Roma- Medina Art Gallery presenta la mostra personale di Maria Grazia Emiliani- “Sguardi nel deserto”
ROMA-Dal 27 settembre al 3 ottobre 2024 Medina Art Gallery presenta la mostra personale di Maria Grazia Emiliani, “Sguardi nel deserto”, testo curatoriale e presentazione a cura di Matilde Spedicati, presso la galleria di via Merulana, 220. L’evento di opening si terrà il giorno venerdì 27 settembre 2024 alle ore 18:00 presso la galleria di via Merulana, 220 con la presentazione di Matilde Spedicati
Rosso è passione, calore, pericolo, vita, rabbia. Per Maria Grazia Emiliani, rosso è Africa, un desiderio nato dalla lettura di “Sognavo l’Africa” di Kuki Gallmann. Emiliani, diplomatasi all’Accademia di Belle Arti e, in seguito, all’Istituto di Arti Ornamentali di Roma, coltiva la sua passione per l’arte anche durante la sua carriera al Senato. In pensione, decide di vivere il suo sogno africano, come Karen Blixen, e nel 2014 si reca a Mambrui, Kenya, per un mese, prestando assistenza in un orfanotrofio.
L’arte di Emiliani ci parla della sua esperienza africana. Le sue opere riflettono a pieno le contraddizioni di questa Terra: magnificenza, vita, amore, ma anche dramma, violenza, ignoto, quindi pericolo. I suoi dipinti, istantanee di memoria, mostrano paesaggi e volti che riflettono la natura catartica dell’Africa, capace di evocare emozioni profonde e primitive. Emiliani si allontana da quell’immaginario proprio dell’arte visiva coloniale, euro-centrica, mettendo in scena un’Africa personale, fatta di paesaggi onirici, come anche di legami, simboli, costumi –espressioni di una civiltà. Questa sua fase artistica, piuttosto libera da vincoli accademici, riflette uno sguardo primitivo, intriso di lirismo, che indaga la realtà, alla ricerca di un senso, nella consapevolezza delle molteplici sfaccettature della vita su questa Terra, proprio come la sua espressione artistica.
La mostra itinerante di Emiliani rappresenta un viaggio senza fine, dove ogni quadro è una rivelazione costante. La tela diventa metafora della vita, e l’arte di Emiliani immerge l’osservatore nell’immaginario di un’Africa desiderata, vissuta e combattuta, invitandolo, al contempo, a porsi in discussione, riflettendo sul significato degli sguardi indagati.
Informazioni, orari e prezzi
Titolo Mostra: “Sguardi nel deserto”
Opening Mostra: venerdì 27 settembre h 18
Durata Mostra: dal 27 settembre al 3 ottobre, 2024
Luogo: Medina Art Gallery/ Via Merulana, 220
Contatti Medina Art Gallery:
Email: info@medinaroma.com -Tel. +39 06 960 30 764
Social: facebook.com / medinaroma.arte / Instagram.com / medinaroma.arte
Website: https://www.medinaroma.com
Orario di apertura: Dal lunedì al venerdì 10:00-13:00 e 15:00-19:00
Decrizione del libro di Peter Lindbergh-Editore Taschen-With such credits as the Calvin Klein Eternity campaigns, shooting the first Vogue cover under Editor-in-Chief Anna Wintour, and helping to catapult the ’90s supermodels to mega fortune and fame, Peter Lindbergh has emblazoned his name into the halls of fashion history. The industry quickly became enamored with his almost anti-fashion fashion photography, capturing the spirit of his subjects rather than highlighting impossible ideals. In this book, the influential Lindbergh works to redefine beauty standards with awe-inspiring, never-before-seen images taken at his iconic Pirelli shoot. Beautiful women with beautiful minds are portrayed simply, accessibly, and in breathtaking fashion—unapologetic pores, fine lines, freckles, and all. The only photographer granted permission to shoot the calendar more than twice, Lindbergh leverages the marketing tool as an opportunity to communicate the zeitgeist. In lieu of opting for a traditional nudity-focused aesthetic and flawless supermodel lineup, he casts 14 Hollywood actresses (including 11 Oscar winners) instead. The message? True beauty isn’t perfect; it’s rooted in interest, intelligence, and emotional appeal. The photographer: Peter Lindbergh was born in Lissa, Germany, in 1944. His celebrated work is part of many permanent collections of fine art museums and has been presented in prestigious museums and galleries around the world, from the Victoria & Albert Museum in London to Centre Pompidou in Paris, as well as in solo exhibitions at Hamburger Bahnhof, Museum für Gegenwart, Berlin; Bunkamura Museum of Art, Tokyo; and the Pushkin Museum of Fine Arts, Moscow. Lindbergh lives and works between Paris, New York, and Arles.
Giovanni Gastel:<<Con la fotografia guadagno, con la poesia mi racconto.>>
Affermazione di Giovanni Gastel (Milano, 1955 – Milano, 2021), fotografo di fama internazionale e poeta, tratta da un’intervista al magazine K Mag.
Scomparso a causa del Covid 19 all’età di 65 anni, l’artista milanese è stato soprattutto un celebre fotografo di Moda, autore in Italia, Francia, Regno Unito e Spagna delle campagne promozionali dei principali stilisti europei.
Apparteneva ad una famiglia dell’alta borghesia meneghina che annoverava altri importanti geni dell’immagine, come lo zio Luchino Visconti, fratello di sua madre, uno dei maggiori registi del Cinema italiano.
Gastel si è dedicato anche al ritratto, coronando nel 2020 la sua prestigiosa carriera con una mostra al museo Maxxi di Roma di 200 foto di VIP mondiali, tra cui Barack Obama.
Non rinunciò mai, però, a coltivare la sua passione per la scrittura. A soli sedici anni pubblicò la sua prima raccolta di versi per l’editore Cortina, dal titolo ‘Casbah’, mentre l’ultima silloge risale al 2009 e si chiama ‘Cinquanta’.
“Avrei fatto il poeta -confidava ad Arts Life- se non avessi incontrato questo amore folgorante per la fotografia.”
Risuona nella sua poesia lirica ed intimista, dal dettato volutamente sobrio ed accessibile, l’eco di una vita eccezionale, illuminata dal talento e dal senso estetico, ma purtroppo stroncata precocemente dal virus pandemico il 13 marzo di tre anni fa.
“Fotografia e Poesia -spiegava- sono due mondi separati. Con le immagini racconto il mondo come vorrei che fosse. Le mie poesie invece sono uno strumento di dialogo, non una ‘pippa’ per me stesso. Non scrivo in modo roboante! Io scrivo della vita semplice e che tutti possono capire.”
Poesie di Giovanni Gastel
OMBRA
(Giovanni Gastel)
Ombra che conforti
scendi con la sera
su questo mio corpo stanco
parlami dell’altra vita che verrà
o del nulla che mi aspetta
quando finirà questa battaglia dentro di me.
Paura e pace si abbracciano in ogni addio.
SE NON FOSSE
Se non fosse per questa splendida
giornata di pioggia incessante.
Un abbraccio d’acqua.
Un battesimo del
cielo.
Un lavacro del corpo
e dell’anima insieme.
Se non fosse per il ricordo nitido
che questa pioggia mi porta
del tuo impermeabile nero stretto in vita
mentre mi guardi con amore,
cosa sarei se non un altro vecchio
appoggiato al tempo che finisce.
RICORDO
Ricordo un piccolo cane
disteso sull’erba tra noi due.
Era il momento dei pensieri profondi
e delle paure.
Era il tempo difficile dell’adolescenza.
Non ricordo
come vorrebbero da me i poeti illuminati
“Un uggioso divenire di rugiade cedevoli
e neppure cieli rovinosi di arcane memorie”.
Ricordo solo un prato fresco
e due giovani anime distese
e un piccolo cane addormentato.
E il futuro che ci guardava con dolcezza
sotto forma di nuvola immobile
sopra di noi.
Giovanni Gastel, one of the greatest fashion and entertainment photographers
Giovanni Gastel, one of Italy’s greatest fashion and entertainment photographers, passed away today at Milan’s Fiera Hospital at the age of 65. He had been hospitalized for a Covid-19 infection. He was born in Milan on December 27, 1955, to Giuseppe Gastel and Ida Visconti di Modrone (he was a grandson of Luchino Visconti on his mother’s side), and was the last of seven children. He had begun working in the world of photography in the 1970s, when he was very young: instead, his arrival to professionalism dates back to the early 1980s, when he began working first for Annabella and then for fashion magazines such as Vogue, Elle and Vanity Fair, and for fashion brands such as Christian Dior, Gianni Versace, Trussardi, Krizia, and Ferragamo.
Gastel’s forays into the artistic field are also several, which can be said to have officially opened in 1997 with an exhibition of his work at the Milan Triennale, curated by Germano Celant. In the 2000s, the Milanese photographer delved into the genre of portraits, and with his camera he captured personalities such as Barack Obama, Ettore Sottsass, Marco Pannella, Roberto Bolle, Gianna Nannini and many other well-known faces from the world of entertainment. In 2020, a major exhibition of his had been held at MAXXI in Rome with more than 200 portraits from the world of culture, design, art, music, politics, and entertainment.
“Covid has also snatched Giovanni Gastel from us,” said Cultural Heritage Minister Dario Franceschini. “Italian photography loses a great protagonist loved and esteemed all over the world. An original, graceful artist with a profound aesthetic sense who, with his shots, was able to portray and capture the intimacy of the great personalities of fashion and international culture. Only a few months ago I had the honor of visiting with him his last beautiful exhibition at MAXXI that documented an important part of his work as an artist in over forty years of activity. We will miss his art and his intelligence.”
Libero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTI
Articolo di Ugo OJETTI scritto per la Rivista PAN n°6 del 1934
Biografia di Libero Andreotti nacque a Pescia il 15 giugno 1875.Dagli otto ai diciassette anni lavorò nell’officina di un fabbro, frequentando un corso per il conseguimento del diploma di maestro elementare.
A Lucca incontrò Alfredo Caselli e Giovanni Pascoli stimolano i suoi interessi artistici e culturali.
Nel frattempo lo zio Ferruccio Orsi gli trovò un impiego presso la Libreria Sandron di Palermo; qui lo assunse il Principe Tasca di Cutò come redattore e illustratore del settimanale La battaglia.
Nel 1899 si recò a Firenze dove iniziò l’attività di caricaturista, illustratore e pittore. Strinse amicizia con Enrico Sacchetti che gli dedicò il libro Vita d’artista e con lo scultore Mario Galli nel cui studio iniziò a modellare piccole statuine colorate.
Trasferitosi a Milano si occupò di scultura, catturando l’attenzione del noto pittore Vittore Grubicy che iniziò ad occuparsi della sua carriera.
Nel 1905 espose per la prima volta alla Biennale di Venezia e due anni dopo si stabilì a Parigi; qui presentò una quarantina di dipinti alla mostra sui divisionisti italiani organizzata dallo stesso Grubicy nella Serre de l’Alma.
Nel 1911 si tenne la sua prima grande mostra alla Galerie Bernheim Jeune, dove espose 51 opere. Tre anni più tardi, con lo scoppio della guerra, decise di tornare a Firenze dove strinse una grande amicizia con Ugo Ojetti che lo introdusse nei maggiori centri artistici del Nord Italia.
Molte delle opere eseguite tra il 1914 e il ’21 furono acquistate da Ojetti che nel 1920 gli dedicò un importante saggio su “Dedalo”.
Nel 1923 sposò Margherita Carpi. L’anno successivo eseguì il monumento ai caduti di Saronno, in maggio vinse il concorso per il monumento alla Madre italiana per la chiesa di Santa Croce a Firenze.
Con Carena e Alberto Magnelli, nel 1929 dette vita a Firenze ai “mercoledì dell’antico Fattore”, dal nome della trattoria punto di ritrovo di artisti, letterati e musicisti.L’anno seguente istituì il premio letterario dell’Antico Fattore.Libero Andreotti morì improvvisamente il 4 aprile 1934
Biografia-UGO OJETTI
Biografia di Ugo Ojetti –
Ugo Ojetti,Figlio della spoletina Veronica Carosi e del noto architetto Raffaello Ojetti, personalità di vastissima cultura, consegue la laurea in giurisprudenza e, insieme, esordisce come poeta (Paesaggi, 1892). È attratto dalla carriera diplomatica, ma si realizza professionalmente nel giornalismo politico. Nel 1894 stringe rapporti con il quotidiano nazionalista La Tribuna, per il quale scrive i suoi primi servizi da inviato estero, dall’Egitto.
Nel 1895 diventa immediatamente famoso con il suo primo libro, Alla scoperta dei letterati, serie di ritratti di scrittori celebri dell’epoca[1] redatti in forma di interviste, genere all’epoca ancora in stato embrionale. Scritto con uno stile che si pone fra la critica ed il reportage, il testo viene considerato, e come tale fa discutere, un momento di analisi profonda del movimento letterario dell’epoca. L’anno seguente Ojetti tiene a Venezia la conferenza “L’avvenire della letteratura in Italia”, che suscita un vasto numero di commenti in tutto il Paese.
I suoi articoli diventano molto richiesti: scrive per Il Marzocco (1896-1899), Il Giornale di Roma, Fanfulla della domenica e La Stampa. La critica d’arte occupa la maggior parte della sua produzione. Nel 1898 inizia la collaborazione con il Corriere della Sera, che si protrae fino alla morte.[2]
Tra il 1901 e il 1902 è inviato a Parigi per il Giornale d’Italia; dal 1904 al 1909 collabora a L’Illustrazione Italiana: tiene una rubrica intitolata “Accanto alla vita”, che poi rinomina “I capricci del conte Ottavio” (“conte Ottavio” è lo pseudonimo con cui firma i suoi pezzi sul settimanale). Nel 1905 si sposa con Fernanda Gobba e prende domicilio a Firenze; dal matrimonio tre anni dopo nasce la figlia Paola. Dal 1914 abiterà stabilmente nella vicina Fiesole. Invece trova nella villa paterna di Santa Marinella (Roma), soprannominata “Il Dado”, il luogo ideale in cui riposarsi, trascorrere le sue vacanze e scrivere le sue opere.
Partecipa come volontario alla prima guerra mondiale. All’inizio della guerra riceve l’incarico specifico di proteggere dai bombardamenti aerei le opere d’arte di Venezia. Nel marzo 1918 fu nominato “Regio Commissario per la propaganda sul nemico”. Fu incaricato di scrivere il testo del volantino, stampato in 350 000 copie in italiano e in tedesco, che fu lanciato il 9 agosto, dai cieli di Vienna dalla squadriglia comandata da Gabriele D’Annunzio.[3]
Nel 1920 fonda la sua rivista d’arte, Dedalo (Milano, 1920-1933), dove si occupa di storia dell’arte antica e moderna. Dall’impostazione della rivista dimostra una sensibilità e un modo di accostarsi all’arte e di divulgarla diversi dai canoni del tempo. La rivista diventa subito occasione d’incontro tra critici, intellettuali, artisti come Bernard Berenson, Matteo Marangoni, Piero Jahier, Antonio Maraini, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Pietro Toesca, Lionello Venturi e Roberto Longhi. L’idea di base della rivista è che l’opera d’arte abbia valore di testimonianza visibile della storia e delle civiltà più di ogni altra fonte. Nel 1921 avvia una rubrica sul Corriere utilizzando lo pseudonimo “Tantalo”. Tiene la rubrica ininterrottamente fino al 1939.
Sul finire del decennio inaugura una nuova rivista, Pegaso (Firenze, 1929-1933). Infine, lancia la rivista letteraria Pan, fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina. Tra il 1925 e il 1926 collabora anche a La Fiera Letteraria. Tra il 1926 ed il 1927 è direttore del Corriere della Sera.
È tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925 ed è nominato Accademico d’Italia nel 1930. Fa parte fino al 1933 del consiglio d’amministrazione dell’Enciclopedia Italiana. Ojetti organizza numerose mostre d’arte e dà vita ad importanti iniziative editoriali, come Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi per l’editrice Treves e I Classici italiani per la Rizzoli. Sul significato dell’architettura nelle arti ebbe a dire:
«l’architettura è nata per essere fondamento, guida, giustificazione e controllo, ideale e pratico, d’ogni altra arte figurativa»
La finestra di Ojetti a villa Il Salviatino con una targa che lo ricorda
Collaborò anche con il cinema: nel 1939 firmò l’adattamento per la prima edizione sonora de I promessi sposi, che costituì la base della sceneggiatura per il film del 1941 di Mario Camerini.
Aderì alla Repubblica Sociale Italiana[4]; dopo la liberazione di Roma, nel 1944, fu radiato dall’Ordine dei giornalisti. Passò gli ultimi anni nella sua villa Il Salviatino, a Fiesole, dove morì nel 1946.
Antonio Gramsci scrisse che « la codardia intellettuale dell’uomo supera ogni misura normale ». Indro Montanelli lo ricordò sul: « È un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono. Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell’Avanti! e del primo Popolo d’Italia, per l’editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l’articolo di arte e di cultura ».
Opere
Letteratura
Paesaggi (1892)
Alla scoperta dei letterati: colloquii con Carducci, Panzacchi, Fogazzaro, Lioy, Verga (Milano, 1895); ristampa xerografica, a cura di Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1967.
Scrittori che si confessano (1926),
Ad Atene per Ugo Foscolo. Discorso pronunciato ad Atene per il centenario della morte, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928.
Profondo conoscitore ed appassionato studioso d’arte, Ugo Ojetti ha pubblicato sull’argomento diversi importanti libri:
L’esposizione di Milano (1906),
Ritratti d’artisti italiani (in due volumi, 1911 e 1923),
Il martirio dei monumenti, 1918
I nani tra le colonne, Milano, Fratelli Treves Editori, 1920
Raffaello e altre leggi (1921),
La pittura italiana del Seicento e del Settecento (1924),
Il ritratto italiano dal 1500 al 1800 (1927),
Tintoretto, Canova, Fattori (1928),
Atlante di storia dell’arte italiana, con Luigi Dami (due volumi, 1925 e 1934),
Paolo Veronese, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928,
La pittura italiana dell’Ottocento (1929),
Bello e brutto, Milano, Treves, 1930
Ottocento, Novecento e via dicendo (Mondadori, 1936),
Più vivi dei vivi (Mondadori, 1938).
In Italia, l’arte ha da essere italiana?, Milano, Mondadori, 1942.
Romanzi
L’onesta viltà (Roma, 1897),
Il vecchio, Milano, 1898
Il gioco dell’amore, Milano, 1899
Le vie del peccato (Baldini e Castoldi, Milano, 1902),
Il cavallo di Troia, 1904
Mimì e la gloria (Treves, 1908),
Mio figlio ferroviere (Treves, 1922).
Racconti
Senza Dio, 1894
Mimì e la gloria, 1908
Donne, uomini e burattini, Milano, Treves, 1912
L’amore e suo figlio, Milano, Treves, 1913
Teatro
Un Garofano (1902)
U. Ojetti-Renato Simoni, Il matrimonio di Casanova: commedia in quattro atti (1910)
Reportages
L’America vittoriosa (Treves, 1899),
L’Albania (Treves, 1902); nuova edizione, con cartina originale “La Grande Albania”, in Ugo Ojetti, Olimpia Gargano (a cura di), L’Albania, Milano, Ledizioni, 2017.
L’America e l’avvenire (1905).
Raccolte di articoli
Articoli scritti fra il 1904 e il 1908 per L’Illustrazione Italiana: I capricci del conte Ottavio (due voll., usciti rispettivamente nel 1908 e nel 1910)
Articoli per il Corriere della Sera: Cose viste (7 voll.: I. 1921-1927; II. 1928-1943). L’opera è stata anche tradotta in lingua inglese.
Memorie e taccuini
Confidenze di pazzi e savi sui tempi che corrono, Milano, Treves, 1921.
Vita vissuta, a cura di Arturo Stanghellini, Milano, Mondadori, 1942.
I Taccuini 1914-1943, a cura di Fernanda e Paola Ojetti, Firenze, Sansoni, 1954. [edizione censurata, con molti passi espunti]
Ricordi di un ragazzo romano. Note di un viaggio fra la vita e la morte, Milano, 1958.
I taccuini (1914-1943), a cura di Luigi Mascheroni, prefazione di Bruno Pischedda, Torino, Aragno, 2019, ISBN 978-88-841-9989-8.
Aforismi
Ojetti è celebre anche per i suoi aforismi, massime e pensieri, molti dei quali sono raccolti nei 352 paragrafi di Sessanta, volumetto scritto dall’autore nel 1931 per i suoi sessant’anni e pubblicato nel 1937 da Mondadori.
Lettere
Venti lettere, Milano, Treves, 1931.
Lettere alla moglie (1915-1919), a cura di Fernanda Ojetti, Firenze, Sansoni, 1964.
Intitolazioni
Presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi si è tenuta una mostra dedicata alle fotografia scattate per la rivista e che costituiscono il Fondo Ojetti.[7]
Bill Cunningham, il «padre» della street photograph
Bill Cunningham, il fotografo di moda che immortalava le persone in strada.In bici, vestito sempre con la giacca blu, i pantaloni chiari e le scarpe con la suola di gomma. Era il maestro dello street style. Rifiutò l’assunzione al «New York Times» finché un furgone lo mandò in ospedale (senza assicurazione).
Anna Wintour gli ha fatto il complimento più bello, «ci vestiamo tutte per Bill», ma sarebbe sbagliato ridurre la carriera di Bill Cunningham, morto a New York all’età di 87 anni per un ictus, a quella di fotografo di personaggi famosi. Cunningham fece per mezzo secolo nelle strade di New York esattamente quello che faceva alle sfilate, o alle feste del falò delle vanità di Manhattan: fotografare la società, attraverso i vestiti. Non solo quella dei ricchi: la vita di tutti.
Il mondo come passerella
Per Cunningham, bostoniano trapiantato a New York dopo un’infelicissima esperienza a Harvard la prima carriera fu sì nella moda, ma come cappellaio per signore dell’Upper East Side. Capì all’alba degli anni 60 che presto nessuna avrebbe più portato cappelli e che con la fotografia avrebbe potuto raccontare una storia più bella: il mondo come passerella. Solo i bambini, quando giocano, hanno sulle labbra lo stesso sorriso che aveva Cunningham al lavoro: facendo gimkane in bici tra i camion di Midtown seguiva la preda, vestito sempre in giacca blu da netturbino di Parigi, pantaloni khaki, scarpe nere con la suola di gomma.
La vita monacale nello sgabuzzino fra i suoi negativi
Fece vita monacale dormendo per sessant’anni su una specie di barella in uno sgabuzzino che ospitava l’archivio dei suoi negativi, con il bagno sul corridoio. Rifiutò per decenni l’assunzione al New York Times, del quale era collaboratore fisso, avere un padrone gli faceva orrore: si rassegnò a cedere alle avances del giornale nel 1994, quando non riuscì a schivare l’ennesimo furgone e finì all’ospedale senza assicurazione. Gli ultimi anni furono quelli dei premi come il titolo di Chevalier dans l’ordre des Arts et des Lettres, ritirato a Parigi. Gli dedicarono un bel documentario e lui non andò in sala, la sera della prima, perché doveva fotografare gli invitati sul tappeto rosso.
«La libertà non ha prezzo»
E poi la mostra al Metropolitan alla quale rispose «no grazie» e le campagne ricchissime che avrebbe potuto scattare per gli stilisti che non prese mai in considerazione, «i soldi sono facili ma la libertà non ha prezzo». Venne considerato il padre nobile dei fotografi di street style che affollano Internet ma lui scattò fino a qualche anno fa solo su pellicola e paragonarlo, come artista, a quei blogger è come paragonare Basquiat a un graffitaro che spruzza un «tag» su una saracinesca.
-I colori e le bacche nell’autunno della Campagna Romana-
-Fotoreportage di Franco Leggeri-
Roma Municipio XIII-Fotoreportage di Franco Leggeri-L’autunno è magico, le atmosfere diventano più rarefatte e i colori caldi ritornano a sorprenderci con mille sfumature di giallo. Dai cespugli ricoperti di bacche, scopriamo i colori tenui e la poesia di questa sinfonia di bellezza. Gli alberi , assieme agli arbusti, con le loro cortecce e le loro cromie, contribuiscono a creare quell’atmosfera fiabesca, romantica e sorprendente che delizia gli amanti dell’autunno.
Con la locuzione Campagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino. Storia-Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
In occasione dei 110 anni dalla nascita di Robert Capa (22 ottobre 1913) rendiamo omaggio al grande fotografo ungherese con una mostra personale che ripercorre i principali reportage di guerra e di viaggio che Capa realizzò durante vent’anni di carriera, anni che coincisero con i momenti cruciali della storia del Novecento.
Realizzata grazie alla collaborazione con l’agenzia Magnum Photos, la mostra riunisce un eccezionale corpus di fotografie: oltre 80 stampe originali, alcune delle quali mai esposte prima in una mostra italiana, accompagnate da una rara intervista rilasciata dal fotoreporter a una radio americana nel 1947 e da alcuni documenti d’epoca provenienti dalla collezione di Magnum.
Attraverso sette sezioni e con un percorso diacronico vengono raccontati i più importanti reportage in bianco e nero realizzati da Robert Capa, dagli esordi a Berlino e Parigi (1932-1936) alla guerra civile spagnola (1936-1939); dall’invasione giapponese in Cina (1938) alla seconda guerra mondiale (1941-1945); dal reportage di viaggio in Unione Sovietica (1947) a quello sulla nascita di Israele (1948-1950), fino all’ultimo incarico come fotografo di guerra in Indocina (1954).
Nei suoi vent’anni di carriera ha raccontato la storia restando sempre fedele al suo celebre aforisma: “se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”.
L’azione – con tutta la sua dinamicità e forza propulsiva – spicca tra gli scatti come un fil rouge, che si dipana anche nei ritratti presenti in mostra, volutamente pochi e scelti per ricordare al pubblico i volti della Storia – come quello di Trockij ardente oratore – o della sua storia personale, come quello di Picasso, fotografato nel suo studio di Parigi dove era rimasto anche durante l’occupazione, e dell’amico Steinbeck con cui intraprese il viaggio oltre la cortina di ferro, nel ’47.
Il fascino della fotografa Vivian Maier è dovuto al mistero che circonda la sua vita e il suo lavoro. La vicenda di Vivian Maier, la misteriosa bambinaia fotografa diventata un caso mediatico poco dopo la sua morte, è nota solo a grandi linee, così come nota è solo una piccola selezione delle sue immagini e una manciata di informazioni sulla sua vita“Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è la raccolta più completa delle sue fotografie, in bianco e nero e a colori. Grazie al testo introduttivo di Marvin Heiferman, scrittore e curatore, il volume esplora e celebra la vita e l’opera di Vivian Maier in una prospettiva precisa e attuale, analizzando il suo lavoro nel contesto della Street photography americana contemporanea. Basato anche su una serie di interviste a persone che la conobbero, il testo getta una nuova luce sulla vita e sulla sorprendente opera di Vivian Maier. Con 240 fotografie in gran parte inedite, questa raccolta include anche le immagini degli effetti personali della fotografa, così come gli oggetti collezionati nella sua vita e mai prima d’ora visti.
La vita di Vivian Maier è stata ricostruita in particolare da John Maloof che ha cercato testimonianze della sua vita negli Stati Uniti, specialmente tra le famiglie presso le quali ha vissuto. La parte francese della sua biografia è stata ricostruita grazie al lavoro dell’associazione Vivian Maier et le Champsaur[1] che ha cercato testimoni nel Champsaur, la valle d’origine della sua famiglia materna nelle Alte Alpi.
Vivian Maier nacque a New York, il 1º febbraio 1926. Suo padre, Charles Maier, era statunitense, nato da una famiglia di emigranti austriaca, mentre sua madre, Maria Jaussaud, era nata in Francia, nel maggio 1897, a Saint-Julien-en-Champsaur in cui visse fino alla sua partenza in America, dove un ramo della famiglia Jaussaud era già emigrata. A New York, Maria conobbe Charles Maier, impiegato in una drogheria, che sposò nel maggio 1919 ottenendo, attraverso il matrimonio, la cittadinanza degli Stati Uniti. Da questa unione nacquero due figli: prima un maschio, William Charles, nel 1920, e poi, nel 1926, una figlia, Vivian.
Separatisi i genitori nel 1929, il ragazzo fu affidato ai nonni paterni e Vivian rimase con la madre, che trovò poi rifugio presso un’amica francese che viveva nel Bronx, di nome Jeanne Bertrand, nata nel 1880 non lontano dalla valle di Champsaur. Jeanne Bertrand era già una fotografa professionista, tanto che ebbe gli onori della prima pagina del 23 agosto 1902 del Boston Globe, il principale giornale di Boston, che pubblicò una sua foto e due ritratti fatti da lei, insieme ad un articolo elogiativo sul suo giovane talento fotografico. Fu lei che trasmise a Maria e a sua figlia la passione per la fotografia.
Grazie alle testimonianze raccolte dai residenti in Champsaur, il sito dell’associazione locale riporta che tra il 1932 e il 1933, le due donne e Vivian tornarono in Francia e si stabilirono prima a Saint-Julien, poi a Saint-Bonnet-en-Champsaur. Parte dell’infanzia di Vivian si svolse quindi in Francia, dai sei-sette anni fino ai dodici. In quel periodo, Vivian parla francese e gioca con i bambini della sua età mentre Maria, sua madre, scatta alcune fotografie che testimoniano del loro soggiorno.
Il 1º agosto 1938 Maria Maier e sua figlia ripartirono per gli Stati Uniti a bordo del transatlantico Normandie, che collegava Le Havre a New York, dove di nuovo si stabilirono. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1950-1951, Vivian Maier, all’età di 24-25 anni, tornò a Champsaur per mettere all’asta una proprietà che le era stata lasciata in eredità. In attesa della vendita, Vivian, con due apparecchi fotografici a tracolla, percorse la regione, facendo visita ai membri della sua famiglia e riprendendo molte immagini.
La giovane donna ripartì nell’aprile del 1951 per New York. Con il ricavato della vendita della casa, comprò una fotocamera eccellente, una Rolleiflex professionale, e viaggiò nel Nordamerica. In seguito lavorò come bambinaia al servizio di una famiglia di Southampton, prima di stabilirsi definitivamente nel 1956 a Chicago, dove continuò a fare la governante per bambini.
Vivian Maier aveva 30 anni al suo arrivo a Chicago, dove fu assunta dai coniugi Nancy e Avron Gensburg per prendersi cura dei loro tre ragazzi: John, Lane e Matthew. Secondo Nancy Gensburg, Vivian non prediligeva fare la bambinaia, ma, non sapendo che altro fare, quello fu il mestiere che esercitò per quarant’anni. I bambini, peraltro, l’adoravano: per Lane Gensburg, Vivian “era come Mary Poppins“.
Presso i Gensburg Maier aveva un bagno privato, che le servì anche come camera oscura, avendola lei attrezzata per sviluppare i negativi e i suoi film. La fotografa diede libero sfogo alla sua passione per la fotografia allorché, ad ogni occasione, poté immortalare la vita quotidiana nelle strade con i suoi abitanti, bambini, lavoratori, persone di buona società e personaggi famosi come pure miserabili, mendicanti ed emarginati. Mentre era ancora al servizio dei Gensburg, che ricorsero ad una temporanea sostituita, Vivian intraprese, da sola, per 6 mesi, tra il 1959 e il 1960, un viaggio intorno al mondo, visitando le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia dove sostò a Genova e a Torino e infine la Francia con un ultimo soggiorno a Champsaur girando in bicicletta per tutto il circondario e scattando molte foto. Non disse mai ai Gensburg dove fosse stata, benché fosse molto legata a questa famiglia che conobbe fin dal suo arrivo a Chicago e con cui visse per 17 anni. Diventati grandi John, Lane e Matthew, i Gensburg non ebbero più bisogno di una tata e Vivian Maier li lasciò per continuare la sua attività presso altre famiglie con bambini piccoli. Da quel momento smise di sviluppare e di elaborare i suoi negativi e decise di passare alla fotografia a colori con diverse fotocamere, tra cui una Kodak e una Leica.
Nel 1975 morì la madre Maria, con la quale non aveva più rapporti da anni. Vivian, sempre animata dalla sua grande passione per la fotografia, continuò a guadagnarsi da vivere come bambinaia. Non si conoscono tutte le famiglie presso le quali prese servizio, ma si sa che nel 1987 si presentò ai coniugi Usiskin, suoi nuovi datori di lavoro, portando con sé 200 casse di cartone contenenti il suo archivio personale, che furono immagazzinate in un box.
Dal 1989 al 1993 Vivian si prese cura con grande umanità di Chiara Bayleander, un’adolescente con disabilità mentale. In questo periodo le sue casse furono sistemate in un mezzanino del suo datore di lavoro.
Mentre l’età avanzava, Vivian si trovò ad attraversare gravi difficoltà finanziarie. Le sue casse, da ultimo, andarono a finire nel box di un magazzino preso in affitto. Alla fine degli anni novanta i fratelli Gensburg, con i quali Vivian aveva per molto tempo mantenuto un legame andando a visitarli in occasione di matrimoni, lauree e nascite, la rintracciarono in un piccolo alloggio economico di Cicero e la trasferirono in un grazioso appartamento a Rogers Park vegliando su di lei.[2]
Sul finire del 2008, Vivian ebbe un incidente cadendo sul ghiaccio e battendo la testa, per cui fu ricoverata in ospedale. I Gensburg per garantirsi che avesse le migliori cure la fecero trasferire in una casa di cura a Highland Park. Nonostante queste affettuose attenzioni, Vivian Maier morì dopo poco tempo, il 21 aprile 2009, senza che né lei né i Gensburg sapessero che due anni prima, a causa degli affitti non pagati, il suo box era stato messo all’asta, e prima che John Maloof, che cercava sue notizie e voleva valorizzare la sua opera, potesse trovarla e incontrarla.
Maier e, soprattutto, la sua vasta quantità di negativi[3] è stata scoperta nel 2007, grazie alla tenacia di John Maloof, anche lui statunitense, giovane figlio di un rigattiere. Nel 2007 il ragazzo, volendo fare una ricerca sulla città di Chicago e avendo poco materiale iconografico a disposizione, decise di comprare in blocco per 380 dollari, ad un’asta, il contenuto di un box zeppo degli oggetti più disparati, espropriati per legge ad una donna che aveva smesso di pagare i canoni di affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini e perfino assegni di rimborso delle tasse mai riscossi), Maloof reperì una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare.
Dopo aver stampato alcune foto, Maloof le pubblicò su Flickr, ottenendo un interesse entusiastico e virale e l’incoraggiamento della community ad approfondire la sua ricerca. Pertanto fece delle indagini sulla donna che aveva scattato quelle fotografie: venne a sapere che Vivian non aveva famiglia e aveva lavorato per tutta la vita come bambinaia soprattutto nella città di Chicago; durante le giornate libere e i periodi di vacanza era solita scattare foto della vita quotidiana di città come New York, Chicago e Los Angeles. La maggior parte delle sue foto sono street photosante litteram e dunque Maier può essere considerata una antesignana di questo genere fotografico. Inoltre, Maier scattò molti autoritratti, caratterizzati dal fatto che non guardava mai direttamente verso l’obiettivo, utilizzando spesso specchi o vetrine di negozi come superfici riflettenti.
La sua vita può essere paragonata a quella della poetessa statunitense Emily Dickinson, che scrisse le sue riflessioni e le sue poesie senza mai pubblicarle e, anzi, a volte, nascondendole in posti impensati, dove furono ritrovate solamente dopo la sua morte. Dal momento della sua scoperta, Maloof ha svolto una grande attività di divulgazione della sua opera fotografica, organizzando mostre itineranti in tutto il mondo.[4] Vivian Maier utilizzava per scattare le sue immagini una macchina fotografica Rolleiflex e un apparecchio Leica IIIc. La sua vita e il suo lavoro sono stati oggetto di libri e documentari.
Affermazione di Joan Fontcuberta
Nel 2017 il fotografo spagnolo Joan Fontcuberta affermò, durante una conferenza tenutasi a Bologna, di aver inventato lui il personaggio di Vivian Maier insieme a John Maloof e che per quanto la donna delle foto sia realmente esistita e le foto sono autentiche, tutta la storia che ruota attorno a lei è stata inventata[5]. In seguito non si hanno notizie di prove fornite da Fontcuberta, noto per le sue provocazioni, né che abbia reiterato l’affermazione; nessun organo di stampa l’ha avallata.[6]
Mostre
Vivian Maier Anthology, settembre 2023-gennaio 2024, Palazzo Pallavicini (Bologna) organizzata da Deborah Petroni, Chiara Campagnoli e Rubens Fogacci, a cura di Anne Morin
Summer in the City, giugno–agosto 2013, Chicago; Russell Bowman Art Advisory.[23]
Vivian Maier, giugno–agosto 2013, Shanghai, Cina; Kunst.Licht Photo Art Gallery.[24]
Vivian Maier: Out of the Shadows, luglio–settembre 2013, Toronto, Ontario; Stephen Bulger Gallery.[25]
Vivian Maier: Out of the Shadows – The Unknown Nanny Photographer, agosto–ottobre 2013, Durango, Colorado; Open Shutter Gallery.[26]
Загадка Вивьен Майер (The Riddle of Vivian Maier), settembre–ottobre 2013, Mosca, Russia; Центр фотографии имени братьев Люмьер (The Lumiere Brothers Center for Photography).[8]
Vivian Maier: Picturing Chicago, ottobre 2013, Chicago; Union League Club.[27]
Vivian Maier: Out of the Shadows, gennaio–febbraio 2014, Cleveland, Ohio; Cleveland Print Room.[30]
Certificates of Presence: Vivian Maier, Livija Patikne, J. Lindemann, 17 gennaio – 8 marzo 2014, Milwaukee; Portrait Society Gallery.[31]
Vivian Maier: Out of the Shadows, gennaio–marzo 2014, Minneapolis; MPLS Photo Center.[32]
Vivian Maier: Out of the Shadows, febbraio–giugno 2014, San Francisco; Scott Nichols Gallery.[33]
See All About It: Vivian Maier’s Newspaper Portraits, marzo–maggio 2014, Berkeley; The Reva and David Logan Gallery at UC Berkeley’s Graduate School of Journalism.[34]
Vivian Maier, Photographer, marzo–maggio 2014, Fribourg, Svizzera; Cantonal and University Library.[35]
Vivian Maier: Out of The Shadows, marzo–settembre 2014, Chicago, Illinois; Harold Washington Library.[36]
Vivian Maier – A Photographic Journey, maggio–luglio 2014, Highland Park; The Art Center Highland Park.[37]
I disegni di Franz Kafka- A cura di Andreas Kilcher-
A cura di Andreas Kilcher-Traduzione di Ada Vigliani-Con una Nota di Roberto Calasso
ADELPHI EDIZIONI
Risvolto Com’è noto, poco prima della morte, Franz Kafka chiese all’amico Max Brod di distruggere tutti i suoi «scarabocchi». Alludeva non solo agli scritti, ma anche a quei disegni che, dando prova di autentico talento, aveva tracciato nel corso degli anni su fogli sparsi, pagine di diario e un intero quaderno. Max Brod non distrusse né gli uni né gli altri – e mai disobbedienza fu più provvidenziale. Rese tuttavia pubblico solo un numero ristretto di disegni: i restanti, la maggior parte, sono rimasti occultati per decenni in una cassetta di sicurezza, prima a Tel Aviv e poi a Zurigo. E solo quando, di recente, sono tornati alla luce, si è svelato pienamente il volto artistico di Kafka. Un volto che ora potremo conoscere grazie a questo libro, in cui è riprodotto – sul supporto originale, e quasi sempre a grandezza naturale – l’intero corpus dei disegni che si sono conservati. Pagina dopo pagina, incontreremo esili silhouette nere di omini curvilinei che ora camminano frettolosi, ora s’inerpicano chissà dove, ora sembrano danzare; figure angolose, dal volto appena accennato, talvolta comico; e ancora: esseri ibridi, spesso rappresentati con pochi tratti magistrali, immagini evanescenti, come in affannoso movimento, enigmatiche apparizioni. Ravviseremo così un artista imparentato con lo scrittore, ma che percorre un’autonoma strada parallela – una strada per Kafka non meno vitale, se a Felice Bauer poteva scrivere: «Una volta ero un grande disegnatore … a quel tempo, ormai anni fa, quei disegni mi hanno appagato più di qualsiasi altra cosa».
I disegni di Kafka, apparso in Germania nel 2021, è accompagnato in questa edizione italiana da una Nota di Roberto Calasso.
In copertina
Disegni di Franz Kafka (1901-1907). The Literary Estate of Max Brod, National Library of Israel, Jerusalem.
foto ardon bar hama
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
Robert Capa e Gerda Taro:la fotografia, l’amore, la guerra
in mostra fino al 2 giugno 2024 a CAMERA-
– Centro Italiano per la Fotografia di Torino –
TORINO-A CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino continua la mostra Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra, con 120 immagini che raccontano una delle stagioni più intense della storia della fotografia del XX secolo: il rapporto professionale e affettivo fra Robert Capa e Gerda Taro. Dai cafè della Parigi degli anni Trenta ai campi di battaglia della Guerra civile spagnola, il percorso espositivo segue le vicende di Endre – poi francesizzato André – Friedmann e Gerta Pohorylle (questi i loro veri nomi). Fuggita dalla Germania nazista lei, emigrato dall’Ungheria lui, si incontrano nella capitale francese nel 1934. In un momento in cui trovare committenze è sempre più difficile, i due inventano il personaggio di Robert Capa, un famoso fotografo americano arrivato da poco nel continente, alter ego con il quale André si identificherà per il resto della sua vita. Anche Gerta cambia nome e assume quello di Gerda Taro.
La svolta decisiva però arriva nel 1936, con l’inizio del conflitto civile spagnolo. Proprio nello scenario della prima guerra ‘fotografica’ della storia, Capa e Taro realizzano i loro scatti più noti – immagini realizzate seguendo da vicino le battaglie ma anche i momenti di vita quotidiana dei miliziani – trovando in questo impiego terreno fertile per esprimere le proprie idee antifasciste. Un impegno che costerà la vita di Gerda nel luglio del 1937, nel mezzo di una ritirata a Brunete, rendendola la prima reporter a morire sul campo. La mostra è curata da Walter Guadagnini e Monica Poggi, attraverso le fotografie e la riproduzione di alcuni provini della celebre “valigia messicana”, scomparsa dal 1939 e ritrovata a fine anni Novanta, contenente 4.500 negativi scattati in Spagna dai due fotoreporter e dal loro amico David Seymour, detto “Chim”.
Informazioni 14 febbraio – 2 giugno 2024 camera.to
Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)
Lunedì 11.00 – 19.00
Martedì 11.00 – 19.00
Mercoledì 11.00 – 19.00
Giovedì 11.00 – 21.00
Venerdì 11.00 – 19.00
Sabato 11.00 – 19.00
Domenica 11.00 – 19.00
Sede espositiva
CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18, Torino
Fred Stein, Gerda Taro e Robert Capa, Cafe de Dome, Parigi, 1936
Estate Fred Stein. Courtesy International Center of Photography
Robert Capa, Morte di un miliziano lealista, nei pressi di Espejo Fronte di Cordoba, Spagna, inizio settembre, 1936
The Robert Capa and Cornell Capa Archive, Gift of Cornell and Edith Capa, 2010. Courtesy International Center of Photography
Gerda Taro, Miliziana repubblicana si addestra in spiaggia. Fuori Barcellona, 1936
Gift of Cornell and Edith Capa, 1986. Courtesy International Center of Photography
Nota per i suoi reportage di guerra, è anche conosciuta per essere stata la compagna di Robert Capa[1] e per aver stabilito con il fotoreporterungherese un forte sodalizio professionale. È considerata insieme a Capa una dei più importanti fotografi di guerra. La sua morte violenta a 26 anni (fu travolta da un carro armato durante la Guerra civile spagnola [2]) contribuì a mitizzarla come donna rivoluzionaria e coraggiosa caduta per le proprie idee e per il suo lavoro[3].
Biografia di Gerda Taro
Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce da una famiglia di ebrei polacchi. È portata per lo studio, è una buona giocatrice di tennis, ama vestirsi bene e fin da bambina dimostra di avere un carattere forte. Nonostante le sue origini borghesi, giovanissima entra a far parte di movimenti socialisti e di lavoratori. Per questo motivo e per la sua origine ebraica, l’avvento del nazismo in Germania le crea molti problemi. Finisce in carcere in quanto attiva nel Partito Comunista Tedesco, interrogata non parla e, grazie al suo passaporto polacco, viene liberata. Con un amico lascia la Germania alla volta di Parigi, mentre i suoi genitori decidono di rifugiarsi in Palestina ed i fratelli in Inghilterra[4].
Nel 1935 a Parigi grazie alla sua intelligenza e adattabilità, la poliglotta Gerta trova lavori come dattilografa e segretaria. Tramite l’amica e coinquilina Ruth conosce l’ungherese Endre Friedman. Come lei è ebreo, comunista, antifascista e ha conosciuto il carcere e sbarca il lunario facendo il fotografo. Endre e Gerta si fidanzano e sarà proprio lui ad iniziarla alla fotografia. Insieme, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, inventano il personaggio “Robert Capa”, un fantomatico celebre fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Grazie a questo curioso espediente la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi.
Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola, guerra che inciderà parecchio sulla vita dei due. Giunti in Spagna diventano immediatamente importanti testimoni della guerra, realizzando molti reportage pubblicati in periodici come “Regards” o “Vu.”
Nota fra le milizie antifasciste per la sua freschezza, coraggio ed eccezionale bellezza, rischiò sempre la vita per realizzare i propri servizi fotografici. All’inizio il marchio “Capa-Taro” fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente, i due divisero la ‘ragione sociale’ – CAPA – e Endre Friedman adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé[6].
Gerda realizzò, in un periodo in cui Capa era per alcuni giorni a Parigi per rapporti con le agenzie, il suo più importante reportage durante la battaglia di Brunete. All’inizio parve una grande vittoria repubblicana. Il contrattacco franchista ribaltò presto la situazione e Gerda fu allora testimone dei selvaggi bombardamenti dell’aviazione nazionalista, scattando numerose fotografie sempre con estremo rischio per la propria vita.
Testimoni raccontano che spesso incitava lei stessa i combattenti “all’attacco”; la sua fede rivoluzionaria e antifascista era puro slancio. L’articolo che venne pubblicato sulla rivista Regards, diede un grande lustro alla reporter tedesca.
La morte
Al ritorno dal fronte di Brunete, Gerda Taro perse la vita a causa di un terribile incidente. Gerda viaggiava aggrappata al predellino esterno della vettura del generale polacco “Walter” (Karol Świerczewsky), colma di feriti; Walter era un noto comandante delle Brigate Internazionali. Quando aeroplani tedeschi volarono a bassa quota sul convoglio repubblicano mitragliandolo, nel trambusto generale un carro armato urtò l’auto alla quale era aggrappata Gerda, che cadde sotto i cingoli del carro armato restando schiacciata dallo stomaco in giù.
Gerda non perse conoscenza e durante il penoso trasferimento, che durò ore, all’ospedale di Madrid ‘El Goloso’ (zona dell’Escorial) si mantenne le viscere in sede con la pressione delle proprie mani; i testimoni ricordano un’incredibile freddezza e coraggio nella ragazza. Alcuni tra i migliori medici delle Brigate Internazionali le trasfusero plasma e tentarono di operarla senza anestetici e senza antibiotici (di cui non vi era disponibilità), di suturare la devastante ferita ma si resero subito conto che ogni tentativo non l’avrebbe mai salvata; il suo organismo non poteva più svolgere alcuna funzione vitale che si protraesse oltre le poche ore.
All’infermiera che dovette vegliarla fu indicato di somministrarle tutta la morfina possibile per non farla soffrire, in quanto il decesso era inevitabile. La ragazza si preoccupava comunque delle proprie macchine fotografiche chiedendo “se si erano rotte”. Restò in vita e vigile sino all’alba del 26 luglio 1937; morì intorno alle ore 5 semplicemente “chiudendo gli occhi”. Gerda aveva 26 anni.
Il suo corpo fu traslato a Parigi e, accompagnato da 200.000 persone, fu tumulato al Père-Lachaise con tutti gli onori dovuti ad un’eroina repubblicana. Allo scultore Alberto Giacometti venne chiesto di realizzare il monumento funebre. Pablo Neruda e Louis Aragon lessero un elogio ‘in memoriam’. Il suo compagno Capa non si riprese mai più dalla morte della dolce e vivacissima Gerda, prima donna reporter a morire sul lavoro. Da allora anch’egli rischierà sempre la morte sul lavoro, incontrandola poi nel 1954 nella guerra d’Indocina.
Un anno dopo la morte di Gerda, nel 1938, Robert Capa pubblicherà in sua memoria Death in the Making, riunendo molte foto scattate insieme. La sua tomba a Parigi giace dimenticata nella zona del Père-Lachaise dedicata ai rivoluzionari e alla Resistenza, vicino al noto “Mur des Federés”.
Nel 1942 il regime collaborazionista fascista francese censurò l’epitaffio inciso sulla tomba di Gerda, epitaffio mai più restaurato. La tomba, dopo le modifiche occorse nel 1953, è accessibile da un viottolo posteriore, quindi posta “alla rovescia” rispetto a quando fu costruita. La tomba di Gerda Taro fu l’unica ad essere violata dalla mano nazi-fascista, forse per l’influenza che la giovane rivoluzionaria, caduta nella guerra contro il fascismo, ancora esercitava sulla crescente Resistenza francese.
Rimasta a lungo nell’ombra del più noto fidanzato Robert Capa e relegata al ruolo di sua compagna (e in qualche cronaca anche di moglie), dalla metà degli anni 1990 Gerda Taro è oggetto di interesse storico per il suo ruolo di giovanissima donna contro-corrente, rivoluzionaria militante sino al sacrificio massimo e protagonista della storia della fotografia e della resistenza al fascismo[6][7][8].
Robert Capa- Nasce in Ungheria da una famiglia ebrea proprietaria di una avviata casa di moda. Capa è un bambino vitale e rissoso che in famiglia viene soprannominato “Cápa”, squalo in ungherese. Ha appena diciassette anni quando viene arrestato per le sue simpatie comuniste; appena liberato abbandona la terra natale alla volta di Berlino. Là s’iscrive all’università alla facoltà di scienze politiche, sognando di diventare giornalista. Per mantenersi trova un impiego presso uno studio fotografico, cosa che lo avvicina al mondo della fotografia. Inizia a collaborare con l’agenzia fotogiornalistica Dephot sotto l’influenza di Simon Guttmann[3]. Autodidatta, nel 1932 è a Copenaghen, dove Lev Trockij tiene una conferenza. Nonostante il divieto di fare fotografie, elude la sorveglianza e realizza alcuni scatti. È il suo primo servizio pubblicato[4].
A causa dell’avvento del nazismo, Capa nel 1933 lascia Berlino per Vienna, per poi, l’anno successivo, partire alla volta di Parigi. Ma in Francia incontra difficoltà nel trovare lavoro come fotografo freelance. Al caffè A Capoulade, nel Quartiere Latino, nel settembre 1934 fa la conoscenza di Gerda Taro, una studentessa tedesca di origine galiziana, anch’essa fotografa autodidatta. Robert e Gerda stabiliscono un solido rapporto sentimentale e professionale[4].
A Parigi Capa conosce anche David Seymour (nato Szymin), che a sua volta lo presenterà ad Henri Cartier-Bresson, tutti giovani fotografi di origini sociali e geografiche diverse, ma legati dal linguaggio dell’immagine. Il suo primo servizio importante è quello del maggio 1936 che documenta le manifestazioni per l’ascesa al potere del Fronte Popolare; una sua foto diventa la copertina della rivista «Vu» (“Visto” in italiano).
Nell’agosto del 1936 Gerda Taro riesce a procurargli un accredito stampa per documentare la guerra civile spagnola ed assieme prendono un aereo per Barcellona.[5] Qui, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, i due inventano il personaggio di “Robert Capa”, un fantomatico fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Lo pseudonimo Robert Capa viene scelto per il suono più familiare all’estero e per l’assonanza con il nome del popolare regista italo-statunitense Frank Capra. Grazie a questo curioso espediente, la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi. All’inizio, in effetti, il marchio “Capa-Taro” fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente i due divisero la “ragione sociale” CAPA e Endre Friedmann adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé.
Il 26 luglio 1937 Gerda muore tragicamente a Brunete, nei pressi di Madrid (rimane schiacciata durante un errore di manovra di un carro armato “amico”). L’anno dopo Robert pubblica un libro in omaggio alla sua amata, Death in making, che contiene anche le fotografie, scattate da entrambi, della guerra in Spagna.
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