Franco Leggeri Fotoreportage -L’Alba nella Campagna Romana
La Campagna Romana-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma. Il paesaggio
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne. Territorio
RITRATTO DI MIO PADRE: SALVADOR A CONFRONTO CON SALVADOR
Nel 1925 Salvador Dali dipinge questo “Ritratto di mio padre”. E’ un’opera complessa perché complesso è il rapporto col padre.
Don Salvador, padre del Salvador pittore, era un notaio: diligente, rigido, severo, presente, oppressivo
Non era un rapporto semplice ma pieno di complicazioni, fra amore e repressione, fra il bisogno di ribellione del giovane Salvador e il bisogno di avere l’attenzione di un genitore autorevole nella sua comunità.
Il ritratto esprime questa complessità. Don Salvador tiene in mano una pipa ma appare tranquillo, solido (come un muro, la sua giacca grigia quasi si fonde col muro retrostante), calmo. Le sue mani sono possenti e sicure, il suo sguardo deciso, la sua espressione controllata.
E’ un uomo forte, un uomo solido, un uomo che comanda, un uomo che è un riferimento per gli altri: la composizione gira tutta intorno a lui, lo sfondo è quasi annullato per lasciare spazio a lui
Al tempo stesso, c’è un senso di durezza, di ostilità, di rimprovero. Non c’è dolcezza in quegli occhi, sembra sul punto di pronunciare parole di richiamo al dovere. Il gioco di chiaroscuro sul suo volto lo rende sfuggente e vagamente sinistro
Il pittore che ritrae suo padre è anche il bimbo che guarda il suo genitore, fra il bisogno di averne l’attenzione, la voglia di sfuggire alle sue regole e la paura del suo giudizio
Salvador Dalì
Salvador Dalì, nato nel 1904 a Figueras, in Catalogna, è stato uno dei più grandi artisti del Novecento. Grande sperimentatore, è stato pittore, scultore, sceneggiatore, scrittore, cineasta, autore di scenografie, fotografo, oltre che un ottimo disegnatore e autore di stampe grafiche.
Studia all’Accademia di Belle Arti di San Fernando a Madrid, dove conosce Federico García Lorca e Luis Buñuel, regista con cui collaborerà nel 1929 al film manifesto del surrealismo Un chien andalou e l’anno successivo a L’age d’or, mentre aLorca lo lega un rapporto d’amicizia (alcuni dicono amore) e con lui collaborerà per la realizzazione di alcune sceneggiature teatrali.
La sua prima esposizione personale si tiene nel 1925 alla galleria Dalmau di Barcellonae l’anno successivo compie un primo viaggio a Parigi, immancabile per ogni artista che volesse stare al passo con i tempi e conoscere le ultime novità in ambito artistico: in questa occasione tra l’altro, conosce Pablo Picasso, a quella data già ampiamente riconosciuto concordemente come un maestro.
Nel 1929 conosce Gala, futura moglie e musa ispiratrice per tutta la vita.
Dalì fu tra i più celebri, ma anche più criticati esponenti del surrealismo, movimento nato nella Parigi del 1924 (il Manifesto del Surrealismo è firmato da André Breton in quell’anno). Il surrealismo dava largo spazio all’azione dell’inconscio e dei sogni (in quanto espressione dell’inconscio)e intendeva arrivare ad esprimere una realtà altra, surreale appunto, esterna a quella che tutti conosciamo. Dalì si avvicina nel 1930 al gruppo parigino stanziato a Montmartre, collaborandovi assiduamente per diversi anni.
È uno degli artisti di punta del gruppo di Breton: nel 1931 inventa i cosiddetti “oggetti surrealisti a funzione simbolica”, illustrandoli in un articolo pubblicato su Le Surréalisme au service de la révolution, rivista del movimento; dal 1933 pubblica testi e fotomontaggi anche su Minotaure, altra fondamentale rivista d’avanguardia parigina.
Nel 1934 si tiene la sua personale di pittura alla galleria newyorkese di Julien Levy, che ne decreta il successo oltre i confini europei.
Nel 1939 si allontana dai surrealisti, rompendo il legame di lavoro e amicizia che lo legava a Breton e compagni, a seguito di vari scontri intellettuali susseguitesi in quegli anni, e si trasferisce a New York con Gala.
Dalì è celebre come pittore, ma è stato anche un grande autore di stampe grafiche: aveva studiato le tecniche di stampa negli anni dell’Accademia, per maturarle poi negli anni Trenta. La sua altissima capacità di disegnatore si prestava bene per questo tipo di lavoro, tanto che ne realizza in gran numero e sempre ad un livello eccelso. Tra le sue serie grafiche sono celebri le illustrazioni realizzate per Les Chants de Maldoror, la Divina Commedia, l’Apocalisse di San Giovanni.
La xilografia e i grandi interpreti sardi- Cristoforo Puddu
La xilografia, significativo e rappresentativo linguaggio incisorio delle tradizioni culturali dell’Isola, ha avuto grandi e brillanti interpreti tra gli artisti sardi del ’900.
La xilografia e i grandi interpreti sardi
La xilografia (dal greco: “legno/scrivo”) è un’arte antica e i legni incisi per decorare stoffe erano diffusi già nell’antico Egitto ed adottati nelle produzioni dei Copti nel V secolo d.C.
Le prime stampe xilografiche su carta sono realizzate in Cina intorno al secolo VIII, mentre in Europa si sviluppa la tecnica dell’incisione con la diffusione della carta: nel XIV secolo si producono figure di santi e immagini votive, carte da gioco e successivamente le illustrazioni per i primi volumi a stampa. Nel XV secolo si consolida in Italia e Germania la produzione di libri illustrati con le xilografie.
Per l’incisione su legno della xilografia vengono usati alberi da frutto (melo, pero, ciliegio) o di piante di maggior durezza come il corniolo, il sicomoro, il bosso ed il sorbo. La matrice della tavola da incidere a rilievo, con l’uso di strumenti adatti quali sgorbie, bulini, lame e scalpelli vari, può essere tagliata longitudinalmente (legno di filo) o trasversalmente (legno di testa) al tronco: la xilografia inchiostrata permette la realizzazione a stampa del soggetto immagine-testo su carta, seta e diversi tessuti.
L’immediata comunicatività della xilografia, con un significativo e rappresentativo linguaggio incisorio delle tradizioni e cultura dell’Isola, ha avuto dei grandi e brillanti interpreti tra gli artisti sardi del ’900.
I nomi più validi e ricorrenti sono quelli di Mario Mossa De Murtas (1881 – 1966), grande xilografo nato a Sassari, emigrato in Brasile realizzò una luminosa carriera;
Giuseppe Biasi (1885 – 1945), uno dei massimi artefici dell’arte incisoria in Sardegna;
Mario Delitala (1887 – 1990), eccelso animatore ed interprete dell’arte sarda del Novecento;
Carmelo Floris (1891 – 1960), un gigante nell’arte dell’incisione sul legno e sui metalli;
Battista Ardau Cannas (1893 – 1984), artista dalla grande produzione incisoria, legittimata da numerosi riconoscimenti alle Biennali di Venezia ed esposizioni internazionali (Varsavia 1936, Londra 1950);
Remo Branca (1897 – 1988), xilografo di fama nazionale ed internazionale e “uomo di ferrata e solida cultura umanistica”;
Stanis Dessy (1900 – 1992), artista di chiara fama ed esimio insegnate d’arte;
Antonio Mura (1902 – 1972), raffinato incisore della scuola sarda e fedele cultore della disciplina.
E proprio a Remo Branca -autore tra l’altro di fondamentali testi come “La xilografia in Sardegna”, “Breviario di xilografia” e “Incisori sardi”- si deve una vera e propria scuola d’incisori iglesienti, che s’imposero per la grande capacità di rappresentare le tematiche di carattere sociale, la vita campestre e la durezza del lavoro dei minatori.
Conquistarono ed hanno un ragguardevole ruolo nella storia dell’arte incisoria sarda gli stimati Mansueto Giuliani, Gianni Desogus (in arte Xiandès), i fratelli Enea e Giovanni Marras, Carlo Murroni e Foiso Fois; tutti discepoli del Branca che si era stabilito ad Iglesias, dal 1925 al 1936, per motivi politici e “sfuggire ai rigori del regime fascista a Sassari”, a cui aveva espresso la sua chiara opposizione come giornalista e direttore del giornale “Libertà”.
Un mio personale ricordo corre anche alla figura dell’artista Vincenzo Becciu (s’amigu de sos poetas) di Ozieri, che negli anni Settanta e Ottanta “alimentò” di trofei xilografici, di gran pregio e valore, i maggiori concorsi letterari in limba.
Dal libro: Fotoreportage per raccontare Roma e la sua Campagna Romana
di Franco Leggeri.
La bellezza, la poesia e la “bioarchitettura” del Viale dei pini nella Campagna Romana. V.le del sito Archeologico Torre della BOTTACCIA-Brano e Fotoreportage tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.
L’ecologia è un concetto che fa parte della coscienza universale, di cui dobbiamo essere ogni giorno sempre più consapevoli. Il grande scienziato della natura e poeta Goethe riassume tale consapevolezza con queste parole: “Nulla si impara a conoscere, se non ciò che si ama, e più forte è l’amore tanto maggiore sarà la conoscenza”. Imparare a “godere” dello spazio naturale che ci circonda è uno strumento di straordinario valore per diffondere e sedimentare nell’agire una vera e propria cultura della sostenibilità. In tal senso, probabilmente la più spontanea e potente istanza pedagogica è proprio il paesaggio, capace di impartire una sua prima e fondamentale educazione implicita: il paesaggio è infatti come scrive , molto bene, nel suo saggio ”Paesaggio Educatore” il Regni R. “ maestro di una cultura dell’ascolto dell’armonia dell’uomo e del cosmo, propria di un ambiente come realtà da condividere e non solo come qualcosa a cui badare”(Ed.Armando -2009). L’ammirazione per lo splendore della natura è il motore che genera e, conseguentemente, moltiplica in ognuno di noi , sin dalla più giovane età, i sentimenti di affezione , rispetto e curiosità verso il patrimonio ambientale che ci circonda. D’altra parte tale affezione e desiderio di cura tutela non può che scaturire dalla conoscenza e dalla relazione . Ci è istintivamente estraneo ciò che non conosciamo, con cui non possiamo dialogare per assenza di codici condivisi e a cui non siamo socializzati . L’estraneità si supera a mio avviso, solo attraverso un flusso comunicativo e relazionare che deve essere continuamente alimentato e che dà luogo ad una empatia prodromica a comportamenti di cura , tutela e di salvaguardia . Per recuperare i “codici” che ci consentono , nell’ascolto, di comprendere il linguaggio della natura bisogna , infatti, conoscere quest’ultima, perché solo coltivando una conoscenza profonda e radicata , ma anche istintiva, di qualcosa possiamo affezionarci ad essa, amarla e far crescere in noi il desiderio spontaneo di difenderla e preservarla.
Campagna romana
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Campagna Romana. Comune di Fiumicino-Torre di Maccarese nota come Torre Primavera
foto originali(2019) di Franco Leggeri per REDREPORT.
La torre “Primavera” si trova nel Comune di Fiumicino nei pressi di Fregene in fondo a viale Clementino nord-ovest. Fu fatta edificare sui resti di un’antica villa di Ciriaco Mattei in località “Primavera” alla foce dell’Arrone. Il nome “Primavera”, che riguarda l’intera area circostante la torre, deriva dal microclima particolarmente favorevole a cui la zona è soggetta. E’ qui che viveva la mandria di bufale degli antichi proprietari della zona, i Rospigliosi.
Oltrepassato il caseggiato ci appare la massiccia mole della torre Primavera, alta 15 metri e a pianta quadrata. La torre possiede 4 piani e ogni piano ha un salone e due stanzette e per salire in cima c’è una scala. All’interno della torre c’è una botola che conduce ad un passaggio sotterraneo, che passa sotto l’Arrone. E’ molto profondo e lungo circa un kilometro e porta fino al Castello di Maccarese. La torre subì nel’ 500 un restauro che modificò la parte inferiore rendendola a sperone e rinforzò gli angoli con l’inserimento di blocchi di travertino. Fu voluta come molte altre torri di avvistamento, da Pio IV per sventare il pericolo delle incursioni Saracene che affliggevano frequentemente le popolazioni costiere.
L’ambiente naturale è purtroppo oggi deturpato dalla presenza del depuratore di Fregene. Fu comunque in occasione dei lavori di installazione di questo impianto, che fu ritrovata una barca romana che localizzerebbe in quest’area l’antico porto di Fregene. L’architetto Maurizio Silenzi nel suo libro “Il Porto di Roma” sostiene una suggestiva tesi che afferma la localizzazione di un porto sul fiume Arrone e la presenza di un faro allineato con quello più noto del porto di Claudio di Fiumicino. La torre Primavera sarebbe stata ubicata e costruita proprio sopra i resti del faro di Claudio. Silenzi porta a prova di ciò anche alcuni rilievi topografici e un’analisi approfondita del materiale esistente sotto l’intonaco più recente della torre che presenta l’inserimento di numerose pezzature marmoree bianche reperibili solo in siti dove sono presenti manufatti del periodo romano. L’Architetto afferma che la torre è stata costruita ristrutturando, in parte, murature esistenti con mattoni di fornace più recenti e mescolando materiali marmorei recuperati che facevano parte di un’antica costruzione riferibile al faro sull’Arrone.
Sulla torre Primavera c’è anche un’altra curiosità da riferire: forse le torri erano due! Infatti alcuni archeologi hanno individuato i resti di una costruzione antica anche sulla sponda di ponente dell’ Arrone. C’era un tempo dunque in cui le costruzioni erano due, ipotesi suggestiva ma probabilmente i resti sono di una villa della famiglia dei Cesi da cui prende il nome la zona Cesolina.
FIUMICINO-Torre di Maccarese nota come Torre Primavera
“In tempi caotici come oggi, Picasso diventa un nostro contemporaneo: il suo esempio è una lezione d’ottimismo, un modello da seguire, una spinta all’impegno politico e alla pratica artistica. La scoperta della precarietà nascosta dell’artista e degli ostacoli lungo il suo percorso non ci restituisce un’immagine brutale e poco conosciuta della xenofobia, del nostro contemporaneo, e di noi stessi?”, esordisce Annie Cohen-Solal (Algeri, 1948), scrittrice e storica francese che cura entrambe le mostre in programma per settembre 2024, tra Palazzo Te a Mantova e Palazzo Reale a Milano, su Pablo Picasso. Infatti, nonostante sembri che sul celebre maestro sia stato già detto tutto, i più non sanno che per quasi 50 anni fu marchiato come straniero e anarchico, tanto da doversi rifugiare nel sud della Francia dopo che a Parigi nel 1940 gli fu rifiutata la naturalizzazione.
Picasso a Mantova con la mostra “Picasso a Palazzo Te. Poesia e Salvezza”
È in programma dal 5 settembre 2024 al 6 gennaio 2025 la mostra Picasso a Palazzo Te. Poesia e Salvezza, realizzata grazie alla collaborazione della famiglia dell’artista e del Musée National Picasso-Paris e articolata in quattro sezioni in stretto dialogo con gli affreschi di GiulioRomano: “Il rapporto tra il pittore e architetto cinquecentesco e Picasso passa dal lavoro sulle Metamorfosi di Ovidio, che l’artista spagnolo esegue su richiesta di Albert Skira nel 1931 e che viene esposto a Palazzo. Ma le domande e i misteri sollevati dal lavoro di Picasso e Giulio Romano vanno oltre le affinità tematiche: entrambi gli artisti sono “amici” del cambiamento e leggono la metamorfosi come tema dominante. Entrambi estraggono dalla letteratura e dalla poesia alimento e salvezza, insieme suggeriscono un modo di partecipare all’arte e alla vita”, spiega il direttore Stefano Baia Curioni. Così in mostra, tra disegni, documenti, sculture e dipinti (alcuni mai esposti in Italia), ci sono 50 opere del maestro simbolo del Novecento, in cui la poesia svolge un ruolo fondamentale, vera e propria ancora di salvezza per superare i numerosi ostacoli legati alla sua condizione di straniero. “L’artista naviga magistralmente tra le molteplici tensioni della società francese utilizzando la metamorfosi come strategia. Diventa quindi, al livello estetico, personale e professionale, un artista mercurial che pochissimi critici, soprattutto in Francia, riescono a decifrare”, racconta la curatrice.
Picasso a Milano con la mostra “Picasso lo straniero” a Palazzo Reale
Inaugurerà poco dopo l’apertura a Mantova anche la mostra Picasso lo straniero a Milano, in programma dal 20 settembre 2024 al 2 febbraio 2025 a Palazzo Reale (e le cui prevendite sono già disponibili sul sito del museo). Provenienti dal MNPP e Musée National de l’Histoire de l’Immigration di Parigi, qui verranno presentate oltre 80 opere dell’artista insieme a documenti, fotografie, lettere e video. La mostra milanese, infatti, si apre a più riflessioni sui temi dell’accoglienza, dell’immigrazione e delle relazioni con l’altro, indagando le scelte politiche ed estetiche di Picasso che non ottenne mai la cittadinanza francese e plasmò la propria identità vivendo nella condizione di immigrato. “La collaborazione tra Milano e Mantova in questo doppio progetto espositivo rappresenta un’opportunità straordinaria per approfondire la complessa figura di Picasso, un artista che ha saputo navigare tra le acque agitate della xenofobia e dell’identità, trovando nella poesia e nell’arte una via per superare gli ostacoli”, conclude l’assessore alla cultura del Comune di Milano Tommaso Sacchi.
Articolo di Caterina Angelucci-Fonte ARTRIBUNE
Caterina Angelucci (Urbino, 1995).Laureata in Lettere Moderne con specializzazione magistrale in Archeologia e Storia dell’arte presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dal 2018 al 2023 si è occupata per ArtsLife di contenuti e approfondimenti per la sezione Arte. Dal 2021 cura e organizza la residenza per artisti Lido La Fortuna (Associazione Lido Contemporaneo, Fano, PU) e fa parte del gruppo di ricerca di Endless Residency avviato da Viafarini (Milano), assegnatario del Grant Italian Council X edizione. Oltre a svolgere attività di curatela indipendente, collabora con riviste di settore. Nel 2023 pubblica per postmedia books Endless Residency. Un osservatorio sulla mobilità artistica.
ARTRIBUNE srl – Via Ottavio Gasparri- 13/17 – 00152 Roma
Châtillon AO-Sophie-Anne Herin.La Mostra fotografica:
” Entre chien et loup”
alla galleria Galleria Breil
Châtillon AO- Castello Gamba, fino al 16 giugno-Il titolo dell’esposizione, Entre chien et loup, deriva da un’antica espressione francese traducibile in italiano con “al calare della notte” e racchiude in sé il significato del progetto: raccontare quel particolare momento della giornata caratterizzato dal passaggio dalla luce al buio. È il tempo della penombra durante il quale non è possibile distinguere un cane da un lupo, come scriveva nel XVI secolo il poeta francese Jean-Antoine Baïf.
Il crepuscolo raccontato da Sophie-Anne Herin è quello dell’Envers, il versante valdostano occupato prevalentemente da boschi e caratterizzato dalla scarsità di ore di luce nei mesi invernali. Si tratta, come scrive Olga Gambari nel testo critico dedicato alla mostra, di “un mondo inverso fuori dal tempo dove l’artista ci immerge, attraverso un lavoro fotografico unito a un allestimento che prende la forma di un percorso iniziatico”.
Le immagini proposte giocano sui contrasti di luci, raccontando ciascuna la propria storia attraverso uno stile libero. “Sono nata in un paese che in inverno non gode di molte ore di luce e l’idea della penombra è qualcosa di familiare – spiega Sophie-Anne Herin –, una particolare declinazione di luminosità che orienta il mio sguardo.”
L’esposizione si sviluppa all’interno dei tre piani del Castello Gamba in un percorso che inizia dalla terra per poi superare i confini delle montagne e arrivare prima al cielo e poi al sogno.
L’inizio del viaggio “Entre chien et loup” è con immagini che escono dalla penombra, intesa sia come momento in cui si entra in contatto con le proprie paure personali e ancestrali sia come apertura su un altro mondo.
Dalla penombra si passa poi alla notte, con immagini raffiguranti il cielo e le stelle, fino ad accedere all’ultimo piano dedicato al sogno.
Biografia dell’artista
Sophie-Anne Herin inizia il suo percorso artistico a Bologna, dove si laurea al DAMS.
Nel 2008 si avvicina alla fotografia studio che approfondirà formandosi allo IED di Torino. Nel 2008 dall’incontro tra la cantante Meike Clarelli e la regista Alice Padovani nasce Perché ti devo amare? mostra musicata ospitata nel novembre 2009 allo Spazio le Lune di Modena, all’interno del Festival Periferico di Modena. L’anno seguente, nel mese di novembre complice la medesima kermesse, proporrà Disperato moderato con brio, ancora con la Clarelli e Gabriele Dalla Barba, dando vita a una “performance in forma di concerto su pellicola fotografica” presso lo spazio Dead Meat di Modena.
Con Viaggio Nudo, da agosto a settembre 2010, espone fotografie su tela abbinate ad alcune tele di Marino Catalano alla Montaigne Gallery di Shanghai, Cina. Nel gennaio 2012 espone a Parigi Trois valdotâins à Paris : histoires du passé et du présent. A marzo del 2013 espone presso il centro Phos di Chieri Attorno ad un manque con due progetti fotografici che trattano il tema della mancanza attraverso un viaggio introspettivo, dove il corpo diviene soggetto e metafora dell’assenza.
A novembre espone presso la galleria Paola Meliga di Torino “I luoghi malinconici del dentro:DCA”, partecipa sempre nello stesso mese alla Biennale d’Arte moderna e contemporanea di Torino. Il progetto verrà poi ripreso e approfondito con Il corpo sottratto, bi-personale con l’artista Patrizia Nuvolari ad Aosta e nel 2022 nella centrale Bertin di Étroubles. Il lavoro sui disturbi dell’alimentazione verrà poi pubblicato in Blacklie vol.1. Sempre nel 2014, da Blacklie editore, seguito alla vincita di un concorso indetto dalla stessa casa editrice. Il 12 febbraio 2015 presenterà in una mostra collettiva parte del suo precedente lavoro e il libro d’artista Scarti presso la galleria Spazio 28 a Torino, un lavoro sul territorio e l’identità. Nel 2016 espone presso il PHOS di Torino insieme a Mattia Paladini Ingenuo.Bianco un lavoro fotografico sul Monte Bianco che si allontana dalla convenzionale rappresentazione oggettiva del paesaggio montano e offre una visione sull’intimità dei luoghi. Sempre nel 2016 espone presso il Finaosta di Aosta Portraits, 54 ritratti eseguiti presso strutture psichiatriche della città seguito a dei laboratori di fotografia tenuti nei centri con gli utenti. Nel 2018 partecipa alla collettiva Memories presso il Phos Centro di fotografia di Torino con Viktoria progetto sul tema del ricordo e della memoria.
Nel 2019 espone a Palazzo Pincini Carlotti, a Garda, Malemort, un lavoro contro la violenza alle donne e contro le narrazioni tossiche.
Nel 2020 partecipa alla BAM presso la Casa del Conte Verde a Rivoli.
Nel 2021 partecipa a Photo Action alla GAM di Torino.
Nel 2022 presenta parte del progetto And then I wenthome presso il Circolo dei lettori a Torino, Viktoria presso la galleria Inarttendu ad Aosta, lo stesso progetto verrà presentato presso la Castiglia di Saluzzo sotto forma di installazione video.
Accanto alla professione di fotografa si occupa anche di formazione tenendo dei workshops e corsi di fotografia presso diverse strutture in Italia (Camera di Torino, Centro indipendente della fotografia di Napoli).
Vive tra Torino e Aosta.
CASTELLO GAMBA
Arte Moderna e Contemporanea
Valle d’Aosta
Orari e aperture
Aprile – Settembre
Martedì – Domenica
Dalle 9 alle 19
chiuso i lunedì, tranne se festivi ed eccetto i mesi di luglio e agosto
RIETI-Al via la mostra fotografica di Francesco Galli: ”Esplorazione visiva della Bassa Sabina”-
RIETI-Il 6 giugno verrà inaugurata presso l’OpenHub Lazio la mostra fotografica “Quando scorre l’acqua brucia la storia: Paesaggi lungo il torrente Farfa”, un progetto ideato e realizzato dal fotografo Francesco Galli. La mostra offre uno spaccato visivo dei comuni della Bassa Sabina, con immagini catturate tra l’autunno del 2008 e l’estate del 2009.
Le fotografie di Galli, realizzate interamente su pellicola e stampate con tecnica analogica ai sali d’argento, documentano il paesaggio e la trasformazione dei luoghi lungo il torrente Farfa. “Un paesaggio nasce dal sentimento per un luogo,” afferma Galli nei suoi appunti di lavoro, sottolineando come il rapporto tra la comunità e il territorio sia alla base della sua ricerca visiva.
La mostra, che si terrà presso l’OpenHub Lazio in Via Giuseppe Pennesi 2 a Rieti, sarà aperta al pubblico fino al 28 giugno con ingresso libero. Gli orari di apertura sono dal lunedì al venerdì, dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 14:00 alle 18:00.
L’evento di inaugurazione, previsto per le ore 18:00 del 6 giugno, sarà accompagnato da un incontro pubblico intitolato “Dal territorio al paesaggio. I luoghi lungo il torrente Farfa nelle fotografie di Francesco Galli”. Durante l’incontro, esperti di vari settori discuteranno del rapporto tra territorio e rappresentazione visiva, tra cui Elisa Resegotti, paesaggista e curatrice d’arte, Gaetano Linardi, dottore forestale, e Pablo De Paola, ingegnere ambientale esperto del fiume Farfa.
Francesco Galli, nato a Viterbo nel 1967, è un fotografo e regista di documentari video con una lunga carriera alle spalle. Laureato in Architettura presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Galli ha documentato eventi di cronaca, cultura e sport, nonché condotto ricerche etnografiche sulle tradizioni popolari. Negli anni Novanta si è affermato come fotografo di teatro, per poi dedicarsi alla fotografia d’architettura e di paesaggio, collaborando con importanti istituzioni e realizzando numerose mostre e documentari.
L’OpenHub Lazio, promotore della mostra, è un progetto finanziato dalla Regione Lazio e dal Fondo Sociale Europeo, volto a creare una rete di spazi di cultura, socialità e lavoro nel territorio regionale. Questo spazio mira a promuovere l’interazione e la crescita del capitale culturale e umano attraverso laboratori formativi, networking e opportunità di orientamento per tutte le generazioni.
Per maggiori informazioni sulla mostra e sugli eventi correlati, è possibile contattare l’ufficio stampa all’indirizzo email stampacondizioniavverse@gmail.com o chiamare il numero 329.9317192.
Mostra fotografica “Exodus, un’umanità in cammino”, di Sebastiao Salgado al MAR-
Articolo di Elisa Castagnoli
Al Museo d’Arte della città di Ravenna“Exodus, un’umanità in cammino” fino al 2 giugno 2024.
Sono storie di esodo, di migrazioni obbligate per milioni di persone che ogni anno, nel mondo decidono di lasciare la propria terra a causa di disastri naturali, per l’ingente povertà che spinge alla ricerca di prospettive migliori o destini differenti, oppure per la violenza di una guerra che mette in fuga interi gruppi di popolazioni; notizie che ogni giorno popolano le cronache del nostro occidente europeo.
Tali storie, ugualmente documentate dallo sguardo lucido e visionario di uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, Sebastiao Salgado, sono al centro di “Exodus: un’umanità in cammino” attualmente esposte al Mar di Ravenna fino al prossimo giugno.
Salgado, Equador
Nonostante sia passato più di un decennio da quando “Exodus” è stata esposta per la prima volta, il tema resta più che mai attuale perché nuove crisi periodicamente si ripresentano – rispetto a quelle documentate dal fotoreporter negli anni ’90 – ma i migranti e i profughi di oggi vivono esattamente nello stesso baratro tra disperazione e speranza, gli stessi momenti tragici o eroici legati al destino di ciascun individuo o di interi gruppi di popolazione. Raccontano a distanza di trent’anni la storia del nostro tempo, gli sconvolgimenti globali che accadono nel mondo attuale spinti dal crescente divario tra monopoli di ricchezza e diffuse aree di indigenza e marginalità, la crescita demografica esponenziale, infine l’emergenza climatica in atto.
“Quasi tutto ciò che accade sulla terra è in qualche modo collegato” afferma la curatrice Lélia Wanick Salgado, perché una crisi prodotta da una guerra per esempio quella russo-ucraina o a un imprevisto disastro ambientale in una parte remota del mondo influenza e ha delle ripercussioni in tutto il resto del pianeta. “Le persone strappate dalle loro case sono solo le vittime più visibili di un processo globale. Le fotografie qui rappresentate catturano momenti tragici, drammatici ed eroici di singoli individui” e tutte insieme raccontano anche una realtà che ci appartiene, “la storia del nostro tempo”. Come sottolinea la curatrice: “Esse non offrono riposte ma al contrario pongono una domanda: nel nostro cammino verso il futuro non stiamo forse lasciando indietro gran parte del genere umano ?”
Salgado, Zaïre
La fotografia documentaria ha portato Salgado in giro per il mondo attraverso i cinque continenti. Le immagini suddivise in varie sezioni spaziano da una parte all’altra del pianeta toccando temi diversi legati al nodo centrale dell’esodo. Nella prima parte si parla di migranti e profughi di oggi contro il loro stesso volere in immagini emblematiche del nostro tempo. La seconda sezione è dedicata alle crisi che hanno investito il continente africano negli anni ‘90 come i profughi ritornati in Mozambico dopo la guerra o la crisi umanitaria in Ruanda. Nella terza parte si parla di America latina con le migrazioni di massa avvenute dalle zone rurali a quelle urbane dando vita alle grandi metropoli del sud America come Città del Messico e San Paulo circondate da estese baraccopoli. Segue la serie di Salgado che racconta la sovra-popolazione in Asia e la creazione di megalopoli come Shangai, Bombay, ecc., segnate dalle condizioni precarie di vita della maggioranza. Chiude la mostra una selezione di volti arrivati dai quattro angoli del pianeta, perlopiù ritratti di bambini – spesso le prime vittime delle guerre, degli esodi o comunque della povertà – ma qui posizionati al centro dell’obbiettivo come i protagonisti indiscussi in un atto di riscatto, inaspettato e insieme epifanico.
Migranti e rifugiati: Cap Saint Jacques
Salgado, Sud Vietnam
Una spiaggia deserta immersa nel profondo chiaroscuro della foto in bianco e nero quasi a immagine di un’umanità sopravvissuta da un immenso diluvio universale sulla terra. Una barca solitaria è spinta a riva da pochi uomini, salvata dall’impetuosità delle acque quasi fossero approdati in una terra promessa dopo il diluvio che ha visto spazzare via tutte le restanti creature. Ancora è l’immagine di una spiaggia deserta da cui sono pronti a partire centinaia di migranti verso l’ignoto oltre la violenza del mare, al di là dell’impetuoso scrosciare delle onde a riva a segno di un incerto, spaventoso destino.
Nella foto successiva una bambina guarda lontano l’oceano oltre il suo infrangersi violento sulla riva là dove le acque hanno portato via i suoi cari e dove altri sono partiti o scomparsi in mezzo ai fiotti, forse divorati dalle correnti. Sulla sabbia parole scritte restano incise come geroglifici primordiali sulla roccia per lasciare una traccia, la memoria da chi è scomparso, portato via dalle correnti o da un destino avverso.
A proposito di guerra : “La strada principale di Kabul” (1996)
Salgado, Kabul (Afghanistan)
Distrutta dai bombardamenti, disertata dai civili in tempo di guerra, il centro di Kabul appare a distanza come un paesaggio desolato, astratto nel chiaroscuro dell’immagine in bianco e nero e svuotato di presenze: relitto e insieme cicatrice di uno shock violento e distruttivo. Rovine di palazzi e cumuli di macerie si ergono lì insieme alle ombre oscure degli individui che la attraversano restituendo l’immagine di una città fantasma. Visione emblematica di ciò che resta nel passaggio violento e irreversibile di tutte le guerre.
“Campo profughi palestinese”
Sorridono questi bambini nonostante tutto relegati dentro lo spazio ristretto e murato di un campo profughi per rifugiati palestinesi in Siria. Esprimono la voglia, malgrado la situazione drammatica, di libertà, leggerezza e gioco, l’incanto nello sguardo dei bambini identico in tutto il mondo dovunque essi si trovino, liberi o reclusi, arabi o israeliani, la loro curiosità e irriverenza verso la vita come la voglia di correre e muoversi liberamente e senza freni. Ali di libertà disegnate su un muro del campo profughi e versetti del Corano trascritti a caratteri arabi si stagliano come geroglifici oscuri, magnificenti e grandiosi di un codice a loro solo decifrabile. Accanto, la grata di una finestra dietro la quale altri bambini sono reclusi o trattenuti dentro lo spazio ristretto e regimentato del campo.
“Una profuga kosovara in Albania”
Giace rannicchiata sullo sfondo di un paesaggio arido e brullo dove null’altro si erge se non la linea di demarcazione tra cielo e terra e fili spinati in primo piano lungo una barriera che preclude l’attraversamento e la avvolge tutt’intorno. È avvolta da una coperta nel freddo invernale e forse proviene da un campo profughi lì nelle vicinanze. L’immagine emblematica racconta un’umanità vista in uno strato di esilio permanente, obbligato e senza speranze: condizione dei molti costretti a spostarsi in altre zone della terra inseguendo un destino vagheggiato di agio e libertà. Un paesaggio raso al suolo da eventi devastanti fuori dal suo controllo; l’individuo al centro come nodo problematico e esistenziale.
Una strada è simbolicamente aperta attraverso un paesaggio, dissecato di massi e di rocce. Un bambino percorre quel sentiero aperto tra gli sterpi come fosse alla ricerca di una via di d’uscita o di salvezza. Quell’alternativa immaginata o sognata spinge la maggior parte dei migranti alla fuga verso l’ignoto, all’attraversamento dei confini alla ricerca di orizzonti ancora possibili. Sullo sfondo, dalla parte opposta della strada, alla stazione di Ivankovo c’è un treno fermo dove un centinaio di profughi hanno trovato un alloggio di fortuna in Croazia durante la guerra.
African Tragedy
La serie di fotografie scattate nel continente africano negli anni ’90 documenta la crisi umanitaria accorsa in Ruanda in seguito alle vicende tragiche di violenza e persecuzione che hanno segnato la popolazione durante la guerra civile. Ruandesi in cammino verso un campo profughi in Tanzania appaiono nella foto; donne e bambini con la loro casa fatta di poche coperte e cocci essenziali sulla testa camminano a piedi nudi mentre la strada si dispiega limpida di fronte a loro, il cielo basso e coperto di nuvole nella semi oscurità del tramonto. La savana li scruta a distanza sullo sfondo. Partono lasciandosi alle spalle una terra di atrocità e miseria verso un futuro incerto e oscuro. In un’altra foto vediamo un accampamento di profughi ruandesi in Tanzania fatto di tende per dormire la notte lungo il cammino, pentole e le ceneri di fuochi spenti nell’oscurità.
Salgado, Tanzania
Mozambico: un popolo in cammino verso una nuova vita attraversa il grande ponte in prossimità del lago Malawi per tornare in patria dopo quindici anni di esilio in Tanzania. Una donna e un bambino avvolto in fasce sulla sua schiena si scorgono tra le fronde di una piccola piantagione verde sopraffatta di foglie e sterpi. Cominciano una nuova vita coltivando la terra che erano stati costretti ad abbandonare quindici anni prima, tornati a casa alla fine della guerra.
La sezione “America latina: esodo rurale, disordine urbano” mostra in una prima foto un villaggio Moruba nella foresta amazzonica in Brasile dove l’essere umano appare ancora in uno stato di connessione profonda con la natura ancestrale e immutata che in sé stessa esiste in un suo eterno divenire. Una giovane donna dalla genuina bellezza si bagna nelle acque di un ruscello in prossimità di una cascata mentre altri bambini e donne del villaggio si mostrano sotto una luce irradiante a contatto con gli alberi ancestrali. Le acque limpide del fiume riflettono in una visione edenica e quasi irreale di paradiso terrestre.
Salgado, Amazonia
Altrove, in altre fotografie sono le baraccopoli affollate dei migranti a San Paolo o a Città del Messico o ancora le sommosse del Movimento Brasiliano dei Senza Terra per rioccupare parte dei territori dominate dai latifondisti e indispensabili alla loro sopravvivenza.
La sezione “ Asia, il nuovo volto urbano del mondo” documenta il passaggio dalla diffusa povertà rurale alle nuove megalopoli asiatiche come Shangai, Giacarta, Bombay o Manila dove i migranti vivono in condizioni precarie spesso di sfruttamento e marginalità nelle periferie degli immensi centri urbani.
Vediamo una stazione enorme e sovraffollata dal traffico costante di migliaia di persone ogni giorno a Bombay, una moschea a Giacarta dove il singolo si perde nella schiera anonima e senza volto di copricapi bianchi in questa marea indefinita di esseri umani inchinati di fronte alla divinità. E, ancora, lungo il molo di Marina Drive un diseredato se ne sta disteso, avvolto da una coperta logora con alle spalle solo il volo dei gabbiani sulle acque ferme della banchina e, ancora più lontano, i grattacieli anonimi dell’immensa e scintillante megalopoli asiatica.
Portraits
Ritratti di bambini, limpidi e meravigliosi raccontano storie provenienti da tutto il mondo visti in primo piano semplicemente nella loro intrinseca autenticità e bellezza. Il fotografo ha lasciato loro la libertà di scegliere la posa o il gesto nel ritratto. Le espressioni, lo sguardo appaiono ora velati di malinconia e tristezza, ora sprigionando allegria e speranza. Dai quattro continenti questi bambini affrontano la macchina fotografica scegliendo di rendersi visibili, esposti al mondo in uno scatto fotografico e su una pellicola. Soli di fronte all’obbiettivo scelgono infine di essere visti e di determinarsi, loro le prime vittime dei fenomeni migratori, delle fughe obbligate o di chi la guerra rende profughi e esuli. Il fotografo rivela di ciascuno di essi una limpida verità secondo il proprio contesto e cultura, fisionomia o destino da cui sono stati segnati. Li mostra in una verità gridata senza altro parametro o giudizio che la loro intrinseca bellezza di esseri umani, unici, singolari, limpidi di fronte all’obbiettivo.
Biblioteca DEA SABINA-Associazione CORNELIA ANTIQUA
Roma- La via Appia antica vista da due illustri viaggiatori del 1700.
Montesquieu:“ Avvicinandoci a Roma s’incontrano tratti della Via Appia, ancora integri. Si vede un bordo o margo che resiste ancora, e credo che abbia più di tutto contribuito a conservare questa strada per duemila anni: ha sostenuto le lastre dai due lati ed ha impedito che cedessero lì, come fanno le nostre lastre in Francia, che non hanno alcun sostegno ai bordi. Si aggiunga che queste lastre sono grandissime, molto lunghe, molto larghe, e molto bene incastrate le une nelle altre; inoltre questo lastricato, poggia su un altro lastricato, che serve da base. Le strade dell’imperatore sono fatte di ghiaia messa su una base lastricata, ben stretta e compressa. Dopo, vi hanno messo un piede o due di ghiaia. Questo renderà la strada eterna. C’è da stupirsi che in Francia non si sia pensato a costruire strade più resistenti? Gli imprenditori sono felici di avere un affare del genere ogni cinque anni”.
Montesquieu, Viaggio in Italia, 1728-1729.
Charles de Brosses:“E’ questo, o mai più, il momento di parlarvi della Via Appia, cioè il più grande,il più bello e il più degno monumento che ci resti dell’antichità; poiché, oltre alla stupefacente grandezza dell’opera, essa non aveva altro scopo che la pubblica utilità, credo che non si debba esitare a collocarla al di sopra di tutto quanto hanno mai fatto i Romani o altre nazioni antiche, fatta eccezione per alcune opere intraprese in Egitto, in Caldea e soprattutto in Cina per la sistemazione delle acque. La strada, che comincia a Porta Capena, prosegue trecentocinquanta miglia da Roma a Capua e a Brindisi, ed era questa la strada principale per andare in Grecia e in Oriente. Per costruirla hanno scavato un fossato largo quando la strada fino a trovare uno strato solido di terra……Codesto fossato o fondamento è stato riempito da una massicciata di pietrame e di calce viva, che costituisce la base della strada, la quale è stata poi ricoperta interamente di pietre da taglio che hanno una rotaia. E tanto ben connesse che, nei posti dove non hanno ancora incominciato a romperle dai bordi, sarebbe molto difficile sradicare una pietra al centro della strada con strumenti di ferro. Da ambedue i lati correva un marciapiede di pietra. Sono ben quindici o sedici secoli che non soltanto non riparano questa strada, ma anzi la distruggono quanto possono. I miserabili contadini dei villaggi circostanti l’hanno squamata come una carpa, e ne hanno strappato in moltissimi luoghi le grandi pietre di taglio, tanto dei marciapiedi che del selciato. E’ questa la ragione degli amari lamenti che fanno sempre i viaggiatori contro la durezza della povera Via Appia , che non ne ha nessuna colpa; infatti, nei posti che non sono stati sbrecciati, la via è liscia, piana come un tavolato, e persino sdrucciolevole per i cavalli i quali, a forza di battere quelle larghe pietre, le hanno quasi levigate ma senza bucarle. E’ vero che, nei luoghi dove manca il selciato, è assolutamente impossibile che le chiappe possano guadagnarsi il paradiso, a tal punto vanno in collera per essere costrette a sobbalzare sulla massicciata di pietre porose e collocate di taglio, e in tutti i sensi nel modo ineguale. Tuttavia, nonostante vi si passi sopra da tanto tempo, senza riparare né aggiustare nulla, la massicciata non ha smentito le sue origini. Non ha che poche o punte rotaie ma solo, di tanto in tanto, buche piuttosto brutte”.
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