Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
5) Giovan Battista Grassi- medico, zoologo, botanico ed entomologo –
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage-5)Giovan Battista Grassi- medico, zoologo, botanico ed entomologo–: Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; e ancora vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Rovellasca (Como)-Casa natale di Giovan Battista Grassi, scienziato e Senatore del Regno
Giovan Battista Grassi, scienziato di fama mondiale per gli studi di zoologia e per l’individuazione del vettore della malaria, nacque a Rovellasca il 27 Marzo 1854 da Luigi Battista Grassi, funzionario pubblico, e Costanza Mazzucchelli di origine contadina.
Nel 1872 si diplomò presso il Regio Liceo Volta di Como e nel 1878 si laureò in medicina all’Università di Pavia. Si dedicò alla biologia e alla zoologia. A Heidelberg, in Germania, incontrò la ricercatrice Marie Koenen, dapprima sua assistente e poi sua moglie. Nel 1883, a soli 29 anni, fu nominato Professore di Zoologia, Anatomia e Fisiologia Comparata all’Università di Catania.
Le sue ricerche gli procurarono fama internazionale e nel 1895 ottenne il trasferimento all‘Università di Roma.
Il 28 Novembre 1898 dichiarò, in una nota all’Accademia dei Lincei, di aver ottenuto la prova sperimentale della trasmissione del parassita della malaria e l’identificazione della specie di zanzara vettrice nell’uomo.
Dopo la delusione per il Premio Nobel al britannico Ronald Ross per un analogo studio sulla malaria, Grassi iniziò a dedicarsi alla medicina sociale e all’entomologia. Intanto, si diffuse l’idea che quel Premio Nobel spettasse a Grassi e nel 1910 la prestigiosa Università di Lipsia gli conferì la Laurea Honoris Causa per le sue “subtilissima sagacissimaque investigationes” sul contagio malarico, sottolineandone la preminenza (in primis vero).
Dopo la prima Guerra Mondiale, con un nuovo picco di diffusione della malaria in Italia, tornò ad occuparsi di questa malattia, scoprendo l’esistenza di una specie di anofele (zanzara) che non punge l’uomo, ma solo gli animali; ipotesi poi confermata da Falleroni (1926). Grassi venne insignito di numerose medaglie e onorificenze da tutto il mondo; fu anche nominato nel 1908 Senatore del Regno.
Grassi morì a Roma il 4 Maggio 1925 e fu sepolto, secondo le sue ultime volontà, nel piccolo cimitero di Fiumicino.
Giovan Battista Grassi- medico, zoologo, botanico ed entomologo.
Biologo italiano (Rovellasca 1854 – Roma 1925), prof. di zoologia a Catania (1883) e di anatomia comparata a Roma (1896); socio nazionale dei Lincei (1897). Le sue prime ricerche vertono sui vermi parassiti, di molti dei quali fece conoscere il ciclo di sviluppo; si dedicò poi a lavori di zoologia e anatomia comparata su altri gruppi, fra cui notevoli la monografia sui Chetognati (1883), e le sette memorie sui progenitori dei Miriapodi e degli Insetti (1886); del 1893 è la fondamentale memoria sulla costituzione e lo sviluppo della società dei Termitidi; del 1892-93 la dimostrazione della trasformazione del leptocefalo in anguilla. Negli stessi anni iniziò le ricerche sulla malaria degli uccelli, estese poi alla malaria umana, che lo condussero a determinare l’agente trasmettitore (1898). Al problema della malaria il G. dedicò in seguito tutta la propria attività fino alla morte, iniziando la profilassi antimalarica nell’Agro Romano. Si occupò anche dei Flebotomi e della fillossera, nonché di problemi generali e storici. Uomo di vastissima cultura, d’attività instancabile e d’inesauribile passione per la ricerca, ebbe notevolissima influenza anche come insegnante. Nel 1908 fu nominato senatore del Regno.
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Louis GILLET-Gli Artisti francesi in Italia-Copia anastatica della Rivista PAN n°8 del 1934
Louis GILLET– Storico e critico d’arte francese, nato a Parigi l’11 dicembre 1876; ivi morto nel luglio 1943. Il suo primo saggio, intorno alla cattedrale di Chartres, orientò il suo gusto verso il Medioevo. I volumi giovanili su Nos Maîtres d’autrefois e Les primitifs français (1904) chiariscono la natura di una mentalità che si vale della erudizione positivistica ma sa trasfigurarla nell’emozione del bello e nelle relazioni della sensibilità. Gli studî successivi lo interessarono alla conoscenza dell’arte rinascimentale. Il Raphael, scritto durante un viaggio in Italia, è del 1907. Appena uscito dalla Normale fu lettore a Greifswald, poi docente alla Université Laval di Montréal. Altri viaggi in Italia gli consentirono di ammirare la pittura giottesca e fu spinto a scrivere l’Histoire artistique des Ordres Mendiants (1912), dove tracciò il quadro dell’influenza della spiritualità francescana dal Due al Seicento. Dell’anno appresso è l’Histoire de la Peinture Française du XVIIéme et XVIIIéme siècle, di grande perspicuità espositiva. Partecipò alla prima Guerra mondiale e la sua mente acuta di osservatore e di storico ne ricavò vivaci considerazioni raccolte in L’assaut repoussé (1919) e in La bataille de Verdun (1920). Gli studî su L’art flamand et la France erano apparsi mentre durava la guerra. La sua attività continuò intensamente con il libro su Watteau (1921), la redazione del vasto quadro di sintesi su l’Histoire des arts en France (1922) e La Peinture dans les Pays-Bas au XVIéme; XVIIéme et XVIIéme siècle e delle arti in America. Riprese gli studî francescani di cui sono frutto i due volumi su Saint-François d’Assise (1925) e Sur les pas de Saint-François d’Assise (1926); ampliò la precedente trattazione manualistica in La peinture française: Moyen-Age; Renaissance (1928); diede forma definitiva al saggio su La Cathédrale de Chartres (1929). In Cathédrales (1935) studiò le cattedrali di Reims, di San Giacomo di Compostella e ancora quelle di Chartres e di Assisi. La Cathédrale vivante (1936) è un’analisi che cerca di cogliere il senso intimo delle grandi chiese francesi. È stato redattore dal 1917, di letterature straniere alla Revue des deux mondes, e dal 1934 critico letterario all’Écho de Paris. Nel 1929 pubblicò la corrispondenza inedita tra Sainte-Beuve e de Vigny. Libri di viaggio e reportages politici sono Le tapis enchanté, Rome et Naples e Londres et Rome (1936). Collaborò anche, per la storia dell’arte francese, all’Enciclopedia Italiana. Accademico di Francia dal 25 novembre 1935.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
4)Prof.Elio Guzzanti già Ministro della Sanità
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage:4)Prof.Elio Guzzanti già Ministro della Sanità – Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni-Murales Ospedale Spallanzani di Roma- Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; e ancora vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Prof. Elio Guzzanti (1920-2014)-Fonte –Il Sole24Ore
Il 2 maggio 2014 è deceduto a Roma all’età di 93 anni il Prof. Elio Guzzanti, già Ministro della Sanità. Il Prof. Guzzanti è stato tra i primi in Italia ad occuparsi ad alto livello di programmazione, organizzazione e gestione dei servizi ospedalieri e sanitari.
Ha trasferito la sua straordinaria esperienza prima clinica e poi organizzativa maturata, anche come sovrintendente sanitario dal 1976 al 1980 del Pio Istituto di Santo Spirito Ospedali Riuniti di Roma, nell’attività scientifica e poi nella legislazione sanitaria e nella pratica amministrativa.
Nel corso della sua lunga e brillante carriera è stato Direttore Sanitario degli Ospedali San Camillo, Santo Spirito ed Umberto I di Roma, componente del Consiglio Superiore di Sanità, Direttore dell’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali e Commissario ad acta per la Sanità del Lazio.
Modelli organizzativi sanitari attualmente di uso comune come i dipartimenti, i ricoveri in day-hospital e day-surgery, la preospedalizzazione e le dimissioni protette debbono essere fatti risalire in gran parte all’attività prima teorico-scientifica e poi di “letteratura grigia” con la quale il Prof. Guzzanti ha contribuito alla stesura di leggi sanitarie promulgate da vari governi.
Quando egli stesso fu chiamato alla responsabilità di Ministro della Sanità nel governo Dini dal 1995 al 1996 produsse una serie di atti di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la realizzazione dei modelli organizzativi di cui abbiamo parlato. Il suo ministero si è caratterizzato in particolare per l’introduzione in Italia del sistema DRG che non è soltanto un metodo di remunerazione per prestazione, ma anche un sistema di valutazione comparata di qualità e quantità delle prestazioni ospedaliere stesse.
Credo però che sia un dovere ricordarlo anche sul nostro Giornale Italiano di Cardiologia per i suoi contributi alla crescita nel nostro Paese dei settori della Cardiologia, Cardiologia Pediatrica e Cardiochirurgia. Fin dai primi anni ’80 infatti, prima con la presidenza del Prof. Stefanini, poi con quella del Prof. Donato, il Prof. Guzzanti è stato vice-presidente della Commissione Nazionale del Ministero della Sanità per la Cardiologia e Cardiochirurgia. Tale Commissione ha introdotto per la prima volta in Italia gli standard internazionali di attività e gestione per questi settori.
Sulla base di questa esperienza e in qualità di Sovrintendente Sanitario e Direttore Scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma il Prof. Guzzanti realizzò nel 1982 il primo Dipartimento Medico-Chirurgico di Cardiologia Pediatrica che vedeva l’attività integrata di cardiologi, cardiochirurghi e intensivisti formalizzata in procedure che prevedevano responsabilità specifiche. Questo Dipartimento Medico-Chirurgico, che è stato nei primi anni diretto dal Prof. Guzzanti stesso, ha rappresentato in Italia un modello organizzativo sia per le specialità cardiologiche che per quelle neurologiche e gastroenterologiche.
Il Prof. Guzzanti è stato un maestro per molte generazioni di direttori sanitari e manager della sanità. Il suo tratto umano, la sua ironia e la sua profonda cultura per tutti gli aspetti della medicina come scienza, ma principalmente come applicazione pratica, ne facevano una guida per chiunque entrava in contatto con lui. Tutti gli operatori sanitari e in particolare quelli del settore della Cardiologia e Cardiochirurgia del nostro Paese avranno sempre un debito di riconoscenza per il Prof. Elio Guzzanti.
Fonte –Giornale italiano di Cardiologia-Articolo di Bruno Marino-
Bruno Marino
U.O.C. Cardiologia Pediatrica
Dipartimento Attività Integrata di Pediatria
Sapienza Università di Roma
Elio Guzzanti, un padre putativo e un maestro- Fonte –Il Sole24Ore
di Giuseppe Ippolito (National Institute forInfectious Diseases Lazzaro Spallanzani)
È morto Elio Guzzanti, per me un padre, e per la sanità italiana, oltre che per le malattie infettive, un grande stratega. Avevo avuto la fortuna di incontrarlo all’inizio degli anni ’80 quando mi suggerirono di rivolgermi a Lui per avere suggerimenti per uno studio di incidenza sulle infezioni ospedaliere nei reparti di terapia intensiva. Lo studio l’avevo scritto come prova di ammissione a un corso negli Stati Uniti e volevo sapere se fosse realizzabile in Italia. Volevo presentarlo al Programma del Cnr sulle malattie da infezione, all’epoca diretto da Ferdinando Dianzani. Elio Guzzanti mi diede appuntamento una domenica mattina nel suo studio, mi ascoltò, s’informò sui miei programmi, cercò di sondare se ero conscio della difficoltà dell’avventura. Mi diede suggerimenti preziosi e si attivò per farmi incontrare le persone del mondo della rianimazione che potevano consentirmi di realizzare lo studio.
Da quel momento è diventato per me un punto di riferimento. Solo pochi giorni fa mi chiese di trovargli la Sua famosa circolare su Ebola del 1996, con la quale aveva definito la strategia nazionale contro le febbri emorragiche. Ero in partenza e avevo lasciato la copia della circolare al portiere, perdendo così l’occasione di salutarlo per l’ultima volta. Avevamo continuato a discutere del permanere della validità dei contenuti e di come una costante attenzione verso le malattie infettive sia la migliore linea di risposta per affrontare l’inatteso.
Era stato così che si era confrontato, nella seconda metà degli anni ’80, nella realizzazione del grande piano contro le malattie infettive alla comparsa dell’Aids. Erano anni terribili: l’incredulità e il preconcetto dominavano; i pazienti non avevano alcuna speranza; il personale sanitario era impaurito.
Con una grande attenzione e con un metodo stringente aveva iniziato a studiare il fenomeno con rigore scientifico e curiosità organizzativa, a valutare i bisogni assistenziali, a dare attenzione ai sentimenti e alle paure, a cercare un dialogo con le associazioni dei pazienti e le organizzazioni sindacali, gli scienziati puri, a visitare gli ospedali e le carceri. Sono fiero di averlo aiutato in questo lavoro, ho visto come gestiva il rapporto con i politici con sereno distacco, come affrontava persone e situazioni “difficili”. Non si arrendeva mai, era pronto al confronto, ma senza perdere mai di vista il proprio obiettivo.
Quando lo conobbi aveva già molte esperienze positive e difficili alle spalle, era il riferimento della programmazione sanitaria nazionale, della costruzione e della gestione degli ospedali. Per Lui non faceva differenza se era Pronto Soccorso, Cardiochirurgia, Rianimazione o Malattie infettive. Lui applicava un metodo che partiva da una conoscenza degli ospedali dall’interno, delle persone che ci lavorano e di quelli che ci vanno per farsi curare. Amava dire che gli ospedali erano fatti di tecnologie e di contatto umano, di insegnamento continuo, di cambiamento giorno per giorno.
Quando mi scelse come collaboratore per l’avventura del piano Aidsiniziammo una stretta frequentazione, soprattutto domenicale. Nel corso di tali incontri commentava i materiali prodotti, scrivendo a mano appunti con penne di più colori. Aveva letto sempre un lavoro nuovo, un nuovo modello di valutazione, dei dati di prevalenza. Di aggiustamento in aggiustamento, il piano prendeva corpo per coprire non solo la costruzione degli ospedali, ma anche la prevenzione, la ricerca, l’introduzione dell’innovazione.
Questo permise all’Italia di avere un piano organico, strutturale e finanziato, prima che la stessa Organizzazione mondiale della sanità redigesse il documento per la preparazione dei piani nazionali.
Che dire poi delle sue capacità di gestire il confronto nelle commissioni e nelle audizioni, alle quali arrivava preparato nei minimi dettagli, con un piano generale e un’exit strategy, senza mai perdere la calma, senza mai una parola di troppo. Anche quando si trovava a frenare posizioni intemperanti, incluse le mie, lo faceva con estremo garbo, cercando sempre di costruire, anche nelle difficoltà, nei dissidi, nelle posizioni contrastanti. Amava investire sui giovani e sul fatto che da tutti si poteva apprendere, ma prima di tutto dalla frequentazione delle biblioteche. Teneva rigidamente distinto il professionale dal personale e limitava al massimo gli eventi sociali e conviviali.
Ma era ed è stato fino all’ultimo sempre disponibile a letture critiche di documenti e a fornire suggerimenti o a scrivere piani. È questa la fase in cui le attività di Guzzanti si legano al destino dello Spallanzani, che lui vedeva come punto centrale dell’intero piano. Conosceva in dettaglio lo Spallanzani come Ospedale e la sua esperienza pregressa di medico impegnato sulle malattie infettive faceva il resto. Eravamo in un momento in cui sembrava che solo il nord Italia avesse ospedali, conoscenze e competenze uniche per affrontare l’epidemia. Non era vero. Già da circa 10 anni lavorava al progetto per la costruzione del nuovo Spallanzani e l’Aids gli dava la possibilità di portarlo a termine, grazie anche al senso di appartenenza e al desiderio di riscatto degli operatori tutti dell’Ospedale che con lui, e grazie a lui, vedevano la realizzazione di un miraggio.
Fu così che mentre era ministro, a metà degli anni ’90, a un consiglio dei ministri europei, si impegnò affinché ogni Paese europeo identificasse una istituzione nazionale per le malattie infettive e avviò la realizzazione presso l’Istituto del laboratorio Bsl4 e la trasformazione in Irccs.
Da allora ha sempre seguito con la massima attenzione le vicende dell’Istituto con un affetto da padre nobile che gioiva in maniera sincera e assolutamente disinteressata degli sviluppo dell’Istituto. Fino alla fine è stato lucido e lungimirante, ottimista anche quando sembrava che non ci fossero speranze. Con la sua morte l’Italia perde un grande uomo, io un padre putativo e lo Spallanzani un grande supporter.
Sento di poter dire che tutti quelli dello Spallanzani che lo hanno conosciuto, e anche quelli che ne hanno solo sentito parlare, condividano il profondo dolore per la perdita di un grande uomo e per me un grande maestro.
Specialist in respiratory diseases and in hygiene, he was director of the hospitals Santo Spirito, San Camillo and Policlinico Umberto I in Rome. From 1976 to 1984 and from 1991 to 1993 he was a member of the Italian Superior Council of Health. From 1985 to 1994 he was health director of the Bambino Gesù Children’s Hospital and from 1996 to 1998 he was director of the Agency for Regional Health Services.
Author of numerous publications on health organization, from 17 January 1995 to 17 May 1996 he was Minister of Health with the Dini Cabinet.
He was president of the scientific committee of the Cesare Serono Foundation. On 28 October 2009, following the resignation of the President of the Lazio Region, Piero Marrazzo, he was appointed by the Berlusconi Cabinet as Commissioner for Health in the same Region.
He was scientific director of the Institute for Scientific Hospitalisation and Care IRCCS Oasi di Troina (Enna).
È stato presidente del comitato scientifico della Fondazione Cesare Serono. Il 28 ottobre 2009, in seguito alle dimissioni del presidente della Regione LazioPiero Marrazzo, è stato nominato dal Governo Berlusconi commissario ad acta per la Sanità nella stessa Regione[1].
È stato direttore scientifico dell’Istituto di ricovero e Cura a Carattere Scientifico IRCCS Oasi di Troina (Enna).
Morte
È morto il 2 maggio 2014 all’età di 93 anni al Policlinico Gemelli di Roma, dove era ricoverato da qualche giorno[3].
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
1)Carlo Urbani -Medico italiano, fu il primo a identificare e classificare la SARS-
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage: Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; e ancora vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Carlo Urbani nasce a Castelplanio, in provincia di Ancona, il 19 Ottobre 1956. -Medico italiano, fu il primo a identificare e classificare la SARS.
Laureato in medicina all’Università di Ancona, si specializza in malattie infettive e tropicali a Messina. Attivo fin dalla gioventù in operazioni di tipo umanitario, alla fine degli anni ’80, quando era medico di base a Castelplanio, inizia a organizzare insieme ai colleghi viaggi in Africa, in luoghi in cui le popolazioni locali morivano per malattie curabilissime, come diarrea o crisi respiratorie. “Un numero impressionante di bambini muore per disidratazione da diarrea e per salvarli basterebbe qualche bustina di reintegratori da pochi centesimi di euro” – scrive diverse volte, tormentato da un paradosso di cui non si capacita.
Nel 1993 diventa consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo delle malattie parassitarie, e con tale incarico si reca numerose volte nel continente africano. Negli anni seguenti, con l’ingresso in Medici Senza Frontiere, opera in Cambogia al termine del regime dei Khmer Rossi per controllare le malattie endemiche tra la popolazione locale. In Cambogia Urbani resta per un anno, e trova sulla sua via – a partire dalle rive del Mekong – un Paese da ricostruire. Pesano le ferite del genocidio, le mine antiuomo che continuano a mutilare giovani e adulti, le ferite degli animi, il dramma dell’Aids. Con il genocidio, due milioni di persone su meno di 7 milioni di popolazione sono state trucidate dai seguaci di Pol Pot. “Sembra un immenso sacrario – annota Urbani – per me e la mia famiglia è stato come conoscere i sopravvissuti di Auschwitz”.
Nel 1999 Carlo diventa presidente di Msf Italia, con cui conduce una vera e propria battaglia per la diffusione dei medicinali essenziali a tutta la popolazione mondiale. Come riporta lo stesso Urbani in un’intervista ad Avvenire nel 2000, “Il 90% del denaro investito in ricerca sui farmaci è per malattie che riguardano il 10% della popolazione del pianeta. Solo lo 0,3% della ricerca è indirizzata verso le cinque principali cause di morte nel mondo”. Basti pensare alla Tbc: “ai giorni nostri la Tbc miete una vittima ogni 10 secondi. È la seconda causa di morte per malattie infettive negli adulti: uccide ogni anno 3 milioni di persone, l’80% delle quali ha un’età compresa tra i 15 e i 49 anni”. Il 95% di loro vive in Paesi a basso reddito, ma “solo 400mila sono potenziali clienti paganti: troppo pochi, dicono le industrie”. Ecco per Urbani la missione del medico-umanitario, impegnato non solo nella cura dei malati ma anche in contesti di povertà, genocidi e guerre civili: curare ma nel frattempo denunciare, testimoniare, far sapere.
Con questo impegno Urbani si reca a Oslo nel 1999, come parte della delegazione che riceverà il Premio Nobel per la pace a nome di Msf.
Nel luglio del 2000 arriva la svolta professionale della vita di Urbani: l’assunzione all’Oms come coordinatore delle politiche sanitarie contro le malattie parassitarie nel Sud-Est asiatico. Si tratta di una scelta radicale – per cui rinuncia anche il ruolo di primario del reparto di Malattie infettive all’ospedale di Macerata -, che porta Carlo e la sua famiglia a trasferirsi in Vietnam.
Nel febbraio 2003 l’ospedale francese di Hanoi contatta l’Oms per il caso di un paziente – mister Chen – che nessuno sa curare e che sta infettando il personale medico. Come accade quando qualcosa di preoccupante arriva ad Hanoi, lo staff dell’Oms decide di “chiamare Carlo”. Urbani quindi decide di recarsi di persona al capezzale di mister Chen, uomo d’affari americano proveniente da Hong Kong, senza inviare preventivamente i “suoi” medici. È il solo, nelle corsie dell’ospedale di Hanoi, ad accorgersi di essere di fronte a una nuova malattia: lancia così l’allarme al governo e all’Oms, riuscendo a convincerli ad adottare misure di quarantena. Non è facile per Urbani riuscire nel suo intento: la necessità di isolare immediatamente i pazienti e di monitorare tutti i viaggiatori va a scontrarsi contro gli interessi economici e di immagine del Paese. Alla fine, tuttavia, il prestigio e la credibilità che Urbani ha acquisito negli anni riescono a persuadere le autorità, che decidono di affidarsi alle sue prescrizioni e di iniziare le procedure di isolamento.
Pochi giorni dopo, mentre è in volo verso la Thailandia, Carlo avverte i primi disturbi: febbre, tosse, debolezza. Con una tragica autodiagnosi, teme di aver contratto il virus e una volta atterrato chiede di essere immediatamente ricoverato e posto in quarantena. Muore dopo due settimane, il 29 marzo 2003, raccomandando che il suo tessuto polmonare venisse utilizzato per la ricerca. Un mese dopo, il 28 aprile, il Vietnam annuncia di aver sconfitto la Sars, con un bilancio di 63 contagi e 5 morti – a differenza di altri Paesi, in cui il virus si è diffuso in modo più capillare.
Gli ufficiali medici dell’Oms riconoscono che, se non fosse stato per il tempestivo intervento di Urbani, la Sars avrebbe infettato più lontano e più velocemente. Non sapremo mai quante vite ha salvato con la sua.
Il metodo anti-pandemie da lui realizzato rappresenta, ancora oggi, un modello internazionale.
Dopo la sua morte, l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan lo ha voluto ricordare con queste parole: Il dottor Carlo Urbani ha dedicato la sua vita a proteggere e salvare la vita degli altri. È stato determinante nel garantire un’imminente reazione da parte della comunità internazionale alla Sindrome Respiratoria Acuta Severa, e questo era caratteristico della sua natura di professionista competente e sempre vigile. Se non avesse intuito che l’insorgere di quel virus era qualcosa di fuori dall’ordinario, molte più persone sarebbero cadute vittima della Sars. È la più crudele delle ironie che egli abbia perso la sua stessa vita ucciso dalla Sars, mentre cercava di preservare il prossimo dalla malattia. Il dottor Urbani lascia un esempio illuminante nella famiglia delle Nazioni Unite e nella comunità sanitaria di tutto il mondo. Per il suo contributo in prima linea nella lotta contro il virus lo ricorderemo come un eroe, nel senso più elevato e più vero del termine.
Biografia
Carlo Urbani nasce a Castelplanio, in provincia di Ancona, il 19 Ottobre 1956.
Già da giovane si dedica ai più bisognosi ed è una presenza costante nell’ambito parrocchiale: collabora a raccogliere le medicine per Mani Tese, promuove un Gruppo di solidarietà che organizza vacanze per i disabili, entra a fare parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale; suona inoltre l’organo e anima i canti. Il suo grande amore non è solo per il prossimo, ma anche per la bellezza, per la musica e per l’arte.
Il desiderio di prendersi cura delle persone sofferenti lo porta a scegliere gli studi di Medicina e la specializzazione in malattie infettive. Dopo la laurea, lavora in un primo tempo come medico di base, poi diviene aiuto nel reparto di malattie infettive dell’Ospedale di Macerata, dove rimane dieci anni. Nel frattempo sposa Giuliana Chiorrini. Insieme avranno tre figli: Tommaso, Luca e Maddalena. Sono gli anni in cui Carlo comincia a sentire più forte il richiamo ad assistere i malati dimenticati, trascurati dai paesi opulenti, dai giochi di potere, dagli interessi delle case farmaceutiche. Con altri medici organizza, dal 1988-89, dei viaggi in Africa centrale, per portare aiuto ai villaggi meno raggiungibili. Ancora una volta la sua comunità parrocchiale lo accompagna e lo sostiene con un ponte di aiuti alla Mauritania.
La conoscenza diretta della realtà africana gli rivela con chiarezza che le cause di morte delle popolazioni del Terzo Mondo sono troppo spesso malattie curabili – diarrea, crisi respiratorie – per le quali mancano i farmaci che nessuno ha interesse a fare giungere a un mercato così povero. Questa realtà lo coinvolge al punto che decide di lasciare l’ospedale, quando ormai ha la possibilità di diventare primario.
Nel 1996 entra a fare parte dell’organizzazione Médecins Sans Frontières e parte insieme alla sua famiglia per la Cambogia, dove si impegna in un progetto per il controllo della schistosomiasi, una malattia parassitaria intestinale. Anche qui rileva le forti ragioni sociali ed economiche del diffondersi delle malattie e della mancanza di cure: si muore di diarrea e di Aids, ma i farmaci per curare la infezione e le complicanze sono introvabili.
Nella sua veste di consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per le malattie parassitarie ha l’opportunità di ribadire ulteriormente che la causa primaria del diffondersi delle malattie è la povertà. Come Medico Senza Frontiere, l’interesse primario di Carlo è nella cura dei malati, tuttavia non può tacere sulle cause che provocano quelle sofferenze.
Nel gennaio del 2000 Carlo Urbani dichiarò al quotidiano Avvenire: “Io mi occupo come consulente dell’OMS delle malattie parassitarie. In tutti i consessi internazionali si ripete che la causa è solo una: la povertà. In Africa ci sono arrivato fresco di studi. E sono stato ‘deluso’ dallo scoprire che la gente non moriva di malattie stranissime: moriva di diarrea, di crisi respiratorie. La diarrea è ancora una delle cinque principali cause di morte al mondo. E non si cura con farmaci introvabili. Una delle ultime sfide che Msf ha accolto è la partecipazione alla campagna globale per l’accesso ai farmaci essenziali. Ed è lì che abbiamo destinato i fondi del Nobel.”.
Nell’aprile del 1999 viene eletto presidente di Msf Italia. In questa veste partecipa alla delegazione che ritira il premio Nobel per la pace assegnato all’ organizzazione.
Dopo la Cambogia, il suo impegno lo porta nel Laos, e quindi in Vietnam. Nelle ultime settimane di vita si dedica con coraggio alla cura e alle ricerche sulla Sars, la terribile malattia respiratoria che minaccia il mondo intero. E’ perfettamente conscio dei rischi che corre, tuttavia, parlandone con la moglie, osserva: “Non dobbiamo essere egoisti, io devo pensare agli altri”. All’inizio di marzo si reca a Bangkok per un convegno, nulla lascia intuire che abbia contratto il contagio. Dopo l’arrivo i sintomi si manifestano con forza e Carlo, tra i primi a occuparsi della malattia, capisce benissimo la propria situazione. Ricoverato in ospedale a Bangkok avverte la moglie di far tornare in Italia i figli, che vengono subito fatti partire. L’amore per il prossimo che lo ha accompagnato tutta la vita, lo fa rinunciare anche all’ultimo abbraccio per evitare ogni possibilità di contagio. La moglie gli resta vicina, ma nessun incontro diretto è più possibile. Dopo avere ricevuto i sacramenti, Carlo Urbani muore il 29 marzo 2003.
Le testimonianze che seguono sono inedite e ringraziamo quanti ce le hanno donato, perché contribuiscono ad una conoscenza più completa della figura di Carlo Urbani, della sua personalità così ricca, poliedrica eppur nel fondo tanto semplice e lineare, fondata sulla “passione” per la solidarietà concreta verso quanti soffrono, il più delle volte perché vittime di situazioni di violenza ed emarginazione.
La fede ha trasmesso in profondità nel suo animo un grande rispetto per ogni persona umana, a difesa della quale Urbani ha consacrato la sua intera esistenza, sia che si trattasse di un malato incontrato nelle corsie di un ospedale delle sue Marche, sia di un bambino o un anziano sofferente in Mauritania o Cambogia o Vietnam…
Una autentica, evangelica “passione“, per essere “accanto ai fratelli”, che Carlo voleva trasmettere a quanti, colleghi medici e operatori sociali, amici, studenti, mostravano di essere sensibili alle sue parole e al suo esempio.
Tutta la sua vita appare allora un “appello”… e tanti segni mostrano come molti – e in misura crescente – stanno rispondendo generosamente, perché più si diffonde la conoscenza della vita di Carlo Urbani, più sorge spontaneo l’apprezzamento e la volontà di impegnarsi a continuare la sua opera.
Testimonianza di Carlo Urbani
La disponibilità verso gli altri, il non tirarsi indietro di fronte alle difficoltà (anche a costo della propria vita), il rispetto delle diversità, sono gli aspetti che per me rendono più “vivo” il ricordo di mio marito.
La sua convinzione era che fare qualcosa per gli altri non è poi così difficile, basta credere che tutti gli uomini sono uguali ed hanno lo stesso diritto di aspirare alla propria felicità, e su questo ha basato le sue scelte di vita.
Scelte portate avanti fin da giovane, quando partecipava con entusiasmo ai campi di lavoro organizzati da Mani Tese, quando era l’animatore degli adolescenti del paese, per i quali organizzava incontri e campeggi, quando insieme ad altri coetanei progettava ed animava vacanze per portatori di handicap, basate sull’allegria e la voglia di stare insieme.
Scelte proseguite poi anche nell’ambito della sua professione, che in seguito ci hanno portato ai radicali cambiamenti di luoghi (Italia, Cambogia, Vietnam) ed abitudini di vita.
Il suo entusiasmo è stato per un certo senso “travolgente”: nei suoi primi viaggi all’estero è riuscito a coinvolgere le persone più “diverse” (con l’obiettivo del gusto per le scoperte ed il rendersi utile agli altri), fino poi ad arrivare a vivere con noi all’estero, scelta che per lui era “testimonianza di barriere abbattute”.
“Nella vita sono sempre più sorgente”, scriveva ad una sua amica suora (1) un anno fa, “la superficialità mi è divenuta intollerabile, l’indifferenza, mi fa quasi diventare violento. Si dice in genere che non esiste mai una situazione con il bianco e il nero ben distintiti, ma che si può trovare della ragione e del torto ovunque. Io invece, per una dolorosa passione e romanticismo, continuo a credere che si possa dire “questo è sbagliato o questo fa schifo” senza titubare. Occorre saper distinguere dove il BENE sta, e dove il MALE si annida. Essere disponibile è un sogno non poi tanto difficile da realizzare (basta volerlo), “tendere una mano” è un modo per avvicinarsi alle diversità e trarne ricchezza”.
Scriveva dalla Cambogia quando era membro di “Medici senza frontiere”: “Noi volontari siamo osservatori privilegiati che possono vedere l’orrore di fatti ed eventi che fanno della dignità umana un sanguinante e misero fardello. E poi raccontare, urlare, le privazioni dei diseredati, la lontananza degli esclusi, indicare in abusi e violenze i veri fenomeni contro cui è davvero difficile costruire argini e rifugi…“
Testimonianza di Elvia Carloni, già caposala del reparto malattie infettive presso l’Ospedale civile Umberto I di Ancona (2) .
Carlo Urbani era un uomo che non agiva d’impulso, in tutte le scelte era cosciente. In ospedale ad Ancona, quando era lo specializzando (3), faceva tante guardie mediche. I turni di servizio per gli specializzandi erano di tre o quattro ore a settimana, invece lui si fermava tutti i giorni, gratuitamente, per essere vicino agli ammalati. Quando lo si chiamava per qualche caso particolare, lui arrivava con il sorriso sulle labbra e diceva: “E allora?” Parlava con l’ammalato, lo tranquillizzava, lo incoraggiava, poi faceva la visita e dava la terapia.
Anche quando veniva chiamato di notte arrivava sempre con il sorriso sulle labbra e con il suo modo di fare gentile. Era di una disponibilità senza pari, cortese. Non era un tipo espansivo, ma dolce e comprensivo. Sempre disponibile nell’aiuto a tutti: ammalati, colleghi e personale sanitario.
Aveva due occhini grandi, bellissimi ed un sorriso che incoraggiava. Verso i colleghi era molto corretto e cortese, taceva se vedeva qualcosa di storto, ma poi prendeva provvedimenti, in modo discreto. Amava gli ammalati ed era profondamente toccato dagli ammalati terminali, gli facevano pena e per loro si adoperava in ogni modo.
Carlo ha fatto il liceo a Jesi, un giorno sapendo che io venivo da Filottrano , mi domandò se conoscessi una sua compagna di scuola del liceo. Gli dissi che era una mia nipote e che in quel periodo era molto sofferente a causa di una grave patologia della tiroide. Gli chiesi consiglio e lui mi disse che era cosa preoccupante, in quanto la malattia se non curata, poteva degenerare in tumore alla tiroide. E mi consigliò di convincerla a curarsi, di starle vicina. Si propose anche di farla venire in Ancona, ma lui non voleva assolutamente comparire per non far sentire a disagio la paziente. Allora si offerse di dare alla famiglia il nome di un bravo specialista di Roma e, volendo, di contattarlo lui direttamente. Finalmente la ragazza ha accettato di fare i controlli a Roma, si è curata, è guarita, si è sposata ed ha due bellissimi figli.
Essendo presidente regionale degli Infermieri Cattolici, il giorno dell’Immacolata, in occasione del tesseramento, invitai anche il dott. Urbani, che venne alla messa con due amici uno dei quali convinto comunista.
Il dott. Urbani conosceva la vita di San Giuseppe Moscati, il medico santo di Napoli, perché un giorno io stessa portai in reparto il libro di Papasogli, “Giuseppe Moscati, vita di un medico santo”. Il libro fu letto da entrambi e alla fine il dott. Urbani commentò: “E’ stato un bravo medico!” Molto probabilmente questa lettura suscitò in lui l’intenzione di seguirne la scia.
Il dott. Urbani non era un uomo di grandi energie fisiche, non era molto resistente, era magrolino, delicato, ma è riuscito a compiere grandi opere, per mezzo della grazia di stato, ossia di quei doni che il Signore ci dà a seconda della professione e in generale dello stato in cui ci troviamo, così come per esempio dà alle mamme che hanno figli piccoli la capacità di dormire poche ore a notte.
Questa testimonianza che rilascio non è tanto ad onore del dott. Urbani, che essendo molto umile non avrebbe apprezzato che si fosse parlato di lui, ma a ricordo dei figli, in particolare dei più piccoli. Il grande ha vissuto le esperienze che ha fatto insieme al padre e le ha vissute coscientemente da ragazzino maturo, i piccoli le hanno vissute come immagini sfuggenti senza poterne avere coscienza.
Mi chiamo Therese Nijem e sono nata a Nazareth, sono una consacrata appartenente all’Istituto Mater Misericordiae di Macerata (suore laiche). Sono affetta dalla sindrome di immunodeficienza congenita, un male terribile che mi ha costretto a lunghi ricoveri ospedalieri.
L’ultima volta accadde nel 1999, trascorsi ben nove mesi presso l’ospedale di Macerata, di cui tre o quattro presso il reparto di malattie infettive. Qui ebbi modo di conoscere il dottor Carlo Urbani. Un uomo che faceva seriamente il suo dovere, ma di poche parole. Con me, invece, che ero di natura timida, il dottore amava trattenersi a parlare e a volte confidarmi qualche piccolo segreto, con molta sorpresa degli altri ammalati.
Di quel periodo non riesco ad avere ricordi nitidi e dettagliati, ma ho molti flash. La malattia era gravemente degenerata tanto da portarmi al coma, dal quale non so come sono uscita. Soffrii molto in quei mesi, ma ebbi la fortuna di avere accanto a me la presenza dolce e consolante del Dott. Urbani. Un giorno, mentre ero preda a terribili sofferenze, arrivò il Dott. Urbani, al quale confidai che dovevo affrontare bene la sofferenza per offrirla al Signore. Il dottor Urbani mi disse: “Non solo voi ammalati, ma anche noi medici dobbiamo offrire con voi la sofferenza!“
Colpita da febbre con brividi, non riuscivo proprio a riscaldarmi, arrivò il Dott. Urbani che dolcemente mi sussurrò: “Non ti preoccupare se le coperte non ti scaldano, c’è Gesù dentro di te a scaldarti. Continuamente il mio fisico era sottoposto ad analisi per monitorare i valori del sangue, un giorno avevo tanta sete, mi lamentai con il Dott. Urbani per non poter soddisfare il mio bisogno di bere e lui mi disse: “Ma come? Tu che sei una consacrata non ti ricordi che pure Gesù in croce ha sofferto la sete e per dissetarlo i centurioni gli diedero l’aceto? Dunque, sopporta!” Qualche volta prima delle analisi mi chiedeva: “Therese, allora oggi non fai il tuo segno della croce? Non dici l’Ave Maria nel tuo cuore?”
Ci fu una volta in quei tragici mesi che scoraggiata gridai al dottore: “Dottore, voglio andare a casa!” E lui, con calma e con dolcezza mi disse: “Ricordati che il Signore vuole da te tante cose e che con la tua sofferenza dà l’occasione a noi medici di capire e trovare la cura per la malattia che ti ha colpito.”
Io non lavoro, non ho reddito, dunque non ho soldi a disposizione, un giorno vennero degli amici e mi regalarono 5.000 lire (l’euro ancora non era stato introdotto). Io fui felicissima perché avevo una gran sete e desideravo moltissimo un bicchiere di Coca Cola, chiesi al Dott. Urbani se la potevo bere, lui acconsentì. Diedi i soldi ad un familiare di un ammalato chiedendogli di andarmi a prendere al bar una bottiglia. Non rividi più né i soldi, né la Coca Cola! Più tardi, il Dott. Urbani mi chiese se avessi gustato la Coca Cola, raccontai con molto rammarico l’accaduto. Il giorno dopo, il Dott. Urbani arrivò accanto al mio letto, prelevò 10.000 lire dal suo portafoglio e me le diede, pregandomi di non raccontare nulla né ai medici, né agli infermieri. Io sorpresa, ma contenta, chiesi come avrei potuto sdebitarmi e lui mi disse: “Con preghiere per i miei figli!”
Conversando con lui gli raccontai della mia passione per le carte telefoniche e lui mi disse: “Quando andrò all’estero con MSF (Medici Senza Frontiere) ne porterò molte sia a te che a Rita.”
Un giorno mi sorprese a pregare e mi disse: “Noi medici lavoriamo e voi pregate, così sappiamo se facciamo bene il nostro lavoro!”
Spessissimo ero sottoposta a dolorosi prelievi per vedere la quantità di ossigeno presente nel sangue, un giorno mi opposi al prelievo, affermando: “Basta! Fa tanto male!” E lui in modo risoluto: “Therese, tu sai che c’è Gesù con te, ma l’ossigeno si vede solo con gli esami del sangue! Facciamo un patto: tu devi promettermi che obbedirai al primario come ubbidisci alla tua Superiora e da oggi in poi non rifiuterai più di fare le analisi.”
Prima di entrare in coma a causa di un ascesso al polmone, mentre stavo vomitando sangue lui mi accompagnò fino alla sala di rianimazione dicendomi: “Non ti lasceremo, rimarremo con te fino alla fine!“ Quando poi dopo molto tempo mi ripresi, ogni volta che mi vedeva mi diceva: “Mi hai fatto tribolare!” e poi spesso mi incoraggiava: “Se tu non avessi avuto la volontà di guarire dalla malattia, ora non saresti in vita, saresti già morta da tempo!”
Qualche volta quando mi veniva a visitare si fermava a fare quattro chiacchiere ed era il momento della confidenza, un giorno mi disse: “Mi piacerebbe vedere mio figlio divenire dottore come lo sono io: per amare gli ammalati, non per lavorare per i soldi!“
Quando, dopo essermi rimessa, gli comunicai che sarei ritornata in Israele per una visita, lui mi disse: “Prima di partire ti darò alcune cose nuove da portare in Israele per i bisognosi, ma ricordati Therese ciò che dice il Vangelo: ciò che fa la mano destra, la sinistra non lo deve sapere! Voi poveri e voi stranieri siete i primi nel mio cuore!
Ritornata all’ospedale per un controllo, annunciai al dottore che sarei partita per un soggiorno a Lourdes di due o tre settimane e lui, ricordando ciò che ero solita dire durante la mia dolorosa malattia, mi disse: “Io sono sicuro che tu non vai solo a pregare, ma anche per offrire la tua sofferenza!” e mi diede un’offerta per accendere un cerone aggiungendo: “Prega anche per la mia famiglia: per mia moglie ed i miei figli!”
Testimonianza di Don Mariano Piccotti, Parroco di S.Sebastiano a Castelplanio, Ancona (5) .
Conservo gelosamente una lettera che Carlo mi ha inviato dopo il primo tempo del suo trasferimento con la famiglia in Cambogia. Porta la data dell’11 febbraio 1997.
Scrive a me e a Suor Anna Maria Vissani (6) insieme, riconoscendoci suoi amici. “[…] Ho pensato di parlarvi insieme, per non far passare altro tempo, e perché tutto sommato siamo abituati a parlare insieme, ed in entrambi ho sempre trovato allo stesso tempo la calda attenzione dell’amico e la dolce acutezza dell’assistente spirituale.”
Per un parroco è questo un bel riconoscimento. Ma ancora più bello è il fatto riconosciuto in quest’altro passaggio: “Cosa sto facendo qui della mia Fede? Beh, qualche volta, magari incollati ad un ventilatore per il caldo torrido che c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera, ed ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione francese. La messa è molto piacevole, semplice, sentita, ed è bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo sempre come un concetto astratto, in realtà esiste in carne ed ossa, ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo.” La chiesa è cattolica! Questo significa che in ogni parte del mondo ti puoi trovare a casa. E questo per Carlo era una esperienza centrale.
Ancora più interessante è l’altro passaggio sulla fede. Dice: “Ma poi soprattutto nella Fede cerco in questo tempo la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell’uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei miei colleghi provenienti dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, la profonda povertà delle bidonvilles, le assurde lotte fratricide, e le carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali del mondo… tutto questo scoraggia un po’, e a volte vedere qualcosa di buono nell’altro, in chi ti è “prossimo”, diventa veramente difficile ed invita a chiudersi in se stessi. Ma i piccoli lumi che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma dolorante lasciano sperare, ed il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per morire poi su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte”.
Qui c’è tutto Carlo: nella fatica di cercare e nella speranza di trovare; nella tragica situazione che scoraggia e nella speranza dei piccoli lumi di quanti si prodigano. Ed è bellissima quella chiara allusione al Cristo Crocifisso. E’ la discrezione del credente, che preferisce esprimere con la vita quanto un predicatore direbbe con parole.
La lettera si conclude con il Natale, quello vero fatto di persone che vivono la situazione della Santa Famiglia. “Vi so vicini, ed a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta in un remoto villaggio, lontano, da tutto e da tutti, il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla… non credo che in altre scene avreste potuto vedere meglio rappresentato il mistero della natività di questa che ho visto a Sdau, piccolo villaggio su nel nord, due settimane fa.”
Ecco il Carlo che io porto in mente e sento vivo nel cuore. Di altri aspetti, della sua collaborazione con la Parrocchia e la diocesi, nel campo della promozione sociale e liturgica ed educativa, parlano benissimo i libri. La memoria di lui ci sproni a convertirci, a cambiare stile di vita, perché ormai la nostra famiglia è il mondo.
Note
1. Suor Anna Maria Vissani. Lettera del 2003. 2. Testimonianza rilasciata ad Elisabetta Nardi e a Luciana Vissani, il 29 giugno 2004. 3. Carlo Urbani stava allora specializzandosi in malattie infettive e tropicali. 4. Therese Nijem, suora laica appartenente all’istituto Mater Misericordiae. Testimonianza raccolta il 4 luglio 2004. 5. Intervista del 1° luglio 2004. 6. Vedi nota n.1.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
2)Caio Mario Coluzzi Bartoccioni-Biologo-
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Biografia du Caio Mario Coluzzi Bartoccioni-Biologo
Biologo italiano (Perugia 1938 – Roma 2012). Introdotto allo studio scientifico dal padre (noto malariologo), ancora liceale ha pubblicato il suo primo contributo sulla resistenza al DDT dei vettori italiani di malaria (1956). Durante la formazione universitaria e post-universitaria in Malariologia, Genetica e Parassitologia ha continuato le ricerche sugli insetti responsabili della trasmissione e negli anni è giunto a riconoscere sei specie gemelle di zanzara Anopheles (arrivando a identificarne l’intero genoma). Nominato professore ordinario di Parassitologia alla Sapienza di Roma (1982, Facoltà di Medicina e Chirurgia), è stato direttore del Centro Collaboratore per l’Epidemiologia e il Controllo della Malaria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Nel 2008 gli è stato consegnato il BioMalPar Life Award dal gruppo istituito dalla Commissione Europea per la biologia e la patologia del parassita della malaria; nel 2009 C. è diventato membro ordinario dell’Accademia dei Lincei.
Figlio dell’epidemiologo umbro Alberto Coluzzi, e di Anna Wimmer, educatrice tedesca di Passavia, ebbe come sorella l’attrice Francesca Romana Coluzzi. Visse i primi anni con la famiglia in Albania, dove il padre era stato inviato per svolgere attività di ricerca e lotta antimalarica dall’Istituto di MalariologiaEttore Marchiafava, durante il periodo di occupazione italiana. In seguito agli eventi legati all’Armistizio di Cassibile, il 14 ottobre 1943 la famiglia fece ritorno a Perugia, per poi trasferirsi alla fine del 1945 nella Casa delle Palme, una grande casa di campagna sita nella frazione di Monticelli, acquistata dal padre per insediarvi la famiglia, ed affittata dallo Stato Italiano per crearvi congiuntamente un laboratorio sperimentale di indagini malariologiche.
Dopo la laurea in Scienze Biologiche, si è sposato il 14 luglio 1963 con Adriana Sabatini, ricercatrice in Parassitologia all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, con la quale ha portato avanti una fruttuosa collaborazione scientifica per anni, e dalla quale ha avuto una figlia, Barbara Coluzzi Bartoccioni, nata a Roma l’8 giugno 1970.[1]
È stato diagnosticato affetto da un Parkinson rigido nel 1994, ed è morto di polmonite ab-ingestio dopo una decina di anni da quando era rimasto immobilizzato in sedia a rotelle a causa della rottura a distanza di poco tempo di un femore dopo l’altro. Nel frattempo la malattia era stata più accuratamente diagnosticata come una paralisi sopra-nucleare progressiva, in base all’esame della RMN.
Contributi scientifici
Iniziato alla ricerca scientifica in giovane età dal padre Alberto (la sua prima pubblicazione risale ai tempi del Liceo classico), è stato autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche. Le ricerche di Mario Coluzzi hanno intanto messo in evidenza gli effetti disastrosi del DDT sull’equilibrio degli ecosistemi (laghetti e simili), quindi anche di medicinali quali la clorochina sull’insorgenza di fenomeni di resistenza del plasmodio responsabile della malaria nella zanzaraAnopheles, vettore della malattia.
Importanti sono i suoi contributi sulla genetica dei vettori malarici, che lo hanno portato al riconoscimento dell’esistenza di sei specie gemelle del genere Anopheles, ciascuna in possesso di diversa capacità di contribuire alla diffusione della malattia, che possono distinguersi solo in base all’esame intanto con microscopio ottico dei cosiddetti “cromosomi giganti”, presenti in particolare nelle ghiandole salivari per permettere la produzione rapida di un’abbondante quantità di saliva (che viene iniettata alla puntura per impedire la coagulazione del sangue, che poi è quella che produce la caratteristica reazione di prurito e nella quale si trovano eventualmente i plasmodi responsabili della malaria). Collegato a questo lavoro è l’ipotesi da lui avanzata negli ultimi anni, su una speciazione tuttora in atto nel complesso Anopheles gambiae, che è stata successivamente confermata da studi di biologia molecolare. Un’altra linea di ricerca originale importante è stata quella sull’origine e diffusione della forma di malaria che può rivelarsi fatale per l’Homo sapiens, dovuta all’opera di diverse specie di Anopheles divenute spiccatamente antropofile circa 6 000 anni fa, in concomitanza con il passaggio dell’Homo sapiens da arboricolo ed allevatore a coltivatore prevalentemente stanziale, dando inizio al processo che avrebbe portato all’espansione e diffusione attuale della malattia nella popolazione umana.
Le sue ricerche genetiche hanno poi portato alla pubblicazione dell’intero genoma dell’Anopheles e del Plasmodium. All’attività di Coluzzi si deve poi la creazione di una scuola scientifica, che conta decine di importanti scienziati, e la promozione e direzione di importanti collaborazioni scientifiche internazionali con paesi in via di sviluppo, per la lotta alla malaria, soprattutto in area sub-sahariana, finanziati dal Ministero degli affari esteri e dall’Istituto Pasteur-Fondazione Cenci Bolognetti. In particolare, è stato dedicato alla sua memoria il nome di una specie identificata in seguito nell’Africa sub-sahariana, l’Anopheles coluzzii.
Gli studi di Mario Coluzzi sui siti riproduttivi del vettore malarico Anopheles gambiae, costituiti da piccoli ed effimeri accumuli temporanei di acqua dolce, hanno mostrato come non sia acriticamente estensibile, all’Africa subsahariana, il modello sinergico che vede, nel mondo occidentale, le pratiche e lo sviluppo agricolo quali importanti elementi di contrasto alla riproduzione del vettore. In ambiente subsahariano, al contrario, i fattori di trasformazione ambientale indotti dall’uomo (deforestazione, irrigazione, desalinizzazione delle aree costiere), hanno il solo effetto di moltiplicare i siti e le opportunità riproduttive del vettore, incrementando la trasmissione del parassita.
^ Jeffrey R. Powell, Nora J. Besansky, Alessandra della Torre, Vincenzo Petrarca, Mario Coluzzi (1938–2012), in Malaria Journal, vol. 13, n. 1, 22 gennaio 2014, pp. 10, DOI:10.1186/1475-2875-13-10. URL consultato il 25 febbraio 2024.
-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Franco Leggeri Fotoreportage-Roma Gianicolo-La quercia del Tasso –
Articolo di Marco Fulvio Barozzi –Fotoreportage di di Franco Leggeri per REDREPORT-Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri.
Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “E’ il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”.
Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?”
“Della quercia del Tasso.”
E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”.
Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”.
Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”.
Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”.
Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.
Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.
Articolo Pubblicato da Marco Fulvio Barozzi sul sito web Popinga –
venerdì 3 maggio 2013-Scienza e letteratura: terribilis est locus iste-
La Campagna Romana nelle tempere e nei pastelli di Giulio Aristide Sartorio
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
La Campagna Romana nelle tempere e nei pastelli di Giulio Aristide Sartorio,Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 -Man mano che la via Appia scende nelle paludi un silenzio innaturale comincia a gravare sul paesaggio . I canti si affievoliscono , non si sentono grida di gioia, ma solo l’indefesso zirlio delle cicale e un gracidare assordante . Qualche bifolco , qualche contadino , qualche buttero giallo di febbre vi fanno un triste saluto . Pian piano si scoprono tra le canne dei lustri sospetti: è l’acqua stagnante … Nei rari casali , nelle povere osterie, vi salutano uomini dall’aspetto fraterno , ma come scaturiti dal passato. Paiono di una stirpe che non è morta mai ; le loro facce sembrano lavorate come i ruderi della Campagna e su di esse si leggono i sacrifici secolari. La via Appia procede così per miglia e miglia, attraverso un paese sospetto , ricco di pascoli , di macchie, ma silenzioso . Gli archi della strada superano i canali fangosi nei quali si vedono i bufali immobili, mentre rari guizzi accusano i pesci. Qualche famiglia di pescatori ha costruito le capanne sulle palizzate e vive come gli uomini primitivi fabbricando le stuoie e le nasse. Sembra di essere catapultati in un paesaggio arretrato nei secoli; sembra d’essere in una specie di Stige e la nostra vita civile
“sembra un inganno , un’illusione”.
Questo paesaggio e questa vita –triste, solenne, straordinariamente caratteristica- il Sartorio delinea con tocchi rapidi e suggestivi in un conferenza su Terracina e traduce da tempo in piccole tempere e pastelli.
Giulio Aristide Sartorio , uscito da una famiglia d’artisti imbevuti di classicismo e che consideravano , quindi, il paesaggio come manifestazione artistica di scarsa importanza, non si dedicò sin dai primi anni agli studi che poi ha privilegiato. Fino alla Gorgone e alla Diana Efesina il Sartorio fu sotto l’influenza deli insegnamenti paterni e deve al pittore Francesco Paolo Michetti il primo impulso verso questi nuovi orizzonti.
Nell’Esposizione parigina del 1889 un suo quadro – I figli di Caino- fu premiato con una medaglia d’oro; e in questa occasione egli si recò , insieme al Michetti, alla Mostra di Parigi.
L’amore e la conoscenza profonda che il Michetti aveva per i paesisti francesi del ‘30 gli rivelarono tutto un mondo quasi ignoto, lo appassionarono per una manifestazione artistica da lui prima poco stimata. Ed a Francavilla a Mare, subito dopo Parigi , segnò con i pastelli del suo grande amico le prime impressioni di paese. Venuto a Roma, trovò nell’amicizia di due nobili illustratori della Campagna Romana- il Carlandi e il Calemann- stimolo costante a che l’improvvisa rivelazione non impallidisse. E il Carlandi e il Colemann gli furono guida nelle prime escursioni attraverso l’Agro Romano: anzi fra loro tre si fermò il progetto di una illustrazione completa di esso; progetto che, purtroppo, pare abbandonato. Ed ora ben pochi conoscono come il Sartorio le segrete bellezze e le ardenti emozioni che può offrire a
chi la contempli con anima candida e fervente l’interminata desolazione della Campagna Romana. Finora il Sartorio, sotto l’aspetto assai cospicuo di paesista, era stato conosciuto frammentariamente- quasi si potrebbe dire saggiato- nelle mostre di Venezia, di Roma, di Milano. Nel febbraio, però, sono state esposte a Londra settantatrè opere – metà tempere, metà pastelli- fra nuove e vecchie sensazioni paesistiche di lui, sì che la mostra offre la visione completa di quel che il Sartorio rappresenta non solo come paesista, ma anche come interprete di una regione nello svolgimento dell’Arte moderna. A Roma, nel salone Corrodi, si è tenuta la prova generale del grande spettacolo londinese: e artisti, amatori, studiosi, giornalisti sono accorsi: e in tutti era profondo il convincimento che il Sartorio fosse il vero multiforme poeta della Campagna Romana e che la mostra odierna avesse una significazione e una organicità profonda che la rendeva un avvenimento artistico affatto insolito. Bisognava vedere, infatti, quale tenace legame spirituale collegava tutte queste Opere così varie di soggetto, di sentimento, di tecnica e come il loro
intimo valore d’arte si intensificasse e si accendesse nel dispiegamento magnifico! La semplicità aristocratica e originale del taglio – rarissima perché segno di una personalità squisita-;la varietà dei momenti colti e la tecnica varia e sensibilissima con cui son resi ; la finezza e la intensità del sentimento onde son tutti materiali; la suggestiva magia evocatrice che li anima pareva che si avvivasse e si ampliasse in una vita più ricca e più ardente. Il Sartorio mantiene nel suo spirito una spiccata propensione per il mondo classico di cui egli ha una conoscenza straordinaria per un artista e perciò predilige quei luoghi della Campagna Romana avvolti nei veli fantasiosi delle leggende oppure onusti di memorie. Così si spiega il gran numero di quadri nei quali egli canta Terracina e il Circeo. E’ il mare di Omero e di Virgilio e-scrive il Sartorio nella conferenza citata- :”i navigli a vela che oggi lo solcano potrebbero essere le navi di Giasone, di Ulisse, di Enea, di Augusto, di Genserico; potrebbero essere flotte che portarono la Poesia , l’Arte, la Guerra, la conquista, la distruzione: pare che noi stessi abbiamo vissute tutte le vicissitudini antiche.” Circe, l’incantatrice di Colchide, ebbe nella regione il suo regno fatale: e il suo spirito sembra che aleggi ancora sul mare azzurro , sulle azzurre lenee dei monti , sulle rovine dei Templi, sugli stagni putridi e mortali . Una solenne atmosfera di silenzio
circonfonde Terracina squallida , chiusa tragicamente nella luce del suo passato, quando i traffici ed il commercio urgevano, quando gli eroi turbinavano intorno, quando l’arte risplendeva nel tempio di Anxur che prometteva al suo popolo la giovinezza eterna e in molti altri Templi e Fori e Basiliche e case. L barcgìhe pescherecce sotto al Circeo con le vele tessute di luce . gonfie e veloci sulla solenne distesa del mare azzurrissimo nella violenza del sole sembrano quelle che passarono innanzi l’isola a vele spiegate una notte remota tra il ruggire dei leoni incatenati e l’ululare dei lupi, mentre Odisseo era tenuto prigioniero nel palazzo incantato di Circe. I bufali pigri, fangosi, dagli occhi iniettati di sangue che triano una pesante carrozza presso Terracina, guazzando in mezzo all’acqua, sembrano veramente quelli abbandonati dalle torme unne di Genserico nella loro partenza precipitosa. Altri bufali lenti e grevi tirano un carro dalle enormi ruote ai monti Ausoni di linea sobria e sdegnosa, interrotta dal Pesco montano, una rupe a foggia di torre sporgente dal Tirreno come faro ciclopico. Esso fu tagliato sotto il primo impero perché contenesse la via Appia, la quale solo colà toccava il mare ed era un punto strategico guardato dal presidio romano chiuso nel Castrum che circondava il tempio di Anxur. Sul davanti del quadro il terriccio melmoso si affloscia ed affonda . L’ampio paesaggio sembra fasciato in tedio profondo , in un silenzio pauroso ed il carro ed i bufali ed i conducenti sembrano silenziose apparizioni fantastiche. Ancora altri bufali affogati nel fango , con le teste torte in alto , ansanti, guardati da due butteri monumentali, selvaggi ruderi di una remota età eroica. Desolazione epica domina anche nelle rovine del porto di Trajano, ora pozzanghera in cui guazzano i bufali, ma un tempo rifugio ricco di vele e di grida che vide partire verso l’Africa gran parte del bottino di Genserico. E’ un arco di terra melmosa cui sono attaccati ancora gli anelli per le navi e al di là di essa si stende sconfinato il mare, rompendosi in spuma sulla terra
superstite ch’esso ogni dì più incalza e sopprime. L’organismo coloristico è squisito : i toni aurati iridescenti delle nuvole pendule sul mare si fondono mirabilmente con quelli oscuri e sordi dell’acqua opaca e della terra che scoscende , rilevati dalla massa azzurra del monte e dalla macchia rossa della casetta che si erge a destra . Molti di questi finissimi quadri si fan notare , oltre che per la loro significazione sempre profonda , per la raffinata seduzione del colore. Vi è una tempera – L’aratura a Foro Appio- che è tutta una delicata sinfonia di toni gialli nell’immensità triste del piano, nelle figure dell’uomo e dei buoi, atomi perduti nello spazio. Un’altra tempera –Nel lago di Nemi, sotto villa Cesarini- in cui attraverso un incrocio fantastico di olmi e platani s’intravvede il cielo roseo sorridente sulle masse azzurrine dei monti, è un accordo finissimo di giallo, verde , rosso , azzurro. Nell’Aratura con i bufali è il roseo chiarore dei monti che anima il paesaggio illuminandolo di un sorriso infinito di pace e di gioia, mentre un lungo convoglio di bufali immani passa con andatura lenta grave come nell’eternità del tempo. Fini illustrazioni ha anche Ostia. Una tempera
che ritrae un piccolo cimitero settecentesco , il cui modesto ingresso è fiancheggiato da due colonne joniche, ornamento forse di qualche villa romana, è una visione di una semplicità e di una signorilità più che squisita, resa con magnifica nitidezza e rilievo, animata da un occhieggiare vivace di papaveri che squillano nella chiara luminosità diffusa sulla campagna. E’, come tante cose del Sartorio, una cosa fatta di niente, ma piena di freschezza e di aristocratica distinzione. Guardate il Pagliaio così morbido, tagliato finemente sull’orizzonte luminosissimo, perlaceo per lo sfolgorare del sole. Guardate lo studio di Tor di Quinto: una semplicissima linea di colline su cui si arrampicano curve le pecore, tutta soffusa di una tristezza e di una poesia infinita. Il Sartotio ha la virtù dei grandi artisti, quella di innalzare ad espressione di arte le forme più umili della vita e della natura, di essere sempre semplice ed originale insieme, di animare come per incantesimo perfino manifestazioni d’arte strascinate per tutte le mostre e tutte le botteghe. Vuol rendere le rovine dei
monumenti romani e non fa né la veduta, né la cartolina illustrata. Le colonne superstiti del Teatro di Ostia sembrano membra sparse, ma ancora viventi, di un organismo già vibrante e pare che anelino all’alto agili e fulgide; le rovine delle Terme antoniniane , quadro di fattura finissima, sembrano penetrare in ogni pietra, in ogni linea di una vita profonda e anche gli acquedotti hanno una grandiosità altera, solenne di voci remote che li rende una vera e grande evocazione di vita fuggente nei secoli. Le paludi e il Litorale pontino sono evocati in alcuni quadretti che sono i migliori della serie, specie quello rappresentante un armento di bufali che attraversa un ponte di pietra, il cui riflesso rossastro anima l’acqua appena increspata e, più ancora, quel lembo di litorale , vero capolavoro, in cui è reso possentemente l’infinito del mare e quel senso di timoroso stupore, di tristezza, di annichilimento che esso produce e che la tenue vita delle pecore beventi intensifica. Delle illustrazioni di Tivoli è assai fine quella che ritrae una cascata, ora scomparsa, scendere rumorosa e fresca tra rigogliose siepi verdi, e le due rive dell’Aniene , eleganti nella loro pace un po’ triste, fresche di ombre animatrici. Di Castel Fusano si
vede lo Stagno del Levante , immobile, triste, armonia di toni verdi, e il viale del coniglio, grandioso, in cui le masse brune dei pini ondeggianti staccano sopra il cielo diafano che appare a tratti tra esilità dei rami. La pineta di Sant’Anastasia è resa in due aspetti diversissimi- una volta oasi perduta in una desolazione immensa, affondata in un orizzonte torbido, chiuso da una monotona linea di monti- un’altra come parco signorile racchiudente una casetta candidissima: una visione gaia, fresca, aristocratica. Molti altri quadri ritraggono svariati aspetti della Campagna Romana. La strada attraverso la selva laurentina, oltre a rivelare una straordinaria abilità tecnica , è altamente suggestiva per lo sfondo misterioso, per la immobilità quasi esanime degli alberi e delle erbe che sembrano forme di una vita lontana. Di morbidezza squisita e finissima di chiaroscuro è la Raccolta del fieno. Più fine e possente il Temporale sulla via Cassia bianca di polvere, su cui rotolano con grave incedere carri tirati da bufali. L’appesantimento dell’aria , l’attenuazione dei colori pel filtrare lieve del sole, l’aspettazione misteriosa e raccolta che si diffonde sugli
uomini e sulle cose insieme a una tristezza profonda fanno apparire imminente l’abbattersi della bufera. L’Aratura di settembre in una sterminata e desolata campagna chiusa da monti assume una grandiosità sovrannaturale come se fosse una funzione sacra. Assai delicata è la Pastorale, pervasa di una tristezza elegiaca che si effonde non solo dal volto accasciato del suonatore gonfio e lacero, ma anche da quel rudero-voce d’altri tempi- staccante sul piano erboso e dalla squallida distesa interminata avvolta in una luminosità diffusa. Epica è la Sera nella Campagna Romana per il rossore tragico che avvolge come di un velo di nebbia il desolato piano erboso, le pecore strette l’una all’altra, timidamente. Certi grandi quadri hanno raggiunto una vita straordinaria, riprodotti in piccole dimensioni. Così quello già a Venezia in cui si vedono le pecore disposte a semicerchio come per un misterioso rito sotto il tenue chiarore roseo dell’estremo crepuscolo, mentre la luna rosseggia pallida e incerta dietro i vapori : pare che un silenzio argentino circonfonda ogni cosa ; pare che un infinito senso di poesia da ogni cosa emani. Così da Tonnara , esposta a
Milano nel 1906, che appare più intensa nell’azione, più armonica nella costruzione , più accordata nel colore. La pittura , con questi lavori, il Sartorio ha superbamente rappresentato e descritto la Campagna Romana.
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
Biografia di Giulio Aristide Sartorio.
Allievo prima del padre e poi dell’Accademia di San Luca fece i suoi primi passi all’insegna del fortunismo alla moda con quadi in costume settecentesco o comunque contrassegnati dalla pennellata virtuoso e dalla tematica facilmente leggibile. Nel 1883 inviò all’Esposizione di Belle Arti di Roma Dum Romae consulitur morbus imperat ovvero Malaria (opera dispersa), potente dipinto neo caravaggesco di denuncia sociale. Nel 1889 vinse la medaglia d’oro a Parigi con I figli di Caino e si avvicinò a Francesco paolo Michetti, da cui derivò l’amore per il pastello e per il paesaggio. Contemporaneamente alla frequentazione di In Arte Libertas realizza il trittico Le Vergini Savie e Le Vergini Folli per il conte Gegè Primoli, opera intrisa di umori neo bizantini. Un passo successivo fu il dittico Diana d’Efeso e gli Schiavi e La Gorgone e gli Eroi – vera e propria summa della sua stagione simbolista e delle sue riflessioni sull’arte – opera che alla Biennale di Venezia del 1899 ottenne l’acquisto statale per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Tra il 1908 e il 1912
realizzò l’intero fregio per la nuova aula del Parlamento mettendo a punto un nuovo linguaggio per la decorazione ambientale dove si coniugava il classicismo michelangiolesco con la propria sigla inconfondibile. Allo stesso periodo risale la partecipazione al gruppo dei XXV della Campagna Romana, con il quale perlustrò tutti gli amati dintorni di Roma riportandone i segni distintivi in procinto di essere cambiati per sempre dal progresso. Nel 1915 partì volontario per la guerra che documentò con una serie di lavori di straordinaria modernità caratterizzati da tagli fotografici arditi e da contrasti cromatici d’effetto. Negli anni ’20 compì una serie di viaggi in Oriente e Sud America grazie ai quali realizzò una serie straordinaria di opere contraddistinte dall’immediatezza del reportage dal vivo. L’ultimo periodo si dedicò a ritrarre la famiglia Fregene mettendo a punto un’innovativa pittura di luce post impressionista di straordinaria modernità. Morì nel 1932 a Roma durante la progettazione della decorazione del Duomo di Messina. Biografia: Nasce a Roma l’11 febbraio 1860, il nonno Girolamo e il padre Raffaele, entrambi scultori, lo avviano
all’arte. Frequenta i corsi di Francesco Podesti all’Istituto di Belle Arti. 1877-79 Si mantiene realizzando soggetti alla moda neo settecenteschi e neo pompeiani sulla scia del successo di Mariano Fortuny. Si reca a Napoli dove conosce Domenico Morelli. 1883 Partecipa all’Esposizione internazionale di Roma con Malaria (Dum Romae consulitur morbus imperat). 1884 Visita a Parigi il Salon e attraverso Vittorio Corcos viene in contatto con l’ambiente degli artisti italiani ivi operanti. 1885 Lavora come illustratore per la “Cronaca Bizantina” di Angelo Sommaruga, che lo presenta a Gabriele D’Annunzio. 1886 Stringe amicizia con Francesco Paolo Michetti ed Edoardo Scarfoglio e viene in contatto con il gruppo di artisti di “In Arte Libertas” legati a Nino Costa. Prende parte all’editio picta dell’Isaotta Guttadauro di D’Annunzio. 1889 Ottiene la medaglia d’oro all’Esposizione universale di Parigi con I figli di Caino (1887-89). Durante l’estate soggiorna con D’Annunzio a Francavilla ospite di Michetti, che lo introduce alla tecnica del pastello e alla pittura di paesaggio. 1890 Frequenta il salotto del conte Giuseppe Primoli, che gli commissiona
il trittico Vergini savie e vergini folli (Roma, Galleria comunale d’arte moderna). Espone per la prima volta con il gruppo “In Arte Libertas”. 1893 Si reca in Inghilterra per studiare le opere dei preraffaelliti e conosce a Londra William Morris. In una tappa a Parigi visita nuovamente il Salon. Invia da Parigi e Londra articoli sull’arte europea alla “Nuova Rassegna”. 1895 Espone alla I Biennale di Venezia, cui sarà presente con assiduità. 1896-99 Insegna pittura alla Scuola d’arte di Weimar su invito del granduca Carlo Alessandro di Sassonia. Si accosta al simbolismo tedesco e compie studi di animali nel giardino zoologico di Weimar. 1899 La III Biennale di Venezia gli dedica una sala personale, in cui espone il dittico Diana d’Efeso e Gorgone e gli eroi (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna). 1901 È nominato membro dell’Accademia di San Luca. Sposa Giulia Bonn. 1903 Nasce la figlia Angiola. 1904 È tra i fondatori del gruppo dei XXV della Campagna romana. 1905 Giulia Bonn rientra a Francoforte portando con sé la figlia. Pubblica il romanzo Roma Carrus Navalis – favola contemporanea. 1906 Partecipa all’Esposizione di
Milano per l’apertura del traforo del Sempione con il Fregio del Lazio, poi suddiviso in diversi pannelli. 1907 Decora il salone centrale della Biennale di Venezia con il ciclo allegorico La Luce, Le Tenebre, L’Amore e la Morte (Venezia, Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro). 1908-12 Realizza il fregio decorativo della nuova aula del Parlamento italiano progettata da Ernesto Basile. 1914 Espone all’XI Biennale di Venezia. 1914-15 Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola come volontario con il grado di sottotenente di cavalleria. Ferito e catturato a Lucino sull’Isonzo è trattenuto nel campo di prigionia di Mauthausen, da cui viene liberato diversi mesi dopo grazie all’intercessione di papa Benedetto XV. Torna al fronte dove dipinge scene di guerra. 1917 Pubblica Tre novelle a perdita. 1919 Sposa l’attrice Marga Sevilla, con cui vive nella villa Horti Galateae. Dirige la moglie nel film Il mistero di Galatea. Si reca in Egitto per realizzare il ritratto di re Fuad I e visita Palestina, Libano e Siria. Il 14 settembre nasce la figlia Lidia. 1919-21 Collabora la casa di produzione cinematografica Triumphalis, firmando il soggetto di Clemente
VII e il sacco di Roma e dirigendo il San Giorgio. 1921 Espone alla Galleria Pesaro. 1922 Pubblica il poema illustrato Sibilla e lo scritto teorico Flores et Humus. 1923 Il 23 novembre nasce il figlio Lucio. 1924 Effettua il periplo dell’America Latina a bordo della Regia Nave Italia. 1929 Si imbarca sulla nave militare italiana Caio Duilio per una crociera nel Mediterraneo. 1930-32 Lavora alla decorazione musiva del nuovo Duomo di Messina. 1932 Muore il 2 ottobre e viene sepolto nella chiesa di San Sebastiano fuori le mura.
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
Valerio Bispuri- Dentro una storia. Appunti sulla fotografia
Prefazione di Marco Damilano-Editore Mimesis
Descrizione del libro di Valerio Bispuri-Prefazione di Marco Damilano:“In fondo credo che la fotografia unisca la possibilità di rimanere bambini e di essere uomini forti, coraggiosi e incoscienti, dove le emozioni si rispecchiano allo stesso tempo nella velocità dello scatto e nella lentezza di saper guardare oltre, dove l’attimo può rimanere in superficie e allo stesso tempo toccare grandi profondità e dove l’istinto funziona solo quando si muove nel recinto della ragione”. “Dentro una storia” è il viaggio di un fotoreporter all’interno delle sue immagini. Valerio Bispuri ci porta nel mondo degli ultimi, dei dimenticati e ci racconta il suo percorso fotografico e umano attraverso gli sguardi, i gesti di chi ha fotografato. Un mondo osservato o meglio scrutato con pazienza e coraggio, due parole ricorrenti nel suo lavoro. Un fotoreporter controcorrente che usa il tempo per conoscere e raccontare, che ama le storie lunghe e che riesce a unire le proprie emozioni con la realtà. Tra gli occhi di chi vive dietro le sbarre di una prigione, nel mondo della droga in Sudamerica, nell’universo di chi è sordo e nella realtà della malattia mentale, le storie di Bispuri nascono sempre osservando gli altri e la propria interiorità: “Ho sempre visto la fotografia come un guardare attraverso il mondo con la lente d’ingrandimento delle nostre emozioni. Un gesto che diventa forma, uno spazio che si interpone agli angoli remoti delle nostre linee interiori”.
Dal 2004 ha seguito un progetto decennale dedicato al mondo carcerario dell’America meridionale, con lo scopo di raccontare il continente attraverso i detenuti e la loro condizione ed i drammi da loro vissuti.[2] Durante il suo percorso, Bispuri ha visitato 74 carceri di tutti i paesi del Sudamerica. In Argentina ha ottenuto l’autorizzazione a visitare il Padiglione 5 del carcere di Mendoza, dove erano reclusi i detenuti argentini più pericolosi.[3] Il direttore della struttura gli fece firmare una liberatoria in cui si assumeva tutte le responsabilità per la sua incolumità.[3] Attraverso le foto scattate in questo padiglione ha documentato le condizioni di estremo degrado in cui i detenuti erano costretti a scontare la pena.[3]
Le fotografie, realizzate in bianco e nero, sono state oggetto di esposizione in varie mostre internazionali e sono state raccolte nel libro Encerrados, edito da Contrasto nel 2015 e sostenuto anche da Amnesty International.[4] L’impatto sociale di Encerrados è stato tale che ha contribuito alla chiusura del Padiglione 5 del carcere di Mendoza.[3][2] Nel 2013 ha vinto il Sony World Photography Award nella categoria Contemporary Issues.[5]
Con il suo foto reportagePaco ha tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze dell’assunzione da parte di adolescenti e ragazzini a Buenos Aires del Paco, una droga estremamente nociva, ottenuta con gli scarti della lavorazione della cocaina, miscelati a cherosene, colla, veleno per topi o polvere di vetro.[6][7]
Per sei anni ha seguito la vita di Betania una donna trentacinquenne lesbica di Buenos Aires, ritraendola nella sfera privata, indagando lo sviluppo della vita intima e sentimentale e le aspirazioni di autonomia e riconoscimento nella società argentina, che ha approvato il matrimonio egualitario.[8][9][10]
Dopo aver ottenuto l’autorizzazione a visitare le carceri italiane da parte del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia, ha costruito un progetto di documentazione delle strutture detentive e della popolazione carceraria, realizzando un’indagine sulla condizione psichica e fisica dell’uomo privato della libertà. Il progetto ha riguardato 10 carceri: l’Ucciardone di Palermo, Poggioreale a Napoli, Regina Coeli e Rebibbia Femminile a Roma, Capanne a Perugia, Bollate e San Vittore a Milano, la Giudecca a Venezia, la Colonia penale di Isili a Cagliari e Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino. Alcune delle fotografie realizzate sono state raccolte nel volume Prigionieri pubblicato nel 2019. Prigionieri, Encerrados e Paco, formano una trilogia sulla libertà perduta.[2][11]
I suoi reportage sono stati oggetto di diverse esposizioni internazionali.
Michael Freeman-L’occhio del fotografo-La composizione nella fotografia digitale
Editore Logos
DESCRIZIONE del libro di Michael Freeman–Un’adeguata padronanza delle regole della composizione è indispensabile per realizzare fotografie efficaci. La capacità di riconoscere un’opportunità fotografica e di organizzare gli elementi grafici in un insieme riuscito è da sempre una delle qualità più apprezzate in un fotografo. Il libro esplora gli approcci tradizionali alla composizione, ma affronta anche tecniche digitali come lo stitching e l’High Dynamic Range Imaging. In linea con l’obiettivo del libro, che mira ad ampliare le possibilità creative senza compromettere l’originalità della visione del fotografo, questa edizione è stata interamente migliorata nella qualità delle immagini in occasione del decimo anniversario della pubblicazione. Le nuove tecnologie di riproduzione digitale, non disponibili all’epoca della prima edizione del libro, danno nuova vita alle fotografie dell’autore, evidenziando la competenza tecnica che ha indicato la strada a una generazione di fotografi.
Il suo primo libro, Athens, viene pubblicato nel 1978 all’interno della collana “The World’s Great Cities” della casa editrice britannica Time-Life. Nel 1982 seguirono altri due libri, Guardians of the North-West Frontier: The Pathans e Wayfarers of the Thai Forest: The Akha, entrambi nella collana “Peoples of the Wild”.
Freeman ha avuto una lunga esperienza di lavoro con lo Smithsonian Magazine, fotografando 40 storie tra il 1978 e il 2008.[1]
Sue principali specializzazioni sono la cultura asiatica, l’architettura e l’archeologia, su cui ha pubblicato molti libri contenenti sue foto e scritti, tra cui cinque volumi su Angkor. Il primo, Angkor: The Hidden Glories, è stato utilizzato per il film Baraka del 1992 e Freeman ha contribuito alla realizzazione del documentario del 2008Baraka: A Closer Look.[2]
Ha inoltre scritto e illustrato il materiale didattico per il corso di fotografia dell’Open College of the Arts, un istituto indipendente britannico.[4]
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