Museo delle Genti d’Abruzzo potrebbe essere un primo passo verso un lavoro più strutturato sul territorio. “Abbiamo organizzato il percorso in tre distinti eventi – chiarisce Tavano – ed in ognuna delle tre occasioni insegneremo le competenze tecniche di base per poter realizzare un biscotto decorato. Gli elementi essenziali sono la pasta frolla e la ghiaccia reale, che possono però essere lavorati con molte varianti. Perché la decorazione ha davvero molto da offrire, come produzione prevede l’infinito: ogni biscotto è una tela bianca su cui lavorare”. Diverse le tecniche di realizzazione tra la Presentosa e il cuore d’Abruzzo, poi il gran finale a sorpresa per il Natale: biscotti da utilizzare come decorazione per l’albero o per la tavola, per regali originali o semplicemente per coccolarsi in occasione delle feste.
Ai corsi sono ammessi anche i ragazzi, dai 12 anni in poi, un’occasione per avvicinarsi, divertendosi, all’arte della decorazione: “Decideremo in prossimità dell’evento come interpretare il terzo evento. Siamo estremamente flessibili. Ogni persona viene seguita a seconda della propria inclinazione, accompagnata fino al conseguimento del suo risultato”.
Informazioni
Il Museo delle genti d’Abruzzo è un museo di Pescara. Wikipedia
La lunga storia della ricotta, un latticino dalle antiche origini-
Il candido colore bianco della Ricotta , la consistenza morbida e cremosa, il gusto fresco e delicato: la ricotta è un prodotto unico, che ancora oggi è protagonista di moltissime ricette. Ma non tutti sanno che si tratta di “un’invenzione” molto più antica di quanto si pensi.
La ricotta è un ingrediente indispensabile in molte delle più famose ricette della tradizione gastronomica italiana, un patrimonio che è stato costruito con il tempo, lentamente e con la saggezza di centinaia di generazioni. Con la sua consistenza piacevolmente cremosa e il suo gusto fresco e delicato, la ricotta è uno dei pochi ingredienti insostituibili di molti dolci, come ad esempio la cassata o i cannoli siciliani, ma anche la pastiera napoletana; è poi un prodotto indispensabile nella ricetta dei cannelloni ricotta e spinaci e in molti altri primi piatti della tradizione italiana, come la pasta alla norma. E poi ancora la deliziosa farcitura dei ravioli, mille tipi di polpette, altrettanti di crostate, torte salate e sformati, e così via: le ricette con la ricotta sono davvero innumerevoli.
Una storia millenaria
Ma se l’uso della ricotta nella cucina contemporanea è un dato assodato, di certo non si può dire lo stesso per la lunga storia di questo latticino, spesso ignorata anche da chi lavora o si intende di cucina. Eppure, si tratta di una delle vicende più lunghe, antiche e appassionanti della gastronomia italiana, dalla quale c’è sempre molto da imparare. Di origini assai remote, la ricotta sembra essere un prodotto conosciuto addirittura fin dai tempi delle antiche popolazioni mesopotamiche, che popolavano il Mediterraneo già nel quarto millennio avanti Cristo. Da allora, divenne molto popolare anche tra gli antichi greci e i romani. Dopo un periodo in cui la sua preparazione sembra cadere in disuso, la ricotta ricompare nelle fonti iconografiche della fine del XII secolo, in pieno Medioevo.
La ricotta: un ritratto delle antiche abitudini alimentari
Ma in che modo siamo riusciti a reperire così tante informazioni su un alimento che era conosciuto decine di millenni or sono? Ebbene, la maggior parte delle testimonianze ci giungono da remoti affreschi, dipinti e disegni reperiti da codici e libri antichi.
Questo ricco alimento, ad esempio, è frequentemente raffigurato nei mosaici e negli affreschi dell’antica Pompei, nei quali la ricotta veniva ritratta in canestrini di giunco, dove era effettivamente conservata, così come è ancora in uso nelle zone rurali.
Spesso, al centro di rappresentazioni di banchetti e tavole imbandite, cesti o ciotole di ricotta fresca sono sempre più gettonati nel corso dei secoli, specialmente nelle aree geografiche la cui economia si basava sull’allevamento di bovini e ovini. Alla fine del Cinquecento, quando diventa sempre più diffusa la tendenza a ritrarre la natura morta, compaiono anche molte raffigurazioni del latticino in questione, che nel frattempo si è imposto come una delle delizie più ricercate sulle tavole dell’epoca: ne è una dimostrazione l’opera di Vincenzo Campi, intitolata “I mangiatori di ricotta”, in cui è palpabile la goduria dei personaggi rappresentati nell’atto di consumare una candida forma di ricotta.
Dai santi alle regine
Quando, sul finire dell’età antica e successivamente alle invasioni barbariche, la produzione di ricotta calò bruscamente, si persero con essa anche la maggior parte delle testimonianze che ci informano sul suo uso e consumo. Ma, stando alla tradizione popolare, il ritorno in auge di questo delizioso latticino si deve a – niente di meno che – San Francesco, il religioso assisano poi diventato patrono d’Italia. Leggenda vuole, infatti, che fu lui a reintrodurre tra i pastori della campagna romana l’usanza della produzione della ricotta, insegnando loro i semplici passaggi necessari per ottenerla dal latte dei loro animali. Che sia merito di San Francesco in persona o meno, il racconto cristiano ha certamente un fondo di verità, perché, nel Medioevo, ai monaci era affidato un ruolo decisivo nel preservare il sapere contadino.
Nella storia della ricotta, però, c’è almeno un altro personaggio importante: molti storici gastronomici sono concordi, infatti, nell’attribuire a Caterina de’ Medici la caduta in disuso della ricotta presso l’aristocrazia, e il suo declassamento ad alimento della gastronomia povera. Divenuta regina di Francia nel 1547 come moglie di Enrico II, Caterina stentò ad abbandonare le abitudini culinarie della sua Firenze, per adattarsi alla cucina – che riteneva primitiva e insoddisfacente – dei cuochi francesi. Chiamò quindi a corte esperti gastronomi fiorentini, rivoluzionando i pasti e le abitudini alimentari della cucina francese, dividendo le portate salate da quelle dolci ed eleggendo a cibi “nobili” solo pochi selezionati alimenti. Dopo di lei, la ricotta scomparve quasi del tutto dalle opere letterarie e figurative.
Una ricotta leggendaria Caterina de’ Medici interruppe, suo malgrado, una tradizione davvero millenaria, che vedeva la ricotta protagonista di miti e leggende. Questo latticino è presente, addirittura, in uno dei passaggi più celebri dell’“Odissea”, ovvero quello che vede il ciclope Polifemo incontrare Ulisse e i suoi compagni, proprio mentre prepara e lavora la ricotta: «Mezzo il candido latte insieme strinse, / E su i canestri d’intrecciato vinco / Lo collocò ammontato», si legge nel nono libro; poco oltre, Ulisse stesso assaggia un po’ di quel ciclopico lavoro quotidiano, gustando una generosa porzione del «rappreso latte». E di certo non ci saremmo tirati indietro, al posto del leggendario esploratore: ancora oggi la ricotta vanta numerosi ammiratori ed è l’ingrediente principe di preparazioni salate e ricette dolci di ogni genere, dalla “cuccìa siciliana” consumata in occasione del giorno di Santa Lucia alla saporitissima pasta alla Norma, confermandosi uno dei prodotti gastronomici di punta del nostro Paese.
Roma Municipio XIII-Fotoreportage di Franco Leggeri-
“-Neve a Castel di Guido e Residenza Aurelia-“
Roma Municipio XIII-Castel di Guido e Residenza Aurelia–26 febbraio 2018 – E, alla fine, anche i più prudenti sono stati smentiti e la neve è arrivata. Poco dopo l’una di questa notte i primi fiocchi di neve hanno iniziato ad imbiancare Castel di Guido e la Residenza Aurelia. La neve , per l’intera notte, ha accarezzato la Capitale. Entrata da nord, dopo aver imbiancato tutta la Provincia di Viterbo , la perturbazione nevosa ha coinvolto la nostra Città e Castel di Guido. Alleghiamo al post un fotoreportage sulla nevicata che ha interessato la Residenza Aurelia.
PIANO NEVE DEL CAMPIDOGLIO-
Scuole chiuse
Ieri pomeriggio il Comune di Roma ha emanato un’ordinanza che prevede la chiusura delle scuole: “Preso atto dell’ultimo aggiornamento delle previsioni fornite dalla Protezione Civile regionale, che confermano i rischi di neve e forti gelate, è stata firmata ordinanza sindacale che dispone la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, compresi gli asili nido, sul territorio di Roma per lunedì 26 febbraio”. Provvedimenti analoghi sono stati presi da tutti i Sindaci della Città Metropolitana , sono sospese anche le lezioni e gli esami nelle Università della Capitale.
Chiusi parchi, cimiteri e ville storiche
Una seconda ordinanza, firmata sempre dalla sindaca Raggi, è quella relativa a parchi, cimiteri e ville storiche che resteranno chiusi fino a cessata allerta.
Piano neve di Atac
Anche Atac è “in trincea”. Varato il piano neve: in servizio saranno solo le linee di bus che garantiranno gli spostamenti lungo le direttrici principali della città con vetture dotate di gomme termiche. L’intera rete metro-ferroviaria (metro A, B e C, ferrovie Termini- Centocelle, Roma-Lido e Roma-Viterbo) sarà regolarmente in servizio.
La costruzione della via Aurelia assunse subito una grande importanza. La sottomissione dei popoli del sud est della Gallia permise di accorciare il tragitto e di conseguenza il tempo di percorrenza tra Roma e la Spagna. Grazie alla via Aurelia, Giulio Cesare giunse ad Arles partendo da Roma in otto giorni, per poi giungere in soli 27 giorni in Spagna, accompagnato dal suo esercito. Il cursus publicus, il servizio di posta romano, giungeva in Spagna percorrendo 70 chilometri al giorno, con quattro cambi di cavallo durante l’arco della giornata.
Itinerario
Il tracciato della via romana, poi detto via Aurelia Vetus (ancora oggi via Aurelia antica), partiva dal Foro Boario oltrepassando le Mura serviane e il Tevere sul pons Sublicius, poi sostituito dal ponte Emilio (attuale ponte Rotto) e attraversava la zona paludosa di Trastevere (in parte su viadotto ancora visibile nelle cantine di via della Lungaretta), salendo quindi sul Gianicolo (via della Paglia, vicolo della Frusta, via di Porta San Pancrazio) e superando le Mura aureliane a porta Aurelia (oggi porta San Pancrazio).
A Pisa la viabilità consolare lungo la costa tirrenica si interrompeva a causa di due componenti fondamentali che ne impedivano la prosecuzione: da una parte, la presenza dell’ampia zona paludosa detta Fossae Papirianae (riportate nella Tabula Peutingeriana) nell’attuale costa della Versilia (da Migliarino Pisano fino a Luni, poco lontano dall’odierna Sarzana); dall’altra, la presenza degli scomodi e bellicosi Apuani, detti anche Liguri Montani o Sengauni.
Segmentum IV; Rappresentazione delle zone Apuane con indicate le colonie di Pisa, Lucca, Luni ed il nome “Sengauni”; il tratto Pisa-Luni non è ancora collegato
Cosicché il percorso della via Aurelia dopo Pisa andava verso Lucca, attraverso la deviazione di Corliano, Rigoli e Ripafratta (San Giuliano Terme) e, incuneandosi poi nel Forum Clodii (Garfagnana), entrava in Lunigiana attraverso la valle del Serchio (Auser) e la val d’Aulella (Audena) per ricongiungersi con la viabilità di Luni.
Il brevissimo tratto paludoso da Pisa a Luni (solo poche miglia terrestri) interruppe così la viabilità costiera fino al 56 a.C., quando Giulio Cesare ebbe la necessità impellente di sveltire i collegamenti viari in vista della conquista della Gallia. Per tale ragione strategica egli diede incarico al figlio di Marco Emilio Scauro (di nome anch’esso Marco Emilio Scauro) di costruire una sorta di “scorciatoia” che potesse collegare Pisa con Luni (Luna). Questa seguì un percorso collinare, sempre però con deviazione su Lucca, diventando quella che oggi è la strada provinciale Sarzanese, che effettivamente collega Lucca con Camaiore (Campus Major) e con Massa (Tabernae Frigidae), proseguendo infine verso Sarzana sempre con percorso collinare.
Intorno al 13 a.C. Augusto fece costruire la via Julia Augusta verso Marsiglia (antica Massalia) insieme all’edificazione del Trofeo di Augusto a La Turbie (sopra l’attuale Principato di Monaco), per celebrare la sottomissione di tutte le popolazioni alpine. A Nîmes (Colonia Augusta Nemausensis), la Julia Augusta si raccordava con la via Domizia, la più antica costruita in Gallia dai Romani, lunga circa 620 km, da Segusium (Susa) ai Pirenei.
Nei tempi successivi, mediante la riunione di ulteriori tratti di viabilità nell’entroterra ligure di levante e di ponente e con l’aggiunta di migliorie nella Sarzanese, la via Aurelia andò componendo nei secoli quel “puzzle” che è l’attuale via Aurelia da Roma fino a Ventimiglia (confine di Stato) e prosegue verso Nizza, Tolone e Marsiglia fino ad Arles, portando così la lunghezza totale del sistema Aurelia/Julia-Augusta a 962 chilometri.
L’itinerario in Francia
All’ingresso in Francia, prende il nome di Via Julia Augusta e copre tutta la Costa Azzurra passando per diverse stazioni. Proprio grazie ad esse è stato possibile individuare il reale percorso della Via Aurelia.
La prima stazione è quella di Cap Martin dove sono stati ritrovati i resti di un mausoleo romano. Da qui, nasce un’altra via minore che conduce a Porto d’Ercole, nel principato di Monaco. A seguire, si giunge al colle di Turbia. Qui, nel 6 a.C., il senato romano decise di costruire il Trofeo delle Alpi, per commemorare la vittoria dell’imperatore Augusto sulle popolazioni ribelli delle Alpi. Si trattava di un monumento di grandi dimensioni per l’epoca con i suoi circa 50 metri di altezza che culminavano nella statua di Augusto, posta in cima alla costruzione. Dopo l’abbandono temporaneo a causa della caduta dell’Impero Romano, fu parzialmente distrutto per essere poi utilizzato come fortezza durante il Medioevo e infine, nei primi anni del Settecento, scavato per necessità minerarie. Insieme alla costruzione, fu attuato un rafforzamento della strada che passava proprio ai piedi della collina.
Nel 14 a.C., Augusto scelse la città di Cemenelum, situata sulle alture dell’attuale Nizza e oggi quartiere della città nizzarda sotto il nome di Cimiez, come capoluogo dell’antica provincia romana delle Alpi Marittime. Attualmente sono presenti i resti di un sito gallo romano composto da tre terme, un quartiere abitato, un anfiteatro e una cattedrale dotata di battistero paleocristiano.
La via attraversa il comune di La Gaude, in un tratto lungo il quale è presente un cenotafio romano contenente un’urna funebre di un legionario imperiale, Cremonius Albucus. Inoltre, la presenza di un ponte romano in pietra attesta l’interesse archeologico della Via Aurelia in questo settore. Segue poi un passaggio da Antibes, una città greca annessa nel 43 a.C. a Roma, in cui vengono costruiti un municipio, un teatro, un arco di trionfo e vari acquedotti.
La città successiva è Forum Julii, oggi Fréjus, all’epoca abitata da più di 6000 persone ed estesa su una trentina di ettari. Fondata da Giulio Cesare nel 49 a.C., vi nacquero personalità illustri come Publio Cornelio Tacito e Gneo Giulio Agricola. Da città commerciale, divenne un porto di guerra tra i più importanti del Mediterraneo in cui si instaurarono i soldati dell’Ottava Legione. Con la diffusione del cristianesimo, divenne sede episcopale. Anche a Fréjus sono numerosi i resti della civiltà romana, tra cui acquedotti, un teatro, un anfiteatro, le terme, la porta di Gaules e un faro noto come lanterna di Augusto. La via Aurelia seguiva da qui il corso dell’Argens tracciando in parte l’attuale strada nazionale da Muy a Vidauban per arrivare a Luc. Raggiunge poi Cabasse e Brignoles, dove è situata una stazione di posta. Uno snodo chiave è quello di Tourves, punto strategico per l’esercito romano, cui segue la città di Saint-Maximin-la-Sainte-Baume che anticipa i resti del Trofeo di Mario presso Pourrières, eretto nel 102 a.C. dopo la vittoria del console Mario sui Teutoni.
La via Aurelia arriva a Acquae Sextiae, l’attuale Aix-en-Provence, la cui storia è legata a quella dell’Oppidum di Entremont. I Romani distrussero l’oppidum nel 123 a.C. per eliminare un punto nevralgico dei Liguri. Il proconsole Sextius costruì una fortezza nei pressi di sorgenti termali e le diede il nome di “acque di Sextius”. Dalla fortezza si sviluppò un villaggio che divenne definitivamente colonia nel 15 a.C. e vide la propria economia crescere fino a permetterle di diventare capitale amministrativa della Gallia Narbonense. Nell’invasione del IV secolo, la città fu parzialmente distrutta.
Da Aix, la strada si divide verso Marsiglia, Vitrolles, Fos e Arles.
La via Aurelia passa dal nord di Eguilles diretta verso il sud di Salon-de-Provence, sede della stazione di Pisavis. Questa stazione è oggi distrutta e le sue mura sono conservate in una proprietà privata. Da qui raggiunge Mouriès, la piana di La Crau, il mas d’Archimbaud, il mas Chabran, Le Paradou e Estoublon. Qui partiva la strada verso Arles, città gallo romana per eccellenza, che aveva un ruolo strategico e economico. Inoltre, qui si instaurò la quinta legione. L’espansione fu interrotta dalle invasioni del III secolo ma presto ripristinata quando l’imperatore Costantino I vi si stabilì. Arles era un capoluogo di provincia, prefettura delle Gallie e sede di un’importante zecca monetaria. Inoltre, è sede di numerosi monumenti di epoca romana: oltre all’anfiteatro, al teatro e al circo, vi si trovano le terme di Costantino, il foro e la necropoli di Alyscamps.
Nella località di Ernaginum è situato l’odierno sito di Saint-Gabriel sede del più grande nodo stradale tra via Aurelia, via Domizia e via d’Agrippa. Da qui, la via Aurelia confluisce nella via Domizia e si dirige in Spagna.
Sviluppo della via Aurelia
Di seguito vengono riportati alcuni dei luoghi toccati o sfiorati dal percorso dell’antica via Aurelia (fra parentesi sono riportati i chilometri), degli avvenimenti e degli argomenti correlati.
-I colori e le bacche nell’autunno della Campagna Romana-
-Fotoreportage di Franco Leggeri-
Roma Municipio XIII-Fotoreportage di Franco Leggeri-L’autunno è magico, le atmosfere diventano più rarefatte e i colori caldi ritornano a sorprenderci con mille sfumature di giallo. Dai cespugli ricoperti di bacche, scopriamo i colori tenui e la poesia di questa sinfonia di bellezza. Gli alberi , assieme agli arbusti, con le loro cortecce e le loro cromie, contribuiscono a creare quell’atmosfera fiabesca, romantica e sorprendente che delizia gli amanti dell’autunno.
Con la locuzione Campagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino. Storia-Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Biblioteca DEA SABINA-Sante RUFINA e SECONDA Martiri di SELVA CANDIDA-Diocesi di Porto e Santa Rufina–(Breve Storia)–
Sante RUFINA e SECONDA-Sono due celebri martiri romane ricordate in tutti i più antichi elenchi e in molti documenti storici. La loro morte avvenne durante la persecuzione di Valeriano e Gallieno, attorno al 260. Nel racconto del loro martirio sono presentate come sorelle, fidanzate con due giovani cristiani che per timore della morte avevano rinnegato la fede. A causa del rifiuto del matrimonio esse furono denunciate ed imprigionate mentre fuggivano da Roma. In seguito al loro diniego di sacrificare agli idoli le due giovani furono condotte in un bosco sulla via Cornelia, a dieci miglia da Roma in un terreno detto “Buxo”, dove vennero uccise e lasciate insepolte. Plautilla, matrona romana, che le aveva viste in sogno, provvide alla loro sepoltura in quello stesso luogo dove, già nel sec. IV, fu eretta una basilica, iniziata da Giulio 1 (336) e completata da papa Damaso, rinnovata con l’aggiunta del battistero da Adriano 1 (772-95) ed arricchita di doni da Leone IV (847–55). A questa chiesa si fa riferimento nei diplomi pontifici anche oltre l’ XI secolo, essendo divenuta Cattedrale della diocesi di Lorium, che presumibilmente ebbe un suo Vescovo proprio per provvedere alla quotidiana celebrazione dei sacri misteri nei tre santuari del territorio (sante Rufina e Seconda, san Mario e compagni e san Basilide) e per il decoro della vicina residenza imperiale. Il primo vescovo del quale si ha certezza storica è Pietro nell’anno 487. Attorno a quel luogo di culto, divenuto celebre meta di pellegrinaggio assieme alle catacombe di san Mario, era sorta gradualmente una città, che fu saccheggiata e distrutta dai Saraceni nell’847 e poi nell’870. Sergio III, nel 904, provvide alla riparazione della Chiesa, ma il centro abitato era oramai quasi del tutto abbandonato a causa dei pericoli delle incursioni barbariche e dello squallore del luogo. Papa Anastasio IV, nel 1153, fece trasportare il corpo delle due Sante nel dove venne loro dedicata una cappella che fu posta Sotto la giurisdizione del vescovo di Porto e Santa Rufina, come è provato dalla bolla di Gregorio IX del 1236. A Trastevere, in via della Lungaretta, esiste ancora un antico monastero loro intitolato e che si dice edificato nel luogo dove era la loro casa natale. Della chiesa adiacente, ornata con un campanile del XIII sec., si hanno notizie fin dal 1123, dato che in una bolla di Callisto Il è annoverata fra le filiali di santa Maria in Trastevere. I resti archeologici sulla via Boccea (loc. Porcareccina), gi–á individuati e descritti da Antonio Bosio (1632), furono di nuovo studiati nel nostro secolo.
Festa delle Sante Rufina e Seconda, patrone della Diocesi –
Preghiera di S.E.. Monsignor GINO REALI in onore della Sante Patrone della nostra Diocesi
Padre di misericordia, che hai chiamato alla gloria del martirio le sante sorelle Rufina e Seconda, congiunte in vita e in morte dall’amore per l’unico Sposo, e le hai donate alla nostra Chiesa come modello di fede e di fortezza, concedi a noi, per il loro esempio e la loro intercessione, di seguire il Signore Gesù con fede viva, speranza ferma e carità ardente. Questa terra, bagnata dal sangue dei Martiri, germogli ancora il frutto della santità e dell’amore. Per la loro comune intercessione, dona alle nostre famiglie unità e pace; per il loro esempio rafforza i nostri giovani nella lotta per la virtù ed il bene, e dona loro limpidezza di cuore e generosità d’impegno; per i loro meriti, sostieni i nostri passi nel cammino verso la patria eterna. A te, o Padre, affidiamo la nostra vita: liberaci da ogni pericolo dell’anima e del corpo, e donaci la grazia che ti chiediamo … Tu che vivi e regni, con Cristo tuo Figlio e lo Spirito Santo, nei secoli glorioso. Amen.
Monsignor Gino Reali Vescovo di Porto – Santa Rufina 7 giugno 2007
La Chiesetta è stata edifica dal Sig. Enrico SCORSOLINI a perenne memoria di ALBERTO FALCIANI. La chiesetta fu inaugurata da S.E. Monsignor Tito Mancini Vescovo ausiliare di Porto e Santa Rufina , Segretario particolare di S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT. L’inaugurazione avvenne il 16 maggio 1965.La bella chiesetta di campagna fa parte della Parrocchia di Sant’Isidoro di Tragliata, vi si celebra la Messa domenicale e tutti i pomeriggi alle ore 16:00 si recita il Santo Rosario .
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina.
Biografia-S.E. Monsignor Tito Mancini-Il Vescovo Pietro Mancini nacque a Bologna il 24 novembre 1901. Trasferitosi a Firenze entrò giovanissimo nel Convitto della Calza da dove , ordinato sacerdote insieme a Mons. Bagnoli il 25 luglio 1925, uscì per dedicarsi al ministero.
Il quel 25 luglio 1925 furono ordinati preti anche Don Antonio Pettini, Don Romano Rastrelli, Don Serafino Ceri.
A Don Mancini si deve la costruzione della nuova Chiesa parrocchiale di Santa Maria a Coverciano .
Dopo aver svolto il ministero a Coverciano per un certo periodo , cioè sino al mese di agosto del 1933, Don Tito Mancini passo alla Marina Militare con il grado di Capitano dedicandosi all’assistenza religiosa dei marinai; ma i parrocchiani di Coverciano non lo dimenticarono e quando arricchirono di un nuovo concerto di campane il loro campanile vollero che una campana fosse dedicata a San Tito al ricordo proprio di Don Tito Mancini.
Ben presto Don Tito Mancini dovette lasciare il ministero a favore dei marinai perché chiamato a Roma al seguito del Cardinale francese Eugenio Tisserant il quale ripose ogni fiducia nel sacerdote calzista. Ben presto, il 29 gennaio 1947, Don Mancini divenne Vicario Generale della Diocesi di Ostia Porto e Santa Rufina delle quali era titolare il Cardinale Tisserant, e poi lo stesso Cardinale ottenne , nel 1960, dalla Santa Sede che Monsignor Mancini gli fosse assegnato come Vescovo Ausiliare e fu lo stesso Cardinale Tisserant a consacrare.
Si legge nel settimanale “Vita” nell’edizione del 4 aprile 1962 , in un lungo articolo dal titolo TISSERANT a pag. 43 :” il 29 gennaio 1961 il Cardinale Tisserant, versò non poche lacrime di commozione mentre consacra Vescovo Mon. Tito Mancini, assegnatogli come Ausiliare.
Prosegue il cronista:” sembra che consagri Vescovo un figlio.” Era questo il commento dei presenti. Dopo la cerimonia di investitura gli invitati fecero al Cardinale le congratulazioni per aver ottenuto un Vescovo Ausiliare per la Diocesi, il Cardinale rispose così:”Non dovete rallegrarmi con me perché ho avuto il Vescovo Ausiliare, ma perché ho avuto Questo Ausiliare, Mons. Tito Mancini .” Appena aver pronunciato queste parole il Cardinale fece un gesto che commosse profondamente i presenti e il Vescovo Mancini: si sfilò dal dito l’anello episcopale che egli aveva ricevuto 24 anni prima nel giorno della sua propria consacrazione e lo donò al sua neo Ausiliare….”.
Il 28 febbraio 1967 Mons. Tito Mancini passò a reggere le Diocesi di Nepi e Sutri nella Tuscia laziale.
L’attività pastorale di Monsignor Tito Mancini ,molto intensa , diede ottimi frutti. A questo proposito giova ricordare ciò che il parroco Don Alberto Benedetti attestò di lui ancora vivente:” dalla mente e dal cuore…Mancini trae motivo per portare la fiaccola della Fede e l’ardore della Carità in ogni angolo della Diocesi, con semplice umiltà aiuta i parroci , sostituisce quelli improvvisamente impediti per malattia o impegni , nella celebrazione della Santa Messa…” Monsignor Tito Mancini morì a Sutri, rimpianto del clero e dal popolo, dal 4 marzo 1969 è sepolto all’interno della Cattedrale della Diocesi di Porto e Santa Rufina a La Storta vicino al Cardinale Eugenio Tisserant , Monsignor Luigi Martinelli,Monsignor Pietro Villa e Vescovo Andrea Pangrazio, come si legge nell’epigrafe .
Ricerche bibliografiche, foto d’archivio e foto originali sono di Franco Leggeri-
Torri piezometriche-Serbatori Idrici della Campagna Romana-Franco Leggeri Fotoreportage-Le prime torri piezometriche si fanno risalire all’Impero Romano, poiché la loro funzione, oltre ad avere un serbatoio come riserva per l’accumulo di acqua, è quella di, naturalmente, compensare la rete idrica in particolar modo lavorando per vasi comunicanti, proprio per ottenere una maggiore pressione nelle condutture rispetto alla pressione nella rete urbana dell’acquedotto.Negli schemi acquedottistici, spesso sono necessarie le torri piezometriche: in pratica sono delle vere e proprie “torri” composte da un serbatoio sollevato da terra grazie a tralicci, i quali possono essere in metallo o, molto più spesso, in muratura.Dal libro:Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana di Franco Leggeri.Foto Gallery dei Serbatori Idrici della Campagna Romana- Nord-Ovest–Castel di Guido-Residenza Aurelia di Castel di Guido- Borgo di Testa di Lepre- Serbatorio di Cecanibbio-
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
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