Paolo Genovesi- Fotoreportage -Città di FOLIGNO (PG)-
Foligno (Fulginia, Fulginium o Fulginiae in latino, Fuligno’’in folignate) è un comune italiano di 56 918 abitanti in provincia di Perugia, in Umbria. Terza città della regione, si trova al centro della Valle Umbra. È attraversata dal fiume Topino.
C’è ancora domani, bisogna agire oggi- il film di Paola Cortellesi-
Il risveglio, uno sbadiglio e un “bello” schiaffo in faccia. Lei è Delia (Paola Cortellesi), lui Ivano (Valerio Mastandrea), i due protagonisti di C’è ancora domani, il primo lavoro dietro alla macchina da presa da Paola Cortellesi. Un film che ha riempito le sale (anche un giovedì sera, a Barge, cinema di provincia, Provincia di Cuneo, la coda era lunga e non tutto il pubblico è riuscito a entrare… buon segno) e che inizia con una scena di violenza gratuita e insensata. Comune e “normale” per l’epoca. Una Roma in bianco e nero, una Roma che esce a pezzi dalla Seconda Guerra mondiale; sta per iniziare il boom ma l’eco della borsa nera, le ferite del conflitto nella città e nelle anime delle persone sono ancora presenti e ben rappresentate da Cortellesi. Al centro una storia, che in realtà è soltanto uno dei mille esempi che potevano essere molto attuali in quell’Italia, e che ancora oggi rimangono purtroppo oggetto della cronaca nera e del dibattito politico.
La trama è chiara fin da subito, dalla prima scena. Quello che segue è un ritratto dell’Italia di quegli anni, fatta di uomini che lavorano, che hanno il completo e totale controllo sulla vita di moglie, figli e figlie; di povertà e di grandi sogni. C’è la figura centrale della figlia di Delia, Marcella, che vede le profonde ingiustizie subite quotidianamente dalla madre, che la spingono a ribellarsi, ma che poi rischia di ricadere lei stessa in quello che stava vivendo Delia.
C’è anche però un affresco sulla solidarietà che oggi rischia di perdersi, soprattutto nelle grandi città. Il cortile circondato dai palazzi è il luogo centrale della vita, dove ci si può rifugiare e dove si può trovare aiuto e sostegno, dove passa la vita, dove non si hanno segreti. C’è il mercato rionale dove Delia incontra la sua amica, a cui confida i segreti più intimi e dove trova riparo; c’è la presenza dei soldati americani, con i quali c’è una totale incomunicabilità dovuta alle lingue diverse, ma c’è anche comprensione e sostegno.
«Un film che tutti dovrebbero vedere, un film che dovrebbe essere proiettato in ogni scuola». Queste alcune delle frasi più significative che stanno circolando sul web, riguardo a C’è ancora domani. Non si può non essere d’accordo, anche perché il tema centrale attorno a cui si svolge il plot del film è quello su cui è necessario un importante e profondo intervento culturale, che ha mille rivoli e mille implicazioni e prevede una crescita collettiva. Passi avanti ne sono stati fatti, oggettivamente, ma la strada è ancora lunga. Nel film la violenza, escluso il primo schiaffo, è rappresentata con una scelta particolare: viene sempre celata, o meglio trasformata in una danza. Una scelta stilistica che forse ottiene ancora di più l’effetto voluto. Sta succedendo quella cosa, non la vediamo, ma tutti sappiamo.
Il secondo elemento portante è quello che sorprende alla fine della pellicola: chi non ha ancora visto il film potrebbe interrompere qui la lettura dell’articolo, per non rovinarsi la sorpresa… «Adesso l’ammazza»; «Ora fugge con il grande amore della sua vita». Questo è ciò che si potrebbe aspettare con le ultime sequenze… e invece Cortellesi fa una scelta, politica in tutti i sensi, diversa. Il suo percorso di emancipazione infatti inizia con un atto simbolico, quello del voto. Per la prima volta infatti, il 2 giugno 1946, le donne votano: in massa, l’89% delle aventi diritto. Una rivoluzione silenziosa, resa possibile da quello che c’è stato negli anni immediatamente precedenti. Questo sacrosanto diritto infatti è figlio dell’antifascismo, della guerra di Liberazione, dei partigiani e delle partigiane, che hanno accelerato un processo che non aveva mai trovato un terreno così fertile da poter attecchire in modo definitivo.
Articolo di Samuele Revel-30 novembre 2023
Foto da My Movies-Fonte Riforma / L’Eco delle Valli Valdesi-Agenzia stampa NEV – Notizie evangeliche
Marco SCATTAGLINI :”Questo progetto esplora la bellezza e armonia degli ambienti naturali, dal mare alle montagne, dalle forre ai boschi. Il titolo prende spunto da una frase di San Bernardo da Chiaravalle: “troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”. In effetti credo davvero che la Natura – a cominciare dall’elemento che meno sembra capace di interagire, cioè le rocce – possa farsi capire da noi, se soltanto ci mettiamo in ascolto.Il relativo libro, pubblicato da Officine Imago è disponibile esclusivamente per gli iscritti al Corso di fotografia in Bianco e Nero che tengo online”.
Paolo Genovesi-Fotoreportage in 91 foto Esplorazioni performance artistica presso il Macro Asilo di Roma —
Esplorazioni performance artistica presso il Macro Asilo di Roma: Alla ricerca dell’equilibrio tra corpo, mente e anima. Una performance artistica con Ivano Petrucci, Giada Lo Russo e Violetta Carpino Lilithpresso il Macro Asilo di Roma.
Una rappresentazione dinamica e interessante che ha espresso, nel suo svolgimento, il percorso della ricerca di equilibrio tra i vari aggregati (corpo mente e anima per dirla in termini buddhisti) che costituiscono la persona, esprimendo simbolicamente le alterne vicende del cammino, fatte di esaltazioni e cadute, di esperienze che colorano il vissuto di ciascuno…
-Comirias De Albroit e le Foto del settembre del 1928 –
Comirias De Albroit la critica alle foto di Eva Barret, Carlo Maselli di Torino, Helders di Vancuver, N.Y. Summona Vitrginia Wates, Erich Augenendt di Dortemud, Vernon di Londra,Francesco Agosti di Torino, P Dubreuil di Lilla ,pubblicate sulla Rivista :
“IL CORRIERE FOTOGRAFICO” numero di settembre 1928
Il Pittorialismo -scuola fotografica di Oscar Rejlander ed Henry Peach Robinson
Il Pittorialismo –
Oscar Rejlander ed Henry Peach Robinson vengono considerati come dei precursori di una scuola fotografica che conobbe il suo momento di massimo splendore tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che ricopre un ruolo di capitale importanza per lo sviluppo delle tecniche analogiche di post-produzione: il “Pittorialismo”. L’obiettivo dei fotografi pittorialisti era di elevare il mezzo fotografico alla stessa dignità artistica della pittura e della scultura. In quegli anni, infatti, la maggior parte degli artisti “visivi” considerava la fotografia come un mero strumento di riproduzione meccanica della realtà, sprovvista quindi di ogni dignità creativa. I Pittorialisti intendevano dimostrare che la produzione di un’immagine fotografica richiedeva abilità tecniche e senso estetico del tutto paragonabili a quelle di qualsiasi altra forma d’arte. I fotografi che parteciparono attivamente allo sviluppo e alla vita di questa corrente gravitavano intorno a due “club” fotografici, in qualche modo retti e indirizzati da due figure di straordinaria importanza: il “Photo-Club de Paris”, sorto per volere del pittore e fotografo francese Robert Demachy (1859-1936), e l’associazione americana “Photo-Secession”, che aveva il suo promotore nel grande Alfred Stieglitz (1864- 1946).
La “bambinaia fotografa” che è diventato un caso clamoroso emerso sulla scena dal nulla-
Le strade di New York e Chicago come un palcoscenico, l’autoritratto come via per trovare il proprio posto nel mondo, i dettagli di vita ritracciabili in un volto: è questa la poetica dello scatto che è uscita allo scoperto solo nel 2007, grazie a John Maloof, un giovane statunitense che, cercando del materiale su cui effettuare una ricerca sulla città di Chicago, trovò dentro una scatola acquistata all’asta il grande repertorio di negativi e rullini ancora da sviluppare di Vivian Maier.
Chi era Vivian Maier? Anche il suo “casuale scopritore” non lo seppe, ma nel corso di una ricerca attenta, Maloof ricostruì tessera dopo tessera la vita della fotografa statunitense classe 1926. Di lei scoprì che lavorò tutta la vita come tata, solo nel tempo libero si dedicava alla sua passione: la fotografia, la street photography. C’è chi addirittura accosta la figura della fotografa a Emily Dickinson, la poetessa che relegò in un cassetto le sue riflessioni e le sue opere, senza ricorrere mai alla pubblicazione.
In una foto la sua immagine si riflette da uno specchio all’altro. Quasi all’infinito. Un super selfie ante litteram, verrebbe da dire: lei, la sua Rolleiflex, un orologio e dei pacchi. C’è la sintesi di una vita in questo scatto senza tempo. Una vita che avrebbe dovuto restare segreta. Vissuta e finita lì. Invece il caso si ci è messo di mezzo e ha voluto che venisse fuori. Perché Vivian Maier, nata a New York il primo febbraio del 1926 e morta a Chicago il 21 aprile del 2009, è per l’anagrafe una bambinaia. Una bambinaia mezza francese (la mamma era di un piccolo paese delle Alpi, il papà di origine austro-ungarica lasciò la casa di famiglia quando Vivian aveva 4 anni) per le famiglie benestanti di New York e Chicago. Strana, misteriosa, per certi versi eccentrica, ma fondamentalmente riservata, se non invisibile. E così lei voleva restare.
Invece Vivian Maier è oggi Una fotografa ritrovata, come sintetizza efficacemente il titolo del libro che la celebra da alcuni mesi in Italia (di John Maloof, Contrasto, pagine 285, euro 39,00) e che accompagna – dopo una esposizione al Man di Nuoro – la mostra che apre domani a Milano al Forma Meravigli (fino al 31 gennaio 2016, tutti i giorni dalle 11 alle 20, giovedì dalle 12 alle 23) a cura di Anne Morin e Alessandra Mauro, con 120 fotografie in bianco e nero. Vivian Maier conservava i suoi 150mila scatti, 3mila stampe e filmati super 8 e 16 millimetri all’interno di un box di Chicago, insieme a tantissime cianfrusaglie, oggetti da collezione, pezzi di vita. Un “tesoro nascosto” che dopo anni di affitto non pagati venne stato confiscato, messo all’asta in diversi lotti e quindi “rivelato”. Nel 2007, i ricordi custoditi dalla bambinaia s’incontrarono con l’ansia del racconto e della scoperta di John Ma-loof, un giovane agente immobiliare che stava raccogliendo materiale su Chicago per coltivare il suo vero talento, la scrittura.
Il 26enne acquistò per 38 dollari il contenuto di un baule con trentamila negativi e vari oggetti da collezione, diventando poi il principale curatore del “lascito” della Maier. La curiosità fu forte. Cosa contenevano quelle pellicole? Quali facce avrebbero svelato? Quali luoghi avrebbero mostrato? Maloof ordinò minuziosamente ogni cosa come mostra il film-documentario distribuito in Italia da Feltrinelli Real Cinema – Alla ricerca di Vivian Maierdi Maloof con Charlie Siskel (sarà proiettato al Cinema Apollo a Milano, il 25 novembre alle 21.30) – e si metterà alla ricerca del misterioso autore. «Volevo sapere – racconta – chi si nascondeva dietro quel lavoro, ma avevo solo il nome di Vivian Maier: sarà una giornalista, una fotografa professionista? Così ho cercato su Google e ho trovato solo l’avviso della sua morte, pubblicato giusto qualche giorno prima. Ho recuperato un indirizzo tra le sue cose e dopo aver rintracciato il numero di telefono, ho chiamato e ho detto che ero in possesso dei negativi di Vivian Maier». La risposta fu sorprendente: «Era la mia bambinaia! ». «La sua bambinaia? E perché farebbe tutte queste fotografie? Ciò che quell’uomo mi ha detto di lei mi ha profondamente stupito: era una solitaria, non sapeva nulla della sua vita amorosa, della sua famiglia, dei suoi figli, ma era stata una madre per lui. Tutto questo ha stuzzicato la mia curiosità».
Il giallo si infittì, ma si aprì un mondo. Continuarono le ricerche, i pezzi del puzzle si composero lentamente uno dopo l’altro. E venne fuori la vita di Vivian Maier: una bambinaia, amorevole con i bimbi, con qualche mania, dei segreti, e una passione nascosta e solitaria per la fotografia. Talmente nascosta che mai ha pubblicato una foto e mai ha fatto vedere i suoi lavori a qualcuno. La tata nel suo giorno libero metteva la sua Rollei al collo e girava per le strade. Con uno sguardo curioso, a volte malinconico, altre ironico. Si soffermava sui piccoli dettagli, le scarpe buffe, la mise eccentrica, le imperfezioni; le persone, soprattutto bambini e anziani; i racconti di vita, quella che le scorreva davanti agli occhi per strada, la città e i suoi abitanti in un momento di cambiamento sociale e culturale. Ma c’era soprattutto lei, che spuntava da uno specchio, che si rifletteva su una vetrina, che s’intravedeva in un riflesso. Una donna in continua ricerca di identità, “giocando” con la sua Rolleiflex, una macchina che ha fatto la storia della fotografia mondia-le, con il caratteristico visore per l’inquadratura posto nella parte superiore. «Perfetta per chi vuole restare invisibile», fa notare il grande fotografato americano, Joel Meyerowitz, apprezzando i suoi lavori di street photography. È stata una vita non facile, quella della Maier.
Dopo che il padre lasciò casa, la madre, Maria Jaussaud, si rifugiò da un’amica francese, nel Bronx, una fotografa professionista che probabilmente accese la passione di Vivian sin da piccola. Maria fece poi ritorno in Francia, a Saint-Julien-en-Champsaur, portando con sé Vivian, fra il 1932 e 1938. Qui Vivian tornerà da sola, nel 1950, per reclamare l’eredità di una prozia: userà quel denaro per viaggiare e comprare la sua prima macchina fotografica. Eseguirà tante foto di paesaggi e ritratti degli abitanti della valle. E poi in giro per Cuba, Canada, California. Nel 1956 si trasferì definitivamente a Chicago dove lavorerà per la famiglia Gensburg per 17 anni. Nel bagno allestirà la camera oscura. Ma nei periodi di vacanza sarà sempre con la valigia verso l’Asia, nelle Filippine e India, in Medio Oriente e nell’Europa meridionale. Come se ci fossero due Vivian. La tata e la fotografa globetrotter. «Seppur scattate decenni or sono occhi – scrive lo scrittore e curatore Marvin Heifermann, nella prefazione al catalogo –, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita. Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi». La fotografia che ci ha regalato questa bellissima storia, destinata altrimenti a restare in un box di Chicago.Articolo di Giuseppe Matarazzo
Fotoreportage di Franco Leggeri-Associazione CORNELIA ANTIQUA
ROMA-Mausoleo Ossario Garibaldino, progettato dall’architetto Giovanni Jacobucci ed inaugurato nel 1941 per rendere omaggio ai morti per Roma nelle diverse campagne risorgimentali. In un frangente storico in cui permaneva in Italia l’istituto monarchico, il fascismo decise infatti di non limitare il ricordo ai caduti della Repubblica Romana ma di estenderlo ai partecipanti delle campagne del 1867 e del 1870. Nella cripta è sepolto il poeta Goffredo Mameli. Morto il 6 luglio del 1849, il corpo venne portato alla Chiesa delle Stimmate. Dopo la fine del potere temporale della Chiesa, la salma del patriota genovese fu traslata al Verano nel 1872, fino, appunto, alla realizzazione dell’imponente Mausoleo. Sulla tomba sono incise le parole della madre Adelaide Zoagli: “Però il mio dolore è profondo e lo tengo sacro, è tutto per me. Cerco di essere degna del figlio. E d’una italiana, me lo divinizzo, lo considero come un martire, e come tale non lo piango”.
Per informazioni più dettagliate sulla storia della Repubblica Romana si rimanda al sito dell’Associazione Amilcare Cipriani – Comitato Gianicolo, da oltre 20 anni impegnata nella valorizzazione dell’epopea del 1849, tramite iniziative culturali, pubblicazioni, visite guidate e cura dei pannelli esplicativi: www.comitatogianicolo.it
Articolo scritto da Marco Valerio Solia
-Il MAUSOLEO OSSARIO GARIBALDINO fu inaugurato nel 1941-
Nel Mausoleo si trova la Tomba di Goffredo Mameli e della garibaldina Colomba Antonetti Porzi– l’unica donna che è rappresentata con il mezzo busto, tra gli eroi garibaldini, nella Passeggiata del Gianicolo-
Di seguito voglio pubblicare (una piccolissima sintesi) la storia della morte della Contessina COLOMBA che fu raccontata anche da Garibaldi,dal Guerrazzi e dall’Orsini-
-La morte di Colomba-
Il tentativo di difesa a Porta San Pancrazio avvenne il 13 giugno del 1849 con la presenza del generale Garibaldi, un colpo di cannone francese aveva aperto una breccia sulle Mura Gianicolensi. Lì subito accorse Colomba che, insieme ad altri, si dette da fare per rattoppare la breccia, quando improvvisamente venne colpita da una palla di cannone. Ella, gravemente ferita, venne subito soccorsa dal marito ma, poco dopo spirò tra le sue braccia. La leggenda narra che prima di spirare l’eroina gridasse “Viva l’Italia”.
Della gloriosa fine di questa grande patriota ne parlò anche Giuseppe Garibaldi che nelle sue “Memorie” riferì: “La palla di cannone era andata a battere contro il muro e ricacciata indietro aveva spezzato le reni di un giovane soldato. ll giovane soldato posto nella barella aveva incrociato le mani, alzato gli occhi al cielo e reso l’ultimo respiro. Stavano per recarlo in ambulanza quando un ufficiale si era gettato sul cadavere e l’aveva coperto di baci. Quell’ufficiale era Porzi. Il giovane soldato era Colomba Antonietti, sua moglie, che lo aveva seguito a Velletri e combattuto al suo fianco”. La salma di Colomba venne sepolta nella Chiesa di San Carlo ai Catinari, nella Cappella di Santa Cecilia ed il rito funebre venne officiato dal cappellano don Ugo Bassi, e sulla bara venne poggiato un abito femminile tutto ricoperto di rose bianche. Nel 1941 le sue spoglie vennero traslate nell’ossario Garibaldino sul Gianicolo. Di questa splendida figura molte personalità tracciarono ammirati ritratti tra i quali il Guerrazzi, l’Orsini, ed anche Garibaldi, che così scrisse: “mi fece ricordare la mia povera Anita, la quale essa pure era sì tranquilla in mezzo al fuoco”.
Un’eredità permanente L’estesa opera omnia di Helmut Newton Abbracciando un periodo di più di cinquant’anni e coprendo una quantità di ambiti impareggiabile, la fotografia del visionario Helmut Newton (1920–2004) ha raggiunto milioni di persone grazie alla pubblicazione su riviste del calibro di Vogue e Elle. La sua opera ha trasceso i generi, portando eleganza, stile e voyerismo nella fotografia di moda e nel ritratto, configurandosi in un corpus che resta inimitabile e insuperato. La padronanza dell’arte della fotografia di moda raggiunta all’inizio della sua carriera, ha fatto sì che, nei suoi scatti, Newton andasse regolarmente oltre la pratica comune, sfumando i confini fra realtà e illusione e spesso infondendo in essi una vena di surrealismo o la suspense di un film di Alfred Hitchcock. Un’estetica pulita pervade ogni ambito del suo lavoro, in particolare la fotografia di moda, di nudo e i ritratti. Le donne occupano una posizione centrale e fra i suoi soggetti figurano Catherine Deneuve, Liz Taylor, e Charlotte Rampling. Superando gli approcci narrativi tradizionali, la fotografia di moda di Newton è permeata non solo da un’eleganza sfarzosa e una sottile seduzione, ma anche da riferimenti culturali e un sorprendente senso dell’umorismo. Negli anni ’90 Newton ha pubblicato le sue fotografie nelle edizioni tedesca, americana, italiana, francese e russa di Vogue, scattandole prevalentemente a Monte Caldo e nei dintorni, dove si era trasferito nel 1981. Era solito trasformare locali, come il suo garage, in veri e propri palcoscenici teatrali dai particolari fortemente contrastanti o decisamente minimalisti, e in queste ambientazioni insoliti ritraeva spesso le vite eccentriche di personaggi ricchi e belli in scatti traboccanti di erotismo ed eleganza. Usava, e allo stesso tempo metteva in discussione, cliché visivi, talvolta con autoironia o una certa dose di parodia, ma sempre mostrando empatia. Coniugava con estrema sobrietà nudità e moda, trasformando così il suo lavoro in una testimonianza e un’analisi dei cambiamenti nel ruolo della donna nella società occidentale. Helmut Newton. Legacy, pensato per accompagnare la mostra internazionale itinerante dei lavori di Helmut Newton, presenta le opere principali di uno dei corpus più pubblicati della storia della fotografia, unitamente a svariate immagini riscoperte di recente. Questo volume celebra l’intramontabile influenza sulla fotografia moderna e l’arte visiva di Helmut Newton, prolifico creatore di immagini e autentico visionario. “Sono un voyeur professionista.” — Helmut Newton Il fotografo: Helmut Newton (1920–2004) è stato uno dei fotografi più influenti di tutti i tempi. Raggiunse la fama internazionale negli anni ’70, quando lavorava principalmente per l’edizione francese di Vogue, dove si fece apprezzare per le ambientazioni controverse delle sue fotografie. La sua abilità più originale consisteva nel far sembrare spontanei e dinamici scatti che erano in realtà accuratamente pianificati. Fra i numerosi titoli e riconoscimenti che ottenne spicca quello di Commandeur de l’Ordre des Arts et des Lettres. Il curatore e autore: Matthias Harder ha studiato storia dell’arte, archeologia classica e filosofia a Kiel e Berlino. È un membro della German Society of Photography e membro del comitato consultivo dello European Month of Photography. Curatore capo della Helmut Newton Foundation di Berlino dal 2004 e suo direttore dal 2019, ha scritto numerosi contributi per svariati libri e cataloghi di mostre. L’autore: Philippe Garner è un esperto di fotografia del XX secolo, design e arte decorativa. Ha scritto numerosi saggi e libri, spaziando dagli studi delle vite del designer Émile Gallé e dei fotografi Cecil Beaton e John Cowan, al volume Sixties Design pubblicato da TASCHEN. Ex dirigente di Christie’s, ha curato anche alcune mostre per musei di Londra, Parigi e Tokyo. HELMUT NEWTON. LEGACY sarà in mostra alla Helmut Newton Foundation, Jebensstraße 2, 10623 Berlino dal 31 ottobre 2021 al 22 maggio 2022
-Fotoreportage di Franco Leggeri-associazione CORNELIA ANTIQUA
ROMA-Il cannone del Gianicolo.
In cima al colle (praticamente sotto la statua di Garibaldi) è posto dal 24 gennaio 1904 un cannone che spara, a salve, a mezzogiorno in punto. Lo sparo, nei rari giorni in cui la città è meno rumorosa (particolarmente la domenica, o d’agosto), si può sentire fino all’Esquilino.
La cannonata a salve di mezzogiorno fu introdotta da Pio IX nel 1847, per dare uno standard alle campane delle chiese di Roma, in modo che non suonassero ognuna il mezzogiorno del proprio sagrestano. Il cannone era allora in Castel Sant’Angelo, da dove venne spostato nel 1903 a Monte Mario, per qualche mese, per essere poi posizionato al Gianicolo nella sua collocazione attuale.
L’uso non fu interrotto dall’Unità d’Italia, ma dalla guerra sì. Fu ripristinato il 21 aprile 1959, in occasione del 2712º anniversario della fondazione di Roma.
Attualmente il cannone è un obice 105/22 Mod. 14/61, servito da personale dell’Esercito Italiano.
Nota copiata da Internet. Le foto sono del febbraio 2017-
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