La Giornata del Made in Italy alla Biblioteca nazionale centrale di Roma-
La Biblioteca nazionale centrale di Roma del Ministero della Cultura partecipa alla Giornata Nazionale del Made in Italy organizzata dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, con una mostra dal titolo Fatto in Italia: tracce di moda tra i libri della Biblioteca nazionale centrale di Roma.
La Giornata nazionale del Made in Italy è celebrata nel giorno dell’anniversario della nascita di Leonardo da Vinci, avvenuta il 15 aprile 1452 ed è dedicata alla promozione della creatività e dell’eccellenza italiana.
La mostra Fatto in Italia: tracce di moda tra i libri della Biblioteca nazionale centrale di Roma esplora la storia di una delle filiere d’eccellenza italiana, quella della moda e del tessile, che rappresenta il cuore pulsante dell’artigianato, della creatività e dell’eccellenza italiana.
Il breve, ma denso percorso espositivo che celebra la moda e il design italiano sarà allestito dal 15 aprile al 15 maggio in due spazi distinti della Biblioteca ed è stato disegnato per offrire al pubblico un affresco della moda italiana attraverso i secoli. Una selezione di opere tratte dai fondi antichi, rari e di pregio e foto e servizi di moda pubblicati dai primi anni del XX secolo in riviste storiche. Le vetrine sono allestite in uno spazio del foyer e in uno spazio della sala Manoscritti.
La sezione dell’esposizione presso la Sala Manoscritti curata dalla dott.ssa Saveria Rito, presenta alcuni dei più celebri trattati cinquecenteschi su abiti e costumi, corredati da illustrazioni magistralmente incise in xilografia (Cesare Vecellio) o in calcografia (Pietro Bertelli) e arricchiti da parti mobili che celano curiosi dettagli, fino a giungere alla monumentale opera di Giulio Ferrario (Il costume antico e moderno di tutti i popoli, 1826-1834) in 21 volumi impreziositi da oltre mille litografie a colori. Si aggiungono altre raffinate edizioni che esaltano l’eccellenza dell’arte italiana del ricamo stampate tra il XVI e il XVII secolo. Vera e propria rarità, infine, il trattato del modenese Giovanni Guerra dedicato alle Varie acconciature di teste usate da nobilissime dame in diverse città di d’Italia (non prima del 1589) costituito da eleganti incisioni in rame che raffigurano pettinature in uso in varie città.
La sezione dell’esposizione ospitata nel foyer della Biblioteca curata dalla dott.ssa Consuelo Labella, è un breve viaggio attraverso le tendenze e le icone di stile tra XIX e XX secolo: in mostra le fotografie e le illustrazioni tratte dalle riviste che hanno contribuito a fare la storia del giornalismo di moda in Italia con immagini che raccontano l’evolversi della moda ed il costume fino al grande riconoscimento internazionale dopo la seconda guerra mondiale. Una sezione speciale è anche dedicata alle acconciature che hanno segnato la storia, simbolo e manifestazione tangibile dell’evoluzione socio-culturale, politica e tecnologica delle civiltà.
La mostra sarà aperta martedì 15 aprile alle ore 17.30 con un incontro speciale in Sala Macchia condotto da Fabiana Giacomotti, storica del costume e giornalista dal titolo “Bibliomoda. Le parole del Made in Italy”. L’incontro introdotto da Consuelo Labella che spiegherà il percorso espositivo, sarà un viaggio alle origini della parola scritta nella moda e nelle mode e spazierà dagli alba amicorum ai social, dal “Giornale della nuova mode di Francia e di Inghilterra” e “La donna galante ed erudita” ai creator, dai compendi di costume alle sfilate live.
La Biblioteca nazionale centrale di Roma vi invita a condividere con noi questa Giornata nazionale del Made in Italy.
Made in Italy
La Giornata del Made in Italy alla Biblioteca nazionale centrale di Roma
15 Aprile 2025, La mostra sarà aperta martedì 15 aprile alle ore 17.30 con un incontro speciale in Sala Macchia condotto da Fabiana Giacomotti, storica del costume.
-Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”-
Articolo di Cesare VIVIANI scritto per la Rivista ORIGINI N°37 anno 1999-
Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”
Alfredo Chighine – cenni biografici:
Alfredo Chighine nacque a Milano il 9 marzo 1914 da padre sardo e madre lombarda. Giovanissimo entrò in fabbrica a lavorare come operaio mentre, cominciati subito i suoi interessi artistici, frequentava il Corso di Incisione all’Umanitaria. Nel 1941 espose alla III Mostra Provinciale al Palazzo della Permanente un dipinto intitolato “Composizione”. Nel 1945 studiò all’Istituto Superiore d’Arte Decorativa di Monza e finalmente all’Accademia di Brera di Milano, dove seguì il corso di scultura. In questo periodo conobbe Giacomo Manzù e fu suo allievo. Aveva stretti rapporti di amicizia e di lavoro con Franco Francese, più giovane di lui di sei anni. Erano gli anni del dopoguerra: Alfredo Chighine entrò nell’ambiente di Brera, che gravitava intorno al Bar Giamaica. Aveva intanto continuato a dipingere. Ma nel 1948 si presentò alla Biennale di Venezia con due sculture in legno. Era poverissimo, gli mancavano i materiali per lavorare, colori, tele, legno, ecc. La scultura “Maternità” del 1946 è fatta con un acero di un viale di Milano, segato e portato a casa di notte. Aveva studio in via Mac Mahon. Qui lo frequentò, primo dei critici a capirne le qualità, Marco Valsecchi. Fondamentale fu in quel momento l’incontro, tramite Valsecchi, con Gino Ghiringhelli. Ne derivò un rapporto di stima, di amicizia e di lavoro che durò fino alla morte di Ghiringhelli nel 1964, e che fu testimoniato da numerose mostre alla Galleria del Milione. Un eccezionale collezionista, Carlo Frua De Angeli, colse allora il valore di Chighine e acquistò molte delle sue migliori opere degli anni cinquanta e primi sessanta. Nel 1956 lasciò lo studio di via Mac Mahon e si trasferì in uno studio in via Rossini 3, che divise col pittore Giordano. Nel 1957 Alfredo Chighine compì il primo viaggio a Parigi. Dal 1958 cominciò a recarsi nell’estate a Viareggio; qui ebbe studio e vi tornò ogni anno, acquisendo nuovi temi e un senso diverso della luce. In quello stesso anno lasciò lo studio di via Rossini e ne sistemò uno, che fu il definitivo, in Corso Garibaldi. Nel 1959 fece un breve soggiorno a Positano e fu colpito dalla violenza cromatica del Sud. Ormai la sua opera si era imposta e la sua vita non ebbe più vicende che non fossero quelle interiori e del lavoro quotidiano di pittura, di grafica e di incisione. Morì a Pisa il 16 luglio 1974.
Chighine alla Galleria Marini: ALFREDO CHIGHINE Pensare con le mani
– Milano Arte Expo-
Chighine alla Galleria Marini: ALFREDO CHIGHINE Pensare con le mani – mostra consigliata da Milano Arte Expo. Inaugurazione giovedì 11 dicembre 2014 alla Galleria Marini (via Appiani 12 vedi MAPPA) – aperta fino al 28 febbraio 2015. Grande omaggio ad Alfredo Chighine (Milano 1914 – Pisa 1974), tra i protagonisti storici della pittura informale italiana. In espsosizione più di quaranta opere eseguite dal 1953 al 1973 a testimoniare tutto il percorso artistico del maestro. Scrive Elisabetta Longari nella presentazione in catalogo “…Pensare con le mani: non riesco a trovare una formulazione alternativa che dia altrettanto precisamente conto della matrice “immanente e pragmatica” propria del laboratorio creativo dell’artista, tanto nella sua prima fase come scultore quanto nella sua attività di pittore, e dei suoi processi, legati soprattutto all’immediatezza del fare, un fare interamente basato su una sorta di intuito fulmineo della mano e dell’occhio (“come se a vedere fossero le mani”) …”. >
E Cristina Casero osserva “…Per Chighine mi sembra che la stagione informale vada intesa, da un lato come la volontà di avvicinarsi alla realtà per restituirne l’essenza vitale, il ritmo, guardando alla natura naturans più che alla natura naturata, dall’altro come un fondamentale esercizio sul piano della prassi pittorica, della costruzione dell’immagine attraverso il lessico della pittura: segno, colore, luce …”
Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”
Ancona THEIA Gallery- Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy-
Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy-Nel panorama culturale di Ancona c’è una novità: si chiama THEIA Gallery(in omaggio alla divinità greca della visione) ed è una “home gallery“, vale a dire un’abitazione che funziona anche come spazio espositivo aperto al pubblico. Dal 12 aprile al 4 maggio, a cavallo di Pasqua e dei ponti di primavera, THEIA (via Cadorna 4, Ancona) aprirà i battenti con una mostra fotografica di Massimo Baldini intitolata Casa nostra. Housing in Italy: una cinquantina di fotografie a colori che esplorano il tema dell’abitazione privata e dell’abitare nel nostro paese.
Ancona-THEIA Gallery- Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy
THEIA HOME GALLERY
Lungi dall’essere neutro, lo spazio fisico in cui fare arte è carico di significati e implicazioni dal punto di vista culturale, economico e politico. Per arrivare a varcare la soglia della galleria, del museo, del padiglione fieristico, l’artista partecipa inevitabilmente a liturgie e a logiche commerciali che ne orientano il progetto fin dall’ideazione, nel contesto di un mercato tanto più onnipotente e autoreferenziale quanto più ristretto ed “esausto”, come lo definisce il sempre corrosivo polemista Luca Rossi. Per molti artisti questo si traduce in un’assenza di critica e di confronto e per la scena artistica contemporanea in una crisi di qualità.
Come ripensare allora le vie della circolazione dell’arte? Esistono dinamiche alternative a quelle tradizionali? Richiamandosi a esperienze di “home gallery” già diffuse nel mondo anglosassone e non solo, THEIA nasce da questa esigenza: creare un locus dove fra le opere e il loro pubblico sia possibile un dialogo diretto, nell’atmosfera raccolta della casa dell’artista. THEIA dichiara la propria vocazione fotografica ma ospiterà anche eventi culturali e artistici di altro segno.
Ancona-THEIA Gallery- Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy
LA MOSTRA
È vero che costruiamo case per accogliere la porzione di mondo che renda possibile la nostra stessa felicità? Una felicità fatta di cose, persone, animali, piante, atmosfere, eventi, emozioni, immagini e ricordi. Di campagna, di città, rustiche, popolari, signorili: troppo facile liquidare le case degli italiani come altrettanti mostriciattoli edilizi. Guardiamolo più da vicino allora, questo “universo intimo” e allo stesso tempo pubblico, caratterizzato da coesistenze e ibridazioni vertiginose.
Anzitutto il cortile, in cui elementi rurali o suburbani, come l’orto e il giardino, convivono spesso con inserti dell’industrialismo, quali capannoni e silos. Poi richiami alla tradizione classica, come colonne, capitelli, bassorilievi, frontoni, discoboli, Veneri di Milo, David di Michelangelo; l’inesauribile repertorio delle reminiscenze antiche, medievali, rinascimentali, barocche, non di rado compresenti; l’iconografia fiabesca e zoomorfa di nanetti, pastorelli, bambi, aquile, leoncini, scimmiette, cani life-size; la religiosità nazional-popolare incardinata nelle figure della Madonna e di Padre Pio. Infine, uno sperimentalismo anarchico assai congeniale al nostro paese, una scapigliatura architettonica che non finisce mai di stupire: audaci scalinate, archi maestosi, ornamenti neo-neo. Nell’impasto in apparenza incoerente di surreale e banale, inventivo e scanzonato, si disvelano gli arcani dell’italianità, ma anche i modi in cui gli abitanti della penisola cercano, e trovano, la propria felicità.
Massimo Baldini si è laureato in Sociologia economica nell’Università di Firenze. Dopo aver lavorato a lungo nell’editoria, dal 2014 si dedica esclusivamente alla fotografia. Si è occupato in particolare dell’identità italiana, secondo diverse prospettive. Tra le sue mostre personali: Italianité, Parigi, Maison de l’Italie, 2017; A Tour not so Grand, Bologna, Fondazione Carlo Gajani, 2018; White Noise, Milano, Galleria Made4Art, 2022. Italia Revisited # 1, un progetto di lungo periodo sulle trasformazioni del paesaggio italiano, che dialoga idealmente col Viaggio in Italia di Luigi Ghirri ed altri a quarant’anni di distanza, è stato in esposizione a Bologna, Complesso monumentale del Baraccano, 2023, poi a Ravenna, Fondazione Sabe per l’Arte, 2024; nel 2025 sarà al Regierungspräsidium di Friburgo e alla Rathausgalerie di Rheinfelden. In volume ha pubblicato Gli Italiani, con testi scelti da Claudio Giunta, Bologna, Il Mulino, 2019.
Ancona-THEIA Gallery- Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy
Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy
-Gli ARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANE.
Copia anastatica dell’Articolo dalla Rivista EMPORIUM n° mese di maggio 1908
Un arco trionfale, o arco di trionfo, è una costruzione con la forma di una monumentale porta ad arco, solitamente costruita per celebrare una vittoria in guerra, in auge presso le culture antiche. Questa tradizione nasce nell’Antica Roma, e molti archi costruiti in età imperiale possono essere ammirati ancora oggi nella “città eterna“.
Alcuni archi trionfali erano realizzati in pietra, a Roma in marmo o travertino, ed erano dunque destinati ad essere permanenti. In altri casi venivano eretti archi temporanei, costruiti per essere utilizzati durante celebrazioni e parate e poi smontati. In genere solo gli archi eretti a Roma vengono definiti “trionfali” in quanto solo nell’Urbe venivano celebrati i trionfi e onorato l’ingresso del vincitore. Gli archi eretti altrove sono generalmente definiti “onorari” e avevano la funzione di celebrare nuove opere pubbliche. Originariamente gli archi erano semplici e avevano una sola apertura (fòrnice), nell’età tardoimperiale si arricchirono con fòrnici laterali e rilievi scultorei decorativi. Sulla sommità, detta attico, erano poste statue e quadrighe guidate dall’imperatore. L’età augustea inaugurò una tipologia grandiosa dell’arco di trionfo; era arricchito con rilievi in marmo o in bronzo che raccontavano le imprese di guerra dell’imperatore.
La costruzione degli archi romani assunse man mano, un ruolo pressoché simbolico. Essi infatti si rifanno alle porte monumentali, allineate alle mura della città, ma da esse si differiscono non tanto strutturalmente, ma, appunto, simbolicamente. Essi sono, infatti, dedicati a grandi imprese compiute da imperatori, generali, quali guerre, conquiste o anche alla semplice edificazione di infrastrutture come ponti e strade. Altro elemento di grande importanza, e quindi da sottolineare, è la circostanza che la monumentalità sia data dalla sovrapposizione di due elementi strutturali: la volta ed il trilite (due colonne che sorreggono un architrave). Di questi due, solo la volta è l’elemento portante: il peso dell’intera struttura è scaricato solamente su di esso e non sulla struttura trilitica.
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Fjodor Savintsev fotografo: Come in un romanzo, viaggio nelle autentiche dacie russe di campagna.
Fyodor Savintsev, born in 1982, is a documentary photographer. In the early 2000s, Fyodor worked as photo journalist, collaborating with the world’s leading photo agencies. His stories have been published in the worlds media. Fyodor’s work is filled with deep meanings and symbolism. The author has his own language and style. Fyodor Savintsev has been having several solo and group exhibitions and has participated in auctions and fairs. He also published photo albums and books. He is playing an active role in the world of photography.
Fjodor Savintsev
Il fotografo Fjodor Savintsev ci apre le porte delle casette in legno del villaggio di Kratovo, vicino Mosca, per raccontare e immortalare un patrimonio architettonico fragile e bellissimo. I suoi scatti serviranno a promuovere una fondazione per la tutela delle antiche dacie private che caratterizzano la campagna russa. Sembrano uscite da un film di Nikita Mikhalkov. O da un racconto di Anton Chekhov. Sono le dacie russe di campagna. Casette in legno, solitarie e circondate dal bosco, immerse in un silenzio che sembra irreale. Le dacie russe sono ora al centro di un interessante progetto realizzato dal fotografo Fjodor Savintsev, conosciuto per aver pubblicato i propri scatti su importanti riviste internazionali.
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Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
La pandemia come forma di ispirazione
Il progetto è nato durante i difficili momenti della pandemia; quando la gente era costretta a stare chiusa in casa, o a cercare rifugio nelle proprie dacie di campagna, lontano dalle folle delle città. “Il progetto ‘Le dacie di Kratovo’ prende il nome da un villaggio di periferia vicino a Mosca – racconta il fotografo -. Tutto è iniziato quando sono tornato a casa dei miei genitori per aiutarli nel momenti difficili della pandemia. E così ho iniziato a raccogliere immagini documentarie delle vecchie dacie della periferia di Mosca”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Un viaggio affascinante nel passato. Un passato inciso nelle assi di legno, nelle cornici intagliate delle finestre, nei tetti spioventi che disegnano geometrie fantasiose, spesso frutto del gusto personale degli abitanti che le hanno costruite. Queste casette, infatti, il più delle volte sono state realizzate dalla gente comune, che in passato non si affidava ad architetti e costruttori. Il risultato è un “patchwork” unico di forme e colori.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Mi sono visto come un archivista che raccoglie informazioni e documenti – spiega Fjodor Savintsev -. In teoria, questo lavoro dovrebbe essere fatto da professionisti dell’architettura. Ma ho creato una tendenza affascinante che si è diffusa in diverse città. E noto un interesse crescente nello studio delle dacie a livello storico”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
L’evoluzione dei suoi lavori
Nel corso degli anni l’attenzione di Savintsev si è spostata dai soggetti umani agli oggetti immobili. Un passaggio “fluido”, come lo ha definito lui stesso, mosso dal desiderio di raccontare l’architettura come se fosse un ritratto.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“In generale nella mia carriera hanno prevalso i soggetti umani sull’architettura, ma adesso guardo anche le case attraverso la forma del ritratto. Faccio ritratti di case”, dice Savintsev, che ha sviluppato il suo progetto con un metodo di ricerca molto preciso, percorrendo strada per strada, viuzza per viuzza, alla ricerca di casette in legno da fotografare. Spesso si è messo sulle orme dei proprietari, per raccogliere testimonianze e informazioni sulla storia delle case, da poter poi condividere insieme alle immagini.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Trovare i proprietari non è sempre stato facile: Savintsev si è rivolto al suo vasto pubblico di Instagram chiedendo se qualcuno conoscesse la storia di una particolare casa o dei suoi proprietari.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Instagram è uno strumento mediatico che mi permette non solo di condividere le mie foto con il pubblico, ma anche di costruire legami significativi, dando la possibilità alla gente di contattarmi direttamente. Più di qualche volta infatti sono stato contattato dai proprietari”, spiega.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Per il fotografo documentarista, ottenere l’accesso alle case è di fondamentale importanza; ma spesso la gente si sente in soggezione davanti a obiettivi e macchine fotografiche, perciò Savintsev scatta le sue immagini sempre con lo smartphone.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Viviamo in un’epoca in cui le persone sono morbosamente a disagio quando vedono attrezzature professionali e credono che violino i loro confini privati. L’iPhone non provoca una tale reazione”, racconta Savintsev.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Al momento Savintsev sta aiutando a restaurare cinque case e ha in programma di creare una fondazione per aiutare il recupero delle dacie private. “L’obiettivo è preservare il patrimonio dell’architettura in legno – spiega -. Lo Stato non stanzia fondi per mantenere gli immobili privati, e spesso case come queste finiscono in rovina. Ma sono molto interessanti dal punto di vista del nostro patrimonio culturale, anche se sono di proprietà privata. Quindi, l’idea della fondazione è di aiutare a preservare l’aspetto autentico e originale di queste dacie, anche se private”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito. La mostra a Bologna-
Che Guevara Tú y todos un percorso espositivo per raccontare un personaggio chiave della storia del ‘900, attraverso una ricca e inedita documentazione e con il supporto dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università IULM nella ricostruzione del contesto storico. Il progetto è stato ideato e realizzato da Simmetrico Cultura, prodotto da ALMA e dal Centro de Estudios Che Guevara de l’Avana, il cui archivio è stato inserito nel 2013 nel registro UNESCO del programma Memoria del mondo.
La mostra è curata da Daniele Zambelli, Flavio Andreini, Maria del Carmen Ariet Garcia e Camilo Guevara, scomparso nel 2022, a cui la mostra è dedicata, ed è accompagnata da una “colonna sonora” originale composta da Andrea Guerra. Il percorso espositivo si sviluppa filologicamente su tre livelli di racconto, attraverso cui i visitatori rivivranno i giorni e i luoghi, gli stati d’animo e i pensieri, le azioni personali e gli eventi storici che hanno visto protagonista il Che.
Un livello di narrazione di stampo giornalistico ricostruisce il clima geo-politico; un secondo livello sarà dedicato al contesto biografico con i discorsi pubblici, ai pensieri sull’educazione e sulla politica estera, sull’economia e gli accadimenti privati e pubblici di Ernesto Guevara. Il terzo livello, a-temporale e intimistico, rivelerà gli scritti più personali – dai diari alle lettere a familiari e amici, sino alle inedite registrazioni di poesie – dove dubbi, contraddizioni, riflessioni prendono corpo. Da questo livello narrativo emerge l’uomo, l’intensità delle domande che il Che poneva a sé stesso, la difficile scelta fra l’impegno nella lotta contro l’ingiustizia sociale e la dolorosa rinuncia agli affetti e a una vita di certezze.
Un viaggio straordinario nella vita di uno dei personaggi chiave della storia più recente: Ernesto Guevara, il Che, che si racconta in prima persona.
Centinaia di pensieri, di diari, di lettere ci rivelano intimamente una delle personalità che più profondamente hanno segnato un’epoca.
Il percorso espositivo si chiude con l’installazione dell’artista americano Michael Murphy, uno dei pionieri della Perceptual Art, che ha realizzato appositamente per questa mostra un’enorme ricostruzione multidimensionale, una scultura che si trasforma in un passaggio continuo, dall’immagine del volto del Che a quella della sua firma iconica.
La mostra ha impegnato un team di autori, curatori, cattedratici e archivisti. Negli oltre 24 mesi di lavoro, di cui 3 spesi a Cuba presso la sede del Centro de Estudios Che Guevara, sono stati vagliati oltre 2000 documenti tra fotografie, lettere, cartoline, scritti e manoscritti e sono state visionate oltre 97 ore di documentari e 14 di registrazioni dei discorsi ufficiali.
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
Che Guevara: Tú y todos è realizzata da Simmetrico.
Simmetrico Cultura crea e gestisce mostre in Italia e all’estero, mettendo al centro l’uomo, la storia e l’attualità. I suoi progetti espositivi uniscono rigore scientifico, storytelling e tecnologie immersive per un’esperienza coinvolgente. Grazie a contenuti interattivi e social media, le mostre offrono percorsi di approfondimento e condivisione. Simmetrico collabora con istituzioni e enti per eventi culturali su scala internazionale.
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Info:
Museo Civico Archeologico
CHE GUEVARA tú y todos Museo Civico Archeologico Via dell’Archiginnasio 2, Bologna Fino al 30 giugno 2025 Catalogo Edizioni Pendragon www.mostracheguevara.com
L’arte di Daniel Spoerri a Narni-Dal 12 aprile Narni si propone nel panorama dell’arte contemporanea con una serie di eventi promossi dalla Fondazione Caporrella e dal Museo-Fondo Regionale d’Arte Contemporanea Baronissi, organizzati dalla Società Archeoares, e sostenuti dal Comune di Narni con il patrocinio della Regione Umbria e della Fondazione Il Giardino di Daniel Spoerri – Hic Terminus Haeret.
Fondazione Il Giardino di Daniel Spoerri
La mostra “DANIEL SPOERRI. Tableaux-pièges e bronzi”, allestita alla Rocca Albornoz, è dedicata a uno dei maestri del Nouveau Réalisme. Conosciuto per i suoi Tableaux-pièges, Spoerri ha trasformato oggetti di uso quotidiano in opere d’arte, immortalando frammenti di realtà in composizioni inaspettate. In questa mostra, a un anno dalla sua scomparsa, il pubblico potrà ammirare circa 40 sculture in bronzo, testimoni della sua inesauribile ricerca espressiva e della sua capacità di dialogare con la materia.
A Palazzo Eroli, sede del Museo della Città e del Territorio di Narni, la mostra “L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella” esplora un aspetto meno noto ma fondamentale della creazione artistica: il rapporto tra l’artista e l’artiere, tra chi concepisce l’opera e chi la realizza. In esposizione, circa 70 capolavori provenienti dalla collezione della Fondazione d’arte “Vittorio Caporrella” (FFONDARC), con un percorso curato da Massimo Bignardi.
Attraverso le opere di Arman, Agostino Bonalumi, Pietro Cascella, Enrico Baj, Umberto Mastroianni e altri, il pubblico potrà scoprire come il bronzo si trasforma in arte, in un processo che dissolve i confini tra ideazione ed esecuzione.
Uno degli elementi più affascinanti di questa esposizione è la possibilità di entrare idealmente nell’officina dell’artefice, respirando il processo creativo che ha portato alla nascita di sculture oggi considerate veri e propri capolavori.
L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella al Palazzo Eroli e DANIEL SPOERRI
Perché visitare queste mostre
Per scoprire da vicino le opere di Daniel Spoerri, uno dei più grandi innovatori dell’arte del Novecento.
Per immergersi in un percorso che svela il ruolo essenziale dell’artigianato artistico nella creazione delle sculture.
Per ammirare 70 capolavori di artisti internazionali: Arman, Enrico Baj, Giovanni Balderi, Agostino Bonalumi, Pietro Cascella, Tommaso Cascella, César (Baldaccini), Claudio Costa, Gino Filippeschi, Edgardo Mannucci, Franco Marrocco, Umberto Mastroianni, Nunzio, Arturo Pagano, Francesco Roviello, Nicola Salvatore, Paola Elisabetta Simeoni, Daniel Spoerri, Alì Traoré, Luigi Vollaro.
Per vivere un’esperienza culturale unica in due luoghi simbolo della città di Narni: la Rocca Albornoz e Palazzo Eroli.
Inaugurazione
Le mostre L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella al Palazzo Eroli e DANIEL SPOERRI. Tableaux-pièges e bronzi alla Rocca Albornoz di Narni saranno inaugurate sabato 12 aprile 2025.
Alle ore 10:30 si terrà la conferenza di apertura presso il Palazzo Comunale. A seguire visita con l’illustrazione dei due percorsi espositivi:
“L’età del bronzo”, Palazzo Eroli, ore 12:00
“Omaggio a Daniel Spoerri”, Rocca Albornoz, ore 16:00
Successivamente, le mostre resteranno visitabili seguendo gli orari di apertura del Palazzo Eroli e della Rocca Albornoz.
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Ascoli Piceno- Palazzo dei Capitani del Popolo la Mostra: Luce nel silenzio Andrea Benetti e Dario Binetti-
Fino al 27 aprile 2025, lo storico Palazzo dei Capitani del Popolo di Ascoli Piceno ospiterà la mostra “Luce nel silenzio”, un’esperienza artistica e sensoriale unica, firmata da Andrea Benetti e Dario Binetti, con la curatela del prof. Stefano Papetti.
L’esposizione si articola in un dialogo tra la luce e l’oscurità, tra il visibile e l’invisibile, attraverso 21 opere che fondono bassorilievo e fotografia, immergendo lo spettatore in un’atmosfera evocativa e mistica. La mostra si ispira alle profondità delle Grotte di Castellana, luogo iconico di silenzi millenari, e porta in superficie suggestioni ancestrali e archetipi visivi che parlano direttamente all’anima.
Andrea Benetti, artista e ideatore del Manifesto dell’Arte Neorupestre, e il fotografo Dario Binetti hanno creato un percorso espositivo in cui le ombre e i bagliori si fondono, restituendo immagini che sembrano emergere da un tempo remoto, in un richiamo alla spiritualità primitiva e alla ricerca di significati nascosti.
Ascoli Piceno- Palazzo dei Capitani del Popolo la Mostra: Luce nel silenzio Andrea Benetti e Dario Binetti
La mostra è promossa da Italian Art Promotion e Alchemical Shadows, con il patrocinio del Comune di Ascoli Piceno e la collaborazione delle Grotte di Castellana, il cui fascino ha ispirato il progetto artistico.
Un ringraziamento speciale al Comune di Ascoli Piceno ed al Comune di Castellana e alla Dirigenza delle Grotte di Castellana per il supporto al progetto.
Walker Evans: la fotografia sociale–Gli esordi tra letteratura e fotografia-Noto per essere uno dei pionieri della Straight Photography – la fotografia diretta, documentaria, spogliata da orpelli artistici – Walker Evans nasce a Saint Louis, Missouri, il 3 novembre 1903. La sua è una famiglia abbiente, il padre lavorava nel settore della pubblicità, per cui la vicinanza alla fotografia risulta essere un aspetto quasi “naturale” per Walker Evans, che fin da piccolo inizia a prendere dimestichezza con la macchina fotografica anche quando la famiglia si sposta prima a Chicago e poi nell’Ohio.
Eppure il primo “amore” artistico per Walker Evans è la letteratura: dopo un breve periodo al Williams College, si trasferisce a New York, dove nutre l’ambizione di diventare poeta e romanziere. Tra i suoi modelli ci sono Joyce, T.S. Eliot e Cummings.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Nella metropoli americana, tuttavia, Walker Evans sperimenta un vero e proprio blocco creativo. A New York è impegnato nei lavori più diversi, e dopo tre anni di insuccessi nel mondo dell’editoria, decide di imbarcarsi per Parigi, capitale culturale dell’Occidente a inizio dello scorso secolo. Anche nella capitale francese, la scrittura non è certo facile per Walker Evans, ma la città gli permette di venire in contatto con il fotografo francese Eugene Atget e con la sua allieva Berenice Abbott, che avranno grande influenza sullo stile di Evans.
Nel 1927 Walker Evans torna a New York ed entra a far parte di un nuovo circolo letterario sempre più aperto ad altre forme d’arte. È in questo contesto che il nascente interesse di Evans per la fotografia diventa una passione a tutti gli effetti.
I grattacieli della Grande Mela e la fisonomia industriale della metropoli americana sono i primi soggetti della fotografia di Walker Evans, senza espedienti estetici.
Nel 1933, Evans è a Cuba per il libro del giornalista Carleton Beals, The Crime of Cuba. All’Avana, stringe amicizia con Ernest Hemingway e immortala con tratti sempre più realistici la vita dell’isola: poliziotti, mendicanti, pescatori. Temendo che alcune delle sue fotografie potessero essere ritenute sovversive e quindi confiscate dal governo cubano, prima di lasciare L’Avana, Evans affida 46 stampe fotografiche a Hemingway. Andati persi, gli scatti saranno ritrovati solo nel 2002.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Walker Evans: l’affermazione durante la Grande Depressione
Il New Deal di Roosevelt, per contrastare la Grande Depressione, favorì in qualche modo la fotografia di diversi artisti, in particolar modo quella di Walker Evans che nel biennio 1935/1936 catturò diversi momenti di vita quotidiana degli americani di provincia. Evans lavorò infatti, percependo uno stipendio regolare, come membro della cosiddetta “unità storica” della Farm Security Administration (FSA), istituzione del Dipartimento dell’agricoltura. Il suo compito era quello di fornire un’indaginefotografica dell’America rurale, principalmente negli stati del Sud degli U.S.A.
Piccole chiese di campagna, lavoratori, insegne sbiadite: Evans immortala l’America del periodo con una fotocamera volutamente obsoleta, come a ribadire il momento di crisi nazionale, proprio come aveva fatto il suo “maestro” francese Eugène Atget nella sua Parigi.
Nel 1941 la collaborazione di Evans con lo scrittore James Agee è al centro di un volume intitolato Let Us Now Praise Famous Men (Sia lode ora a uomini di fama) una serie di fotografie che catturano senza alcun compiacimento estetico la cruda realtà della Grande Depressione.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Protagoniste del libro – accolto con grande entusiasmo dalla critica e ripubblicato nel 1960 – sono le vite di diverse famiglie di coltivatori di cotone, fotografate in zone povere degli Stati Uniti, nella metà degli anni Trenta. A inviare Evans e Agee sul campo era stata la rivista Fortune, che aveva giudicato il materiale raccolto inopportuno per la pubblicazione sul magazine: i soggetti delle immagini di Walker Evans sono ritenuti troppo realisti, complessi e crudi.
La prima mostra personale di Walker Evans al Museum of Modern Art nel 1938 riconosce al fotografo la capacità di avere catturato il vernacolo americano.
Nello stesso periodo Evans inizia a scattare una serie di ritratti di nascosto (Subway Portraits) nella metropolitana di New York. Come per l’America di provincia della Grande Depressione, queste fotografie rivelano momenti senza pretese della vita quotidiana, con grande realismo.
Nel 1945 Evans si unisce allo staff della rivista Time e poco dopo entra a far parte di Fortune, dove continuerà a lavorare nei due decenni successivi.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Nel 1958 sposa Isabelle Storey, una donna molto più giovane di lui, per quello che si rivelerà un matrimonio tormentato che si concluderà con un divorzio poco dopo un decennio. Nel 1965 Walker Evans diventa professore alla Yale University School of Art. Da quel momento ha realizzato alcuni progetti fotografici. Sebbene sempre meno prolifico come fotografo, Evans ha continuato a insegnare fino alla sua morte, avvenuta nel 1975.
Uomo riservato, Walker Evans non amava raccontare molto della sua vita privata ma nel 2008, la sua ex moglie, ha pubblicato un’autobiografia che ritrae il defunto marito come una persona eccentrica, determinata e di spirito, ma anche dotato di un carattere snob egocentrico.
Lo stile di Walker Evans: la poetica del quotidiano
Quando si parla dell’opera del grande fotografo americano, l’etichetta che più ritorna è quella del Realismo Sociale. Fatta questa doverosa premessa formale, va detto che il suo lascito è enorme: molta critica ha parlato di Evans come dell’obiettivo più influente per tutti i fotografi della seconda metà del Novecento.
Walker Evans: la fotografia sociale-
La sua grande intuizione fu quella di rifiutare la visione altamente estetizzata della fotografia artistica – ai tempi il canone prevalente – di cui Alfred Stieglitz fu il più grande fautore. Walker Evans fu tra i primi fotografi a dare risonanza poetica alla quotidianità: le sue immagini più caratteristiche mostrano la vita “normale” americana durante il secondo quarto del secolo, in particolare attraverso la descrizione della sua architettura vernacolare, la sua pubblicità all’aperto, gli inizi della sua cultura automobilistica e i suoi interni domestici.
I suoi soggetti sono (solo) in superficie prosaici e ingenui, ma si può intuire che ciò che chiedeva a questi “eroi” di tutti i giorni fosse un’attitudine ben precisa: essere esemplari nello sforzo coraggioso, a volte ironico, di creare una cultura costruita per dare vita a una grande nazione che non aveva precedenti.
Nella sua fotografia Walker Evans ha sempre scelto di non mettere in evidenza il suo essere artista, un atteggiamento opposto a quello di Stieglitz. Evans si nascondeva come artista, imitando la fotografia vernacolare: un artista che… non interpreta l’artista. È questa la ragione per cui, secondo molta critica, Evans è percepito come un precursore della Pop Art. Anche Rauschenberg, Warhol e Lichtenstein, infatti, scelsero di rappresentare aspetti prosaici, casalinghi e quotidiani.
Walker Evans non era interessato alla politica, la sua fotografia esaltava l’America senza faziosità. Il fatto che fosse interessato ai mezzadri, che stesse fotografando gli effetti del consumismo e quelli dell’industrializzazione… non nascondeva un approccio politico, ma estetico. I progetti commissionati ai tempi dalle riviste più importanti erano una vera e propria forma d’arte e anche in questo, Evans fu un precursore, anticipando di vent’anni altri artisti che – negli anni ‘60 e ‘70 – utilizzarono le riviste per diffondere le proprie idee.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Tra il 1934 e il 1965, Evans contribuì con più di 400 fotografie a 45 articoli pubblicati sulla rivista Fortune. Non solo fotografie, ma anche layout grafici, scrittura di testi di accompagnamento alle immagini.
I suoi soggetti – sia in bianco e nero che a colori – erano insegne delle compagnie ferroviarie, utensili di uso comune, vecchi hotel, resort estivi e vedute dell’America dal finestrino di un treno. Utilizzando il formato foto-racconto giornalistico standard, Evans ha unito il suo interesse per le parole e le immagini, creando una narrativa multidisciplinare di altissima qualità, imitata dalla maggior parte dei fotografi “sociali” degli anni a venire.
Nel 1973, Evans iniziò a lavorare con l’innovativa fotocamera Polaroid SX-70 che si sposava perfettamente con la sua ricerca di una visione concisa ma poetica del mondo: le sue stampe istantanee erano, per il fotografo settantenne infermo, ciò che forbici e carta tagliata erano per l’anziano Matisse. Le esclusive stampe SX-70 sono gli ultimi lavori dell’artista, il culmine di mezzo secolo di lavoro nel campo della fotografia.
L’eredità di Walker Evans
Le immagini di Evans hanno cambiato per sempre il nostro modo di osservare distributori di benzina, sfasciacarrozze, tralicci, architettura rurale, interni di case, strade polverose. I luoghi in cui l’uomo comune vive e lavora. Nel 1938 la mostra American Photographs è il primo evento del MoMA dedicata al fotografo, con un centinaio di scatti: l’allestimento è quanto di più libero si potesse immaginare ai tempi, quasi un omaggio alla personalità di Walker Evans.
La produzione di Walker Evans continuerà negli anni successivi con lo stesso spirito non convenzionale,preannunciando la grammatica della fotografia che nei decenni successivi sarà appannaggio di diversi artisti. Le immagini scattate di nascosto nella Metropolitana di New York, i paesaggi immortalati dai treni in movimento, i ritratti frettolosi per strada: sono tutti approcci contemporanei alla fotografia, non certo comuni un secolo fa.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Negli ultimi anni della sua vita Walker Evans trascorre gran parte del suo tempo a raccogliere materiali con inconsueta, quasi ossessiva, meticolosità. Dopo la sua morte, un amico fotografa quelli che erano i suoi ambienti: oggetti ovunque, assurdi assemblaggi di cose che attiravano la sua attenzione, la sua curiosità. L’epitaffio lasciato per questi suoi amati oggetti è indicativo del carattere di Evans: “Do not disturb the arrangement of tin beer caps in this wash bowl” (non disturbate la sistemazione dei tappi delle lattine di birra in questo lavandino).
Walker Evans-Fotografo americano
Breve bografia di Walker Evans (1903-1975).Dopo studi in letteratura e un breve soggiorno a Parigi, divenne un protagonista della vita culturale newyorchese tra gli anni ’20 e ’30. A consacrarlo furono una serie di lavori dedicati a genti e luoghi della Grande Depressione. Nel 1938 il MoMa di New York gli dedicò la prima mostra personale in assoluto riservata a un fotografo.
Evans si rivela grazie all’incarico della Farm Security Administration, ente governativo che intende documentare lo stato degli USA negli anni della Grande Depressione. Insieme a un gruppo fenomenale di talenti quali Dorothea Lange, Arthur Rothstein, Russell Lee e altri, reinventa la fotografia documentaria e realizza alcuni degli scatti più iconici di sempre. Queste fotografie in parte confluiranno nello storico catalogo della sua prima mostra personale, American Photography, una raccolta che ebbe un’enorme influenza anche in Europa. Ma la ricerca di Evans scavalca la dimensione meramente sociale. Nel suo “inventario” anti-retorico di architetture e oggetti la quotidianità, paradossalmente, rappresenta in maniera puntuale il più realistico e irrealistico dei miti: l’America.
Con Sia lode ora a uomini di fama (1941), la potenza dei volti della gente comune, la suggestione delle tracce di una società in sofferta transizione, si accompagna alla letteratura, ai testi potenti e realistici di James Agee. L’incontro tra immagine e scrittura è qualcosa di più di una sperimentazione, diventa all’istante un classico, degno in questo dell’amico Hemingway conosciuto nel 1933 a Cuba
Dai desolati stati del Sud alla metropoli. Evans cerca l’immediatezza della strada, la messa in scena del caso e della serialità: la serie Many are called, realizzata tra il 1938 e il 1940, ma pubblicata solo 25 anni dopo, consiste di fotografie “rubate” nella metropolitana con una macchina fotografica nascosta nel cappotto.
Walker Evans lavorò a stretto contatto con molti scrittori americani e non abbandonò mai la scrittura. Fu assunto come redattore dalla rivista Fortune ed elaborò la forma dei “foto-saggi”: articoli composti da fotografie e testi in base ad argomenti da lui individuati, sviluppati e impaginati. Sono immagini riprese da treni in corsa, oggetti di uso quotidiano, cartelloni pubblicitari. Quella cara vecchia America che stava cambiando per entrare nella sua fase pop, come avrebbe riconosciuto Andy Warhol, suo grande ammiratore. Negli ultimi anni di vita, le precarie condizioni di salute lo portano a effettuare esperimenti, pubblicati poi nel 2001, con la nuovissima e maneggevole Polaroid SX-70. A interessarlo sono ancora gli oggetti comuni scomposti e colti, con immediatezza e talvolta a colori, nelle loro linee essenziali: immagini di lettere, poster, cartoline… immagini di immagini.
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Per questo, negli anni, abbiamo formato migliaia di studenti riconoscenti e soddisfatti.
-articolo di Piero TORRIANO scritto per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Biografia di Alberto Salietti (Ravenna, 1892 – Chiavari, 1961) è stato un pittore italiano.
Alberto Salietti-Nasce a Ravenna il 15 marzo 1892, figlio e nipote di decoratori murali. Dopo aver iniziato a lavorare con il padre, frequenta fino al 1914 l’Accademia di Brera, ove ha come maestri Cesare Tallone e Mentessi.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, riprende la sua attività, esponendo dal 1920 alle Biennali di Venezia (nel 1942, ricevendo il Gran Premio per la pittura). Altre esposizioni: l’Internazionale di Barcellona, 1929; l’Internazionale di Budapest, 1936; la Mostra dell’Istituto Carnegie di Pittsburg, 1936; l’Esposizione mondiale di Parigi, 1937; la II e III Quadriennale Roma; la mostra La Bella Italiana, a Milano, nel 1952; il Premio Marzotto, nel 1955 e 1956; il Premio Garzanti nel 1957; il Premio del Comune di Milano nel 1959; la medaglia d’oro a Firenze, al Premio del Fiorino, nel 1961; la XXII Biennale d’Arte alla Permanente di Milano, nel 1961, il premio Bagutta-Vergani.
Salietti è fra i pittori che l’imprenditore Giuseppe Verzocchi contatta per la sua grande raccolta di quadri sul tema del lavoro: Salietti realizza così La vendemmia (1949-1950), quadro che, insieme all’Autoritratto, è oggi conservato nella Collezione Verzocchi, presso la Pinacoteca Civica di Forlì.
È uno dei fondatori del Novecento Italiano, movimento del quale ha ricoperto il ruolo di segretario. I suoi principali soggetti sono paesaggi, ritratti e nature morte. Ha opere in pubbliche gallerie: a Roma (Galleria nazionale d’arte moderna), Firenze, Milano, Torino, Berlino, Zurigo, Monaco, Berna, Montevideo, Cleveland, Mosca, Parigi, Varsavia. Dopo la sua morte, una mostra commemorativa gli venne dedicata a Milano, nel 1964, al Palazzo della Permanente; nel 1967, a Milano, alla Galleria Gian Ferrari; nuovamente alla Gian Ferrari, nel 1969, per le tempere; nel 1970, a La Panchetta di Bari; nel 1971, ancora a Milano, alla Galleria Cortina, per le opere grafiche. Una mostra postuma venne pure organizzata dall’Azienda di Soggiorno e Turismo di Chiavari, nel 1972, a Palazzo Torriglia, con una selezione di opere pittoriche e grafiche.
Pittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTI
Biografia di Alberto Salietti (Ravenna, 1892 – Chiavari, 1961) è stato un pittore italiano.
Alberto Salietti-Nasce a Ravenna il 15 marzo 1892, figlio e nipote di decoratori murali. Dopo aver iniziato a lavorare con il padre, frequenta fino al 1914 l’Accademia di Brera, ove ha come maestri Cesare Tallone e Mentessi.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, riprende la sua attività, esponendo dal 1920 alle Biennali di Venezia (nel 1942, ricevendo il Gran Premio per la pittura). Altre esposizioni: l’Internazionale di Barcellona, 1929; l’Internazionale di Budapest, 1936; la Mostra dell’Istituto Carnegie di Pittsburg, 1936; l’Esposizione mondiale di Parigi, 1937; la II e III Quadriennale Roma; la mostra La Bella Italiana, a Milano, nel 1952; il Premio Marzotto, nel 1955 e 1956; il Premio Garzanti nel 1957; il Premio del Comune di Milano nel 1959; la medaglia d’oro a Firenze, al Premio del Fiorino, nel 1961; la XXII Biennale d’Arte alla Permanente di Milano, nel 1961, il premio Bagutta-Vergani.
Salietti è fra i pittori che l’imprenditore Giuseppe Verzocchi contatta per la sua grande raccolta di quadri sul tema del lavoro: Salietti realizza così La vendemmia (1949-1950), quadro che, insieme all’Autoritratto, è oggi conservato nella Collezione Verzocchi, presso la Pinacoteca Civica di Forlì.
È uno dei fondatori del Novecento Italiano, movimento del quale ha ricoperto il ruolo di segretario. I suoi principali soggetti sono paesaggi, ritratti e nature morte. Ha opere in pubbliche gallerie: a Roma (Galleria nazionale d’arte moderna), Firenze, Milano, Torino, Berlino, Zurigo, Monaco, Berna, Montevideo, Cleveland, Mosca, Parigi, Varsavia. Dopo la sua morte, una mostra commemorativa gli venne dedicata a Milano, nel 1964, al Palazzo della Permanente; nel 1967, a Milano, alla Galleria Gian Ferrari; nuovamente alla Gian Ferrari, nel 1969, per le tempere; nel 1970, a La Panchetta di Bari; nel 1971, ancora a Milano, alla Galleria Cortina, per le opere grafiche. Una mostra postuma venne pure organizzata dall’Azienda di Soggiorno e Turismo di Chiavari, nel 1972, a Palazzo Torriglia, con una selezione di opere pittoriche e grafiche.
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