“Torre della Residenza Aurelia”-Conosciuta anche come Torre della Dea DEMETRA
Franco Leggeri-Fotoreportage–Roma Municipio XIII dalla raccolta:“Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana”–La TorreAurelia oTorre della Dea DEMETRAè sita all’interno del Consorzio Residenza Aurelia , zona residenziale del Comune di Roma nel XIII Municipio. Si raggiunge dalla vecchia via Aurelia, ora via di Castel di Guido . La Torre sorge nel punto più alto della Valle Galeria e si trova di fronte alla Torre della Bottaccia e al sito archeologico Casale della Bottaccia.La Torre per un periodo è stata sede del Circolo LA Torre della Dea DEMETRA.
La Campagna Romana o Agro Romano, in senso storico o tradizionale, non coincide con nessuna delle odierne suddivisioni amministrative e neppure con l’area che potrebbe definirsi come banlieue di Roma. Essa comprende il comune di Roma (1507,6 km2) eccetto l’area occupata dalla città coi quartieri e suburbî (222 km2) cioè 1285,6 km2 cui sono peraltro da aggiungere il comune di Aprilia (177,6 km2) costituito nel 1937, e parte dei comuni di Anzio, Nettuno, Pomezia e Marino; in quest’ultimo comune si trova l’aeroporto di Ciampino coi nuclei abitati dipendenti, compresa la così detta Città giardino Appia (v. ciampino, in questa App.). Il fatto più notevole che caratterizza l’ultimo ventennio è il progressivo rapido ripopolamento della Campagna. Limitandoci al territorio pertinente al Comune di Roma, i 62.500 ab. (residenti) del 1936, sono divenuti 120.781 nel 1981 e 161.886 nel 1956. L’incremento è dovuto non tanto al moltiplicarsi delle case sparse, quanto al costituirsi di nuclei che sono spesso antichi casali trasformati, dotati di chiesa, scuola, stazione sanitaria, ovvero di nuove unità rurali, o infine di veri e proprî centri. Di questi il più recente censimento ne annovera 42, dei quali uno, il Lido di Ostia è ormai una cittadina di circa 20.000 ab., altri due o tre hanno popolazione superiore a 5000 ab. (oltre a Ciampino) e sette o otto popolazione superiore a 1000 ab. Il richiamo della popolazione verso il mare è evidente. Dopo il Lido, il centro più popoloso è Fiumicino, che acquisterà nuovo incremento con l’apertura al traffico (1961) del grande aeroporto intercontinentale; a nord di Fiumicino è Fregene; a sud del Tevere Tor Vaianica, a prescindere dalle altre recenti “marine” che si succedono fino ad Anzio. Altra ben visibile trasformazione della Campagna, del resto connessa con la precedente, è la riduzione delle aree pascolive a vantaggio delle coltivazioni. Tra queste predomina ancora il grano, ma nelle zone periferiche compare la vite (anche per frutto), altri alberi fruttiferi, prati da foraggio e, in plaghe più ricche di acqua, colture orticole. La Campagna comprende due grandi bonifiche effettuate secondo piani predisposti, la bonifica di Maccarese e quella di Porto-Isola Sacra, oltre ad altre minori; comprende anche taluni grossi centri di allevamento, come Torrimpietra. L’allevamento bovino si sviluppa, quello ovino declina a causa della accennata riduzione del pascolo naturale. Manifesta è anche la trasformazione o integrazione della rete stradale. Le antiche vie consolari irraggianti dalla città che ancora costituiscono lo schema fondamentale, sono collegate da vie trasversali (a cominciare dal “grande raccordo anulare” corrente a 11-15 km dal centro di Roma), da collegamenti secondarî, da strade vicinali e di bonifica.
La parte della Campagna più vicina alle aree suburbane viene a poco a poco assorbita dalla espansione del Suburbio stesso sia verso il mare (dove i quartieri dell’EUR sono, secondo il reparto del 1951, ancora fuori del Suburbio), sia verso est (via Tiburtina), sia verso sud-est (vie Prenestina e Casilina), sia anche verso nord (via Cassia).
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana
Serbatoi idrici della Campagna Romana- Serbatoio della TORRE della RESIDENZA AURELIA di Castel di Guido
La dea Demetra e la sacralità della natura
(perché per gli antichi l’ambiente era la loro casa)
Erisittone aveva abbattuto senza alcun rispetto gli alberi di un bosco sacro a Demetra: la reazione della dea e il senso degli antichi per la natura.Fu così che Erisittone, bulimico, più mangiava più aveva fame, divorava tutto quello che gli capitava davanti agli occhi e un giorno mangiò anche il gatto di casa. E continuò sino a mandare la sua casa in rovina.
Ecologia è un calco costruito sul greco e (come anche economia) contiene la parola oikia, la casa, l’ambiente in cui viviamo e che dobbiamo proteggere.Ambiente ed ecologia sono parole moderne, ambiente viene dal verbo latino ambire, che vuol dire andare intorno, ed è un nome che indica lo spazio che ci circonda e nel quale ci muoviamo e viviamo assieme agli altri.
Curioso che ambiente e ambizione derivino dallo stesso verbo latino ambire che nel senso più positivo del termine è un desiderio legittimo di migliorarsi.
E uno dei nostri desideri più forti, sin da giovani, è la casa, il nostro posto in cui stare bene nel mondo, un posto da proteggere, l’ambiente nel quale cresciamo ogni giorno e facciamo crescere i nostri figli.
In fondo scriviamo ambiente, ma leggiamo casa.Nota di Cristina Dell’Acqua (pubblicato su corriere.it del 3 dicembre 2021)
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA -Torre Aurelia
Il commento di Carlo Crovella Il mio professore di liceo mi assicurava che la cultura classica aveva già spolverato l’intero palinsesto dell’esistenza. Nei miti greci e latini c’era già “tutto” quello che riguarda la vita umana, caratteri, vizi, difetti, i pochi pregi. E c’era già l’intero universo. All’inizio ero perplesso: come potevano sapere, secoli e secoli fa, cosa sarebbe accaduto “dopo”, con la tecnologia, l’evoluzione, il progresso? Semplice: il lupo perde il pelo, ma non il vizio. La specie umana era già così. Il “dopo” ha solo amplificato gli effetti negativi dei suoi difetti per la combinazione fra progresso tecnologico e crescita esponenziale degli individui. Altro che un bosco, ci divoriamo oggi! Intere colline di silice sono state completamente spianate per utilizzare quel componente da inserire nei telefonini e pc.: saremo anche noi condannati alla stessa pena eterna di Erisittone? Peggio, siamo destinati all’estinzione: non riusciremo letteralmente più a sfamarci perché avremo consumato tutte le risorse del pianeta. Un’altra considerazione si lega al mito classico. Come ho già raccontato, purtroppo io non ho il dono di una profonda fede religiosa. Non sono proprio ateo, sono piuttosto un “laico”, credo in principi etici a-religiosi (correttezza, rigore, senso del dovere, ecc.). Tuttavia percepisco un che di sacro nell’essenza stessa nell’ambiente, è imperniato di qualcosa di “divino”. La nostra bulimia di risorse, oltre a distruggere noi stessi, ha un carattere addirittura blasfemo: uccidiamo Dio.
Franco Leggeri Fotoreportage–ROMA-chiesa di Santa Passera, la chiesa che ispirò “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini-Santa Passera, chiesetta graziosa ma in cattivo stato – fra il Tevere e via della Magliana. Costruita nel V secolo nel luogo in cui le spoglie i santi alessandrini Giovanni e Ciro, in basso a destra, approdarono a Roma, la chiesa fu in seguito intitolata a Santa Passera, santa che non è mai esistita.
– ROMA-Santa Passera
La chiesa di Santa Passera è una chiesa romana risalente agli inizi del V secolo, ristrutturata e ampliata nel XIV secolo, edificata sui resti di un mausoleo romano e di una cripta risalenti alla seconda metà del II secolo.
L’origine del nome della chiesa, ubicata nel quartiere Portuense di Roma, è incerta poiché non è mai esistita una santa di nome “Passera”.
Storia
Secondo la tradizione, essa fu costruita sulle rive del Tevere nel luogo in cui, agli inizi del V secolo, i resti di due santi alessandrini, Ciro e Giovanni, furono sbarcati, provenienti dall’Egitto, per essere trasferiti nella città di Roma. Dal secolo XI in poi appartenne al monastero di Santa Maria in Via Lata, e, nei documenti dell’XI–XIII secolo è chiamata Sancti Abbacyri oppure Sancti Cyri et Iohannis, in ricordo dei due santi per i quali fu costruita la chiesa. Nel XIV secolo al nome di Abbaciro si sostituì quello di Santa Pacera o Passera: così in un documento del 1317 si parla di un appezzamento posita extra portam Portuensem in loco qui dicitur S. Pacera.[1] Questo appellativo sarà poi prevalente nei secoli successivi.[2]
Sull’origine del nome “Passera”, santa che non è mai esistita nella storia del cristianesimo, l’ipotesi è che esso derivi dal titolo Abbàs Cyrus (“padre Ciro”), da cui il nome Abbaciro: dalla storpiatura popolare di questo termine sarebbero derivati Appaciro, Appàcero, Pàcero, Pàcera e infine Passera.[3]
A confondere ulteriormente l’onomastica della chiesa si aggiunge inoltre l’errore popolare che volle arbitrariamente assimilare la fantomatica “santa Passera” con santa Prassede e festeggiarne in tal luogo la ricorrenza il 21 di luglio[3] in concomitanza con le celebrazioni di quest’ultima martire.[4][5]
Nel XIV secolo l’antica chiesa fu completamente ristrutturata e sopraelevata.
Descrizione
Esterno dell’abside
Il complesso di Santa Passera è composto di tre piani sovrapposti.
La chiesa
La chiesa superiore del XIV secolo è a pianta rettangolare ad un’unica navata, con abside e soffitto ligneo, edificata su di un edificio preesistente, un mausoleo romano, le cui caratteristiche architettoniche ancora si distinguono esternamente sul lato sinistro della chiesa; l’edificio presenta tratti molto simili al cenotafio di Annia Regilla, quest’ultimo risalente alla seconda metà del II secolo d.C..[2] La facciata della chiesa si trova in una posizione elevata, preceduta da una terrazza a cui si accede tramite una doppia rampa di scale. All’interno un presbiterio semicircolare che custodisce l’immagine del Cristo in compagnia di uno stuolo di santi. Un’altra pittura raffigura sempre il Cristo con i santi Ciro e Giovanni.[6]
L’oratorio
Al piano inferiore i resti sotterranei dell’oratorio medievale del V secolo cui si accede da una porta esterna sotto elevata rispetto al terreno. L’oratorio si compone di quattro locali costruiti con mattoni e intercomunicanti. Sulla porta campeggia l’iscrizione che testimonia l’antico utilizzo della struttura quale sepolcro dei santi Ciro e Giovanni:[2]
(LA)«CORPORA SANCTI CYRI RENITENT HIC ATQVEE IOANNIS
QVOÆ QUONDAM ROMÆ DEDIT ALEXANDRIA MAGNA.»
(IT)«Qui risplendono i santi corpi di Ciro e Giovanni
che un giorno la grande Alessandria dette a Roma.»
(Iscrizione sulla porta d’ingresso della cripta[5])
La cripta
Dall’oratorio una scaletta consente di scendere nella stretta criptaipogea a pianta rettangolare che originariamente custodiva i resti dei due santi martirizzati. L’ambiente, interrato dopo il 1706, riscoperto nel 1904, è databile tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo. La poca illuminazione proviene da un’apertura nella volta e dalle scale. Difficilmente visibili sulle pareti tracce di decorazioni pittoriche, in parte ammalorate dalle innumerevoli piene del vicino Tevere, e in parte vandalizzate. Si intravedono ancora tracce di decorazioni a carattere funerario: sulla volta alcuni glifi e stelle. Sulla parete nord era rappresentata, con in mano la bilancia, la dea Dike, quindi un uccello e un pugile. Sulla parete sud si intravede una pecora e alcuni tratti in pigmento rosso. Verso la fine XIII secolo fu dipinta una Madonna col Bambino, asportata e trafugata nel 1968.[2]
Nella cultura di massa
La corrispondenza del nome dell’ipotetica santa con quello dell’organo sessuale femminile, così come noto nel dialetto romanesco e citato dal poeta Giuseppe Gioachino Belli, ha spesso dato origine a doppi sensi e giochi di parole diffusi popolarmente.[6][7][8]
^Santa Prassede di Roma, in Santi, beati e testimoni – Enciclopedia dei santi, santiebeati.it.
Antonio Bosio, Roma sotterranea opera postuma di Antonio Bosio romano antiquario ecclesiastico singolare de’ suoi tempi, a cura di Giovanni Severani da S. Severino, Roma, Lodovico Grignani, 1650.
Lilia Berruti, Santa Passera: una chiesa per una Santa che non c’è, in Capitolium. Rassegna di attività municipali, anno XL, n. 5, Roma, Arti Grafiche Vecchioni & Guadagno, 1965.
Claudio Rendina, Le Chiese di Roma, Roma, Newton & Compton, 2007, p. 290, ISBN978-88-541-0931-5.
Vincent Peters’- Selected Works: -The Collector’s Edition
Editore Te Neues Pub Group
Descrizione del libro di Vincent Peters’ photographs have left the fast-moving trends of fashion photography behind and become timeless works of art. Born in Bremen in 1969, Peters has been one of the most sought-after fashion and portrait photographers for over 25 years. With his signature black-and-white photography and exquisite lighting, his portraits look like snapshots from classic movies. Supermodels, stars, and legends have all stood before his camera ― from Penélope Cruz and Rosamund Pike to Mickey Rourke and Matt Dillon. This new Collector’s Edition with luxurious linen finish expands on Peters’ bestselling book with 30 new images, all personally selected by Peters.A collection of astonishing portraits, in which the intimate urgency of the moment creates a timeless image.
La biografia di Vincent Peters
Vincent Peters nasce nel 1969 a Brema, in Germania, da una famiglia che fin da piccolo lo porta a sviluppare una grande creatività. Entrambi i genitori sono insegnanti d’arte e la madre, collaborando con la sorella, è impegnata anche nella pittura. Sprovvisto di grande talento nel disegno, il ragazzo preferirà ritrarre la realtà attraverso la luce e un obiettivo. Il primo incontro con la macchina fotografica avverrà infatti durante gli anni Ottanta.
Il percorso che lo porta dall’adolescenza alla vita adulta non è tuttavia facile. Cacciato da diverse scuole per un’indole ribelle e poco propensa al rispetto passivo delle regole, Peters fa il suo esordio nel mondo dei grandi lavorando nelle principali catene di fast food. A seguito di un viaggio in Thailandia con una Mamiya RZ Medium Format sempre al collo, però, alcuni dei suoi scatti vengono pubblicati sulla rivista GEO Magazine, lasciando intravedere una piccola parte del suo futuro. Raggiunta la maggiore età, Vincent viene convinto dalla madre ad abbandonare il Paese per dirigersi a New York. Gli Stati Uniti si rivelano tuttavia una Nazione poco incline ad accoglierlo e, complici le ristrettezze economiche, pochi mesi più tardi il fotografo decide di trasferirsi a Parigi, dove espone i suoi lavori in alcune gallerie senza mai riscuotere particolare successo. Grazie al consiglio di un amico, però, riuscirà ben presto a incanalare la sua personalità artistica nel giusto settore. I lavori più importanti del fotografo
Nella Ville Lumière Vincent Peters si approccia alle agenzie di moda che permettono ai suoi scatti di circolare su numerose riviste di settore. Durante un nuovo viaggio a New York, inoltre, il ragazzo incontra Giovanni Testino, fratello di Mario, che grazie alle sue conoscenze riuscirà a procurargli i primi ingaggi importanti. Peters inizia così a essere richiesto da tutte le principali maison del mondo, da Armani a Bottega Veneta passando per Miu Miu, Prada, Lancôme, Hermès e Louis Vuitton. Il suo campo di specializzazione diventerà però il ritratto delle celebrità che, davanti al suo obiettivo, riusciranno a mettersi a nudo di fronte al pubblico, mostrando fragilità spesso nascoste dalle pagine patinate dei magazine. Tra il 2001 e il 2021 Vincent Peters riesce a immortalare praticamente chiunque. Le sue fotografie mostrano infatti attori come Christian Bale, Emma Watson, Penelope Cruz e Laetitia Casta, i cui tratti vengono esaltati da una luce impeccabile e dall’inconfondibile bianco e nero.
Vincent Peters’
Jared Paul Stern, Maxim: “This elegant approach to his chosen medium is evident in an alluring new book from German luxury publisher teNeues, Vincent Peters: Selected Works”
Vincent Peters’
Square Mile: “With his signature black-and-white photography and exquisite lighting, his portraits look like snapshots from classic movies.”
Vincent Peters’Vincent Peters’Vincent Peters’Vincent Peters’Vincent Peters’Vincent Peters’Vincent Peters’Vincent Peters’
Vincent Peters: biografia
Nato in Germania nel 1969, Vincent Peters è un fotografo e filmmaker. Proviene da una famiglia per la quale la creatività riveste una certa importanza, i genitori sono insegnanti d’arte, la madre disegna, la figlia pure, Vincent no, perché non ne è capace. Si accontenta di pigiare il tasto sulla macchina fotografica.
L’infanzia è stata turbolenta ed è stato cacciato da diverse scuole. Il mondo del lavoro lo vede inizialmente impiegato presso Sturbucks a servire caffè e da McDonald. La passione fotografica inizia negli anni ’80, durante un viaggio in Thailandia, con appesa al collo l’analogica Mamiya RZ medium format, macchina che usa tuttora. Gli scatti tailandesi verranno in seguito pubblicati su GEO Magazine.
A 18 anni non aveva la più pallida idea di come sarebbe stato il suo futuro. La madre gli consiglia di lasciare il paese, suggerimento che Vincent accoglie nel 1989. Parte per New York e cerca impiego come assistente. Non è facile. I guadagni sono pochi, avere soldi per un caffè è un evento raro. Torna quindi in Europa, a Parigi, nel tentativo di intraprendere un fruttuoso percorso artistico. Espone in diverse gallerie, ma i soldi necessari per vivere tardano ad arrivare. Seguendo il consiglio di un compagno, porta alcune foto in un’agenzia di moda, perché, gli dice l’amico, sono quattrini facili. Iniziano così a giungere apprezzamenti.
Il punto di svolta avviene più tardi, di nuovo a New York, per un fortuito caso di eventi che il fotografo ama raccontare nelle interviste. Per pura causalità è stato notato da Giovanni Testino, fratello del celebre fotografo Mario Testino, e presto Vincent si trova catapultato nel mondo della fashion photography, firmando campagne pubblicitarie per Miu Miu e Prada.
Sono molte le star del cinema e della musica che da allora a oggi si sono fatte ritrarre e molte le riviste con le quali ha collaborato, per citarne alcune: Vogue francese, italiano, inglese, tedesco, giapponese e spagnolo, Numero, Arena, GQ, Dazed & Confused, Ten and The Face.
Una curiosità su Peters? Il suo bianco e nero è inconfondibile!
Helmut Newton. Legacy-Autori Matthias Harder e Philippe Garner-Editore Taschen
Helmut Newton. Legacy
Descrizione-Un’eredità permanente L’estesa opera omnia di Helmut Newton– Autori Matthias Harder e Philippe Garner-Abbracciando un periodo di più di cinquant’anni e coprendo una quantità di ambiti impareggiabile, la fotografia del visionario Helmut Newton (1920–2004) ha raggiunto milioni di persone grazie alla pubblicazione su riviste del calibro di Vogue e Elle. La sua opera ha trasceso i generi, portando eleganza, stile e voyerismo nella fotografia di moda e nel ritratto, configurandosi in un corpus che resta inimitabile e insuperato. La padronanza dell’arte della fotografia di moda raggiunta all’inizio della sua carriera, ha fatto sì che, nei suoi scatti, Newton andasse regolarmente oltre la pratica comune, sfumando i confini fra realtà e illusione e spesso infondendo in essi una vena di surrealismo o la suspense di un film di Alfred Hitchcock. Un’estetica pulita pervade ogni ambito del suo lavoro, in particolare la fotografia di moda, di nudo e i ritratti. Le donne occupano una posizione centrale e fra i suoi soggetti figurano Catherine Deneuve, Liz Taylor, e Charlotte Rampling. Superando gli approcci narrativi tradizionali, la fotografia di moda di Newton è permeata non solo da un’eleganza sfarzosa e una sottile seduzione, ma anche da riferimenti culturali e un sorprendente senso dell’umorismo. Negli anni ’90 Newton ha pubblicato le sue fotografie nelle edizioni tedesca, americana, italiana, francese e russa di Vogue, scattandole prevalentemente a Monte Caldo e nei dintorni, dove si era trasferito nel 1981. Era solito trasformare locali, come il suo garage, in veri e propri palcoscenici teatrali dai particolari fortemente contrastanti o decisamente minimalisti, e in queste ambientazioni insoliti ritraeva spesso le vite eccentriche di personaggi ricchi e belli in scatti traboccanti di erotismo ed eleganza. Usava, e allo stesso tempo metteva in discussione, cliché visivi, talvolta con autoironia o una certa dose di parodia, ma sempre mostrando empatia. Coniugava con estrema sobrietà nudità e moda, trasformando così il suo lavoro in una testimonianza e un’analisi dei cambiamenti nel ruolo della donna nella società occidentale. Helmut Newton. Legacy, pensato per accompagnare la mostra internazionale itinerante dei lavori di Helmut Newton, presenta le opere principali di uno dei corpus più pubblicati della storia della fotografia, unitamente a svariate immagini riscoperte di recente. Questo volume celebra l’intramontabile influenza sulla fotografia moderna e l’arte visiva di Helmut Newton, prolifico creatore di immagini e autentico visionario. “Sono un voyeur professionista.” — Helmut Newton Il fotografo: Helmut Newton (1920–2004) è stato uno dei fotografi più influenti di tutti i tempi. Raggiunse la fama internazionale negli anni ’70, quando lavorava principalmente per l’edizione francese di Vogue, dove si fece apprezzare per le ambientazioni controverse delle sue fotografie. La sua abilità più originale consisteva nel far sembrare spontanei e dinamici scatti che erano in realtà accuratamente pianificati. Fra i numerosi titoli e riconoscimenti che ottenne spicca quello di Commandeur de l’Ordre des Arts et des Lettres. Il curatore e autore: Matthias Harder ha studiato storia dell’arte, archeologia classica e filosofia a Kiel e Berlino. È un membro della German Society of Photography e membro del comitato consultivo dello European Month of Photography. Curatore capo della Helmut Newton Foundation di Berlino dal 2004 e suo direttore dal 2019, ha scritto numerosi contributi per svariati libri e cataloghi di mostre. L’autore: Philippe Garner è un esperto di fotografia del XX secolo, design e arte decorativa. Ha scritto numerosi saggi e libri, spaziando dagli studi delle vite del designer Émile Gallé e dei fotografi Cecil Beaton e John Cowan, al volume Sixties Design pubblicato da TASCHEN. Ex dirigente di Christie’s, ha curato anche alcune mostre per musei di Londra, Parigi e Tokyo.
Helmut Newton. Legacy
Helmut Newton è una figura difficile da inquadrare. La maggior parte di noi crede di conoscere il suo lavoro, almeno nei suoi aspetti più importanti. Ma l’opera del fotografo tedesco-australiano è così prestigiosa ed emblematica che qualunque analisi sistematica con qualche pretesa di esaustività è destinata a fallire. […] Un approccio adeguato all’opera di Newton potrebbe essere uno studio di come il fotografo metteva in scena le sue immagini, attuato attraverso l’analisi di una selezione di fotografie scattate in quarant’anni di attività e che illustrano in modi molto diversi le tre principali tipologie del lavoro di Newton: moda, nudi e ritratti, a volte tutti in un unico scatto. […]
Newton ha sviluppato il suo inimitabile stile nella Parigi degli anni sessanta. La sua visione dinamica si manifesta, ad esempio, in una serie di fotografie dei modelli di André Courrèges, rivoluzionari per l’epoca, che scattò nel 1964 per la rivista britannica Queen. In retrospettiva, è evidente che aveva bisogno di trovare il giusto “sparring partner”: lavorare con spiriti affini gli era essenziale per eseguire con successo un incarico e, in definitiva, per aprire le porte all’avanguardia. Questa simbiosi si è ripetuta nelle sue intense collaborazioni con Yves Saint Laurent, Karl Lagerfeld e Thierry Mugler. Allo stesso tempo, le condizioni a volte rigide imposte dai suoi clienti e le loro aspettative sempre elevate erano per lui un forte stimolo a contrapporsi alle modalità tradizionali di rappresentazione. Per una mente irrequieta e creativa come la sua, era fondamentale spingersi oltre i limiti del consueto, quando lavorava all’interno delle regole consolidate definite dai servizi commissionatogli dalle riviste.
La serie di fotografie per Courrèges venne realizzata in uno studio rivestito di pannelli dalla superficie leggermente riflettente che raddoppiavano schematicamente le modelle; ma spesso Newton lavorava all’aperto, nelle vie parigine. Le sue modelle apparivano da sole o in gruppo, in pose a volte eleganti ed erotiche, a volte anarchiche e giocose. Sebbene siano principalmente fotografie di moda, queste immagini sono anche un sottile commento alla società dell’epoca, accennando a tematiche come le manifestazioni nelle metropoli europee e la radicalizzazione dei giovani borghesi. La sua fotografia di moda a colori scattata a Parigi nel 1970 per la rivista americana Essence fa pensare che Newton abbia catturato immagini di una manifestazione spontanea, come un fotoreporter. In realtà, le cinque donne nere che corrono verso l’osservatore gridando slogan e indossando le ultime creazioni della collezione Rive Gauche di Yves Saint Laurent erano modelle regolarmente ingaggiate. Sebbene Newton si sia sempre ispirato a situazioni reali, con lui non si poteva mai dire con sicurezza dove finisse la realtà e iniziasse l’illusione.
In quegli anni erano i redattori, tra cui grandi nomi come Alexander Liberman, Francine Crescent, Caroline Baker e Willie Landels, a decidere quali sequenze di immagini e quali dettagli dovessero essere pubblicati, e quindi a determinare il modo in cui le interpretazioni della moda di Newton sarebbero state accolte. Tuttavia, il fotografo aveva possibilità quasi illimitate per quanto riguardava lo scatto in sé. Nel 1971, per una serie di fotografie di costumi da bagno apparse su Vogue US, Newton fece trasportare la modella in elicottero sui set alle Hawaii; e per una serie di fotografie di lingerie scattate nello stesso anno per Nova, si servì di un hotel di Parigi che affittava camere a ore. In questa serie lo stesso Newton appare come una figura interattiva, con una macchina fotografica in mano, intento a scattare fotografie verso gli specchi fissati alle pareti o al soffitto.
Matthias Harder
Tratto da Helmut Newton Legacy, Taschen 2023
HELMUT NEWTON. LEGACY sarà in mostra alla Helmut Newton Foundation, Jebensstraße 2, 10623 Berlino dal 31 ottobre 2021 al 22 maggio 2022
Oliviero Toscani, il nostro Ansel Adams?Articolo del fotografo Marco Scataglini
La recente scomparsa di Oliviero Toscani mi ha fatto molto riflettere. E’ stato davvero il nostro Ansel Adams, ovviamente non dal punto di vista fotografico – mai due fotografi sono stati tanto diversi – quanto da quello della fama.
Oliviero Toscani
Come ho scritto in un recente post, a differenza di musicisti o anche esponenti di altre arti, i fotografi sono abituati al fatto che poche persone conoscano davvero i “propri eroi”e così i nomi di Luigi Ghirri o di Mimmo Jodice, di Walker Evans o Stieglitz, non dicono granché alle persone che non appartengono al nostro mondo. E non è qualcosa che riguarda solo l’Italia, ovviamente, anzi è generalizzata. Nel mondo anglosassone, e non solo, c’è un unico esempio di fotografo noto quasi a tutti: Ansel Adams, appunto.
E non tanto per le sue fotografie (anche) quanto per il suo impegno ecologista, le sue battaglie per la salvaguardia della natura e la creazione di Parchi Nazionali, e per essere stato anche il fotografo che nel 1979 ha realizzato il ritratto ufficiale del presidente Jimmy Carter (a colori!), recentemente scomparso.
Presidente Jimmy Carter-Foto di Oliviero Toscani
In Italia la stessa sorte è toccata a Oliviero Toscani. Della sua morte ne parlano giornali, radio e televisioni – da giorni – con ricordi, testimonianze, coccodrilli scritti in precedenza, visto che Toscani era da tempo malato. Di tutte queste testimonianze di autentica stima e affetto mi ha colpito il fatto che l’elemento strettamente fotografico rimanesse quasi sullo sfondo.
A parte, s’intende, chi scrive di fotografia e riconosce in Toscani uno dei maestri, gli altri ne sottolineano il carattere estroso, polemico, sempre sopra le righe, i diversi processi subiti per diffamazione e così via. La sua vita è stata un susseguirsi di dichiarazioni urticanti ma mai banali, una continua ricerca dell’autentico, senza nascondersi dietro il “politicamente corretto”. Era indubbiamente un uomo libero. Tuttavia leggendo o ascoltando le lamentazioni per la sua morte, ho avuto sempre l’impressione che non si parlasse tanto di un fotografo, quanto di un personaggio pubblico qualunque, di un “intellettuale” sui generis, un po’ come quando si parla di Sgarbi non si pensa al fatto che sia un critico d’arte, ma un acceso polemista.
E invece Toscani non sarebbe stato quel che è stato se non fosse stato soprattutto un fotografo. Quel che aveva da dire – per davvero – lo ha detto con le sue foto. O meglio, per essere più precisi, con le idee dietro le sue foto. Perché di fatto, sebbene immediate e dirette, le sue immagini erano molto concettuali, ma non il “Concettuale” con la “C” maiuscola dei soliti “Artisti” (con la A maiuscola anch’essi) ma un concettuale fatto per essere compreso, chiaro, con pochi fraintendimenti.
Foto di Oliviero Toscani
Questo perché Toscani non amava i giri di parole ma in particolare detestava i “giri d’immagine”, insomma le sue foto dovevano dire quel che avevano da dire sbattendotelo in faccia. Per questo scandalizzavano e però sono rimaste nella nostra memoria anche dopo molti anni, basti pensare a tutte le pubblicità della Benetton. Foto come quella dei tre cuori umani, di tre origini diverse (un africano, un europeo e un asiatico) rendevano perfettamente l’idea del fatto che dentro siamo fatti tutti allo stesso modo. Colpiva, infastidiva pure, ma era immediatamente comprensibile. E lo stesso vale per le sue foto di condannati a morte, per il bacio tra un prete e una monaca e così via.
La verità però è che Toscani ha legato la sua fama a immagini come queste, ma era anche molto altro. Ho vecchie riviste degli anni ’70 con la pubblicità della Olympus OM 2 dove un giovane Toscani ne illustrava le meraviglie nell’uso per il reportage, genere a cui allora si dedicava. Era in grado di raccontare luoghi e persone, di immergersi in realtà complesse come – per citare un progetto relativamente recente, del 1996 – il paese di Corleone e di trarne così un catalogo Benetton che era contemporaneamente una storia basata sui volti delle persone, sui loro gesti, sui loro atteggiamenti e appunto la promozione di un marchio iconico.
Fotocamere Olympus-Foto di Oliviero Toscani
Se dovessimo dire che fotografo era, probabilmente dovremmo considerarlo un ritrattista: sapeva cogliere l’essenza di chi aveva davanti, ma ci metteva molto del proprio, e sapeva fondere le due cose con efficacia, specialmente perché – come ricorda Andrea Scanzi in un suo articolo – non gli riusciva proprio di mentire. Motivo per cui ebbe molte critiche, ad esempio, per un servizio sulla ex-ministro Maria Elena Boschi uscito su “Maxim” e in cui non avrebbe reso adeguatamente il suo soggetto. Insomma, lo si accusava di non aver ripreso la Boschi per quello che il pubblico si aspettava: elegante e sexy. Non è questo il ruolo di un fotografo, sembrerebbe di poter dedurre da tali critiche, trasformare tutto in “Glamour”?
Poteva piacere o meno (ad esempio non è mai stato uno dei miei fotografi di riferimento) ma difficilmente se ne poteva disconoscere il ruolo avuto per scuotere la sonnolenta fotografia italiana, e per questo basti pensare alla sua straordinaria rivista “Colors”, realizzata per i Benetton a partire dal 1991, ampiamente anticipatrice di tante riviste che oggi si atteggiano a “cosa nuova”.
Mi rendo conto che anch’io sto scrivendo una sorta di elegia su Toscani, non era il mio intento. Quello che mi premeva sottolineare è l’importanza del suo ruolo, soprattutto per far conoscere la fotografia fuori dai soliti recinti più o meno intellettuali. Veniva sempre chiamato “fotografo” anche quando nelle interviste lo si sollecitava a parlare di altro. Era comunque la voce di un fotografo quella che rispondeva, una voce che non poteva essere disgiunta da quello sguardo sensibile, attento, ironico, istrionico. E in quanto fotografo ha anche cercato costantemente di far crescere i giovani che si affacciavano a questo mondo, come Adams è stato un vero ambasciatore della nostra arte presso il grande pubblico. Questo gli ha inimicato tanti fotografi che vedevano in lui una sorta di antitesi a quello che dovrebbe essere il ruolo del serio intellettuale che si esprime con le immagini.
Foto di Oliviero Toscani
Ma la verità è anche che Toscani era inimitabile. Non lo dico nel senso che realizzava fotografie tecnicamente inarrivabili, anzi. Il fatto è che erano foto davvero “sue”, in cui il ruolo del fotografo, la sua prorompente personalità, erano parte integrante del soggetto.
I fotografi amatoriali amano Ghirri – e quelli della sua “scuola” – perché pensano di potersi ispirare a lui, perché il suo approccio può essere “copiato”, anche se il più delle volte con risultati francamente non proprio apprezzabili. Fatto sta che la Rete è piena di fotografie “alla Ghirri”, di foto di architettura “alla Basilico”, di foto di paesaggi “alla Guidi” e così via. Ed è singolare pensare che questi tre fotografi che ho citato come esempio in realtà siano poco noti al pubblico generalista, che invece conosce Toscani. Viceversa nessun fotografo si sogna di imitare Toscani perché è sostanzialmente impossibile se non si diventa almeno un po’ come lui era. La corrispondenza tra le sue immagini e il suo modo di essere era quasi perfetta.
Sia chiaro, ogni fotografo è unico e inimitabile, ma – permettetemi la forzatura semantica – Toscani era il più unico di tutti, specialmente quando non premeva il pulsante di scatto della fotocamera. Per questo ho spesso incontrato fotografi che non lo apprezzavano, sostenendo che era soprattutto un “personaggio”, più che un artista o “un creativo”, parola che tra l’altro Toscani detestava. Uno buono per stare in televisione o alla radio, per scrivere libri ironici (come “Non sono obiettivo“, uscito per Feltrinelli nel 2001, il cui titolo dice tutto) ma scontato e banale dal punto di vista meramente tecnico. E si sa che i fotoamatori guardano soprattutto l’aspetto tecnico, invece di quello intellettuale.
Ho sempre risposto che il personaggio e il fotografo, le parole e le fotografie in Toscani erano un tutt’uno, lo rendevano una miscela perfetta e per certi versi esplosiva di leggerezza e profondità, di caustica polemica e insondabile ironia. Un fotografo di altri tempi eppure contemporaneo, direi necessario.
Foto di Oliviero Toscani
Qualche mese fa, al Festival di Reggio Emilia, c’era una sua mostra risalente alla fine degli anni ’90: una serie di fotografie di cacche (Toscani ha sapientemente intitolato il progetto “Cacas“), insomma escrementi sia umani che animali. Le foto sono su fondo bianco, semplici, ben realizzate, ma con una potenza eccezionale. Dopo i primi facili sorrisini, ed ecco la parte divertente e divertita dell’operazione, lo spettatore entra in un tumulto di riflessioni e considerazioni, ed è questa la parte profonda – irriverente ma mai autocompiaciuta – di ogni progetto del fotografo milanese. Scommetto che avrà considerato questa serie di immagini una galleria di ritratti dei suoi detrattori, ma in verità ha poi scritto che “la cacca è l’unica cosa che l’essere umano fa senza copiare gli altri, non c’è niente di più personale e ogni volta è un’opera d’arte“. Capito cosa significa essere Oliviero Toscani? Intellettuale senza fare l’intellettuale, profondo apparendo superficiale. Saper giocare con le contraddizioni come un prestigiatore o un circense. Appunto: unico.
E certo: ci vuole anche il coraggio. Vorrei veder voi mettervi lì a collezionare cacche fresche (e scommetto odorose) e a fotografarle con tutto l’armamentario di “bank” e stativi, per poi farsi ridere dietro.
Per questo, per la sua indiscutibile capacità di farci riflettere e arrabbiare è stato davvero un maestro della fotografia, la cui verve indubbiamente ci mancherà.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
9) Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale –
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 9) Carlo Forlanini- Medico ha inventato lo pneumotorace artificiale che ha guarito tanti tubercolotici–Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; oppure vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da
Carlo Forlanini, l’uomo che curò la tubercolosi
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
A Roma il Forlanini è un grande complesso ospedaliero che tutti conoscono ed usano come punto di riferimento, come il Colosseo, o il McDonald’s di Piazza di Spagna: se cerchi una via tra Piazzale della Radio e la Portuense, ti diranno di costeggiare il Forlanini tre romani su tre. Ma chi era Forlanini, Carlo Forlanini? La cosa è meno nota. Carlo Forlanini, medico milanese vissuto a cavallo tra otto e novecento, è colui che grazie ad una invenzione, lo pneumotorace artificiale, ha contribuito alla cura della tubercolosi. Una invenzione. Si immagina che gli inventori siano gente stravagante, chiusa in laboratori improvvisati, almeno così l’iconografia del fumetto e del cinema ci ha abituato a ritrarli, ma è una immagine che va rivista, almeno in questo caso. Tutta la famiglia Forlanini era dotata di talento inventivo, non solo Carlo. Il fratello Enrico, che fu pioniere dell’aviazione, per esempio fu anche il primo a concepire l’aliscafo. E non solo, ebbe idee necessarie per l’ideazione dell’elicottero, dotando un velivolo con elica sul tetto di un motore a vapore, e poi sperimentò i primi dirigibili. Carlo non era da meno. Da ragazzo, al liceo, si guadagnò un premio per uno studio sui palloni aerostatici. Poi si iscrisse alla facoltà di medicina di Pavia e trovò in seguito impiego all’ospedale Maggiore di Milano. I talenti inventivi, almeno nel 1876, facevano agilmente carriera e Carlo Forlanini divenne primario del Comparto delle malattie cutanee. Ebbe così l’occasione di concentrarsi sull’ambito che più lo attraeva: lo studio della tubercolosi polmonare. Ma bisogna aspettare la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica all’università di Torino nel 1884 per vedere i primi risultati della sua ricerca. La pneumoterapia (una pratica terapica fatta con apparecchi pneumatici per il bagno d’aria compressa) era usata già con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Forlanini fece di più: inventò nuovi apparecchi pneumatici che potevano essere trasportati e dunque anche meglio applicati. A fine ottocento tornò a Pavia. E’ stato un grande insegnante, prova ne fu la passione con la quale i suoi studenti seguivano le lezioni, e prova ne fu anche l’ostinazione che ebbe nel continuare ad insegnare anche in precarie condizioni di salute. Il suo nome rimarrà sempre legato allo pneumotorace artificiale, la cui applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace (Londra,1913). Tuttavia la scienza va avanti, e sia la sicurezza che l’efficacia della terapia sono state fortemente discusse e poi superate. Ma per sempre, se passate in zona portuense a Roma, la pietra miliare da seguire sarà Carlo Forlanini: costeggiatelo.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Biografia di Carlo Forlanini a cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini nacque a Milano nel 1847 da famiglia agiata, imparentata con Paolo Mantegazza. La madre di questi, patriota e organizzatrice nel settore della beneficenza, era infatti nonna di Carlo Forlanini. Il suo nome (Laura Solera) è rimasto nella storia milanese. Fratello di Forlanini fu il famoso Enrico, ingegnere aeronautico di grandi vedute. Un altro fratello, Luigi, fu medico, Presidente, a Milano, della Croce Rossa. Il giovane Carlo studiò a Pavia, ove frequentò il Laboratorio di Patologia Sperimentale, diretto prima da Bizzozero, e poi, dopo la chiamata di questi a Torino, da Camillo Golgi. Si formò scientificamente in questo ambiente, ma preferì poi passare alla Clinica. Interessato soprattutto alle malattie polmonari, fu il primo a intuire che l’unico modo per chiudere le caverne tubercolari del polmone era quello di farne collabire le pareti. Ci riuscì costruendo un apparecchio che serviva a introdurre aria nel cavo pleurico, in modo da creare uno pneumotorace. Il parenchima polmonare si ritraeva all’ilo, e le pareti delle caverne collabivano e potevano chiudersi. La scoperta del pneumotorace come mezzo di cura (1882) gli attirò grande rinomanza.
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Si presentò nel 1883 al concorso per un posto di professore straordinario di Clinica Medica Propedeutica, posto vacante per il passaggio di Camillo Bozzolo alla Clinica Medica. Fecero parte della Commissione Domenico Tibone, Giulio Bizzozero, Camillo Bozzolo, Lorenzo Bruno e Angelo Mosso, e Carlo Forlanini fu vincitore. La sua grande passione per le tecnologie nuove distinse la sua attività torinese. Fu sotto la sua direzione che il suo Aiuto, Scipione Riva Rocci, costruì lo sfigmomanometro per la misurazione della pressione arteriosa, usato ancora oggi. La presenza a Torino di Forlanini accrebbe certamente la rinomanza della Facoltà Medica torinese, che diveniva antesignana anche nella terapia della tubercolosi. Disgraziatamente, dopo un primo periodo di collaborazione, si creò un forte contrasto in Facoltà fra lui e Bozzolo. Forlanini, infatti, aveva chiesto di diventare titolare di una seconda Clinica Medica, ma Bozzolo non aveva gradito. Il problema era acuito dal fatto che il Ministro aveva abolito la cattedra di Clinica Medica Propedeutica.
Difeso dalla Facoltà, Forlanini rimase peraltro al suo posto per vari anni. Il problema fu risolto con l’apertura di un concorso per professore ordinario di Patologia Speciale Medica a Torino, contestualmente all’apertura di un altro concorso, identico, a Pavia. Il vincitore di Torino fu Forlanini, quello di Pavia fu Bernardino Silva, un allievo di Bozzolo.
Il Ministero accettò che Silva fosse comandato a Torino, e Forlanini a Pavia. Col 1899, si ebbero infine i decreti di trasferimento. Silva restò a Torino, praticamente subalterno a Bozzolo, fino al 1905, quando morì in un incidente di montagna. Forlanini ebbe via libera a Pavia, dove insegnò e operò scientificamente sino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1918.
A cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini, apparatus Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org Forlanini’s apparatus for artificial pneumothorax. ‘Die Indikationem und die Technik des kunstlichen Pneumothorax bei der Behandlung der Lungenschwindsucht’ Die Therapie der Gegenwart Carlo Forlanini Published: 1908 Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
Biografia di Carlo Forlanini
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ultimato il liceo, si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Pavia (nell’Almo Collegio Borromeo è presente una lapide commemorativa in suo onore) e, dopo la campagna garibaldina, si laureò nel 1870 con la tesi “Teoria della piogenesi-fachite”. La Ca’ Granda lo attirava e il 23 agosto 1870 presentò domanda all’Ospedale Maggiore di Milano che fu accolta e lì iniziò la sua pratica ospedaliera occupandosi di chirurgia nella sala di San Paolo sotto la guida del Dott. Monti, continuando le ricerche nel campo dell’oculistica. Rimase per due anni all’ambulanza oculistica di Santa Corona. Nel gennaio 1876 fu nominato primario del Comparto delle malattie cutanee dove rimase sei anni, continuando gli studi che più lo attiravano: quelli sulla tubercolosi polmonare, malattia che nell’infanzia gli aveva portato via la madre.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Nel 1884 la Facoltà Medica dell’Università di Torino lo propose per la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica che Forlanini accettò con entusiasmo. A Torino numerosi erano gli studenti che frequentavano le sue lezioni di semeiotica e di clinica: le più ascoltate furono quelle che riguardavano i metodi clinici per la diagnosi delle pleuriti e della tisi polmonare. La pneumoterapia (terapia con apparecchi pneumatici per praticare il bagno d’aria compressa) era usata con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Inventò nuovi apparecchi pneumatici trasportabili per renderli più facilmente applicabili e, per rendere più precisa la semeiotica della patologia polmonare, modificò il plessimetro di Seitz: il miglior plessimetro era in avorio, di cinque centimetri di diametro e due millimetri di spessore, da percuotere con le dita per ottenere un suono che rifletteva la natura della zona sottostante.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ritornò nel 1899 all’Università di Pavia, titolare della cattedra di Patologia Speciale Medica e dal 3 febbraio 1900 di quella di Clinica Medica Generale, al posto del Prof. Orsi, in un Ateneo che vantava una tradizione gloriosa, dove Bizzozero aveva compiuto geniali scoperte sulla fisiologia del sangue, dove Golgi aveva svelato il segreto della fine struttura del sistema nervoso, dove Mantegazza aveva segnalato l’importanza delle ghiandole a secrezione interna, dove Bassini aveva creato il metodo di cura dell’ernia inguinale.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
La sua opera di insegnante, che era tanto ammirata, fu negli ultimi anni limitata dalle condizioni di salute. Per l’incrollabile fede nell’efficacia di una cura che, esclusivamente per merito del suo studio, entrò nella pratica quotidiana, gli è dovuto l’appellativo di “inventore dello pneumotorace”, che gli è riconosciuto dagli studiosi di tutto il mondo[senza fonte].
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Senatore dal 1913, fu anche membro del consiglio superiore dell’istruzione, dedicandosi anche a ricerche sull’uremia, sull’ipertensione arteriosa essenziale e su diverse patologie polmonari. Al suo nome è intitolato l’Ospedale Carlo Forlanini, sanatorio di Roma, sede della Clinica universitaria della tubercolosi e delle affezioni respiratorie.
I risultati di questi lavori portarono Forlanini a ricevere più volte la candidatura al Premio Nobel per la Medicina, almeno una ventina, tra il 1912 e il 1919[4].
Nel 1877 fondò l’Istituto medico pneumatico, dove iniziò gli studi sulla cura della TBC polmonare, arrivando nel 1882 ad ideare lo pneumotorace artificiale.[6][7][8] Applicò la tecnica con pieno successo nel 1888, ma essa solo nel 1912 ebbe piena accettazione dalla comunità medica.[9]
Appassionato di apparecchi pneumatici e stimolato dal fratello Enrico, collaborò con lui discutendo su problemi di idraulica, aerodinamica e fisica, cercando di trarre il massimo beneficio dall’associazione tra scienza medica e meccanica. Il problema di poter applicare l’aria compressa nella cura della tisi lo entusiasmava e i disegni degli apparecchi di aeroterapia, di spirometria e per la cura della tisi erano tutti di mano sua e fatti con tale cura da poter servire al costruttore. Fa brevettare due modelli di aeroterapia per la cura della pleurite con inspirazioni di aria compressa per far dilatare il polmone e per la cura dell’enfisema con espirazioni in aria rarefatta. Disegna apparecchi per le inalazioni medicamentose di cui intuisce l’avvenire. I suoi lavori sull’enfisema polmonare e quelli sulla cura dei versamenti pleurici sono pietre miliari nella storia della medicina. La toracentesi con introduzione di aria filtrata (estrazione di quanto più liquido è possibile e introduzione di aria al posto del liquido estratto) è uno dei lavori fondamentali della medicina pratica. Si deve alla sua scuola l’invenzione dello sfigmomanometro di Scipione Riva Rocci, ancora oggi usato in tutto il mondo, che permise la misurazione della pressione arteriosa con un metodo incruento.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma-Muro di cinta
Forlanini ebbe il merito di accorgersi che lo pneumotorace spontaneo che fortuitamente si aveva in ammalati di tubercolosi cavitaria (la tisi polmonare), imprimeva alla malattia un andamento più favorevole. Secondo le sue idee la malattia era dovuta alla particolare funzione del polmone, cioè al respiro che in ogni istante fa variare la tensione del parenchima polmonare attraverso la variazione della quantità e pressione del suo contenuto (aria polmonare). Il polmone diventa tisico perché si muove e la tensione statica e dinamica impedisce la riparazione delle lesioni polmonari: l’immobilizzazione assoluta arresta il processo distruttivo favorendo la cicatrizzazione delle lesioni cavitarie.
Per guarire un polmone dalla tisi è necessario pertanto sopprimere la sua funzione, cioè collassarlo per eliminare il costante trauma respiratorio. Il metodo si basa sulla tecnica della collassoterapia, elaborata dallo stesso Forlanini, e consiste nell’introdurre gas inerte nella cavità pleurica corrispondente al polmone leso, in modo che esso venga posto in stato di riposo funzionale, così da favorirne la cicatrizzazione.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Tecnica del pneumotorace artificiale
Il metodo di cura del Forlanini è detto pneumotorace artificiale che in medicina significa presenza d’aria nel sacco pleurico. L’apparecchio di Forlanini era costituito da un manometro ad acqua in comunicazione con un rubinetto a tre vie: da una parte c’è un tubo di gomma portante l’ago d’introduzione, dall’altra un cilindro graduato di vetro contenente il gas sotto pressione in comunicazione con un altro contenitore di vetro. Il gas usato era l’aria atmosferica filtrata dal pulviscolo. L’ossigeno si evitava perché veniva assorbito troppo velocemente e l’azoto perché poteva provocare embolie.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
L’immobilizzazione del polmone veniva ottenuta introducendo nelle pareti toraciche a ridosso del polmone stesso, e cioè nel sacco pleurico una tal quantità d’aria la cui pressione doveva vincere quella espansiva dell’aria inspirata dal polmone: questo verrà in tal modo a trovarsi come sotto una campana d’aria in pressione, che gli impedirà di espandersi durante l’inspirazione e quindi di muoversi. L’introduzione dell’aria era effettuata con un ago che veniva inserito sulla linea ascellare media del torace, all’altezza del IV-VII spazio intercostale, fino a raggiungere la cavità pleurica, dove si registrava una pressione negativa. A quel punto si iniettava il gas fino a raggiungere una pressione intorno allo zero: il polmone collabiva e rimaneva così, con successivi rifornimenti di gas, per un periodo prolungato di almeno due, tre anni. Si procedeva quindi alla sua riespansione quando si era completamente cicatrizzato.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Al Congresso Internazionale di Roma del 1894 venne data dimostrazione pratica dell’utilità dello pneumotorace e al VI Congresso Nazionale della Medicina a Roma nel 1895 Forlanini espose i primi risultati ottenuti con il nuovo metodo di cura che fu accolto però con incomprensione dai contemporanei che consideravano probabilmente un’eresia l’aver studiato il problema della cura della tisi senza tentare qualcosa contro l’agente eziologico della malattia: il bacillo di Koch.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di RomaFranco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Nonostante lo scetticismo sul suo metodo Forlanini continuò i suoi esperimenti. Se fino al 1894 erano svolti su malati nei quali l’estensione, la gravità e la bilateralità delle lesioni toglievano ogni ragionevole speranza di salvezza, dopo il 1895 la sua attività si rivolse ai malati con monolateralità delle lesioni e buone condizioni generali e così aumentò il numero dei successi. Nel 1907 si decise a rompere il silenzio che durava ormai da 13 anni e nel giugno si svolsero due conferenze all’Associazione Sanitaria Milanese, una teorica e la seconda nella quale furono presentati i casi di guarigione e il numeroso uditorio lo seguì con interesse e i giornali milanesi si fecero portavoce del successo ottenuto. Il pneumotorace artificiale fu riconosciuto ufficialmente dai tisiologi di tutto il mondo al Congresso Internazionale della tubercolosi tenutosi a Roma nel 1912. La applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace, avvenuta a Londra nel 1913.[10][11] Studi più recenti tuttavia hanno sollevato forti dubbi sia sulla sicurezza, sia sulla efficacia della terapia[senza fonte], comunque oggi abbandonata.
Principali lavori pubblicati
1875 Brevissimi cenni di aeroterapia e sullo Stabilimento Medico-pneumatica di Milano. Gazzetta Medica Italiana Lombardia. Serie VII: 6
1882 A contribuzione della terapia chirurgica nella tisi del polmone. Ablazione del polmone? Pneumotorace artificiale? Gazzetta degli Ospedali e delle Cliniche di Milano
1894 Primi tentativi di pneumotorace artificiale della tisi pulmonare. Gazzetta Medica di Torino. 45:381-4, 401-3
1894 Su un caso di stenosi dell’arteria polmonare con persistenza del dotto di Botallo e di tisi polmonare
1895 Primo caso di tisi pulmonare monolaterale avanzata curato felicemente col pneumotorace artificiale. Gazzetta Medica di Torino 46:857
1897 Contributo allo studio del polso venoso presistolico
1897 Contributo alla terapia dell’empiema
1906 Zur Behandlung der Lungenschwindsucht durch künstlich erzeugten Pneumothorax. Deutsche Medizinishe Wochenschrift 32:1401-5
1908 Apparati e tecnica operativa dello pneumotorace artificiale
1909 Cenni storici e critici sul pneumotorace artificiale nella tisi pulmonare. In: Cappelli, ed. Scritti di Forlanini. Bologna, 1928:1013
1912 Il pneumotorace artificiale nella cura della tisi pulmonare. Atti de VII Congresso Internazionale Contra la Tubercolosi. Vol 3 Rome, 182.
Franco Leggeri Fotoreportage-
Logo dell’Associazione Graffiti Zero, Associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano-Foto Franco Leggeri
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
-8) Edward Jenner –Medico -Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 8) Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–
– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da siti Web – Enciclopedia Treccani.on line e Wikipedia
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Edward Jenner e il vaccino contro il vaiolo
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Un racconto sulla nascita del primo vaccino contro il vaiolo quale strumento fondamentale per sconfiggere le malattie infettive.
L’umanità deve molto all’inglese Edward Jenner, medico di campagna che nel 1749 con il suo metodo sperimentale, salvò il mondo dal vaiolo ed aprì la strada agli studi immunologici.
Nel libro, La formidabile impresa. La medicina dopo la rivoluzione mRNA, Roberto Burioni racconta come fu inventato il primo vaccino contro il vaiolo e di come questa scoperta abbia sensibilmente contribuito al progresso scientifico.
Come è nato il vaccino del vaiolo?
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Il vaccino si chiama così grazie alle vacche. Nella seconda metà del Settecento, il medico inglese Edward Jenner aveva notato che di solito le ragazze di campagna avevano una pella meravigliosa, senza traccia dei butteri del vaiolo, una terribile malattia che uccideva il 20-30% dei contagiati e lasciava cicatrici deturpanti sulla pelle dei guariti.
Un giorno, mentre infuriava un’epidemia di vaiolo, Jenner si recò in visita presso la famiglia di un agricoltore e quando trovò la figlia intenta a mungere una mucca le chiese, per attaccare bottone, se avesse paura di contrarre il vaiolo. «No» rispose la ragazza, «io ho già preso il vaiolo delle mucche, e non prenderò quindi il vaiolo degli uomini. Guardi la mia mano: questo è il segno del vaiolo delle mucche e io sono immune.» Che le persone occupate nell’accudire e mungere il bestiame fossero in qualche modo protette dal vaiolo era risaputo tra gli agricoltori, e a Jenner l’idea di immunizzare le persone utilizzando il vaiolo delle mucche ronzava da tempo nella testa, quindi decise di metterla in pratica.
L’occasione si presentò quando, nel 1796, una mungitrice – si chiamava Sarah Nelmes – arrivò nel suo studio per farsi curare il vaiolo bovino. Una delle mucche della sua fattoria si era ammalata, lei l’aveva ugualmente munta, nonostante avesse le mani screpolate, e alla fine si era ritrovata infettata, riportandone brutte lesioni.
Presso il dottore lavorava un uomo poverissimo, senza casa, che sbarcava il lunario facendo il giardiniere e aveva un figlio di 8 anni, James Phipps. Jenner mandò immediatamente a chiamare il ragazzino, prese del fluido dalle lesioni della mungitrice e glielo inoculò in un braccio. James non ebbe gravi problemi, a parte il fatto che dopo una decina di giorni cominciò a sentire dolore nel sito della puntura e un certo malessere generale. Presto però tutto passò e James tornò in perfetta salute, con una cicatrice nel punto in cui era avvenuta l’inoculazione. Jenner allora pensò che fosse arrivato il momento di capire se la puntura che aveva praticato fosse veramente in grado di proteggere il suo piccolo paziente.
Per farla breve, contagiò con il vaiolo il povero James (un medico che oggi si comportasse nello stesso modo sarebbe giustamente considerato un criminale), che sopravvisse. In segno di riconoscenza, Jenner gli regalò una piccola tenuta di campagna. James Phipps visse felice fino a 70 anni (un’età venerabile per i tempi) con moglie e due figli.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Dal vaccino vaiolo al vaccino anti-Covid e oltre
Il primo vaccino era stato inventato, e il nome «vaccino» ha origine proprio nel fatto che per immunizzare e proteggere i pazienti si utilizzava il vaiolo vaccino, cioè dei bovini. L’aggettivo – lo stesso che usiamo parlando del latte vaccino per distinguerlo per esempio da quello caprino – aveva conseguito un risultato tanto importante da diventare anche un sostantivo.
Biografia di Edward Jenner-Biografia scritta da Francesco Centorrino
Edward Jenner, noto medico e naturalista britannico, è conosciuto per aver introdotto il vaccino contro il vaiolo e per questo è considerato il padre dell’immunizzazione.
Edward Jenner è nato a Berkeley, cittadina del Gloucestershire (Inghilterra), il 17 maggio 1748, grazie ai suoi genitori condusse un’educazione classica, infatti il latino diventò parte del suo linguaggio quotidiano. Dal 1756 al 1761 studiò grammatica presso la Grammar School di Cirencester.
Il giovane Jenner, all’età di 13 anni, dovette scegliere un impiego e scelse di diventare medico. Dopo essere stato rifiutato ad Oxford, a causa delle sue precedenti condizioni di salute, in quanto da piccolo si ammalò di vaiolo, venne affidato a Mr. Ludlow. Con il chirurgo Ludlow rimase per sette anni ed imparò tutto quello che gli serviva per la professione di medico di campagna.
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
A 21 anni si trasferì a Londra per incrementare la sua esperienza nella pratica ospedaliera. A Londra fu assistente di John Hunter, ex chirurgo dell’esercito, presso il St. George’s Hospital. Nel maggio 1772 termina il suo apprendistato con Hunter e si dedica alla pratica della fisica, della chimica, alla materia medica e all’ostetricia. Hunter con il suo metodo stimolò così tanto il giovane Jenner che anche al termine dell’apprendistato i due continuarono a scambiarsi lettere.
Jenner nel 1773 decise però di ritornare a Berkeley e dedicarsi alla sua professione, solo dopo pochi mesi gli affari andavano alla grande. Tornato a Berkeley Jenner si dedicò anche a diversi studi come quelli riguardanti il tartaro emetico o il cuculo.
Anni dopo, nel 1788 sposò Catherine Kingscote che si ammalò successivamente di tubercolosi e morì nel 1815.
Fu agli inizi del 1800 che Jenner iniziò i suoi studi per combattere il vaiolo giungendo alla scoperta di un vaccino.
Gli ultimi anni della sua vita sono segnati da numerosi lutti ed il 26 gennaio 1823 Jenner si spense a causa delle conseguenze di un improvviso colpo apoplettico.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Focus: la scoperta del vaccino contro il vaiolo
In Europa tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 una delle malattie più diffuse era il vaiolo: infezione contagiosa che si manifestava con pustole e lesioni cutanee.
I casi di vaiolo crescevano sempre più rapidamente, una persona malata su sei moriva e a Londra in un solo anno morivano circa 3000 persone. Chi riusciva a sopravvivere diventava immune alla malattia.
Per contrastare il vaiolo si ricorreva alla variolizzazione, ossia inoculare nel soggetto da immunizzare materiale prelevato da lesioni di pazienti meno gravi, infatti a Londra nel 1746 si aprì un ospedale in cui i malati di vaiolo venivano sottoposti a questa pratica. Successivamente si iniziò a riconoscere la pericolosità e l’inefficienza del metodo.
Edward Jenner nello svolgere la sua professione, si recava presso le fattorie, così venne a conoscenza dell’esistenza di una forma di vaiolo meno intensa rispetto al vaiolo umano, che guariva rapidamente e rendeva l’uomo immune da un secondo contagio. Si trattava del vaiolo vaccino che colpiva vacche e buoi e che poteva essere contratto anche dall’uomo.
Jenner iniziò così gli studi sul vaiolo e capì che l’uomo poteva essere immunizzato usando secrezioni di animali o uomini affetti da vaiolo vaccino.
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Prima vaccinazione
Jenner nel mettere a punto una cura contro il vaiolo impiegò 20 anni e nel 1796 ci fu la prima vaccinazione: inoculò ad un bambino di otto anni, James Phipps, pus contenuto nelle pustole della mano di una donna affetta da vaiolo vaccino. Il giovane Phipps si ammalò di vaiolo vaccino e guarì in poche settimane. In seguitò Jenner gli somministrò il vaiolo umano ed il bambino non mostrò alcun sintomo, era stato immunizzato.
La pratica che da quel momento in poi è utilizzata per combattere il vaiolo non era più la variolizzazione, ma l’inoculazione jenneriana, successivamente venne coniato il termine vaccinazione. E’ grazie a questa scoperta che Jenner è considerato il padre dell’immunologia.
L’anno successivo alla prima vaccinazione, Jenner ha scritto un resoconto della sua sperimentazione sul piccolo Phipps, ma non venne accettata dalla Royal Society in quanto la sua intuizione era considerata troppo rivoluzionaria. Così nel 1798 Edward Jenner pubblicò a sue spese “An inquiry into causes and effects of the variolae vaccinae”, relazione delle sue esperienze riguardanti la vaccinazione in cui venne utilizzato per la prima volta il termine virus.
Grazie alla scoperta di Jenner i casi di vaiolo hanno iniziato a ridursi, lo stesso Napoleone ha reso obbligatoria la vaccinazione per il suo esercito. Nel 1800 a Berlino è stata fondata la Royal Vaccine Institution. Solo nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarerà debellato il vaiolo a livello globale.
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Contributo scientifico di Edward Jenner
Edward Jenner oltre alla sua professione di medico e chirurgo si dedicò a diversi studi, testimoniando il suo interesse non solo per la medicina, ma anche per la natura.
Uno degli studi più importanti che condusse fu quello sul comportamento del cuculo. Egli descrisse dapprima il canto dell’uccello ed in seguito le tecniche di accoppiamento. Jenner notò che il cuculo deposita le uova nel nido di altri uccelli (come la passera scopaiola) che non le distinguono dalle proprie. Il pulcino di cuculo spinge fuori le altre uova e pulcini dal nido in cui si trova in modo da essere l’unico a ricevere il cibo dai genitori adottivi. Grazie a questo studio, nel 1789, Jenner venne nominato membro della Royal Society.
Tra il 1776 e il 1778, invece, si dedicò allo studio degli istrici facendo particolare attenzione al loro letargo durante i mesi invernali ed iniziò anche uno studio sui delfini. Inoltre, grazie alla sua corrispondenza con Hunter, capì che quest’ultimo presentava i sintomi tipici dell’angina pectoris e condusse degli studi a riguardo. Intuì che il problema era dovuto, presumibilmente, alla formazione di uno strato di cartilagine a livello delle arterie coronarie e ciò ostruiva il flusso sanguigno.
Jenner effettuò anche studi sull’aerostato costruendone uno proprio alimentato ad idrogeno e, tra il 1783 e 1784, scrisse un opuscolo sul tartaro emetico, “Cursory observations on emetic tartar wherein is pointed out an improved method of preparing essence of antimony by a solution of emetic tartar in wine“, auspicando ad un maggiore utilizzo delle medicine in campo medico.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Riconoscimenti al Edward Jenner
Il dottor Jenner ottenne numerosi riconoscimenti come chirurgo, difatti veniva chiamato per svolgere operazioni complesse e anche pochi anni prima della morte, nel 1816, effettuò una brillante tracheotomia, testimoniando così la sua bravura.
E’ grazie alla scoperta del vaccino contro il vaiolo che Jenner, nonostante i numerosi oppositori, conquistò una grande fama, infatti ricevette inviti da importanti personalità quali il re Giorgio III, la regina Carlotta ed il principe di Galles. Nel febbraio del 1800 ricevette la medaglia della marina per servizi medici, la prima di una lunga serie.
Il valore della vaccinazione fu talmente compreso in Inghilterra che il Parlamento inglese donò a Jenner 30.000 sterline per incoraggiare ulteriormente le sue ricerche.
Oggi siamo ancora qui a celebrare il dottor Jenner senza il quale l’umanità non avrebbe sconfitto un problema così grave come quello del vaiolo.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Fonti
https://aulascienze.scuola.zanichelli.it
http://www.isavemyplanet.org
http://www.ovovideo.com
https://www.paginemediche.it
http://www.storiadellamedicina.net
https://www.vaccinarsintoscana.org
https://it.wikipedia.org
Biografia scritta da Francesco Centorrino e scrivo per Microbiologia Italia. Mi sono laureato a Messina in Biologia con il massimo dei voti ed attualmente lavoro come microbiologo in un laboratorio scientifico. Amo scrivere articoli inerenti alla salute, medicina, scienza, nutrizione e tanto altro.
Edward Jenner – the Original Vaccinator
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Dr. Edward Jenner was a man who has saved millions of lives due to his discovery of cowpox as the most effective treatment for the killer disease of smallpox. Born in 1749, he was orphaned at the age of five years, his parents both dying within two months of each other in 1754. He was sent away to boarding school at the age of eight years, and whilst there was subjected to be inoculated with a small amount of smallpox which was the standard treatment of the day, although it was a matter of luck as to whether the patient survived or not. He suffered side effects that haunted him to his dying day. Luckily for us, he survived his ordeal, and as an adult, he dedicated his life to finding a more effective and much safer cure for smallpox and despite a great deal of opposition from some of his medical colleagues, found the cure and in 1980, the World Health Organisation officially announced that smallpox had finally been eliminated. There is a statue of him in Gloucester Cathedral and sadly visitors to the cathedral know little or nothing about him. As the 200th anniversary of his death in 1823 approaches, this book attempts to show the reader how much we owe him.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
7) Robert Koch medico, batteriologo e microbiologo tedesco
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 7) Il nome di Robert Koch è legato allo studio della tubercolosi, per la quale cercò di preparare una sostanza in grado di combatterla. Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Robert Koch: una vita per la scienza
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Robert Koch: una vita per la scienza
Robert Koch e la tubercolosi
Il nome di Robert Koch è legato allo studio della tubercolosi, per la quale cercò di preparare una sostanza in grado di combatterla.
Robert Koch nasce a Clausthal, in Germania nel 1843, figlio di un ingegnere minerario. Bambino precoce e molto intelligente, a 19 anni entra all’Università di Göttingen per studiare medicina con il ProfessoreHenle; questi sostiene che le malattie infettive sono provocate da organismi vivi.
È a partire da questa affermazione, insieme all’esperienza che egli stesso si farà nel campo della microbiologia, che Koch enuncerà quelli che oggi sono conosciuti come ‘Postulati di Koch’ e che trattano delle condizioni necessarie per poter affermare che un particolare Batterio è causa di una determinata malattia.
Links: Käfige mit Versuchstieren, rechts: ein Brutschrank, Person: Robert Koch [11.12.1843 – 27.05.1910], Deutscher Arzt und Bakteriologe, Datierung: um 1890, Material/Technik: Holzstich, koloriert, , Copyright: bpk
Laureatosi, Koch trascorre un periodo limitato a Berlino per studiare chimica e poi fa una sorta di tirocinio all’ospedale Generale di Amburgo prima di esercitare privatamente.
I primi studi di ricerca Koch li compie sul bacillo del carbonchio. Egli si trova, in questo periodo, nel Wollenstein, dove il carbonchio provoca numerose epidemie tra i bovini. Non ha contatti con altri ricercatori, né accesso a biblioteche, quindi deve contare sulle sue sole forze. Koch riesce a provare che è proprio il bacillo del carbonchio a provocare la malattia: egli inocula in alcuni topi il Sangue prelevato dalla milza di animali malati ed in altri il sangue prelevato dalla milza di animali sani dimostrando che i topi ai quali è stato inoculato sangue infetto si sono ammalati, quelli ai quali è stato inoculato sangue sano no.
Ma va anche oltre. Riesce a produrre una coltura di bacilli del carbonchio facendoli crescere e moltiplicare nell’umore acqueo dell’occhio di un bovino, riuscendo così a dimostrare che i bacilli si riproducono e causano la malattia anche senza il contatto con alcun animale, perché hanno la capacità di resistere quando le condizioni sono avverse producendo delle spore che poi, in condizioni favorevoli, produrranno di nuovo i bacilli.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
La ricerca contro la tubercolosi
Tra il 1883 ed il 1884 Koch si dedica allo studio del vibrione del colera e alla sua diffusione, e formula delle linee guida che sono ancora oggi ritenute valide. Si dedica poi allo studio di una malattia per quell’epoca molto comune e molto grave, alla quale resterà legato il suo nome, la tubercolosi.
Robert Koch: una vita per la scienza ,studiò la tubercolosi,Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Egli cerca di preparare una sostanza che potesse essere utilizzata con scopi terapeutici contro questa malattia. Questa sostanza, che egli chiamerà tubercolina, viene ricavata dal bacillo stesso della Tubercolosi e, sebbene non abbia il risvolto terapeutico valido sperato, è ancora oggi utilizzata (chiaramente prodotta con tecniche più all’avanguardia) a scopo diagnostico.
Lo studio della tubercolosi e del batterio che la provoca lo porterà anche a sostenere, a ragione anche se nessuno gli crederà, al Congresso Medico sulla Tubercolosi svoltosi a Londra nel 1901, che il batterio che causa la tubercolosi umana e quello che causa la tubercolosi bovina sono differenti.
La ricerca di Robert Koch, alla fine del XIX secolo, si sposta poi in Africa meridionale. Qui egli si reca per studiare e fermare la peste bovina. Purtroppo l’impresa non riesce perché la malattia è provocata da un virus (troppo piccolo per essere visto da un microscopio non elettronico) e non da un batterio, ma Koch riesce comunque a limitare il contagio grazie ad una specie di vaccinazione che egli ottiene inoculando la bile prelevata dalla milza degli animali infettati.
Sempre in Africa, egli si dedica anche allo studio di altre malattie, quali la malaria, la spirochetosi, la tripanosomiasi.
Nella sua vita, Koch viene insignito di molteplici onorificenze, ottiene una laureahonoris causae all’Università di Bologna e conquista l’ambito Premio Nobel per la Medicina per lo studio della tubercolosi nel 1905. Muore a Bade-Baden il 27 maggio del 1910.
Robert Koch: una vita per la scienza
Robert Koch: una vita per la scienza ,studiò la tubercolosi,Premio Nobel per la Medicina nel 1905
Geheimrat Robert Koch nacque nel 1843 a Clausthal, nelle odierna Germania centro-settentrionale. Figlio di un ingegnere minerario, rivelò fin da bambino la sua intelligenza e perseveranza imparando a leggere da solo all’età di 5 anni.
A 19 anni intraprese gli studi di Medicina all’Università di Göttingen, ove ebbe come maestro il prof. Henle. Questi, che da tempo andava sostenendo, contrariamente all’opinione comune, che le malattie contagiosa erano provocate da “organismi vivi parassiti”, senza dubbio influenzò la nascente personalità scientifica del giovane allievo.
Dopo un breve periodo a Berlino per lo studio della Chimica e un soggiorno di studio all’Ospedale Generale di Hamburg, Koch incominciò a esercitare privatamente la professione di medico. Questa attività non gli impedì di interessarsi a numerosi altri argomenti, quali ad esempio l’archeologia e l’antropologia.
I primi lavori fondamentali, eseguiti con penuria di mezzi e in condizioni disagiate, riguardarono il carbonchio ematico degli animali. Tali lavori furono coronati dalla dimostrazione, attraverso l’infezione sperimentale del topo, che il bacillo del carbonchio presente nella milza degli animali morti era l’agente causale della malattia. Successivamente, Koch riuscì a isolare e a coltivare in coltura pura il bacillo, usando come terreno di coltura l’umore acqueo dell’occhio di bovino. Egli dimostrò anche la formazione delle spore e ne documentò la straordinaria resistenza nell’ambiente.
Nel 1880 Koch, già famoso, divenne membro del “Reichs-Gesundheitsamt” (Imperial Ufficio per la Salute) a Berlino; quivi ottenne finalmente mezzi adeguati alle sue capacità, e si dedicò allo studio dei terreni di coltura e della colorazione dei batteri. Risale a questo periodo (1881-82) la messa a punto di nuove metodiche per la coltivazione e l’ottenimento in coltura pura dei batteri ed, in particolare, del bacillo della tubercolosi dell’uomo.
L’esperienza acquisita e le grandi capacità analitiche permisero a Koch di rivedere i principi fondamentali – già proposti in precedenza da Henle – riguardanti le condizioni necessarie per poter dichiarare che “un determinato batterio è causa di una determinata malattia”. Tali principi sono passati alla storia come «Postulati di Koch».
A questi studi seguì un breve ma intenso e proficuo intervallo (1883-84) dedicato allo studio del colera e delle modalità di diffusione del vibrione nell’ambiente. Anche in questo campo Koch si distinse per la sua attività di «pioniere» della microbiologia, formulando alcune linee-guida per il controllo della malattia che vennero ben presto approvate e adottate in numerosi Stati e che, nella sostanza, ancor oggi vengono seguite.
Ospedale Spallanzani di Roma-foto di Franco Leggeri
Successivamente Koch riprese gli studi sulla tubercolosi che, a quel tempo, rappresentava una delle malattie più gravi e frequenti. Gli studi vennero rivolti alla preparazione di una sostanza derivata dal bacillo della tubercolosi, denominata «tubercolina», che Koch riteneva provvista di attività terapeutica. Ben presto tale attività si rivelò inesistente, ma la tubercolina si rivelò, in seguito, straordinariamente utile a scopo diagnostico (e lo è ancor oggi, seppure purificata e prodotta con tecniche più sofisticate di quelle di Koch).
Nel 1896 Koch ebbe l’occasione di soggiornare nell’Africa meridionale allo scopo di studiare l’origine di una terribile malattia dei ruminanti: la peste bovina. Koch non riuscì nel difficile intento (la peste bovina è sostenuta non da un batterio bensì da un virus); tuttavia, riuscì a limitare l’estensione dei focolai e a rallentare la diffusione della malattia attraverso una sorta di vaccinazione che consisteva nell’inoculare agli animali sani bile prelevata da animali ammalati.
In questi anni Koch giunse alla conclusione che la tubercolosi dell’uomo e del bovino erano sostenute da batteri differenti, e difese strenuamente la sua opinione (che oggi sappiamo essere esatta) contro lo scetticismo o l’avversione dei più al Congresso Medico sulla Tubercolosi tenutosi a Londra nel 1901.
Rappresentano punti fermi nella storia della Medicina altri studi compiuti da Koch, prevalentemente nel continente africano, su numerose malattie: malaria, surra, spirochetosi, tripanosomiasi, babesiosi.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma -Muro di cinta-
Koch raccolse, durante la sua non lunghissima vita, innumerevoli premi e onorificenze, compresa una laurea ad honorem presso l’Università di Bologna. Nel 1905 venne insignito del premio Nobel per la Medicina per gli studi eseguiti sulla tubercolosi.
Robert Koch si spense a Baden-Baden il 27 maggio 1910, all’età di 67 anni.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
6) Albert Sabin virologo – creò il vaccino contro la poliomielite
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 6) Albert Sabin l’intransigente virologo che metterà a punto il primo vaccino orale contro la poliomielite. E non lo brevetterà-
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – 6) Albert Sabin-virologo – creò il vaccino contro la poliomielite
-Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Ospedale Spallanzani di Roma-foto di Franco Leggeri
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma -Muro di cinta-
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Albert Sabin-virologo – creò il vaccino contro la poliomielite
Sabin, l’uomo della zolletta di zucchero
21 anni fa muore Albert Sabin, l’intransigente virologo che metterà a punto il primo vaccino orale contro la poliomielite. E non lo brevetterà
Il suo simbolo è una zolletta di zucchero. È il modo dolce con cui Albert Sabin ha salvato dalla poliomielite milioni di bambini in tutto il mondo. Non era dolce invece lo scienziato, nonostante l’aspetto mite: onesto fino alla crudeltà, molto egocentrico, intransigente. È anche vero che la vita, come lui stesso ripeteva, non era stata clemente con lui. Albert era nato infatti nel ghetto ebraico di Bialystock (nell’odierna Polonia) il 26 agosto 1906 con il nome di Saperstein, semicieco dall’occhio destro. Costretto a emigrare negli Stati Uniti nel 1921 a causa delle crescenti persecuzioni razziali, ebbe una vita accademica costellata di successi ma oscurata dalla perenne disputa con Jonas Salk, inventore del primo vaccino antipolio. La vita privata, invece, venne segnata dal suicidio della prima moglie, da un secondo matrimonio non felice e da un terzo tentativo coniugale in tarda età, negli anni ’80, pochi anni prima di morire, povero in canna, il 3 marzo 1993.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – 6) Albert Sabin-virologo – creò il vaccino contro la poliomielite
Eppure questo uomo così provato dal destino è stato uno dei più grandi e disinteressati ricercatori mai esistiti. Cominciò la sua carriera universitaria alla facoltà di odontoiatria della New YorkUniversity, ma presto cambiò facoltà affascinato dalla microbiologia. Dopo la laurea nel 1931 si spostò presso la University of Cincinnati (Ohio), dove cominciarono le sue ricerche sul poliovirus. A spingerlo in questa direzione era stato il professor William Park e l’esplosione di un’epidemia di polio a New York. Nel 1939 Sabin ottenne il primo grande risultato: aveva infatti scoperto che quello della polio non era un virus respiratorio, ma viveva e si moltiplicava nell’intestino. Nasce così l’epoca degli enterovirus, fino ad allora mai classificati come tali. Anche a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, cui Sabin parteciperà come ufficiale medico, la messa a punto di un vaccino contro la poliomelite deve aspettare quasi altri 15 anni. A compiere il miracolo è Jonas Salk, ricercatore della University of Pittsburgh, che nel 1952 realizza tre diversi vaccini, uno per ogni tipo fondamentale di polio, basati su virus uccisi e conservati in formalina. Il 26 aprile del 1954 comincia negli Stati Uniti una campagna di vaccinazione di massa. Tuttavia il metodo Salk non si dimostra efficiente: il prodotto non impedisce il contagio, alcune infezioni si verificano anche dopo l’immunizzazione, e inoltre il vaccino deve essere somministrato con tre iniezioni diverse. Nel frattempo anche Sabin, al Children Hospital di Cincinnati, aveva messo a punto il suo siero, sperimentato su 10mila scimmie e 160 scimpanzé, su sé stesso, sulle figlie e su giovani volontari reclutati tra i carcerati delle prigioni federali di Chillichote (in Ohio). Diversamente da quello di Salk, il vaccino di Sabin si basava su ceppi indeboliti di virus e, invece che essere inoculato, andava somministrato per via orale: su un cucchiaio o meglio su una zolletta di zucchero.
Nonostante le evidenze presenti nelle ricerche dello scienziato di origine polacca, la National Foundation for Infantile Paralysis, fondata nel 1938 da Franklin D Roosevelt, preferisce perfezionare il preparato di Salk e proseguire con quello le sue campagne di prevenzione. Forse è proprio l’origine del ricercatore a risultare sgradita alla Fondazione: sono pur sempre i tempi della Guerra Fredda. Sabin, però, non si arrende, convinto che l’unico compito della scienza sia il bene dell’umanità. Vuole a tutti i costi che il suo vaccino salvi milioni di bambini da stampelle, polmone d’acciaio e dalla morte. Anche per questo motivo (come Jonas Salk) non brevetta mai il suo vaccino e fa in modo che nessuno possa lucrare sulla sua scoperta: “èil mio regalo ai bambini”.
È la Cecoslovacchia il primo paese ad adottare il vaccino Sabin, seguita da tutto il blocco orientale, dall’Asia e dall’Europa (in Italia fu autorizzato nel 1963). In pochi anni sono milioni i bambini vaccinati, e rarissimi i casi di insuccesso. Il vaccino si diffonde su scala mondiale: anche gli Stati Uniti sono costretti a capitolare e cominciano a impiegarlo. Nel 1970 Albert Sabin riceve la Medaglia Nazionale per la Scienza (in quest’occasione dirà la famosa frase, emblematica del suo carattere: “Esiste solo un vaccino contro la poliomielite: quello che ho preparato io”). A oggi, grazie a Sabin, i casi di polio sono solo poche migliaia nel mondo. Ma la malattia resiste, endemica, in Nigeria, India, Pakistan e Afghanistan.
Dr. Albert Sabin, right, whose live polio vaccine is now being tested extensively throughout the world, is shown at Cincinnati’s Children’s Convalescent Hospital with Mark Stacey, 5, who contracted paralytic polio last summer, Dec. 17, 1959. With them are Dr. Walter Langsam, center, president of the University of Cincinnati. (AP Photo/Harvey Eugene Smith)
In ricordo di Albert Bruce Sabin, il medico polacco che creò il vaccino contro la poliomielite
«I nazisti mi hanno ucciso due meravigliose nipotine, ma io ho salvato i bambini di tutto il mondo. Non la trovate una splendida vendetta?» (Albert Bruce Sabin)
Nato nel ghetto di Bialystok – cittadina dell’attuale Polonia nord orientale che all’epoca faceva parte dell’Impero russo – nell’agosto 1906, di religione ebraica, Abram Saperstein – meglio noto come Albert Bruce Sabin da quando, nel 1930, divenne cittadino americano -, emigra negli Stati Uniti nel 1921. Suo padre Jacob, un artigiano, aveva deciso di abbandonare la Polonia a causa del fatto che l’atmosfera contro gli ebrei stava diventando molto ostile. Lo stesso Albert ne aveva fatto le spese: fin dalla nascita non vedeva dall’occhio destro e quando era ancora piccolo un coetaneo gli lanciò contro una pietra che per poco non colpì l’occhio sano, rischiando di accecarlo.
La famiglia Sabin si stabilisce a Paterson, nel New Jersey.
Un loro parente si offre di pagare gli studi universitari del giovane Albert, in modo tale che fosse poi in grado di lavorare con lui nel suo ambulatorio dentistico. E così all’età di vent’anni era studente di Odontoiatria alla New York University. Tuttavia, dopo aver letto il libro di Paul deKruif (1890-1971) Microbe Hunters (I cacciatori di microbi), decide che avrebbe dedicato la sua vita e la sua carriera a quella branca. L’entusiasmo lo porta a passare alla facoltà di Medicina ed a frequentare con successo i corsi di Microbiologia. Nel frattempo coltivava la sua passione anche al di fuori dell’università, raccogliendo microbi ovunque gliene capiti occasione (negli stagni, nella polvere, nei cassoni della spazzatura) e studiandoli in modo approfondito.
Nel ’31 consegue la laurea in Medicina e comincia a lavorare presso l’Università di Cincinnati – nell’Ohio -, dove rimarrà per oltre quarant’anni (fino al ’60 con il ruolo di professore per le ricerche pediatriche, dal ’61 al ’70 come “distinguished service professor”, ed infine, dal ’70 al 1981, come professore emerito). Nel corso della sua carriera lavorerà in vari campi della medicina (batteriologia, anatomia patologica, clinica medica e chirurgica).
Negli anni Trenta, come assistente del dottor William Hallock Park (1863-1939), celebre per i suoi studi sul vaccino per la difterite, sviluppa ulteriormente il suo interesse per la ricerca medica, in particolar modo nel campo delle malattie infettive. W. Hallock Park diventerà il mentore del giovane Sabin e gli farà ottenere una borsa di studio in quanto il suo parente dentista, per rappresaglia gli aveva “chiuso i rubinetti”. I suoi studi sulle malattie infettive dell’infanzia lo porteranno a fare ricerche su quelle provocate da virus ed in particolar modo sulla poliomielite, che all’epoca provocava migliaia di vittime, soprattutto bambini a partire dal secondo anno di vita. La scelta di dedicarsi a tale malattia fu del dottor Park, il quale convince il suo giovane assistente a riprender le ricerche sulla polio, che Sabin aveva già avviato in precedenza (nel ’36, in collaborazione con P.Oitsky, era riuscito a coltivare il poliovirus su un tessuto nervoso e a dimostrarne la primitiva localizzazione a livello del tubo digerente).
La poliomielite, una volta chiamata “paralisi infantile”, è una malattia virale acuta, altamente contagiosa, e con manifestazioni differenti, le più gravi fra le quali sono di tipo neurologico irreversibile. Si manifestava in vari modi; in genere il malato veniva colto da improvvisi attacchi di febbre seguita da paralisi irrimediabile di una parte del corpo, dovuta all’attacco da parte del virus (il poliovirus) alle fibre nervose del midollo spinale. Negli Stati Uniti tale malattia aveva ucciso o paralizzato migliaia di persone. La lotta alla polio, negli ambienti di ricerca medica, era cominciata molti anni avanti; nel ’34 Brodie e Kolmer, due studiosi americani, avevano annunciato la scoperta di un vaccino efficace. Tuttavia, quando si era proceduto alla somministrazione, molte persone erano morte. Tale drammatico fallimento aveva provocato la sospensione di qualunque ricerca ufficiale sul vaccino antipolio, anche se, sia pur ufficiosamente, molti laboratori avevano proseguito.
Nel gennaio 1938, con un appello su tutti i principali quotidiani americani, l’allora Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, colpito da una paralisi che all’epoca fu diagnosticata come causata da poliomielite, crea la NFIP (National Foundation for Infantile Paralysis). Il suo obiettivo fondamentale era quello di raccogliere altri fondi per la lotta contro la polio, al fine di accelerare la ricerca di un vaccino e l’aiuto ai malati. In seguito l’opera delle NFIP prenderà il nome di March of Dimes (Marcia delle monetine): il 20 gennaio di ogni anno, in occasione del compleanno di Roosevelt, tutti i cittadini americani erano invitati a versare dieci centesimi di dollaro per combattere la polio. La campagna si avvalse anche della collaborazione di numerosi personaggi celebri dell’epoca. In questo modo verranno raccolti milioni di dollari e la NFIP avrà la possibilità di finanziare altre ricerche per un vaccino efficace e sicuro.
Nel ’39 Sabin annuncia alla comunità scientifica la sua prima ed importante scoperta sulla natura del virus poliomielitico che attaccava le fibre nervose, dimostrando che, a differenza di quanto si era creduto fino ad allora, la sede prediletta di tale virus era l’intestino. Non si trattava pertanto di un virus respiratorio, bensì enterico, e la conoscenza del “terreno” dove si sviluppava rappresentava un dato fondamentale per la ricerca di un farmaco per debellarlo.
Mentre prosegue le sue ricerche, in Europa scoppia la Seconda guerra mondiale. Sabin vi perderà due nipotine, Amy e Deborah, uccise dai nazisti a Bialystok.
Alla fine del ’41, quando anche gli Stati Uniti entrano in guerra, Sabin, che pochi mesi avanti è diventato consulente della commissione militare per le malattie da virus neurotropi, entra nell’esercito; sbarca prima in Sicilia e poi a Okinawa, dove installa un laboratorio da campo.
Dopo la guerra, nel ’46, viene nominato capo della ricerca pediatrica della sua Università.
L’anno seguente, quando è di stanza a Berlino, dove si occupa dell’ospedale militare, assiste ad una gravissima epidemia di polio, che colpisce moltissimi bambini della semidistrutta capitale tedesca.
Tornato negli Stati Uniti, riprende le sue ricerche e, per condurre gli esperimenti in modo migliore, venne dotato di enorme laboratorio.
Nel ’49, con lo stanziamento di oltre un milione e trecentomila dollari, la NFIP ha la possibilità di varare uno studio multicentrico in numerose università americane (compresa quella di Cincinnati). Nel frattempo le epidemie di polio del mondo aumentano ogni anno: in Danimarca arriva la terribile epidemia di Copenaghen del ’52, mentre negli Stati Uniti si verificano decine di migliaia di casi.
Nel ’53, al Children Hospital di Cincinnati, Sabin ha finalizzato le ricerche per la messa a punto di una sospensione di virus attenuati. Il vaccino di Sabin, sviluppato in concorrenza a quello dell’immunologo Hilary Koprowski (1916-2013), consisteva nello stesso virus della polio, ma “attenuato”, ovverosia privato della capacità di provocare la paralisi delle fibre nervose. L’organismo in cui veniva immesso il virus attenuato, di fronte a tale minaccia, produceva allora gli anticorpi adatti.
Albert Sabin-virologo – creò il vaccino contro la poliomielite
Sabin comincia allora a testare il vaccino sull’uomo: prima su se stesso, poi su due suoi collaboratori: il dottor Ramos Alvarez, un medico messicano che lavora come suo assistente, ed un tecnico afroamericano che lavora nel suo laboratorio. I primi esperimenti su vasta scala Sabin li potrà effettuare fra alcuni giovani detenuti che si offriranno volontari. Il medico polacco, dopo lunghe esitazioni, ottiene la possibilità di cercare dei volontari fra i detenuti delle carceri federali della contea di Chillichote, in Ohio, e ne trova centinaia.
Questi primi controlli ed i successivi avranno esito positivo. Si passa così ai bambini, e le prime saranno proprio le due figlie di Sabin, Amy e Deborah – chiamate così in ricordo delle nipotine uccise dai nazisti – che all’epoca avevano rispettivamente cinque e sette anni. Dopo un’ulteriore lunga serie di prove, Sabin presenta i risultati degli esperimenti condotti alla Commissione per l’immunizzazione del NFIP.
In questo periodo un altro ricercatore, il fino ad allora sconosciuto Jonas Edward Salk (1914-1995), dell’Università di Pittsburg (in Pennsylvania), che lavorava anch’egli da molti anni sulla poliomielite, utilizzando virus uccisi con formalina, mette a punto tre vaccini contro il morbo. L’idea del dottor Salk, differente in confronto a quella di Sabin, era che l’organismo fosse in grado di generare gli anticorpi contro la polio anche in presenza di virus “uccisi” tramite il formolo. I vaccini erano tre perché, come era già stato dimostrato in precedenza, le migliaia di ceppi noti di poliovirus, erano riconducibili a tre tipi fondamentali. Pertanto, affinché un vaccino fosse efficace, era necessario che contenesse gli antigeni per tutti e tre i tipi di poliovirus.
Dopo l’annuncio da parte di Salk, nel ’52 furono avviati gli esperimenti per dimostrare che il preparato agisse come vaccino, ovverosia a protezione contro i virus naturali: i primi esperimenti risultarono positivi e nell’aprile del ’54 la NFIP varò ufficialmente il programma di vaccinazione di massa. Furono vaccinati oltre quattrocentomila bambini americani ed altrettanti bambini ricevettero un “placebo” (per effettuare così uno “studio casuale in doppio cieco”)
Nel ’55 alcuni bambini, appena vaccinati, furono colpiti mortalmente da poliomielite violenta. Il vaccino Salk si rivelò così inefficace, in quanto non garantiva una protezione assoluta, soprattutto nei casi di paralisi.
La vicenda avrà anche un breve strascico legale con il boicottaggio del vaccino Salk da parte di alcune organizzazioni di madri e la formazione di una commissione parlamentare in cui fu interrogato lo stesso Sabin, il quale non negherà mai i meriti scientifici di Salk – che rispettava molto -, ma le sue critiche al vaccino non furono gradite dal “rivale”, che in seguito arriverà ad accusare Sabin di “antipatriottismo” (accusa che, ovviamente, era del tutto infondata e nulla aveva a che fare con il discorso scientifico)
Il vaccino scoperto da Salk era in grado di prevenire molte complicazioni della malattia, ma non di evitare il contagio iniziale. Inoltre doveva esser somministrato tramite iniezione. Quello di Sabin, invece, evitava di contrarre la malattia, non necessitava di ulteriori richiami ed era somministrato per via orale, sciolto su una zolletta di zucchero. A questo proposito, una curiosità cinematografica riguarda il fatto che, nel celeberrimo “evergreen” disneyano Mary Poppins (1964) di Robert Stevenson, nella canzone Un poco di zucchero, il ritornello «Basta un poco di zucchero / e la pillola va giù» fa riferimento diretto proprio alla modalità di somministrazione del vaccino anti-polio di Sabin.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – 6) Albert Sabin-virologo – creò il vaccino contro la poliomielite
Il vaccino Salk viene perfezionato e nel ’55 le autorità sanitarie americane ne autorizzano la vendita: dopo le iniziali perplessità, gli Stati Uniti adottano così il vaccino Salk.
Sabin mette a punto il suo vaccino fra il ’54 e il ’55. Tuttavia, mentre il vaccino di Salk viene velocemente approvato ed in seguito applicato su vasta scala, Sabin dovrà attendere alcuni anni in quanto la sperimentazione in massa del suo vaccino, fatto con virus vivi ed attenuati e somministrabile per via orale, richiede maggiori cautele. Ma al di là di tale aspetto, l’approvazione delle autorità sanitarie degli Stati Uniti sul vaccino in modo che fosse disponibile subito per la vaccinazione di massa, sarà a dir poco tardiva. Questo avviene per vari motivi (alcuni parlarono di campanilismo, in quanto Sabin, pur essendo cittadino americano fin dal 1930, era un ebreo polacco e l’antisemitismo era piuttosto diffuso anche negli Stati Uniti). In quegli anni fra il ’55 ed il ’59 Sabin non viene molto creduto né seguito: neppure nella sua Polonia il suo vaccino ha successo e gli viene preferito quello di Salk.
In ogni caso, gli studi di Sabin sicuramente non saranno comunque vani. L’Unione Sovietica, insieme ad altri Paesi dell’Europa dell’Est, chiede a Sabin la possibilità sperimentare il suo vaccino sulle loro popolazioni. Il primo Paese a produrre il vaccino su scala industriale sarà la Cecoslovacchia, seguita dalla Polonia, da vaste aree dell’Unione Sovietica, dalla RDT (Repubblica Democratica Tedesca – meglio nota come Germania Est) e dalla Jugoslavia. Anche in Asia, a Singapore, verranno sottoposti a vaccinazione oltre duecentomila bambini. Fra il ’59 ed il ’61 verranno vaccinati milioni di bambini dei Paesi dell’Est europeo dell’Asia ed anche in alcuni Paesi dell’Europa occidentale. In Italia il vaccino anti-polio di Sabin verrà autorizzato nel ’63 e reso obbligatorio tre anni dopo, nel ’66, permettendo così la scomparsa della malattia. La stessa cosa avverrà in tutti gli altri Paesi in cui era stato reso obbligatorio.
Visti i grandissimi risultati ottenuti, vengono prodotti e distribuiti sul mercato notevoli quantitativi del vaccino Sabin “orale monovalente” contro il poliovirus di tipo I. In seguito vennero messi in vendita sia il vaccino orale di tipo II (OPV – Oral Polio Vaccine) sia quello trivalente (TOPV – Trivaliant Oral Polio Vaccine), efficace contro tutti e tre i tipi di poliovirus. Il crescente successo del vaccino Sabin, unito all’assenza di pericoli che assicurava ed alla più facile somministrazione in confronto a quello di Salk, fece sì che anche gli Stati Uniti d’America adottassero, sia pur con forte ritardo, questo vaccino. Le diatribe sul conto di Sabin e del suo vaccino cessarono e, fra il ’62 ed il ’64, il farmaco assunse grandissima autorevolezza in tutto il mondo e, nello stesso tempo, crebbe la riconoscenza scientifica nei confronti del medico polacco. Con la famosa zolletta di zucchero con vaccino Sabin, fu possibile vaccinare centinaia di milioni di bambini in tutto il mondo. I risultati ottenuti, grazie al vaccino di Sabin sulla morbilità per poliomielite nei Paesi che hanno un’organizzazione sanitaria di base sufficientemente evoluta sono tali che a volte si è discusso sulla possibilità di conservare l’obbligatorietà della vaccinazione anti polio solo in quelle nazioni ancora classificabili come “a rischio”.
Dal ’69 al ’72 Sabin è presidente del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele. A partire dalla fine degli anni Settanta/inizio Ottanta, sia pur ufficialmente ritirato dall’attività, si dedicherà per circa un decennio ad altri importanti studi immunologici, soprattutto nel campo della lotta contro i tumori, le leucemie ed il morbillo («Mi è parso che uno specialista in virus, come sono finito per diventare, abbia il dovere di usare le sue conoscenze per far del bene all’umanità»). Oltre alle ricerche nel campo della microbiologia generale (meccanismi della resistenza ereditaria e dell’immunità contro i virus, studio dei virus oncogeni), notevoli saranno anche quelle nella microbiologia applicata (allestimento di vaccini preventivi e di tecniche diagnostiche per alcune malattie, fra cui la toxoplasmosi, l’encefalite giapponese di tipo B e la dengue).
Nonostante non abbia mai ricevuto il Premio Nobel, per le sue scoperte mediche, nel corso della sua lunga carriera Sabin riceve circa quaranta lauree honoris causa da parte di università europee e non, oltre al Premio Koch (nel 1962), al Premio Internazionale Feltrinelli (nel 1964) dell’Accademia dei Lincei ed alla Medaglia Nazionale per la Scienza (nel 1970) «per numerosi contributi fondamentali a comprendere i virus e le malattie virali, culminati nello sviluppo del vaccino che ha eliminato la poliomielite quale maggiore minaccia per la salute umana».
Nel maggio 1986 riceve la prestigiosa Medaglia Presidenziale per la Libertà.
Fra i suoi numerosi scritti ricordiamo Poliomyelitis papers and discussions presented at the Fourth international poliomyelitis conference (1958); Paralitic poliomyelitis: old dogmes and new perspectives, in Review Infectious Diseases, 3 (1981); Vaccine control of poliomyelitis in the 1980, in «Journal Biol. Med.». 55 (1982).
Per quanto riguarda il suo vaccino contro la poliomielite, Sabin non lo brevetterà mai, rinunciando così allo sfruttamento commerciale da parte delle industrie farmaceutiche (nonché a guadagni personali che sarebbero stati senz’altro – è del tutto superfluo dirlo – di ragguardevole entità), affinché il prezzo contenuto permettesse una più vasta diffusione della cura: «In molti insistevano perché brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo ai bambini di tutto il mondo», dichiarò Sabin negli anni Settanta.
Pertanto, dalla realizzazione del suo importantissimo vaccino non guadagnò mai un solo dollaro, continuando a vivere con il suo stipendio – e poi con la pensione – da professore universitario. Sicuramente un ottimo stipendio, ma ovviamente parliamo di cifre ridicole in confronto a quelle che avrebbe guadagnato se avesse deciso di brevettare il vaccino.
Inoltre, impossibile non ricordare il fatto che, in piena epoca di Guerra fredda, donerà i suoi ceppi virali allo scienziato russo Mikhail Chumakov (1909-1993), in modo tale da permettere lo sviluppo del vaccino anche in Unione Sovietica. E così, anche in tale occasione, Sabin andrà al di là delle questioni politiche – in epoche in cui il mondo era nettamente diviso in due dal Muro di Berlino – nell’interesse di un bene superiore.
Albert Bruce Sabin muore all’ospedale della Georgetown University – a Washington – nel marzo 1993 all’età di ottantasei anni, lasciando in tutti coloro i quali/le quali avevano lavorato con lui e/o lo avevano conosciuto il ricordo di una persona di altissimo livello e che, sia nel corso della sua vita sia della sua carriera, è sempre stata attenta alla “sostanza” e mai all’apparenza
Dr Albert Sabin (b.1906), Polish-American microbiologist and discoverer of the oral polio vaccine. In 1921, Sabin emigrated from his native Poland to the USA with his parents. He was educated at New York University, and gained his MD in 1931. After Enders had successfully cultured the virus responsible for poliomyelitis, Sabin decided to work on a vaccine. Unlike the vaccine produced by Salk, Sabin’s was a live attenuated vaccine. The vaccine was tested in Russia on 4.5 million people, and was shown to be completely safe. Sabin’s vaccine was also much longer-lasting than Salk’s and could be taken orally.
Albert Bruce Sabin
American physician and microbiologist
This article was most recently revised and updated by Encyclopaedia Britannica.Albert Bruce Sabin (born Aug. 26, 1906, Białystok, Poland, Russian Empire—died March 3, 1993, Washington, D.C., U.S.) was a Polish American physician and microbiologist best known for developing the oralpoliovaccine. He was also known for his research in the fields of human viral diseases, toxoplasmosis, and cancer. Sabin immigrated with his parents to the United States in 1921 and became an American citizen nine years later. He received an M.D. degree from New York University in 1931, where he began research on human poliomyelitis. After serving for two years as a house physician at Bellevue Hospital in New York City, he attended the Lister Institute of Preventive Medicine in London. In 1935 he joined the staff of the Rockefeller Institute for Medical Research in New York City, where he was the first researcher to demonstrate the growth of poliovirus in human nervous tissue outside the body.
In 1939 Sabin became associate professor of pediatrics at the University of Cincinnati College of Medicine in Ohio and chief of the division of infectious diseases at the Children’s Hospital Research Foundation of the college. He later became professor of research pediatrics. While at the college, he disproved the prevailing theory that the poliovirus enters the body through the nose and respiratory system; he subsequently demonstrated that human poliomyelitis is primarily an infection of the digestive tract. Sabin postulated that live, weakened (attenuated) virus, administered orally, would provide immunity over a longer period of time than killed, injected virus. By 1957 he had isolated strains of each of the three types of poliovirus that were not strong enough to produce the disease itself but were capable of stimulating the production of antibodies. He then proceeded to conduct preliminary experiments in the oral administration of these attenuated strains. Cooperative studies were conducted with scientists from Mexico, the Netherlands, and the Soviet Union, and finally, in extensive field trials on children, the effectiveness of the new vaccine was conclusively demonstrated. The Sabin oral polio vaccine was approved for use in the United States in 1960 and became the main defense against polio throughout the world.
Sabin also isolated the B virus, conducted research that led to the development of vaccines for sandfly fever and dengue, studied how immunity to viruses is developed, investigated viruses that affect the nervous system, and studied the role of viruses in cancer.
Sabin became professor emeritus at Cincinnati in 1971, and from 1974 to 1982 he was a research professor at the Medical University of South Carolina in Charleston.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – 6) Albert Sabin-virologo – creò il vaccino contro la poliomielite
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –Medico polacco (Białystok 1906 – Washington 1993), naturalizzato statunitense. Laureatosi alla New York University, lavorò in diversi campi della medicina (batteriologia, anatomia patologica, clinica medica e chirurgica) e in varî ambienti scientifici americani e inglesi; prof. alla Children’s hospital research foundation dell’univ. di Cincinnati. Particolare risonanza hanno avuto le sue ricerche nel campo della microbiologia generale (meccanismi della resistenza ereditaria e dell’immunità contro i virus; studio dei virus oncogeni, ecc.) e applicata (allestimento di vaccini preventivi e di tecniche diagnostiche per alcune malattie, tra cui la toxoplasmosi). S. si dedicò in particolare agli studî sulla poliomielite. Nel 1936, in collaborazione con P. Oitsky, riuscì a coltivare su un tessuto nervoso il poliovirus e a dimostrarne la primitiva localizzazione a livello del tubo digerente. Intorno al 1953 ottenne da tre ceppi dello stesso virus mutanti adattativi sprovvisti di azione patogena ma tuttavia capaci di moltiplicarsi nell’organismo umano e di indurre, quindi, uno stato di immunità. In tal modo S. poté allestire nel 1956 un vaccino antipoliomielitico attivo per via orale, che trovò un impiego di massa dal 1961 e rappresentò un ulteriore progresso nei confronti del vaccino di Salk (già sperimentato nel 1952 e usato su larga scala dal 1954-55), ottenuto con virus ucciso e somministrabile solo per via parenterale. Premio Feltrinelli (1964) per le scienze mediche e chirurgiche applicate.
Franco Leggeri Fotoreportage -Castelnuovo di Farfa (Rieti)-
Castelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est-Le Mura Medievali
Franco Leggeri Fotoreportage e Articolo -Castelnuovo di Farfa-La notte estiva castelnuovese con il suo splendido cielo e le sue stelle simili a margherite ed ecco il miracolo del giallo notturno. I bar sono illuminati da una luce gialla che attira le falene, così irrimediabilmente attratte da essa. Le falene sembrano ripetere il passeggio della gente , alcune si posano sulle sedie accatastate, come essere in attesa del caffè. In questa notte blu che si contrappone al colore giallo dei bar castelnuovesi, se passeggi per la strada, via Roma, sembra di entrare in un dipinto. Diventa lo sguardo un pennello che deposita colori che delimitano i contorni di questa notte castelnuovese . Gli occhi si soffermano, indugiano, su ogni elemento della composizione di questa splendida scenografia castelnuovese.
Castelnuovo di Farfa (Rieti) La Piazza comunale
Sono un ammiratore inguaribile del grande scrittore Ernest Hemingway e vorrei immaginare se anche qui in qui in questa notte e nei bar castelnuovesi , avrebbe lasciata scritto : “My mojito in La Bodeguita, my daiquiri in El Floridita”, credo di si. Nella notte castelnuovese , se la sai vivere, ti riserva , se lo sai individuare, l’angolo “intellettuale”. Un angolo che sarebbe o farebbe la felicità per gli amanti della fotografia, della pittura e dell’architettura del paesaggio, così come l’interpreta e la descrive Goethe. Ai passeggiatori attenti e amanti della notte castlnuovese non può essere sfuggito che la Valle , dominata da Castelnuovo, è una visione, uno stato d’animo, sensibilità per l’astratto e immateriale che solo loro, gli Artisti e i bambini lo sanno individuare e vivere. Parlo di quel particolare momento, durante il crepuscolo, che preannuncia il passaggio dalla luce al buio: la cosiddetta “Ora Blu”. “L’heure bleue”, cara alla poetica , alla contemplazione e ai voli immensi che solo i notturni sottolineati dalle note di Chopin sanno trasformare la realtà in estasi che, poi, si sveglia alle note del Jazz. Ai Bar di castelnuovo potresti ordinare un mojito e se ti allontani per gustarlo , per esempio sulla piazza da qui puoi estasiarti nel vedere la “luce della notte” che illumina la Valle e, se osservi attentamente, scopri che la Valle non è solamente illuminata , ma è baciata, con dolcezza, dal cielo stellato di questo caldo agosto castelnuovese; visioni che solo qui puoi scoprire perché il cielo sopra Castelnuovo è affollato di stelle che disegnano e sottolineano un’architettura dell’immaginario, il suo silenzio, e accende la natura che diventa palcoscenico teatrale o set cinematografico, un ponte tra il reale e il fantastico che, tra un mojito e l’altro, ti consente di compiere incursioni nel fiabesco e nel magico. Sensazioni che solo in queste notti d’estate qui a Castelnuovo,ai tavoli dei Bar di Castelnuovo oppure passeggiando per le sue vie e immergendoti nel silenzio delle case addormentate riesci a scoprirle. Solo “l’ora bleu” di Castelnuovo genera sensazioni, visioni suggestive e sempre originali sino al limite della fantasia. Immaginate se Ernest Hemingway qui seduto nella piazza “all’Here Blue” a gustare il suo rum, chissà, forse, avrebbe scritto: “Il Vecchio e la Valle del Farfa”, o no?Metti una notte estiva a Castelnuovo, immaginate di passeggiare lungo via Roma , io l’ho fatto, sembra di essere in una notte stellata tra i boulevard e i caffè illuminati di Parigi.
Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri
Castelnuovo lo ami sempre di più fino a che non si arrende.
Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo Marconi-Via Arco Cherubini-Foto di Franco Leggeri
Castelnuovo di Farfa (Rieti) La Piazza comunaleCastelnuovo di Farfa, via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) Bar Stella
Castelnuovo di Farfa (Rieti) Piccolo Bar della Signora AlmaCastelnuovo di Farfa (Rieti) La vecchia locanda “Da Riccardo”Castelnuovo di Farfa (Rieti)- La piazza comunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) Biblioteca Luigi CianniCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via RomaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -La Piazza Comunale-Foto di Franco LeggeriCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via RomaCastelnuovo di Farfa (Rieti) La Porticina-Piazza Umberto I°Castelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est-Le Mura MedievaliCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est-Castelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est-Castelnuovo di Farfa (Rieti) La Piazza comunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) La Piazzetta-La fontanellaCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via Coronari
Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Garibaldi-incrocio con CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Garibaldi-Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Coronari-incrocio con via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma Ovest-Mura MedievaliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma Ovest-Ingresso pedonale al Parcheggio pubblicoCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Piazza della chiesa-via Guglielmo MarconiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via PerelliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via PerelliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazzetta-La FontanellaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Il GhettoCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Cortile Palazzo Eredi Salustri-GalliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma EstCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma , la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Castello-La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma-La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Castello, Torre dell’OrologioCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Regina MargheritaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo MarconiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo MarconiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo Marconi-Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – chiesa Madonna degli AngeliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – chiesa Madonna degli AngeliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma Ovest-Bar StellaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) –Castelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Municipio-Aula ConsiliareCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Il GonfaloneCastelnuovo di Farfa (Rieti) –Castelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza ComunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza ComunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza ComunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza Comunale
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