A Roma 15 murales trasformano una via del quartiere Garbatella in una passeggiata artistica-
Articolo di Ludovica Palmieri
Roma-Quartiere Garbatella- Articolo di Ludovica Palmieri-15 murales realizzati sulle saracinesche delle attività commerciali di Via Anton Noli per celebrare i lavoratori e la Costituzione Italiana. Così Serrande d’arte trasforma un’anonima strada del quartiere Garbatella di Roma in una galleria a cielo aperto da visitare rigorosamente durante gli orari di chiusura delle attività. Ed è proprioper il suo essere comune e poco frequentata ma densa di lavoratori onesti e operosi che Simona Gaffi e Daniele Signore, fondatori del collettivo artistico Phzero, hanno scelto proprio Via Antoni Noli come megafono visivo per raccontare la Costituzione Italiana attraverso le storie di chi quotidianamente si impegna nel suo lavoro. Partendo dal principio che l’Italia è una Repubblicademocratica fondata sul lavoro, “il progetto di riqualificazione urbana Serrande d’arte”,hanno affermato gli artisti, “intende dare voce ad un tema che accomuna tutti: il diritto al lavoro, un valore fondamentale per l’intera società, sancito dalla Costituzione”. Phzero, il duo artistico che fonde arte e tecnologia
Il duo artistico, nato nel 2020, fonda la sua pratica sulla fusione tra arte e tecnologie digitali per valorizzare il tessuto urbano e sociale attraverso esperienze artistiche innovative e coinvolgenti. Grazie al digitale, Phzero interpreta la street art in maniera hi-tech, veicolando tematiche sociali attraverso opere interattive e sperimentali, realizzate anche in collaborazione con professionisti di altri settori. Anche per Serrande d’arte il duo ha adottato come medium la stencil art perfezionandola con tecnologie per il controllo numerico.Nell’ottica degli artisti, la stencil art è una metafora del potere della collaborazione e dell’inclusività. “Le opere nella stencil art”,hanno spiegato gli Phzero, “si caratterizzano per essere costituite da più disegni, realizzati con le singole mascherine e uniti dai cosiddetti ‘ponti’. Porzioni di colore che per noi simboleggiano l’unione e il lavoro di squadra necessari per l’integrità di una comunità. Perché, solo collaborando e valorizzando le differenze, si possono superare le sfide e raggiungere obiettivi comuni”.
La Garbatella: per gli Phzero la location ideale per il progetto Serrande d’arte
La Garbatella, immaginata negli Anni Venti dal sindaco Ernesto Nathan come un rifugio per i lavoratori ed edificata secondo il modello inglese delle città giardino, è il quartiere ideale per accogliere Serrande d’arte. I 15 murales degli Phzero, focalizzati sugli articoli della Costituzione dedicati al lavoro, ribadiscono la storica identità del quartiere. Così, dal 27 ottobre 2024, trasformando Via Anton di Noli in una passeggiata artistica, mettono ulteriormente al centro la dignità dei lavoratori come spinta propulsore alla crescita civile e sociale della comunità.
La “Mostra” è visibile negli orari di chiusura. Questo il timing di “Serrande d’Arte”, il progetto ideato dal collettivo artistico Phzero per rendere omaggio ai lavoratori, realizzato, significativamente, in via Anton da Noli, nel cuore della Garbatella-
Ludovica Palmieri
Fonte – Artribune è la più ampia e diffusa redazione culturale del Paese (conta 250 collaboratori in tutto il mondo) e il più seguito strumento d’informazione, aggiornamento e approfondimento in Italia sui temi dell’arte, della cultura e su tutto ciò che vi ruota attorno.
Edita da Artribune srl, presieduta da Paolo Cuccia (anche presidente del Gambero Rosso), Artribune è la più ampia e diffusa redazione culturale del Paese (conta 250 collaboratori in tutto il mondo) e il più seguito strumento d’informazione, aggiornamento e approfondimento in Italia sui temi dell’arte, della cultura e su tutto ciò che vi ruota attorno: comunicazione, creatività, politica e politiche culturali, editoria, mass media, pubblicità, nuove tecnologie, architettura e urbanistica, design, cinema, musica, teatro, filosofia, letteratura, eccetera.
Non solo web magazine, ma anche free press, grazie a una rivista cartacea gratuita stampata in 55mila copie e distribuita in tutta Italia.
Redazione
Per informazioni su comunicati stampa e questioni redazionali, scrivere esclusivamente a redazione@artribune.com.
Richieste inoltrate ad altri indirizzi mail o numeri telefonici non saranno prese in carico.
Pubblicità
Per le vostre richieste e prenotazioni riguardanti gli spazi pubblicitari (no abbonamenti, no comunicati stampa): adv@artribune.com
Roma-Riapre la boutique Longchamp –C’è un momento in cui l’arte si distacca dalla realtà, ma non la tradisce mai del tutto. In quel preciso istante, si eleva a una dimensione parallela, fatta di rimandi, citazioni e frammenti di vita vissuta. È una forma di gioco sofisticato, di danza tra l’immaginazione e il ricordo. Oscar Malessène sembra conoscere perfettamente quel terreno, e la sua mostra “Scripto Sensu”, ospitata nella rinnovata boutique Longchamp di Roma, ne è la dimostrazione più vivida. Qui l’arte incontra il cinema, ma lo fa con leggerezza, sfiorandolo, senza mai cadere nel didascalico. Non c’è un omaggio diretto, né una rappresentazione letterale, ma una serie di impressioni, atmosfere e suggestioni che rimandano a film, momenti, sensazioni.
La boutique di Piazza di Spagna, recentemente riaperta, diventa così un palcoscenico perfetto per accogliere il linguaggio visivo di Malessène, che gioca con geometrie rigorose e colori audaci per evocare frammenti di narrazione. È una Roma che si percepisce, si annusa, ma non si vede direttamente. Prendiamo per esempio l’opera To Love with Rome (La Grande Bellezza), ispirata all’opera di Paolo Sorrentino e ai film di Woody Allen. Ma non è solo questo: la Roma che Malessène ritrae è una città immaginaria, costruita attraverso bande di verde scuro, un omaggio alla Maison Longchamp, che simboleggia una cronologia ininterrotta, un flusso di memoria che si fonde con la città stessa. Accanto al verde, si trova un verde chiaro, segno di energia, e uno sfondo azzurro pallido, che apre spazi infiniti alla mente dello spettatore.
C’è qualcosa di cinematografico in tutto questo, ma non nel senso tradizionale del termine. Il cinema, nella visione di Malessène, diventa un pretesto per evocare una sensazione. Non si tratta di raccontare una trama, ma di immergere chi osserva in una sequenza di emozioni, come fossero scene astratte di un film mai girato. Le vibranti piramidi arancioni che emergono sullo sfondo sembrano un codice visivo personale dell’artista, un suo modo di trasformare le forme più semplici in qualcosa di vivo, pulsante. Queste piramidi si muovono nella composizione come attori sulla scena, e, come accade nel cinema di Allen e Sorrentino, la città di Roma è protagonista, ma sempre vista attraverso la lente del regista-artista.
Durante la Festa del Cinema di Roma, dal 16 al 27 ottobre 2024, le opere di Oscar Malessène saranno esposte nella boutique Longchamp, unendo in modo raffinato il mondo del cinema e quello dell’arte visiva. Tra queste, spiccano i dittici Finzi et Contini, ispirati a Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, che trasportano il visitatore in una dimensione malinconica e intima, e Bleu mécanique II, un chiaro riferimento a Arancia Meccanica di Stanley Kubrick. In entrambe le opere, Malessène non si limita a evocare le immagini dei film, ma traduce le loro atmosfere in un linguaggio fatto di colore, geometrie e riferimenti che sembrano fluttuare nel tempo e nello spazio.
In fondo, la sua arte non è mai solo estetica. È, piuttosto, un invito a riflettere, a lasciarsi portare dalle emozioni e dai ricordi che certe forme e certi colori sanno suscitare. È un gioco di rimandi e di allusioni, in cui il visitatore è invitato a riempire i vuoti, a completare le narrazioni con il proprio vissuto.
Questa collaborazione tra Oscar Malessène e Longchamp non è casuale. C’è un’affinità tra la visione dell’artista e quella della Maison. Longchamp non è solo un marchio di moda, ma una cronologia continua di eleganza e tradizione, una storia in cui ogni pezzo, ogni dettaglio, è pensato per durare nel tempo, proprio come le opere d’arte. E Malessène, con il suo linguaggio visivo fatto di frammenti di cinema e biografia, riesce a catturare quel senso di continuità che tanto appartiene alla Maison francese.
Dopo l’evento del 17 ottobre, che segnerà la presentazione ufficiale della mostra, la boutique di Piazza di Spagna 82 sarà aperta al pubblico, come di consueto. Ma per chi vi entrerà, non sarà più solo una boutique. Sarà un luogo in cui la moda si mescola con l’arte, in cui il confine tra l’oggetto e l’opera si fa labile. Un po’ come il cinema, che, nel suo modo più alto, non si limita a raccontare storie, ma ci trasporta in un altrove, fatto di visioni e sogni.
-Castel di Guido :”Il Degrado del Sito Archeologico Casale della Bottaccia”-
Roma Municipio XIII- 19 giugno 2022-Fotoreportage dell’Associazione CORNELIA ANTIQUA-
Roma Municipio XIII- 19 giugno 2022-Franco Leggeri Fotoreportage-Gli Indiana Jones dell’Associazione Cornelia Antiqua, nella foto, Tatiana CONCAS, Mirko ANTONUCCI e Damiano FILIPPONI capitanati dal Presidente CRISTIAN NICOLETTA sono, anche oggi , entrati all’interno dei ruderi del Casale della Bottaccia . A corredo di questo articolo pubblichiamo il loro Reportage Fotografico :”Cartoline dall’inferno-Castel di Guido- Il Degrado e abbandono del Sito Archeologico del Casale della Bottaccia.
In Italia esistono luoghi, se pur carichi di storia per i Borghi dove sorgono,sono lasciati nel degrado e nella più completa rovina .Il Casale della Bottaccia di Castel di Guido non sono “pietre disperse” e senza storia , ma è sicuramente un edificio, porzione di edificio, dal passato antico che per qualche ragione sconosciuta non gode dei “diritti” di recupero e restauro come di altri luoghi simili esistenti a Roma . Il Casale è forse condannato a una fine ignobile, soffocata dai suoi stessi calcinacci?
Breve cronologia degli eventi degli ultimi anni- Storia-Ricerca Bibliografica-(Parziale e non esaustiva) cura di Franco Leggeri -le foto originali sono dell’Associazione CORNELIA ANTIQUA .
-Il Casale della Bottaccia è, risulta, in stato di abbandono già dal 1964, come documentato da una foto in possesso della soprintendenza dei BB.CC.; in tale foto si vede anche la presenza di alcuni infissi e dei tetti oggi tutti crollati e del fienile, costruito nel 1700, di cui oggi rimane solo la parte basamentale..
Nel 1992 i tetti sono mancanti in alcune parti del fabbricato come si vede dalla foto in “Elisabetta Carnabuci, Antiche Strade – Lazio- Via Aurelia, I.P.Z.S., Roma 1992”; dalla quale si nota anche come a quel tempo le aperture non fossero ancora state murate e la tettoia all’ingresso fosse ancora in piedi. Nello stesso volume si afferma che la proprietà sembra essere ancora della famiglia Pamphilj.
Nel 2018 Dopo tantissimi appelli ,anche d’ITALIA NOSTRA, e tante promesse di politici in cerca di voti, il Sito Archeologico Casale della Bottaccia era ancora in stato di abbandono , di degrado e regno incontrastato della prostituzione.
Breve Storia-Ricerca Bibliografica-(Parziale e non esaustiva) cura di Franco Leggeri –
Intorno alla metà del 1600 ,per la grande opera di Carità dell’abate Ottavio Sacco da Reggio Calabria (morto nel 1660) e per la benevolenza del Principe Camillo Pamphilj, che aveva acquistato nel 1641 la tenuta dal Card. Alessandro Peretti detto anche Cardinal Montalto, fu edificata la cappella annessa al Casale della Bottaccia . La Cappella fu dedicata a Sant’ Antonio Abate, che , da subito, diventa anche un “piccolo ospedale” per il primo soccorso degli ammalati. Si racconta che nei pressi della Cappella di Sant’Antonio era sempre pronto un carro, con cavalli attaccati, per raccogliere gli ammalati nella Campagna Romana .Gli ammalati o infortunati più gravi venivano inviati nell’Ospedale Santo Spirito di Roma.Una Cappella simile a quella del Casale della Bottaccia fu edificata , ancora esistente e visibile, a fianco del Casale Panphilj sito nel Borgo di Testa di Lepre di Sotto in via dell’Arrone.
Nei primi del ‘700 fu realizzato, probabilmente nel corpo a sud con grandi saloni ai piani superiori, un piccolo ospedale per il primo soccorso: l’Eschinardi infatti scrive: “. . omissis . . e parte del Principe Panpfilj di rub. 281 con la seguente detta della Bottaccia di rub. 333 dove si trova sempre pronta una sua carrozza per condurre a Roma gl’ammalati della campagna.” ed anche il Metalli: “Il Principe Panfili vi istituì un piccolo ospedale ed un’ambulanza pel trasporto dei malati poveri a Roma.” . Tale notizia da quanto riportato sul sito del X Dipartimento sarebbe desunta anche dai registri parrocchiali di Castel di Guido: “ . . .omissis . , l’oste assumeva un ruolo delicato: nel contratto di affitto dei locali aveva anche l’obbligo di accogliere i malati e portarli al vicino ospedale. Il Casale della Bottaccia fungeva non solo per la zona di Castel di Guido ma per tutto l’Agro Romano da ospedale. E due volte a settimana i malati più gravi si trasferivano all’Ospedale di Roma.”; questo riferimento del XVIII secolo conferma anche l’utilizzo di parte del casale come osteria, ribadito anche nella “Rubrica delle tenute e dei casali della carta Cingolana”. Quest’ultima destinazione d’uso probabilmente rimane fino al secolo scorso poiché se ne trovano ancora le tracce nel Casale, e L’ipotesi è sostenuta anche da Luigi Cherubini:”Le vecchie osterie della Campagna si danno da fare: per non restare tristemente abbandonate e inutilizzate, anche se hanno una storia, com’è successo alla “Bottaccia” di Castel di Guido e al Casale dei Francesi di Ciampino…(Omissis) per non morire” (Catasto Alessandrino 433bis/19 19 Ottobre 1661 “Sviluppo della strada che da Porta S. Pancrazio passa per Pisana e arriva a Maccarese” agrimensore Legendre Domenico; Isa Belli Barsali e M. G. Branchetti, “Ville della Campagna Romana”, ed. SISAR, Milano 1975, pag. 249-250-
Descrizione del libro di Robert Capa-“Leggermente fuori fuoco” è il leggendario volume di Robert Capa che racconta le vicende del suo autore nell’Europa della Seconda guerra mondiale. L’edizione italiana di Slightly out of focus, uscito per la prima volta nel 1947, e già pubblicata nella collana Dixit da Contrasto anni fa, e ora presente nella collana “In parole” nell’edizione a cura di Valentina De Rossi, torna in libreria nel formato brossura. “Leggermente fuori fuoco” è il diario delle memorie di guerra di Robert Capa “con foto dell’autore”, come amava che si scrivesse. Il libro mutua il titolo dalle didascalie che su Life accompagnavano le sue foto dello sbarco in Normandia, rovinate da un tecnico di laboratorio in fase di sviluppo. Preceduto da una nota del fratello Cornell Capa e dall’introduzione di Richard Whelan, biografo di Capa, il volume alterna le vicende del fotoreporter con una storia d’amore travagliata, trasformando l’autobiografia in un romanzo celeberrimo in cui il fotografo mantiene la freschezza dello sguardo, la passione, l’ironia, lo spirito d’avventura di un grande testimone del nostro tempo.
ContrastoBooks
Roberto Koch Editore srl
Corso d’Italia 83 00198
Roma
Italia
Descrizione del libro di Anthony Penrose e Lee Miller Fotogiornalista, corrispondente di guerra, modella e musa surrealista, Lee Miller è stata una delle più grandi fotografe del Ventesimo secolo, tra fotogiornalismo, moda, ritratti e pubblicità. Questo libro, pubblicato contemporaneamente all’uscita di un importante film sulla sua vita, raccoglie 100 dei suoi migliori lavori. Anthony Penrose è un fotografo britannico, figlio di Sir Roland Penrose e Lee Miller, e dirige il Lee Miller Archive e la Penrose Collection, con sede nella casa di famiglia, Farley Farm House. La sua biografia Le molte vite di Lee Miller è stata pubblicata in Italia da Contrasto. Kate Winslet, che interpreta Lee Miller nel film, prefaziona il libro.
La sua famiglia di origine era composta dal padre Theodore, ingegnere, inventore e uomo d’affari di origine tedesca, dalla madre Florence Miller, nata MacDonald, di origine canadese, scozzese ed irlandese, dal fratello minore Erik e dal fratello maggiore John. Era la figlia preferita del padre, che si dilettava con la fotografia e che insegnò le tecniche fotografiche ai propri figli quando erano ancora molto piccoli. Lee, oltre ad essere allieva, fin dall’infanzia era stata anche la modella di Theodore, che la ritraeva spesso nelle sue fotografie stereoscopiche.[4]
Nel 1914, all’età di sette anni, subì una violenza sessuale, mentre si trovava a Brooklyn presso amici di famiglia in occasione del ricovero in ospedale della madre; fra le conseguenze ebbe un’infezione di gonorrea. Non venne sporta denuncia e non fu ben chiaro chi fosse l’autore della violenza, che voci contrastanti attribuirono ad un marinaio, ad un parente o addirittura al padre di Lee. Molti anni più tardi tali supposizioni vennero smentite dal figlio di Lee Miller, il quale escluse parimenti l’ipotesi di rapporti incestuosi fra Lee e Theodore, che le foto scattate loro in seguito da Man Ray potevano suggerire.[5] Qualunque fosse la vera identità dello stupratore, in quello stesso anno Theodore iniziò a fotografare la figlia nuda, ritraendola nella neve in una foto intitolata Mattinata di dicembre che si ispirava a Mattinata settembrina, un quadro di Paul Chabas, la cui esposizione a New York nel 1913 era stata causa di scandalo.[6]
Nel 1925 frequentò l’École nationale supérieure des beaux-arts; nel 1926, a 19 anni, si iscrisse alla Art Students League di New York per studiare scenografia e illuminazione di scena.[7][8] Nello stesso anno, mentre camminava per strada a Manhattan, rischiò di essere investita da un’auto che sopraggiungeva, ma fu prontamente trattenuta da un passante che le evitò l’incidente e le salvò la vita.[7][8]
Carriera come modella
Il passante che le salvò la vita si rivelò Condé Nast, editore di Vanity Fair e di Vogue. Nast rimase affascinato dal portamento e dal modo di vestire di Lee, e ne apprezzò anche la conoscenza della lingua francese, al punto da proporle un contratto: iniziò in questo modo la sua carriera di fotomodella.[7][8]
Mentre dimostrava sempre maggiore interesse alle tecniche di chi la fotografava, cresceva la sua ambizione a diventare l’osservatrice anziché l’osservata.[5]
Nel 1928 una foto di Lee Miller scattata da Steichen fu utilizzata per la pubblicità di assorbenti e causò uno scandalo[9] che pose fine alla sua carriera di modella.
Carriera come fotografa
Nel 1929 Lee Miller si recò a Parigi con l’intenzione di fare apprendistato presso l’artista e fotografo surrealista Man Ray. Sebbene all’inizio questi non fosse intenzionato ad avere allievi, Lee presto divenne la sua modella e collaboratrice, e pure la sua compagna e musa.[6]
A Parigi nel 1930 Miller allestì uno studio fotografico proprio, spesso ricevendo commissioni da stiliste affermate quali Elsa Schiaparelli e Coco Chanel.[2] Non di rado sollevò da questo tipo di incarichi Man Ray, che in tal modo poteva concentrarsi sui propri dipinti.[10] Molte fotografie attribuite a Man Ray erano in realtà opera di Miller e nel 1930 non era facile distinguere quale dei due fosse l’autore.[6][10]
Insieme a Ray Lee Miller lavorò a numerosi progetti, ed insieme sperimentarono la tecnica fotografica della solarizzazione.[11]
Nell’intero corso della sua carriera Lee Miller mantenne sempre il punto di vista surrealista, utilizzando porte, specchi, finestre ed altri dettagli atti ad inquadrare e ad isolare il soggetto ritratto.[2]
Delusa sia dalla relazione amorosa che dall’ambiente artistico, nel 1932 lasciò Ray e Parigi per tornare a New York, dove allestì un proprio studio fotografico per ritratti e foto commerciali, con il fratello Erik che la assisteva nella camera oscura. Nello stesso anno espose nella mostra della Moderna fotografia europea presso la galleria Julien Levy di New York, nella quale allestì l’anno successivo l’unica mostra personale di tutta la sua vita.[15]
A New York lavorò con successo come fotografa per due anni, eseguendo numerosi ritratti, come quelli dell’artista Joseph Cornell, delle attrici Lilian Harvey e Gertrude Lawrence, e del cast afroamericano dell’opera lirica Four Saints in Three Acts (1934) di Virgil Thomson e Gertrude Stein. Ritratti come Floating Head (Mary Taylor), del 1933, riflettevano l’influenza surrealista di Man Ray.[2]
Nel 1934 conobbe il facoltoso uomo d’affari egiziano Aziz Eloui Bey, che si era recato a New York per acquistare l’attrezzatura per il trasporto ferroviario nazionale del proprio Paese. Nacque una storia d’amore che in pochi mesi venne coronata dal matrimonio, e nel 1935 Lee Miller seguì il marito al Cairo. Qui, impressionata dal paesaggio arido del deserto e dai luoghi abbandonati dei faraoni, fotografò rovine e templi, arrampicandosi con la propria attrezzatura anche sulla piramide di Cheope a Giza. Le foto scattate in Egitto, compresa Portrait of Space, sono considerate fra le sue immagini surrealiste più sorprendenti, nonostante Miller avesse temporaneamente sospeso il lavoro di fotografa professionista.
La storia d’amore con Bey non durò a lungo, e presto Lee si stancò della vita al Cairo. Nel 1937 intraprese un viaggio a Parigi, dove incontrò il pittore surrealista e curatore d’arte britannico Roland Penrose, che si era appena separato dalla moglie Valentine, e che avrebbe sposato qualche anno più tardi. Insieme a Penrose visitò buona parte dell’Europa, scattando foto spettacolari, e trascorse una vacanza nel sud della Francia, a Mougins, dove frequentò Pablo Picasso, Dora Maar, Paul Éluard, Nusch Éluard, Man Ray, Eileen Agar ed altri artisti, che ritrasse in una serie di fotografie fra cui uno studio su Picasso. Questi, a propria volta, dipinse Lee Miller su sei diverse tele.[2][16]
Nel 1939 Miller lasciò definitivamente l’Egitto per trasferirsi a Londra.
Corrispondente di guerra e fotoreporter
Allo scoppio della seconda guerra mondiale Miller era residente in Hampstead a Londra con Roland Penrose quando iniziò il bombardamento della città. Penrose venne richiamato alle armi, mentre Lee tornò per un breve periodo a New York dove riprese il lavoro di fotografa per Vogue.
Ignorando le richieste degli amici e della famiglia di restare negli Stati Uniti, Miller intraprese la nuova carriera di fotoreporter di guerra per Vogue, e documentò il bombardamento strategico del Regno Unito nel corso della guerra lampo portata avanti dalla Germania nazista. Tra il 1939 ed il 1945 Miller fece parte del London War Correspondents Corp e fu riconosciuta dall’esercito degli Stati Uniti d’America quale corrispondente di guerra per l’editore Condé Nast dal mese di dicembre 1942, incarico all’epoca non frequentemente assegnato ad una donna. Collaborò con il fotografo statunitense David Scherman, corrispondente di Life, con il quale ebbe una relazione. Le furono affidati numerosi incarichi, durante i quali sviluppava le pellicole in una camera oscura improvvisata nella propria stanza d’albergo.
Miller si recò in Francia meno di un mese dopo il D-Day e documentò il primo utilizzo del napalm durante l’assedio di Saint-Malo, la liberazione di Parigi, la battaglia dell’Alsazia, l’incontro tra l’esercito statunitense e l’Armata Rossa a Torgau, la conquista del Berghof nell’Obersalzberg presso Berchtesgaden. In particolare, la documentazione dell’orrore dei campi di concentramentonazisti di Buchenwald e di Dachau costituì la prima testimonianza dello sterminio perpetrato nei campi, tanto che dovette essere certificata l’autenticità delle foto per la pubblicazione su Vogue,[17] e lasciò un segno indelebile nella sua mente.[18] Una foto di Scherman, che ritrasse Miller nella vasca da bagno dell’appartamento di Adolf Hitler a Monaco di Baviera dopo la caduta della città nel 1945, costituì una delle immagini più rappresentative della collaborazione fra i due fotografi.[5][19]
Durante la guerra, forse per la prima volta nella vita, Lee venne apprezzata non per il proprio aspetto bensì per ciò che era in grado di fare, realizzando in tal modo il desiderio di “scattare una foto piuttosto che essere ripresa”. Fu sempre determinata a competere con gli uomini ad armi pari, talvolta rischiando guai, come quando infranse il divieto che riguardava le fotografe di avvicinarsi troppo al fronte: infrazione che le costò l’arresto per un breve periodo.[5]
Finita la guerra, Miller iniziò a ritrarre bambini ricoverati in un ospedale di Vienna e la vita dei contadini nell’Ungheria; immortalò anche l’esecuzione del Primo ministro László Bárdossy. Continuò quindi a lavorare per Vogue per due anni, occupandosi di moda e di celebrità.
Nel 1946 fece visita a Man Ray in California insieme a Penrose. Quando si accorse di aspettare un bambino, chiese il divorzio dal marito egiziano e sposò Roland Penrose il 3 maggio 1947. Il suo unico figlio, Antony, nacque nel mese di settembre del 1947.
Mentre Miller continuava occasionalmente a scattare foto per Vogue, era conosciuta soprattutto come Lady Penrose e presto alla camera oscura preferì la cucina,[24] trasformandosi in cuoca apprezzata. Fotografò anche Picasso e Antoni Tàpies per le biografie che Roland scrisse su di loro. Le immagini della guerra, specialmente quelle dei campi di concentramento, continuavano a tormentarla e il suo stato depressivo peggiorò. Il suo peggioramento poteva anche essere in parte attribuito alla lunga relazione extraconiugale del marito con una trapezista.[4]
Lee Miller morì di cancro nel 1977 presso la Farley Farm all’età di 70 anni. Venne cremata e le sue ceneri sparse nel suo giardino.[27]
La fama di Lee Miller
Nel 1955 alcune foto di Miller vennero selezionate per l’esposizione The Family of Man realizzata presso il Museum of Modern Art di New York; nel 1976 Lee fu ospite d’onore ai Rencontres d’Arles.
In generale, Lee Miller non si preoccupò particolarmente di fare pubblicità al proprio lavoro fotografico, noto soprattutto in seguito agli sforzi del figlio Antony che iniziò a studiare, conservare e promuovere l’opera materna fin dall’inizio degli anni ottanta, rendendo accessibili le foto sul sito Lee Miller Archives.[28]
Quando ereditò la Farley Farm, Antony la trasformò in museo in cui, accanto alle stanze abitate dai genitori, espose le opere di loro produzione, come Fallen Giant, Sea Creature e Kneeling Woman, e le collezioni private Miller-Penrose, ossia alcuni fra i loro pezzi d’arte preferiti, comprendenti lavori di Picasso, Man Ray, Max Ernst e Joan Miró.[23]
Nel 1985 Antony Penrose pubblicò la prima biografia della madre, intitolata The Lives of Lee Miller.[3] Da quel momento molti libri, spesso corredati di foto di Lee Miller, vennero scritti dagli storici dell’arte e da scrittori quali Jane Livingston,[20] Richard Calvocoressi,[29] Mark Haworth-Booth.[30] Un’intervista radiofonica del 1946 venne trasformata in audiolibro dal titolo Surrealism Reviewed, pubblicato nel 2002.[31]
Nel 1989 venne organizzata una grande retrospettiva itinerante in buona parte degli Stati Uniti d’America.
Le opere principali di Lee Miller, ossia le foto scattate come corrispondente di guerra, vennero in buona parte raccolte e pubblicate postume sempre a cura di Antony Penrose, con una prefazione di David Scherman.[32] Nel 1993 la biografia romanzata di Lee Miller pubblicata da Marc Lambron vinse il Prix Femina.[33]
Nel 2005 la vita di Lee Miller venne riprodotta in un musical intitolato Six Pictures of Lee Miller, con musiche e parole del compositore britannico Jason Carr,[34] premiato al Chichester Festival Theatre nel Sussex. Nello stesso anno la biografia di Carolyn Burke, Lee Miller, a Life[35][36] venne pubblicata negli Stati Uniti d’America da Alfred A. Knopf e nel Regno Unito da Bloomsbury.
Nel 2007, con la collaborazione dell’Università del Sussex, comparve Echoes from St. Malo[37] all’interno della collana Traces of Lee Miller, un CD interattivo e DVD sull’attività fotografica di Lee Miller a Saint-Malo.
Nel 2012 diverse opere di Miller vennero incluse nella tredicesima edizione della documenta di Kassel.
Nel 2020 esce il libro La Vasca del Führer di Serena Dandini, sulla vita di Lee Miller Penrose.
Nel 2023 viene realizzato il lungometraggio Lee, diretto da Ellen Kuras ed interpretato da Kate Winslet.
Filmografia
(FR) Sylvain Roumette, Lee Miller ou la Traversée du miroir, Production Terra Luna Films, France, 1995, a 0:54:00.
È stata la capitale d’Israele dal 1948 al dicembre 1949[2][3] ed è ancora sede della maggior parte delle ambasciate straniere presso quello Stato[4], dato che la proclamazione da parte di Israele di Gerusalemme come capitale nel 1980 non è riconosciuta da diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite[5] e un numero limitato di Stati ha l’ambasciata in tale città[4].
La giurisdizione di Tel Aviv è di 50,6 km². La densità di popolazione è di 7.445 persone per km² secondo le stime dell’Ufficio Centrale Israeliano di Statistica, riferite al settembre 2005, quando la popolazione della città ammontava a 876.700, in costante crescita a un tasso annuo dell’1 %. Il 96,1 % dei residenti sono ebrei, mentre il 3,0 % sono arabimusulmani e lo 0,9 % sono arabi cristiani. Secondo alcune stime circa 50.000 lavoratori stranieri non regolarizzati vivono a Tel Aviv[6].
Tel Aviv è il titolo ebraico dell’opera di Theodor HerzlAltneuland, tradotta dalla lingua tedesca da Nahum Sokolow. Sokolow adottò il nome di un luogo sito in Mesopotamia, citato in Ezechiele 3,15: “Giunsi dai deportati di Tel Aviv, che abitano lungo il canale Chebàr, dove hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni”.
Il nome fu scelto nel 1910 fra alcune opzioni, tra le quali “Herzliya“, e fu ritenuto adatto a esprimere l’idea di rinascita dell’antica patria ebraica. Aviv in ebraico vuol dire “primavera” e simboleggia il rinnovamento, mentre Tel indica una “collina” creatasi dalla stratificazione, nel tempo, di vari insediamenti umani e simboleggia il passato storico.
Storia
«Se Tel Aviv fosse in Russia, il mondo esalterebbe il suo piano urbanistico, gli edifici, la sua vita cittadina improntata al sorriso, ‘le sue attività intellettuali, la sensazione di una gioventù al potere. La differenza con la Russia è che invece di essere delle mete per l’avvenire, tutte queste cose sono già realizzate.»
Fondata nel 1909 da un gruppo di residenti della vicina città di Giaffa[7], guidati dal futuro sindaco Meir Dizengoff, il nome della città fa riferimento a un passo della Bibbia: nel Libro di Ezechiele, infatti la “collina della primavera” è proprio il luogo dove – nella visione del profeta – trovano casa gli ebrei in esilio.
Alla fine del 1930 ebbe inizio lo sviluppo dell'”area Yarkon Mouth”, nota come la “Penisola Yarkon River“, prima nell’area circostante l’Aeroporto di Sde Dov, nella zona nord di Yarkon Mouth, e nella zona sud della bocca del fiume Yarkon, in quella che sembra per l’appunto una penisola. La “Tel Aviv International Trade Fair”, nota anche come “Orient Fiera” o “Fiera Levante”, è stata istituita tra il 1932 e il 1936 allo scopo di fare emergere nella città gli stili architettonici che oggi la caratterizzano, in particolare lo Style. Nella parte nord-orientale del campo della fiera internazionale è stato costruito il primo “Maccabiah Stadium“, nel 1932.
Nel 1937, è stato costruito sopra il fiume Yarkon il Wauchope Bridge (in omaggio a Arthur Grenfell Wauchope, Alto Commissario per la Palestina e la Transgiordania tra il 1931 e il 1938), allo scopo di collegare le due sponde della città in occasione della fiera internazionale.
Nel secondo dopoguerra la città si è sviluppata fino a diventare, come conurbazione assieme a città limitrofe, il principale centro israeliano in termini di popolazione ed economia.
Nel settembre 2022, pochi chilometri a sud del Palmahim Beach National Park , è stata scoperta una tomba risalente al regno del faraone Ramses II, tomba ricca di artefatti in ceramica e bronzo che forniscono una panoramica completa dell’arte funeraria della tarda Età del bronzo.[9]
Roma-Via del Babuino presenta il suo “Autumn in Babuino Street”
Roma-L’iconica Via del Babuino, nel cuore del tridente della Capitale, si prepara a celebrare la stagione autunnale con l’evento a tema “Autumn in Babuino Street“, il prossimo 24 ottobre, dalle 17.00 alle 21.00.
Un evento diffuso che rappresenterà un connubio perfetto tra arte, musica, buon vino e shopping e che avrà un focus principale sull’arte contemporanea.
L’evento organizzato da NAB – Nuova Associazione del Babuino in collaborazione con GMA – Global Market of Artification ed il patrocinio del Municipio I di Roma, con la Presidente Lorenza Bonaccorsi ed il tocco essenziale dell’Assessora alla cultura Silvia Ghia, sarà un’esperienza unica nel cuore di Roma, lungo la storica Via del Babuino.
Per l’occasione, saranno esposte 15 opere dell’artista venezuelano-spagnolo Pedro Sandoval, genio dell’arte, in anticipo sui tempi, che presenterà una collezione di opere realizzata con l’intelligenza artificiale e poi intervenuta manualmente.
Le opere sono realizzate meticolosamente a mano con materiali quali olio, resina, spray e acrilico su lino. La mostra a cielo aperto è allestita da GMA-Global Market of Artification, proprietaria della “New Renaissance Art Gallery” al civico 79 di Via del Babuino, che per l’occasione porta alcune delle sue opere più rappresentative fuori dalla galleria, esponendole lungo la via.
L’esposizione diffusa sarà accompagnata dalle meravigliose melodie di tre splendide violiniste – Marta Iacoponi, Virginia Galliani e Giorgia Rossetti – che eseguiranno musica pop in itinere.
Artista italiana presente, ma anch’essa di fama internazionale su Via del Babuino sarà Luna Berlusconi che, proprio di fronte all’Hotel de Russie, esporrà l’opera “Divina” mentre all’interno dell’hotel sarà presentata anche la versione NFT della stessa opera.
Le 20 boutique partecipanti all’evento offriranno ai clienti raffinate degustazioni dei prestigiosi vini dell’azienda Principe Pallavicini, produttore leader del territorio laziale e sponsor dell’evento.
Un evento unico ed esclusivo, per rilanciare una delle più famose e blasonate vie dello shopping del Centro Storico capitolino.
Il Tempio-I resti del monumento sono situati nell‘area archeologica di Metaponto, più precisamente sull’ultima ondulazione dei Givoni, antichi cordoni litoranei, presso la sponda destra del fiume Bradano, eretto sui resti di un antico villaggio neolitico, lungo la strada preistorica proveniente da Siris-Heraclea, a circa 3 km dall’antica città di Metaponto.
STORIA
Il tempio delle Tavole Palatine, restaurato nel 1961, era stato inizialmente attribuito al culto della dea Atena, successivamente sul frammento di un vaso, trovato nel corso degli scavi archeologici del 1926, venne rinvenuta una dedica votiva alla dea Hera. Fino al XIX secolo le Tavole Palatine erano localmente definite anche “Mensole Palatine” o “Colonne Palatine“, probabilmente in ricordo alle lotte contro i Saraceni dei Paladini di Francia. Il tempio era anche chiamato “Scuola di Pitagora“, in memoria del grande filosofo Pitagora. Nel medioevo era ancora chiamato “Mensae Imperatoris“, probabilmente a ricordo dell’imperatore Ottone II che, nella spedizione contro i Saraceni del 982, si accampò a Metaponto.
DETTAGLI
I resti del tempio sono composti da 15 colonne con 20 scanalature e capitelli di ordine dorico. Delle 15 colonne, 10 sono sul lato settentrionale e 5 sul meridionale. In origine le colonne erano 32, poiché il tempio aveva una forma periptera con 12 colonne sui lati lunghi e 6 sui lati corti. Lo stilobate era lungo 34,29 metri e largo 13,66 metri, la cella di 17,79 x 8,68 metri. Il tempio risulta molto degradato, poiché costruito con calcare locale (detto mazzarro)
ITINERARI
Bernalda: Castello, Chiesa madre di San Bernardino da Siena, Palazzo Margherita; spiagge del Metapontino, Torre Mare con la chiesa di San Leone Magno;
Pisticci: chiesa madre di Santi Pietro e Paolo, Rione Dirupo e Terravecchia, Castello di San Basilio, Torre dell’Acquedotto;
Policoro: Castello Baronale, Museo della Siritide, Parco archeologico di Herakleia;
Montescaglioso: Abbazia di San Michele Arcangelo;
Miglionico: Castello del Malconsiglio
Matera
Fonte- Museo Archeologico Nazionale Metaponto
Contatti
Museo Archeologico Nazionale Metaponto
Via D. Adamesteanu, 21
75010 Bernalda (MT)
Descrizione dal sito MiC – Ministero della Cultura
I resti del monumento sono situati nei pressi di Metaponto, nell’area archeologica del Tempio di Hera detto delle Tavole Palatine, presso la sponda destra del fiume Bradano. Si tratta delle rovine del tempio di stile dorico, eretto nel VI secolo a.C., che ornava il santuario extraurbano dedicato alla stessa dea Hera e marcava, visibile a distanza, il confine con il territorio della polis antagonista di Taranto.
Fino al XIX secolo le Tavole Palatine erano localmente definite anche “Mensole Palatine” o “Colonne Palatine”, forse in ricordo delle lotte dei Paladini di Francia contro i Saraceni.
Nel medioevo risulta anche il nome “Mensae Imperatoris”, che richiama il passaggio dell’imperatore Ottone II il quale, nel X secolo d.C., si accampò a Metaponto di ritorno dalla spedizione contro i Saraceni.
Del tempio si conservano 15 colonne sormontate da capitelli di ordine dorico e dagli architravi. L’edificio, in origine dotato di 32 colonne, 12 si lati lunghi e 6 sulle fronti. La cella, di cui si conservano solo i blocchi di fondazione, era munita di pronao, naos e adyton. Il tempio era ornato da ricche decorazioni architettoniche in terracotta policroma, i cui resti sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Metaponto.
Da alcuni anni una missione della Scuola Superiore Meridionale ha ripreso gli scavi nell’area del tempio e del santuario.
-Alberto Sughi -Artista del realismo esistenziale-
I disegni :”momenti di vita quotidiana senza eroi”-
Alberto Sughi (Cesena 5 ottobre 1928-Bologna 31 marzo 2012)-Artista del realismo esistenziale ,si era trasferito a Roma nel 1948, dove aveva frequentato il gruppo artistico del Portonaccio, animato da Renzo Vespignani, che lo influenzerà nelle successive ricerche legate al realismo a sfondo sociale.
Scelse la strada del realismo, nell’ambito del dibattito fra astratti e figurativi dell’immediato dopoguerra. I dipinti di Sughi rifuggono tuttavia ogni tentazione sociale; mettono piuttosto in scena momenti di vita quotidiana senza eroi. Enrico Crispolti nel 1956 nel inquadrò la sua pittura nell’alveo del realismo esistenziale.
Scelse la strada del realismo, nell’ambito del dibattito fra astratti e figurativi dell’immediato dopoguerra. I dipinti di Sughi rifuggono tuttavia ogni tentazione sociale; mettono piuttosto in scena momenti di vita quotidiana senza eroi. Enrico Crispolti nel 1956 inquadrò la sua pittura nell’alveo del realismo esistenziale.
La ricerca di Alberto Sughi procede per cicli tematici: le cosiddette Pitture verdi, dedicate al rapporto fra uomo e natura (1971-1973), il ciclo La cena (1975-1976); agli inizi degli ’80 appartengono i venti dipinti e i quindici studi di Immaginazione e memoria della famiglia; dal 1985 la serie La sera o della riflessione. L’ultima serie di dipinti, esposta nel 2000, è intitolata Notturno.
“Donna sul divano Rosso”, 1959, Olio e tempera su tavola 150×120 cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Uomini al bar”, 1960, Olio e tempera su tela 180×130 cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La cena. Uomo che mangia”, 1975, Acrilico su tavola 100×70 cm, Roma, collezione privata, Milano Collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La cena. Donna sola”, 1976, Acrilico su tela 180×120 cm, Fiuggi, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Donna davanti al televisore”, 1981, Acrilico su tela 158×158 cm, Roma, collezione dell’Artista – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La lavanda dei piedi”, 1981, Acrilico su tela 160x160cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Tramonto romano”, 1983, Olio su tela 180×250 cm, Sessa Aurunca, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Teatro d’Italia”, 1984, Olio su tela 250×360 cm, Cesena, collezione Cassa di Risparmio – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Guardare fuori”, 1985, Olio su tela 100×120 cm, Trezzano sul Naviglio, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La sera”, 1985, Olio su tela 120×100, Roma, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La poltrona del potere”, 1969, Olio su tela 110×140 cm, Trezzano sul Naviglio, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Villa sull’Adriatico”, 1973, Olio su tela 120×100 cm, Roma, collezione dell’Artista – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub.
Valentin Gritsenko:”Lo sapete che la tigre dell’Amur è il simbolo di Vladivostok dal 1881? Questo favoloso felino è raffigurato sull’emblema della città e ci sono statue e immagini ovunque”.
Vladivostok venne fondata nel 1859 dal conte Nikolaj Murav’ëv-Amurskij; i russi, compresa subito l’importanza strategica dell’insediamento, fortificarono la città. Nel 1871 venne aperta la linea telegrafica che la univa con Shanghai e Nagasaki. Nello stesso anno venne aperto il porto e vi fu trasferito il quartier generale della Flotta del Pacifico, precedentemente posto a Nikolaevsk-na-Amure. Nove anni dopo le venne garantito lo status di città, mentre nel 1883 venne adottato come stemma cittadino la tigre siberiana.
XIX secolo
Il 31 ottobre 1861 a Vladivostok arrivò il primo colonizzatore civile, il mercante Jacov Semenov. Il 15 marzo 1862 fu firmato l’acquisto del territorio, mentre nel 1870 l’uomo divenne il primo sindaco della nuova città. Nello stesso periodo una commissione del Governo decise che Vladivostok dovesse essere un importante polo portuale dell’Estremo Oriente[3][4].
Nel 1871 vennero spostati a Vladivostok da Nikolaevsk-na-Amure il quartier generale della Flotta Siberiana della Marina russa, il Comando militare ed altri Enti navali. Nel 1880 Vladivostok ottenne lo status di città[4], e negli anni ’90 del XIX secolo avvenne il boom demografico[5] ed economico della città. I fattori che determinarono tale progresso furono il completamento della costruzione della ferrovia Transiberiana e della ferrovia cinese orientale. I dati del primo censimento avvenuto nell’Impero russo il 9 febbraio 1897 attestano che in quel momento nella città risiedevano 28.993 persone, mentre dieci anni dopo la popolazione cittadina era triplicata[5]. Lo sviluppo del commercio internazionale e la forte attività commerciale russa in Corea, Cina e Giappone, portarono alla necessità dell’insediamento nella città di numerosi interpreti. Con il provvedimento del 9 luglio 1899 da parte del Consiglio di Stato dell’Impero russo fu creata a Vladivostok l’Università d’Oriente.
Al momento dell’instaurazione del governo bolscevico, la città di Vladivostok era in declino, visto che uscendo dalla città, le truppe nipponiche avevano depredato la maggior parte dei beni materiali. La vita si paralizzò: nelle banche erano assenti le ricchezze monetarie che nel XIX secolo avevano portato la città a un periodo di splendore, l’attrezzatura delle industrie era scomparsa, rivenduta dagli operai. A causa dell’emigrazione e della repressione dei cittadini la popolazione calò vertiginosamente a 106.000 cittadini. Nel 1923 il Governo attuò un piano finalizzato alla ripresa portuale, che nel 1925 divenne il settore più redditizio dell’economia del paese sovietico.
Seconda guerra mondiale
Vladivostok non fu teatro di guerra durante il secondo conflitto mondiale. Tuttavia, durante gli anni di guerra l’allerta fu sempre massima a causa della preoccupazione di un possibile attacco giapponese. La città fu la prima a partecipare al «Fondo della Difesa», consistente nella donazione di oggetti di valore dei cittadini al Governo per l’acquisto di materiale militare.[6]
Dopo la seconda guerra mondiale
Il Consiglio dei ministri dell’URSS mise in discussione un possibile impedimento per gli stranieri a entrare nella città; infatti dopo la seconda guerra mondiale Vladivostok si confermò importante porto della Marina militare sovietica. Oltre all’impossibilità per gli stranieri di solcare il territorio della città dell’Estremo Oriente, fu messa in discussione la chiusura delle ambasciate straniere. Il porto commerciale sarebbe stato spostato a Ussurijsk. Il provvedimento fu attuato il primo gennaio 1952.
Durante gli anni del «disgelo», il Governo rivolse in modo particolare l’attenzione a Vladivostok. La prima visita dell’allora segretario del PCUSChruščёv avvenne nel 1954.
In quegli anni le infrastrutture cittadine si trovavano in uno stato pessimo. Nel 1959 il leader dell’URSS visitò per la seconda volta la città costiera, questa volta con il compito di parlare con i rappresentanti della città del miglioramento economico e sociale della località. Infatti, il 18 gennaio 1960 venne approvato l’emendamento «Per la realizzazione del miglioramento della città di Vladivostok». Negli anni ’60 viene costruita la linea della filovia e la città diventa un enorme cantiere: nelle zone circostanti la città vennero costruiti nuovi distretti, il centro fu rimodernato.
Il 20 settembre 1991 il presidente dell’RSFSRBoris Elc’in firmò il provvedimento che eliminava il divieto di visita della città da parte di stranieri.[8]
Periodo contemporaneo
Dopo lo scioglimento dell’URSS l’economia cittadina si trasformò da fiorente in quasi inesistente. Furono chiusi gli stabilimenti di produzione militare, provocando un altissimo numero di disoccupati. Negli anni ’90 Vladivostok era il centro del lavoro illegale e del contrabbando. A causa del peggioramento del livello di vita, crollò il tasso di fecondità e si verificò una numerosissima migrazione interna.[9]
All’inizio del XXI secolo si registrò un miglioramento sociale ed economico. Il 4 novembre 2010 Vladivostok fu insignita del titolo di «Città di gloria militare».[10]
Il nuovo sviluppo della città raggiunse un livello importante nel 2012, quando fu ospitata la riunione dell’APEC. Grazie all’evento furono spesi 20 miliardi di dollari per la sostituzione delle vecchie infrastrutture. I progetti più importanti che sono stati realizzati sono la costruzione del ponte «Corno d’oro» e il ponte dell’isola Russkij, un nuovo complesso aereo-ferroviario e dell’Università federale dell’Estremo oriente.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.