LA BONIFICA DI PORTO E MACCARESE- AGRO ROMANO 1934
Rapporto “velina del 1934 –Anno XII E.F.”
Dalla vasta pianura alluvionale in mezzo alla quale scorre per gli ultimi 14 Km. il fiume Tevere, fa parte il comprensorio della bonifica di Porto e Maccarese.
Questo; che fu un tempo di numerosi acquitrini e di boschi pantanosi che coltivavano la delizia dei cacciatori d’ogni parte d’Italia si estende per ettari 10.186 tra la destra del Tevere ed il fosso delle Pagliete o Tre Denari e tra il mare Tirreno e le colline retrostanti la ferrovia Roma-Pisa.
La bonificazione di tale zona fu iniziata a cura diretta dello Stato fin dal ’90-(1890); ma i criteri all’ora adottati nel progettare i lavori erano stati troppo restrittivi perché i risultati potessero essere soddisfacenti.
Nel 1926 in base a nuovi progetti che prevedevano il rifacimento delle vecchie opere e la esecuzione di tante altre fu ripresa con lena Fascista il bonificamento della zona e nello spazio di pochi anni ( dal ’26 al ’30) le opere idrauliche furono ultimate.
Tra le principali opere eseguite dell’anzidetto periodo vanno ricordate: a) l’approfondimento di tre colatori principali delle acque basse, per metri 1,80 sotto il vecchi fondo con conseguente aumento della sezione; b) l’approfondimento di tutti i canali secondari delle acque basse; c) costruzione di una rete di canali terziari; d)ampliamento dello stabilimento idrovoro, con la sostituzione di elettropompe alle vecchie macchine a vapore; e) costruzione dello stabilimento idrovoro della Torre della potenzialità di 300 litri al secondo con n.2 di prevalenza; f) opere stradali; g)impianto irriguo comprendente il sollevamento delle acque del Tevere fino alla prevalenza di m.3.90 e portata di mc.6 al secondo.
La rete di canali di scolo primari e secondari sistemati o escavati ex novo, hanno raggiunto lo sviluppo complessivo di km.123; i canali d’irrigazione Km.63; le strade massicciate Km. 101; i ponti n. 134.
P.S.-1934 AGRO ROMANO LA BONIFICA DI PORTO E MACCARESE- AGRO ROMANO 1934
Interessante velina propagandistica, con ogni probabilità proveniente da un’inchiesta del PNF, che riassume nel dettaglio le varie tappe dell’imponente opera di bonifica nell’Agro Romano, con particolare riguardo alla fascia costiera di Porto e Maccarese:
“… Questo, che fu un tempo sede di numerosi acquitrini e di boschi pantanosi che costituivano la delizia dei cacciatori… fu ripreso con lena fascista il bonificamento della zona e nello spazio di pochi anni le opere idrauliche furono ultimate… per opera della Società Maccarese proprietaria di circa metà del comprensorio di bonifica…”.
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Vivian Maier – “Tina Modotti – Fotografa e rivoluzionaria”
Biografia di Tina Modotti nacque ad Udine, nel quartiere di Borgo Pracchiuso, il 16 agosto del 1896 (la data è però registrata al 17 agosto)[1][11] da una modesta famiglia operaia, aderente politicamente al socialismo tipico di fine Ottocento. Il padre, Giuseppe Modotti, era un muratore,[11] mentre la madre, Assunta Mondini Saltarini, era una casalinga e cucitrice. Venne battezzata il 27 gennaio del 1897, con suo padrino un anarchico di professione calzolaio, Demetrio Canal. La sua casa era un’abitazione fatiscente di due piani in via Pracchiuso numero 113, oggi (2023) numero 89.
Tina aveva solo due anni quando la sua famiglia, per ragioni di natura economica, si trovò costretta a emigrare a Klagenfurt, in Austria. Lì nacquero gli altri cinque suoi fratelli e sorelle: Valentina detta Gioconda, Jolanda Luisa, Mercedes, Pasquale Benvenuto ed Ernesto, che morì a soli tre anni di meningite (e che non venne più menzionato all’interno della famiglia). Nel 1905 ritornarono ad Udine, dove Tina frequentò con profitto le prime classi della scuola elementare. In estate Giuseppe lasciò la famiglia in cerca di lavoro negli Stati Uniti e in agosto nacque l’ultimogenito Giuseppe Pietro. Tina cominciò a lavorare come operaia a dodici anni presso la fabbrica tessile Fabbrica Premiata Velluti, Damaschi e Seterie Domenico Raiser, situata nella periferia della città, per poter contribuire al mantenimento della numerosa famiglia.[11] Nel contempo cominciò a frequentare lo studio fotografico di Pietro Modotti, zio paterno, dove apprese le sue prime nozioni di fotografia.[12]
L’emigrazione negli Stati Uniti
Nel giugno del 1913 lasciò l’impiego che ricopriva presso la Raiser e salpò da Genova per raggiungere il padre e la sorella Mercedes a San Francisco (in California) dove, in breve tempo, trovò lavoro presso una fabbrica tessile. In quel periodo si avvicinò anche alla recitazione, figurando in rappresentazioni amatoriali – rivolte essenzialmente al pubblico di immigrati italiani del luogo – di D’Annunzio, Goldoni e Pirandello, in serate di beneficenza per la raccolta di fondi da inviare all’Italia in guerra.[13] Nel 1918 sposò il pittore e poeta Roubaix de l’Abrie Richey, soprannominato Robo, conosciuto qualche anno prima, e visse questo primo periodo con grande intensità, recitando, disegnando i propri abiti di scena, posando e dipingendo. I due si stabilirono a Los Angeles per poter perseguire una carriera nel mondo del cinema.[14]
Nel gennaio 1920 partirono per gli Stati Uniti anche la madre con i piccoli Benvenuto e Giuseppe. Il 1920 fu anche l’anno di esordio cinematografico di Tina, con il film Pelle di tigre (The Tiger’s Coat), il primo dei tre film hollywoodiani da lei interpretati e anche l’unico giunto fino a noi[13], per il quale ricevette l’acclamazione del pubblico e della critica, anche in virtù del suo “fascino esotico”. Ma il modo in cui il suo corpo e il suo viso erano stati lanciati sul mercato indusse Tina a mettere fine alla breve avventura cinematografica.[15][16] Grazie al marito, conobbe il fotografo Edward Weston e la sua assistente Margrethe Mather. Nel giro di un anno, la Modotti divenne la sua modella preferita e, nell’ottobre del 1921, anche sua amante. Quello stesso anno, il marito Robo le comunicò la sua intenzione di trasferirsi in Messico alla fine dell’anno, dedicandole un’ultima poesia: «Tina è il rosso del vino, così prezioso da lasciarlo posare con delicatezza perché diventi ancor più prezioso…».[17] Il Messico post-rivoluzionario appariva una destinazione di grande fascino, innovativa dal punto di vista culturale e sociale.[13] Dopo alcuni mesi, Tina cercò di raggiungerlo assieme a Weston, su invito dello stesso Robo, ma arrivò a Città del Messico troppo tardi, in quanto egli era morto da ormai due giorni, a causa di un fortissimo attacco febbrile probabile conseguenza del vaiolo (9 febbraio 1922).[18] Anche suo padre Giuseppe venne a mancare dopo poche settimane e, prima della fine dell’anno, la Modotti pubblicò a Los Angeles The book of Robo, un libro da lei curato in onore del marito.[13]
Assieme a Weston e ad uno dei quattro figli dell’uomo, desideroso di partire per rifarsi una vita nel paese latinoamericano, Tina Modotti ripartì per Città del Messico il 30 luglio 1923.[13] Dapprima come assistente in camera oscura, poi come contabile e infine come vera e propria fotografa, strinse amicizia con artisti e intellettuali, entrando rapidamente in contatto con i circoli bohémien della capitale messicana. Questi nuovi legami furono anche utili per creare ed espandere il mercato dei ritratti nel loro studio fotografico. Dopo meno di un anno, alla Feria Nacional del Libro y Exposición de Artes Graficas, Weston e la Modotti si aggiudicarono rispettivamente il primo e secondo premio nel settore fotografia. Benché già introdotta alle nozioni basilari sin da ragazzina, la relazione con Weston le aveva permesso di praticare e migliorare le sue capacità, fino a divenire un’artista di fama internazionale. Le sue idee sono chiaramente espresse nello scritto Sulla fotografia (1929): liberarsi da arte e artistico, puntare sulla qualità e sulle peculiarità del mezzo, perseguire uno scopo comunicativo.[13] Il fotografo messicano Manuel Alvares Bravo, in una sua disamina critica dell’opera della Modotti, ne suddivise la carriera in due periodi distinti: quello romantico e quello rivoluzionario. Il primo include appunto il periodo trascorso con Weston, caratterizzato da nature morte, da esperimenti grafici e pittorici; il secondo caratterizzato da una maggiore attenzione alla natura, ai fiori, all’essere umano e all’ambiente che lo circonda, con intento di documentazione sociale e antropologica e talvolta con forte connotazione politica.
Assieme a Weston, Tina Modotti nel 1925 ricevette l’incarico di viaggiare per i luoghi meno conosciuti del Messico e scattare fotografie che vennero poi pubblicate in Idols Behind Altars. The Story of the Mexican Spirit, di Anita Brenner. La Modotti doveva entrare nei luoghi religiosi e interagire con la gente del luogo. Nel libro, uscito nel 1929, furono selezionate 70 immagini su più di un centinaio che documentavano usanze, feste popolari, processioni. In questa, e nelle successive occasioni, i suoi scatti dedicati alle donne rivestono un ruolo di importante testimonianza etnografica: costumi, oggetti e attività sono documentati con grande attenzione, sottolineandone l’importanza e la dignità in una società matriarcale anche nelle immagini più tenere riguardanti la maternità e l’allattamento. Le foto più conosciute furono scattate durante un viaggio solitario nell’Istmo di Tehuantepec, intrapreso nel 1929 dopo il suo coinvolgimento nella morte di Julio Antonio Mella, attivista cubano. Dietro la fiera bellezza delle donne tehuane[19], la documentazione della povertà e del degrado, la disparità fra città e campagna, costituivano un forte messaggio sociale e politico.[13]
Scelta in quegli anni come “fotografa ufficiale” del movimento muralista messicano, immortalando i lavori di José Clemente Orozco e di Diego Rivera, Tina Modotti compare anche in alcuni murales di quest’ultimo: nella cappella dell’Università Autonoma del Messico è La vergine terra (nudo disteso) e Vita e terra (in piedi) e, sempre per mano di Rivera, venne dipinta nell’atto di distribuire cartucce ai lavoratori nel patio della Secretaría de Educación Publica. In questo ambito ebbe anche modo di conoscere diversi esponenti dell’ala radicale del comunismo, tra cui Xavier Guerrero, funzionario del Partito Comunista Messicano con cui ebbe una relazione sentimentale dopo che Weston, alla fine del 1926, ripartì per gli Stati Uniti.[20]; un esule italiano, Vittorio Vidali, attivo in quel periodo presso varie organizzazioni comuniste del mondo per conto del Comintern, la convinse ad iscriversi al PCM. Fu amica, e probabilmente anche amante, della pittriceFrida Kahlo, militante comunista e femminista nel Messico degli anni venti[21]; nel 1940, il terrazzo di casa di Tina ospitò la festa di nozze tra la stessa Frida e Diego Rivera. Il 1927 segna l’inizio della fase più intensa del suo attivismo politico, così come della sua attività fotografica. Il suo impegno la portò a partecipare a comitati a favore di Sacco e Vanzetti e a favore delle classi sociali messicane più svantaggiate, le sue foto a sfondo sociale andarono a corredare numerose riviste dell’epoca. Le notizie che arrivavano dall’Italia le fecero affermare in una manifestazione che «il fascismo ha ridotto l’Italia in un grande carcere e un grande cimitero» e queste parole, segnalate dalla Legazione Italiana, destarono l’attenzione del Ministero dell’Interno.[13]
Nel 1928 la sua relazione con Xavier Guerrero terminò con la partenza del suo compagno per un soggiorno di tre anni in Unione Sovietica. Il 10 gennaio del 1929 Julio Antonio Mella, suo compagno da pochi mesi, mentre passeggiava con lei morì assassinato per mano di un suo oppositore politico.[22][23] La donna fu subito accusata dalle autorità di essere complice nell’omicidio. Nella perquisizione della sua casa, la polizia trovò alcune foto scattate da Weston che la ritraevano nuda e ne seguì una campagna scandalistica che la ritraeva come donna di facili costumi.[13] Per questa ragione rifiutò l’incarico di fotografa ufficiale del Museo nazionale messicano,[24] e decise di intraprendere un nuovo progetto: il reportage sull’istmo della regione del Tehuantepec e sulle donne native, straordinariamente forti e belle. Nel dicembre del 1929 una sua mostra personale venne definita dal muralista David Alfaro Siqueiros come “La prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico”: fu l’apice della sua carriera di fotografa. All’incirca un anno dopo, fu costretta a lasciare la macchina fotografica dopo l’espulsione dal Messico e, a parte poche eccezioni, non scattò più fotografie nei dodici anni che le rimanevano da vivere.
Il lavoro per il Comintern
Esiliata dalla sua patria d’adozione con l’accusa (falsa) di aver partecipato all’attentato al presidente Pascual Ortiz Rubio, la Modotti raggiunse Berlino nella primavera del 1930; qui provò a lavorare ospitata dalla collega Lotte Jacobi ma, abituata alla forte luce solare del Messico, non riuscì ad integrarsi e ad usare la nuova fotocamera Leica, molto più maneggevole con un rullino da 36 pose (contro il caricamento singolo della Graflex che aveva sempre usato), ma che non permetteva la pre-visualizzazione dello scatto nel mirino[13]. Per un certo periodo la Modotti viaggiò in giro per l’Europa per poi stabilirsi, assieme al pittore Pablo O’Higgins[25], a Mosca, in Unione Sovietica, dove pare venne cooptata dalla polizia segreta sovietica per varie missioni di spionaggio in Francia ed alcuni paesi dell’Europa centro-orientale, probabilmente a sostegno della Rivoluzione Mondiale che i sovietici si prospettavano. In via ufficiale, dal dicembre del 1930, operava in qualità d’infermiera volontaria per il Soccorso Rosso Internazionale.
Dall’ottobre del 1935 si trovava in Spagna e quando allo scoppio della guerra civile spagnola, nel luglio del 1936, lei e il suo amante Vittorio Vidali, dietro i nomi di battaglia di Maria e Comandante Carlos, si unirono alle Brigate Internazionali, rimanendo nel paese iberico almeno fino al 1939. Lavorò con il celebre medico canadeseNorman Bethune, inventore delle unità mobili per le trasfusioni di sangue, durante la disastrosa ritirata da Malaga nel 1937. Nel 1939, dopo il collasso del fronte repubblicano e l’instaurazione del regime franchista, la Modotti lasciò la Spagna assieme a Vidali, per far ritorno in Messico dietro falso nome. Secondo alcuni storici, i due potrebbero essere stati implicati anche nell’assassinio di Lev Trockij: in una foto scattata dalla Modotti nel 1929, sono ritratti i partecipanti al primo congresso del Soccorso Rosso dei Caraibi. Sul retro della foto sono scritti in ordine i loro nomi e, fra gli altri delegati nazionali, figura anche il “compagno Arturo”: in realtà si trattava di un agente di Stalin sotto copertura, il suo vero nome era Iosif Gregulevich ed era a capo del commando che aveva arruolato Ramón Mercader, il sicario che nel 1940 eliminò Trockij.[26]
La morte
Tina Modotti morì a Città del Messico il 5 gennaio del 1942, secondo alcuni in circostanze sospette. Dopo aver avuto la notizia della sua morte, Diego Rivera affermò che fosse stata assassinata, e che Vidali stesso fosse stato l’autore dell’omicidio. Tina poteva “sapere troppo” delle attività di Vidali in Spagna durante la guerra civile, incluse le voci riguardanti le più di 400 esecuzioni di repubblicani non schierati con Mosca. Ciononostante, la versione più probabile sarebbe che quella notte Tina, dopo aver cenato con amici in casa dell’architetto svizzeroHannes Meyer[27], fu semplicemente vittima d’un arresto cardiaco, che la condusse alla morte nel taxi che la stava riportando a casa[28]. La sua tomba è nel grande Panteón de Dolores a Città del Messico.
Il poeta Pablo Neruda, indignato dalle accuse fatte a Vittorio Vidali a proposito della morte della fotografa, compose il suo epitaffio in cui è indicato anche lo sciacallaggio riferibile a quelle infamie; di questo componimento una parte può essere trovata sulla lapide della Modotti, che include anche un suo ritratto in bassorilievo fatto dall’incisore Leopoldo Méndez:
«Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi: forse il tuo cuore sente crescere la rosa
di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa.
Riposa dolcemente, sorella.
La nuova rosa è tua, la nuova terra è tua:
ti sei messa una nuova veste di semente profonda
e il tuo soave silenzio si colma di radici.
Non dormirai invano, sorella.
Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita:
di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma,
d’acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea,
la tua delicata struttura.
Lo sciacallo sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protende la penna e l’anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.
Nella mia patria ti porto perché non ti tocchino,
nella mia patria di neve perché alla tua purezza
non arrivi l’assassino, né lo sciacallo, né il venduto:
laggiù starai in pace.
Lo senti quel passo, un passo pieno di passi, qualcosa
di grandioso che viene dalla steppa, dal Don, dal freddo?
Lo senti quel passo fiero di soldato sulla neve?
Sorella, sono i tuoi passi.
Verranno un giorno sulla tua piccola tomba
prima che le rose di ieri si disperdano,
verranno a vedere quelli d’una volta, domani,
là dove sta bruciando il tuo silenzio.
Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella.
Avanzano ogni giorno i canti della tua bocca
nella bocca del popolo glorioso che tu amavi.
Valoroso era il tuo cuore.
Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade
polverose, qualcosa si mormora e passa,
qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,
qualcosa si desta e canta.
Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome,
quelli che da tutte le parti, dall’acqua, dalla terra,
col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.
Perché il fuoco non muore.»
(Pablo Neruda 5 gennaio 1942, epitaffio dedicato a Tina Modotti[29])
Fotografa
Tina Modotti è una delle poche donne dell’epoca apprezzate per una capacità in un’attività in cui fino ad allora si erano contraddistinti soprattutto uomini: fotografia e fotoreportage. La sua esperienza nel campo fotografico è impressionante: dopo la frequentazione di Edward Weston, da cui apprende le basi della fotografia, è la Modotti stessa a sviluppare ben presto un suo proprio stile utilizzando la fotografia come “strumento di indagine e denuncia sociale”, foto esteticamente equilibrate in cui era prevalente una ideologia ben definita: «esaltazione dei simboli del lavoro, del popolo e del suo riscatto (mani di operai, manifestazioni politiche e sindacali, falce e martello,…)»[30]. Nei reportage, in quella che altri fotografi definirono “fotografia di strada” la Modotti aveva idee ben precise, infatti non cercò mai “effetti speciali”, a suo avviso la fotografia lungi dall’essere “artistica” doveva denunciare “senza trucchi” la realtà nuda e cruda in cui gli “effetti” e le “manipolazioni” dovevano essere banditi.
Fu la Modotti stessa a più riprese a definire il proposito che desiderava raggiungere con la sua fotografia, come fa notare il fotografo Pino Bertelli riportando due suoi giudizi. Nel 1926 asserì: «Desidero fotografare ciò che vedo, sinceramente, direttamente, senza trucchi, e penso che possa essere questo il mio contributo a un mondo migliore»[31]. Definendo precisamente il suo punto di vista, la Modotti nel 1929 spiegò:
«Sempre, quando le parole “arte” o “artistico” vengono applicate al mio lavoro fotografico, io mi sento in disaccordo. Questo è dovuto sicuramente al cattivo uso e abuso che viene fatto di questi termini. Mi considero una fotografa, niente di più. Se le mie foto si differenziano da ciò che viene fatto di solito in questo campo, è precisamente che io cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni. La maggior parte dei fotografi vanno ancora alla ricerca dell’effetto “artistico”, imitando altri mezzi di espressione grafica. Il risultato è un prodotto ibrido che non riesce a dare al loro lavoro le caratteristiche più valide che dovrebbe avere: la qualità fotografica[31].»
Secondo lo scrittore britannico Geoff Dyer, la relativamente scarsa produzione fotografica di Modotti può essere vista non come un difetto, bensì come la conseguenza di una sovrabbondanza di vita. Mentre esiste solo una biografia di Weston, scritta da Ben Maddow, ce ne sono almeno sei su Tina Modotti (vedi sezione bibliografica), “per il semplice motivo che ha vissuto una mezza dozzina di vite”.[23]
Critica
La Biblioteca del Congresso (Library of Congress), la biblioteca nazionale degli Stati Uniti a Washington in una scheda di Beverly W. Brannan della Prints & Photographs Division definisce Tina Modotti come una “riconosciuta maestra della prima fotografia del XX secolo“[10][32].
Brannan esalta la “raffinata arte” della Modotti, anche come fotoreporter (alcune sue fotografie apparirono sul giornale del partito comunista messicano El Machéte), tanto da conservare un lotto di sue fotografie ovvero quelle che documentano le attività di quel partito nel 1929,[33] oltre che foto su altri temi[9]. El Machéte era stato fondato da un gruppo di artisti e giornalisti con lo slogan: “Il machete viene utilizzato per raccogliere la canna, uccidere i serpenti, porre fine alle lotte e umiliare l’orgoglio degli empi ricchi.” Secondo Tim Adams, “Modotti aveva preso a cuore quel messaggio, creando composizioni come questa [uomini che leggono El Machéte del 1927] che trasmettevano, magnificamente, sia l’unità dei campesinos – individualmente senza volto sotto i tradizionali sombreri – sia la loro volontà sovversiva collettiva”.[34] Opere della produzione fotografica della Modotti sono anche custodite presso l’International Museum of Photography and Film at George Eastman House[8] di Rochester (New York) oltre che in altri importanti musei del mondo. D’altronde il britannico The Daily Telegraph annunciando una mostra della fotografa alla Royal Academy of Arts di Londra definì la Modotti come «uno dei più brillanti fotografi del XX secolo» con una storia ed una eredità straordinarie[32]
Anche a causa del numero relativamente esiguo delle foto realizzate da Tina Modotti, le sue quotazioni sono oggi giunte ad un livello considerevole: una stampa originale della foto sopracitata è stata venduta nel 2015 da Sotheby’s al prezzo di 225 000 dollari.[34]
Nel 2005 la Caritas dell’arcidiocesi di Udine interpella l’artista Franco Del Zotto Odorico per la creazione di un segno identificativo sulla facciata del nuovo ricovero notturno per senzatetto di via Pracchiuso 89, casa natale di Tina Modotti. L’intervento artistico in nome della celebre fotografa diventava necessario al fine di dare una forma di consapevolezza storica ad un luogo che sebbene rifunzionalizzato tratteneva una memoria storica di notevole importanza. L’opera si è totalmente integrata alla struttura: la facciata ha assunto la forma di un grande foglio dattiloscritto su cui si susseguono pezzi della vita della Modotti, incisi sotto forma di bassorilievo. Prende corpo lungo tutta la facciata un racconto didascalico, in cui Tina stessa e le persone coinvolte nella sua stessa vita “battono a macchina” su un supporto murale un flusso continuo di parole. Per sottolineare certi passaggi nel testo ritenuti più rilevanti, è inoltre stata alterata la scrittura stessa, capovolgendo le lettere: operazione che rende più difficile la lettura, meno immediata, ma allo stesso tempo attira l’attenzione dello spettatore, creando “un testo dentro il testo”. Il bassorilievo presenta testi in più lingue (italiano, inglese, spagnolo, friulano) per testimoniare la grande trasversalità culturale della Modotti.
Il murale sulla facciata della casa natale di Tina Modotti nel 2014, opera realizzata da Franco Del Zotto e dall’assistente Vera Fedrigo, vince il premio internazionale Le Geste d’Or, Le Trophee du Grand Prix per la categoria Prix Innovation nel 2014[36]. La premiazione è avvenuta sabato 8 novembre durante il Salone internazionale del patrimonio culturale (Le Salon international du Patrimoine Culturel) organizzato presso il Carrousel du Louvre[37].
Pino Cacucci ha scritto una biografia, Tina, in cui racconta la vita e l’arte di Tina Modotti.
Anche il gruppo punk dei Fugazi nell’album End Hits del 1997 dedica una canzone a Tina con il titolo di Recap Modotti. Il pianista Remo Anzovino nel suo album d’esordio Dispari (2006) ha dedicato a Tina Modotti il brano ¡Que viva Tina!.
Negli anni novanta il teatro XX secolo di Roma espone una raccolta di disegni di Silvio Benedetto su Tina Modotti, presentata da Claude Moliterni, Sombras.
Sempre negli anni ’90 il compositore Andrea Centazzo scrive l’opera multimediale Tina ispirato alla sua biografia, con come protagonista Ottavia Piccolo.
Nel 1999 e nel 2000 l’autrice ed attrice Luisa Vermiglio porta in scena rispettivamente Con la Voce Negli Occhi – Viaggio intimo sulle tracce di Tina Modotti e Accanto a Tina/Cerca de Tina, entrambi prodotti dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, con le musiche originali di Alessandro Montello.
Nel 2003 il fumettista italiano Paolo Cossi pubblica un libro a fumetti interamente dedicato alla vita della fotografa friulana: trattasi infatti di Tina Modotti, edito da Biblioteca dell’immagine.
Il sassofonistajazzFrancesco Bearzatti ha dedicato alla fotografa un intero album, Suite for Tina Modotti, registrato con un’apposita formazione chiamata Tinissima Quartet.
Il compositore friulano Jaio Furlanâr le ha dedicato una canzone in friulano.
Un film intitolato Que viva Tina è stato realizzato da Silvano Cattano nel 1997.
Nel 2012 debutta lo spettacolo Della Passione di Tina, un monologo teatrale ideato e interpretato da Marika Tesser, dal quale Marcello Fausto Dalla Pietà ha liberamente tratto il video Tina con musiche di Dmitrij Šostakovič[38].
Nel 2013 durante la 26ª edizione di Sorrivol dei Burattini! il Grupo Saltimbanqui con Pierpaolo Di Giusto hanno presentato Corrido per Tina Modotti, breve storia di Tina Modotti per marionette e fisarmonica.
Nel 2013 il duo francese Catherine Vincent ha registrato un disco Tina dedicato a Tina Modotti. Nel disco è presente una canzone in francese, italiano, spagnolo e inglese che ha come testo una poesia scritta dalla stessa Tina. Il duo ha anche realizzato un accompagnamento musicale per l’unico film che rimane del periodo in che Tina faceva l’attrice a Hollywood, Pelle di tigre (1920) di Roy Clements, restaurato dalla Cineteca del Friuli.
Nel 2015, in Friuli-Venezia Giulia, è stato rappresentato il racconto teatrale multimediale plurisensoriale Hola Frida Mandi Tina …la fotógrafa y la pintora ispirato alla vita, all’amicizia e agli scritti di Tina Modotti e Frida Kahlo[39]. Dal 2018 la pièce – ideata, sceneggiata e diretta da Susanna Piticco (voce di Frida) e Vicky Vicario (autrice del testo dedicato e voce di Tina) – viene proposta nella nuova versione Hola Frida Mandi Tina la fotógrafa, la pintora …y el muralista también in cui è stata inserita la figura di Diego Rivera, marito di Frida e amico di Tina.[40].
Bologna, 2024 : Tina Modotti Dal 26 settembre 2024 al 16 febbraio 2025, le sale di Palazzo Pallavicini (Bologna) ospiteranno una grande mostra dedicata alla fotografa esponente di spicco della fotografia e dell’attivismo politico della prima metà del Novecento. Organizzata e realizzata da Chiara Campagnoli, Deborah Petroni e Rubens Fogacci della Pallavicini s.r.l., unitamente al Comitato Tina Modotti, l’esposizione ed i testi saranno a cura di Francesca Bogliolo.
Lecce, 2012-2013: Tina Modotti – Fotografa E Rivoluzionaria (dal 21 settembre 2012 al 22 febbraio 2013). Manifatture Knos – Cineporto[52]
Buenos Aires, 2012: Fotógrafa y revolucionaria – Reapertura (dal 6 ottobre al 30 ottobre 2012). Centro Cultural Borges[53]
Pordenone 2011: Il fotografo fotografato. Fotografie, immagini, documenti dall’Ottocento ai nostri giorni (dal 28 maggio al 18 settembre 2011). Museo d’Arte Contemporanea[54]
New York, 2010-2011: Pictures by Women: A History of Modern Photography (dal 7 maggio 2010 al 18 aprile 2011). Museum of Modern Art (MoMa)[55]
Trieste, 2010: Masterworks (dal 23 settembre al 6 novembre 2010). ITIS – Galleria San Giusto[56]
Terni, 2010: Tina Modotti – Tinissima. Fotografia e Rivoluzione (dal 13 febbraio al 30 maggio 2010). Palazzo Primavera[57]
Cagliari, 2009-2010: 99 click+1. Fotografie. Storie di incanti (dall’11 dicembre 2009 al 28 febbraio 2010). Il Ghetto[58]
Capodistria, 2009: Sguardi – La Fotografia del Novecento in Friuli e nella Venezia Giulia (dal 20 novembre al 20 dicembre 2009). Sedi varie[59]
Milano, 2009: Tina Modotti – Sotto il cielo del Messico (dal 15 settembre al 13 novembre 2009). Galleria Photology[60]
Lubiana, 2009: Sguardi – La Fotografia del Novecento in Friuli e nella Venezia Giulia (dal 2 giugno al 30 settembre 2009). Museo Etnografico di Lubiana[61]
Verbania, 2009: Flower power (dal 24 maggio all’11 ottobre 2009). CRAA – Centro Ricerca Arte Attuale Villa Giulia[62]
Venezia, 2008: Fotografie (19 dicembre 2008). San Marco Casa d’Aste[63]
Istituto scolastico comprensivo di Premariacco (UD);
Galleria Tina Modotti (ex Mercato del pesce) a Udine;
Campobasso-13 dicembre 2017 “Tina Modotti – Fotografa e rivoluzionaria” è il titolo della mostra che si terrà a Campobasso dal 15 dicembre 2017 al 7 gennaio 2018 negli spazi di via Persichillo, 1.
Inaugura il 15 dicembre alle 18 nella Galleria Spazio Immagine di Campobasso “Tina Modotti – Fotografa e rivoluzionaria”, mostra fotografica a cura di Reinhard Schultz (Galleria Bilderwelt di Berlino) portata in città dall’associazione culturale Centro per la Fotografia Vivian Maier.
Negli spazi di via Persichillo, 1 sarà mostrato un vasto repertorio fotografico arricchito da testimonianze originali quali le lettere di corrispondenza fra la Modotti e la madre e fra l’artista ed Edward Weston, uno fra i fotografi americani più importanti nella prima metà del Novecento. Fra i documenti esposti, anche materiale politico attraverso cui sarà possibile ricostruire le tappe fondamentali della vita pubblica e privata della “fotografa combattente”, così come veniva definita dal compagno Vittorio Vidali (documenti tratti dall’archivio Tina Modotti di Christiane Barckhausen-canale dell’associazione Crea Tina).
Il progetto nasce dall’idea di diffondere e far conoscere, attraverso una raccolta esclusiva, l’esperienza di cui è stata protagonista Tina Modotti nello scenario di fine anni Venti tra Italia e Stati Uniti d’America. Un progetto ambizioso che mira a dar voce a un capitolo importante nella cultura della fotografia.
Tina Modotti (Udine, 1896 – Città del Messico, 1942) è stata una delle più importanti fotografe della prima metà del XX secolo, oltre ad attrice e attivista politica. Musa di Pablo Neruda e modella di pittori messicani come Diego Rivera, Frida Kahlo e David Alfaro Siqueiros, le sue opere fotografiche sono esposte nei più importanti musei del mondo, tra cui l’International Museum of Photography and Film at George Eastman House di Rochester (New York) e la Library of Congress di Washington.
orario di apertura: Dal Martedì al Venerdì dalle 18:00 alle 20:30
Sabato e Domenica dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 18:00 alle 20:30
In orari e giorni diversi è possibile prenotare una visita su appuntamento.
Ingresso Libero
Fotografia d’epoca raffigurante un gruppo di 250 agricoltori lombardi in visita alle opere di bonifica del territorio di Maccarese Fiumicino, a Roma, meta di coloni provenienti da Lombardia e Veneto.
Nel 1925 inizia la bonifica integrale di Maccarese. A promuoverla è una società formata da investitori finanziari. Questi, invogliati dalle provvidenze messe a disposizione dallo Stato, erano partiti con il proposito di svolgere un ruolo di intermediazione in tutta la vicenda: bonificare la zona, mettere in produzione i terreni, frazionare la tenuta in poderi e passare alla vendita degli stessi. Al dunque, però, il progetto, così come era stato concepito, non potè andare in porto in quanto i prezzi delle proprietà fondiarie e dei prodotti agricoli nel frattempo erano crollati. E la terra agli inizi degli anni Trenta non aveva più la caratteristica di bene rifugio. Quegli uomini si trovarono così a governare un’azienda che, date le dimensioni, aveva costi di gestione molto elevati. E dovettero appoggiarsi all’IRI. Intanto erano approdati a Maccarese per coltivare i campi, impiantare i vigneti e custodire il bestiame da latte numerosi coloni provenienti dal mantovano e soprattutto dal Veneto. Imparentata com’era con lo Stato, durante il regime, la Maccarese diventa la vetrina dell’agricoltura italiana. Si susseguono le visite di delegazioni, anche dall’estero.
Thomas Ashby – Middlesex , 1874-1931- Appena sedicenne accompagnò il padre in un viaggio in Italia e rimase così affascinato dal nostro Paese che nel 1897, laureatosi a Oxford, grazie a una borsa di studio si trasferì a Roma dove divenne ben presto direttore della Scuola Britannica, allora aveva la sede nel Palazzo Odescalchi in Piazza Santi Apostoli.
Thomas Ashby fu amico e collaboratore , oltre che allievo, dell’Archeologo romano Rodolfo Lanciani. Ashby percorse la Campagna Romana e Sabina, oltre l’Abruzzo e la Sardegna, in lungo e in largo , a piedi e in bicicletta, con lo scopo di raffrontare i dati archeologici e topografici con la realtà dei luoghi e dei monumenti.
Ashby proseguiva così l’Opera di Antonio Nibby , grande archeologo di Amatrice, e di Giuseppe Tomassetti. L’opera di Ashby sarebbe poi stata continuata , dopo di lui, dal suao discepolo Giuseppe Lugli che così lo ricorda:” Quante gite abbiamo fatto insieme nel Lazio, nella Sabina e nell’Etruria con tutti i mezzi disponibili e per più giorni di seguito! Ashby fu profondo conoscitore, come nessun altro, del terreno ,camminatore instancabile , compagno simpaticissimo, senza pretese e sempre contento, ovunque ci fermassimo a mangiare e a dormire; senza invidia e gelosia , ma prodigo di notizie e di insegnamenti verso tutti quelli che si rivolgevano a lui”.
Ashby è attentissimo a cogliere ogni dettaglio di quanto gli sta intorno e riesce a scoprire e a documentare la storia dei luoghi che visita risalendo il più possibile indietro nel tempo.
La vastissima raccolta delle oltre novemila fotografie è raggruppata , secondo il metodo topografico con cui Ashby lavorava sotto i nomi delle strade consolari: SALARIA,NOMENTANA,TIBURTINA.VALERIA, COLLATINA,PRENESTINA, LABICANA, LATINA, APPIA, ARDEATINA,LAURENTINA, OSTIENSE, SEVERIANA, AURELIA, CASSIA, CLODIA e FLAMINIA.
Strade consolari che ritroviamo nelle sue Opere: The Classical Topography of Roman Campagna, forse la sua Opera più importante (scritta all’età di 28 anni) e il conosciutissimo Topography Dictionary of Ancient Rome.
L’Opera di Ashby è stata anche oggetto di due splendidi cataloghi e di una prestigiosa mostra fotografica allestita dalla British School di Roma.
L’organizzatrice dell’Evento GRAZIA AMICI mi ha accolto con queste parole :” Questa mostra fotografica è stata realizzata per raccontare 60 anni della Storia del Borgo.”
L’esposizione inaugurata il 29 giugno , nell’Aula Magna della scuola elementare di Testa di Lepre, resterà aperta sino al 30 luglio 2017.
TESTA di LEPRE- 25 luglio 2017-Un viaggio fotografico per raccontare 60 anni della Storia del Borgo. La mostra nasce da un’idea di Grazia Amici, che già aveva realizzato, nel 2010, un calendario con 50 foto d’Epoca dal titolo “RICORDI”. La mostra è stata allestita dai Volontari all’interno della scuola elementare di Testa di Lepre. “L’esposizione ”, ci spiega Grazia Amici ,” è un percorso fotografico che racconta i 60 anni di Storia dell’Ente Maremma laziale. Ho cercato di selezionare le foto in modo di raccontare la quotidianità della vita nella Campagna Romana degli anni ‘50-60 del secolo scorso. La mostra evidenzia le necessità e le speranze di una vita migliore dell’intera Comunità di Testa di Lepre. Le foto sono state scattate dagli stessi protagonisti. Ho raccolto le foto con la formula classica “ FUORI LE FOTO DAI CASSETTI” e per questo ringrazio tutti gli abitanti “storici” del Borgo.” Chiosa Grazia Amici: ”Ringrazio le Autorità che ci hanno onorato con la loro presenza , il Sindaco Montino e la Direzione dell’Ente Maremma che ci ha fornito foto e assistenza storica. Un ringraziamento particolare ,debbo sottolinearlo , lo rivolgo alla Signora GIOVANNA ONORATI che ci rappresenta nel Consiglio comunale di Fiumicino e per le belle parole scritte da lei sul Registro dei visitatori e che voglio citare:“La Storia siamo noi, con i nostri ricordi, con ciò che hanno fatto i nostri nonni. Bellissima mostra e complimenti al Comitato che sempre si adopera per migliorare , rallegrare e far vivere la nostra Comunità , piccola, ma con un GRANDE CUORE-.”
Sicuramente sarà editato un libro sulla Storia del Borgo. Posso anticipare la notizia che la Signora Grazia Amici ha in progetto , ci sta lavorando in sinergia con altre persone, la realizzazione di una grande iniziativa Culturale relativa al Borgo di TESTA DI LEPRE , alla Campagna Romana e alle sue bellezze.
Franco Leggeri-Blog–WWW.ABCVOX.INFO– Voce della Campagna Romana
OTRICOLI (TR) –Un intero week end dedicato alla storia.
Tre giorni di eventi all’interno del Parco Archeologico di Ocriculum dove poter rivivere i fasti di un municipio romano del II sec. d.C.
Il cambio valuta all’ingresso, il campo dei legionari con le didattiche sulla storia dell’esercito romano, il mercato dove poter iniziare a spendere e contrattare coi sesterzi ricevuti all’entrata, ben quattro tabernae rievocative dove poter gustare sapori antichi di due millenni, poi la vita dei campi, la musica antica, i ludi gladiatori all’anfiteatro, gli spettacoli teatrali, le visite guidate e i laboratori didattici per i bambini ma, soprattutto, la ricostruzione completa del porto fluviale sul Tevere.
Questo è quanto vi aspetta a Otricoli (TR) a pochissimi km da Roma (Uscita A1 Magliano Sabina, si svolta a sinistra sulla Flaminia e si trova il parco a circa 4 km). Questa sarà la sesta edizione di Ocriculum AD 168.
IL TEMPO FUGGE. NON QUI. NON ORA. 26-27-28 MAGGIO, OCRICULUM AD 168.
DESINE FATA DEVM FLECTI SPERARE PRECANDO
(Non sperare di cambiare il destino con le preghiere)
Il LVDVS, la palestra che i gladiatori chiamavano casa, poi i MVNERA, i ludi gladiatori in quell’Arena dove più di duemila anni fa si scontravano uomini, donne e fiere per cambiare il loro destino e, a volte, soltanto per restare vivi.
Il 26-27-28 maggio, Ocriculum tornerà un municipio del II sec. d.C. e grazie ai ragazzi del Ludus Picenus – Scuola Gladiatoria, si rivivranno le emozioni e le suggestioni di allora.
IL TEMPO FUGGE. NON QUI, NON ORA. OCRICULUM AD 168
26/04/2017 Il 26 aprile 1937 nazisti e italiani bombardarono la cittadina basca durante la guerra civile spagnola. Fu il primo atto di terrorismo bellico compiuto contro una popolazione inerme e ispirò il celebre quadro di Picasso. Un monito che purtroppo è quantomai attuale, come ci ricorda di continuo anche il Papa.
Nei giorni in cui gli Stati Uniti hanno testato in Afghanistan “la madre di tutte le bombe” e il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un minaccia nuovi test nucleari, fanno venire i brividi le parole pronunciate dal comandante dell’aviazione nazista Goering a proposito del bombardamento della cittadina basca di Guernica, avvenuto giusto 80 anni fa, il 26 aprile 1937, durante la guerra civile spagnola: 1654 persone spazzate via dalle bombe furono solo un esperimento fatto per provare “l’effetto psicologico demoralizzante della distruzione delle città dall’alto”. Non interessava dunque colpire obiettivi militari, ma solo uccidere.
Quel deliberato massacro di una popolazione inerte, di cui ci macchiammo anche noi italiani con la nostra aviazione a seminare morte accanto ai velivoli tedeschi, ispirò uno dei quadri più celebri di tutti i tempi, “Guernica” di Pablo Picasso. Un dipinto sconvolgente nella sua maestosità, di 8 metri per 3,5, che l’artista realizzò in quello stesso anno per l’esposizione universale di Parigi. Quel 26 aprile a Guernica, cittadina profondamente cattolica, era un bel lunedì di sole e c’era il mercato che radunò dalle campagne circa tremila contadini. Dalle 16.30, per tre lunghissime ore, i bombardieri scesero in picchiata sganciando una pioggia di ordigni che distrusse il 70% della cittadina. Gli animali feriti e terrorizzati fuggivano calpestando uomini, donne e bambini anche loro in fuga.
Un orrore che Picasso riprodusse con il suo stile inimitabile. La scena si svolge al buio, un’oscurità squarciata dalle fiamme. Il posto centrale è occupato dalla figura di un cavallo allucinato. Nella bocca ha una sagoma che ricorda quella di una bomba. Alla sua sinistra, dietro un toro furente, una donna si dispera con in braccio il figlio morto.
Fu un esperimento dicevamo, un terribile laboratorio fatto anche per testare nuove armi in vista del nuovo conflitto mondiale che sarebbe scoppiato due anni dopo. Come non pensare allora anche al conflitto siriano che, come ha ammesso il ministro della Difesa russo Serguej Shoig al giornale spagnolo El Paìs, sta servendo al Cremlino anche per sperimentare nuove armi (circa 150) e perfezionare l’addestramento dei suoi piloti. Papa Francesco non si stanca di ripeterlo, come ha fatto dopo l’ultimo attento al Cairo: ““Il Signore converta i cuori delle persone che seminano terrore, violenza e morte, e anche il cuore di quelli che fanno e trafficano le armi“”.
Il capolavoro di Picasso da 80 anni dice la stessa cosa e non a casa la sua riproduzione campeggia in forma di arazzo nella Sala del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma forse nessuno dei potenti della Terra lo ha mai guardato davvero.
Pablo Ruiz y Picasso, semplicemente noto come Pablo Picasso è stato un pittore, scultore e litografo spagnolo di fama mondiale, considerato uno dei protagonisti assoluti della pittura del XX secolo.
Il 23 aprile in tutto il Paese. L’Oasi Castel di Guido organizza una giornata di visite e giochi per bambini e adulti nella Natura della campagna romana. La partecipazione a visite guidate, giochi, animazioni per bambini e adulti è gratuita.
Per le persone che amano la Storia della nostra zona suggerisco di visitare il Blog- WWW.ABCVOX.INFO – VOX-Voce della Campagna Romana- zona AURELIA BOCCEA
Programma del mattino
10.30 Appuntamento in piazza Castel di Guido e trasferimento in Oasi
11.00 Visita guidata sul sentiero delle rondini
Visita guidata sul sentiero degli allocchi
12.30 Liberazione di un rapace curato al CRFS Lipu Roma
13.00 Pranzo al sacco (per chi si vuole fermare)
Programma del pomeriggio
15.00 “Voli senza Frontiere”, gioco di orientamento per bambini dai 6 a 99 anni (prenotazione obbligatoria)
15.30 Visita Guidata alla Villa Romane delle Colonnacce organizzata dal GAR (Gruppo Archeologico Romano)
16.30 Saluti
Per informazioni e prenotazionitel. 3285569123
Per le persone che amano la Storia della nostra zona suggerisco di visitare il Blog- WWW.ABCVOX.INFO – VOX-Voce della Campagna Romana- zona AURELIA BOCCEA
Eventi della giornata in Oasi
– I #ventiBUONI
20 Arnie, 20 disegni, 20 Scienziati.
Buono racconta il progetto dell’associazione e presenta nel pomeriggio il portasciami di Lucamaleonte.
– Corso di Fotografia Macro
Durante la giornata, il fotografo naturalista Alessandro Zocchi, terrà un corso base di fotografia macro (fiori, insetti, piccoli animali) articolato come segue:
mattina – lezione di macro della durata di un’ora e mezza
pomeriggio – sessione pratica di fotografia all’interno dell’Oasi
Donazione minima per il corso: 10 euro
Per informazioni e prenotazione obbligatoriatel: 3669930239
Sito web della Campagna Romana-WWW.ABCVOX.INFO
Come arrivare in Oasi
L’Oasi si trova all’interno dell’Azienda Agricola Castel di Guido che ha sede nel borgo omonimo (via Gaetano Sodini). Il borgo è lungo la via Aurelia (km 20) a 5 km dall’uscita “Aurelia” del G.R.A. direzione Civitavecchia. Dall’uscita “Castel di Guido” percorrere via di Castel di Guido per 4,5 km fino all’omonima piazza, punto di incontro per gli eventi e le visite guidate. Da li, in occasione degli eventi organizzati, si prosegue in auto per la strada interpoderale fino al parcheggio dell’Oasi. In alternativa l’oasi si può raggiungere dal borgo a piedi o in bicicletta (circa 2,5 km). La piazza di Castel di Guido è raggiungibile con la linea Atac 246P (fermata: n° 78340 pza Castel di Guido) con partenze dal capolinea Cornelia (Metro A).
Per informazioni tel. 3285569123
Per le persone che amano la Storia della nostra zona suggerisco di visitare il Blog- WWW.ABCVOX.INFO – VOX-Voce della Campagna Romana- zona AURELIA BOCCEA
ROMA-Artemisia Gentileschi un mito del Seicento a Palazzo Braschi fino al 7 maggio 2017.
Roma- 23 aprile 2017-Le sale di Palazzo Braschi ospitano Artermisia Gentileschi fino al 7 maggio 2017 una nuova rassegna dedicata alla vicenda artistica e umana di Artermisia Gentileschi.Dopo la prima mostra del 1991 a Firenze, quella romana del 2001 condivisa con il padre Orazio e quella strettamente monografica a Milano dieci anni dopo, le sale di Palazzo Braschi ospitano fino al 7 maggio 2017 una nuova rassegna dedicata alla vicenda artistica e umana di Artermisia Gentileschi, pittrice dal talento smisurato e grande protagonista del suo tempo, troppo spesso legata ai drammi personali e all’errata immagine di caravaggista toutcourt. Nota al grande pubblico per le tumultuose vicissitudini private, che non le hanno risparmiato dettagli morbosi su un processo pubblico per stupro, la figura artistica di Artemisia venne letta in chiave femminista raggiungendo una certa fama letteraria prima grazie al romanzo di Anna Banti pubblicato nel dopoguerra e in seguito negli anni settanta del Novecento.
Nata a Roma nel 1593, primogenita del pittore toscano Orazio Gentileschi, la giovane pittrice manifesta una forte attitudine all’arte presso la bottega paterna dimostrando maggior talento rispetto ai fratelli. Qui avverrà il suo apprendistato artistico, imparando il disegno, il modo di impastare i colori e di dare la giusta luce ai dipinti. Il primo è la Susanna e i vecchioni (1610) di Pommersfelden, una sontuosa prova naturalistica in chiaro riferimento al realismo del Caravaggio e non indifferente al linguaggio della scuola bologhese. E’ evidente che a Roma ebbe l’opportunità di crescere in una fucina di talenti: Caravaggio che all’epoca lavorava nella Basilica di Santa Maria del Popolo e nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, ma anche Guido Reni, Domenichino e i Carracci che terminavano gli affreschi della Galleria Farnese.
Dopo il processo per strupro, intentato dal padre Orazio contro Agostino Tassi, artista a cui Artemisia è molto affezionata, la pittrice appena maggiorenne va in sposa a Stiattesi, lasciando Roma per Firenze. Il lascito fiorentino sarà una serie di immagini tutta al femminile, tra Maddalene, Danae, Cleopatre, Giuditte e diverse suonatrici. E in seguito alla parentesi veneziana documentata tra il 1627 e il 1629-30, Artemisia è finalmente a Napoli, forse per effetto del legame con il nuovo vicerè Fernando Afàm de Ribera, dove muore nel 1653.
Per quanto dipingere rappresentasse una scelta non comune e piuttosto difficile per una donna all’inizio del XVII secolo, Artemisia non fu caso isolato. Prima di lei, tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, altre donne pittrici esercitarono, anche con buon successo, la loro attività. Tra queste Sofonisba Anguissola, chiamata in Spagna da Filippo II; Lavinia Fontana, che si recò a Roma su invito di papa Clemente VIII; Fede Galizia che dipinse magnifiche nature morte e una bella Giuditta con la testa di Oloferne e Lucrina Fetti insieme ad altre pittrici, più o meno note. Eppure, nonostante la forza espressiva del suo linguaggio pittorico, una tecnica declinata secondo le esigenze dei diversi committenti e una gamma di generi pittorici che dovette essere molto più ampia di quanto possiamo immaginare oggi, Artemisia ha dovuto aspettare oltre tre secoli per vedere riconosciuto dai posteri il suo status di Artista.
La mostra a Palazzo Braschi, nata da un’idea di Nicola Spinosa, ha il merito di offrire al pubblico una panoramica della parabola artistica e umana di Artemisia Gentileschi ben lontana dai pregiudizi che hanno limitato la giusta lettura della sua carriera. Con un corpus di 100 capolavori, frutto di prestigiosi prestiti italiani e internazionali, le opere di Artemisia dialogheranno in un serrato confronto con i suoi più grandi colleghi frequentati a Roma, Firenze, ancora Roma e infine a Napoli. Non a caso le sezioni che compongono il percorso espositivo sono connesse con le città in cui la pittrice fu attiva, a ripercorrere i periodi più salienti della sua esperienza: curata da Spinosa è la sezione napoletana, da Francesca Baldassari la sezione fiorentina, e da Judith Mann la sezione romana. Accanto a opere quali la Giuditta che taglia la testa a Oloferne del Museo di Capodimonte, Ester e Assuero del Metropolitan Museum di New York, l’Autoritratto come suonatrice di liuto del Wadsworth Atheneum di Hartford Connecticut, la mostra presenta quadri di GuidoCagnacci, Simon Vouet, Giovanni Baglione, fonte di vera ispirazione per la pittrice, ma anche la Giuditta di Cristofano Allori della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze o la Lucreziadi Simon Vouet a completare il percorso.
Palazzo Braschi
Situato nel cuore rinascimentale di Roma, tra Piazza Navona e Corso Vittorio Emanuele II, palazzo Braschi viene progettato dall’architetto imolese Cosimo Morelli (1732-1812) per incarico di Papa Pio VI (1775 – 1799) che vuol farne dono al nipote, Luigi Braschi Onesti.
Alla realizzazione dell’edificio si fa fronte con le ricchezze che il Pontefice fa affluire nelle casse del nipote Luigi, grazie all’attribuzione spregiudicata di numerosi privilegi. Palazzo Braschi rappresenta dunque una delle ultime testimonianze di nepotismo pontificio prima delle trasformazioni politiche e culturali indotte dalla Rivoluzione francese.
La costruzione del nuovo edificio inizia nel 1792 sulla stessa area del quattrocentesco palazzo Orsini, fatto demolire l’anno precedente. I lavori si interrompono per l’occupazione francese del 1798 (durante la quale papa Pio VI muore in esilio) e riprendono nel 1802. Già nel 1804 lo scalone monumentale è ultimato e forse anche la cappella del primo piano, attribuita a Giuseppe Valadier (1762-1839).
I problemi economici del duca Luigi Braschi Onesti non permettono di completare le decorazioni del palazzo che alla sua morte, nel 1816, rimangono parzialmente incompiute.
Nel 1871, gli eredi Braschi vendono il palazzo allo Stato Italiano,che lo utilizza inizialmente come sede del Ministero dell’Interno e, successivamente, come sede di varie istituzioni fasciste. Dopo la guerra (fino al 1949) vi alloggiano trecento famiglie di senzatetto e l’uso abituale di fuochi interni arreca gravi danni agli affreschi e ai pavimenti. Il palazzo viene anche fatto oggetto di numerose demolizioni e ruberie.
Dal 1952 è sede del Museo di Roma ma soltanto nel 1990 la proprietà del palazzo passa all’Amministrazione capitolina. Chiuso per inagibilità nel 1987, l’edificio viene sottoposto a complessi e ingenti lavori di ristrutturazione e restauro. Riapre al pubblico nel 2002, benché il recupero interno dei piani superiori non sia ancora ultimato. Nel 2017 si inaugura il nuovo allestimento, concepito come un itinerario tematico attraverso le sale del secondo e terzo piano. Il primo piano del museo è invece destinato a ospitare le mostre temporanee.
Simone Di Dato nasce a Napoli il 19/05/1989, grande appassionato di archeologia e di arte, dopo aver conseguito la maturità classica si iscrive alla facoltà di Storia dell’arte presso l’Università Federico II di Napoli.
Roma- 31 marzo 2017-All´interno della tenuta Acquafredda la presenza dell´uomo risale alla Preistoria. Molto probabilmente vi è stata la presenza degli Etruschi: si sta infatti studiando una grotta che, presumibilmente, è una tomba rupestre ipogea. La presunta tomba è scavata nel tufo ed è costituita da un camerone iniziale, sorretto da un grande pilastro di tufo, da cui parte un lungo corridoio, ai cui lati si aprono a coppia, in forma simmetrica, quattro cappelle laterali. I contadini l´hanno sempre chiamata la “grotta”, ma la struttura è quella di una tomba etrusca del VII secolo a.C.
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