Monteleone Sabino- Plinio Maior “TREBVLA MVTVESCA”
Arch. Carlo CUSIN:Monteleone Sabino ”Della terra dei Flavi,Plinio Maior scrisse : “Tra i Sabini vi sono i Tribulani che s’appellano Mutuesci.” Ieri ero proprio a “TREBVLA MVTVESCA”-Monteleone Sabino-La chiesa di S. Vittoria sorge su un bel terrazzamento panoramico ed è un didattico compendio di storie costruttive dal IV sec al basso Medioevo ed ho rivisto 2 sorprendenti siti legati alla storia del Console Manio Curio Dentato che.nel III sec aC,vinse e conquisto’ le terre di Sanniti,Galli Senoni e Sabini : l’anfiteatro e la chiesa di S. Vittoria. Il toponimo di Trebula Mutuesca deriva da “trabs”-trave,inteso come “casa” dei Mutuesci,in effetti,come Roma,Trebula M. sorse per sinecismo,riunendo i pagi rurali,sparsi sulle colline,con la romanizzazione del territorio,in un “Mvnicipivm” con terme,foro, anfiteatro e templi dedicati a divinità rurali arcaiche come Angitia e Feronia. L’anfiteatro è un grande ellisse di 94×66 mt,con vasti ambienti ipogei al servizio di munera e venationes,Traiano lo ricostrui’,come lo vediamo oggi,su un precedente edificio più piccolo,come scritto su 2 grandi epigrafi,in marmo lunense,visibili in sitv e nel locale museo archeologico. La chiesa di S. Vittoria sorge su un bel terrazzamento panoramico ed è un didattico compendio di storie costruttive dal IV sec al basso Medioevo,con una rara e composita planimetria asimmetrica,costruita con tanti elementi architettonici Romani di spoglio,come d’uso di un tempio pagano che qui sorgeva,una piccola catacomba,con riuso d’ambienti di cava,un pozzo con acqua “miracolosa”,già usata per i riti lustrali pagani,ed un alto campanile con un doppio ordine di bifore… “HISTORIA vero TESTIS temporvm, LVX veritas, VITA memoriae et MAGISTRA vitae !” La storia,in verità,è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria e maestra di vita ! Cicerone “De oratore”.
Le origini del nome sono incerte e sull’argomento sono state espresse varie ipotesi. La prima vede il leone come il simbolo dell’antica città romana sulle cui rovine è sorto: Trebula Mutuesca. Questo fornirebbe la spiegazione alla presenza di molte statue di pietra raffiguranti questo animale all’interno del paese, dalle quali avrebbe preso il nome[4].
Una seconda versione è quella che fa risalire il nome del paese alla famiglia Brancaleoni di Romania, che vi dominò dal 1344 fino alla metà del secolo successivo[5].
Un’altra ipotesi, attinta dalla tradizione popolare, vuole che il nome del paese si ricolleghi alla somiglianza che intercorre tra la fisionomia geografica che assume la collina (Monte) e il dorso longilineo del leone che aspetta argutamente la sua preda. Tale ipotesi, tuttavia, non dispone di fondamenta probative e testimonianze storiche documentate.
Storia
Il paese è di origine altomedievale[6], mentre sul suo territorio si trova l’antica città sabina di Trebula Mutuesca, luogo di importanti ritrovamenti di reperti.
Architetto Carlo CUSIN:”La Villa romana dei Casoni “
MONTOPOLI di SABINA (Rieti)
Architetto Carlo CUSIN:”La Villa romana dei Casoni “è un altro tesoro Romano Repubblicano ,amato dal “Sol Invictvs”,a circa 500 mt slm,sul terrazzamento artificiale di una collina SABINA, ancor’oggi lontana dal mondo,non facile da raggiungere,immagino allora… “Dicitvr” si dice,senza certezze, purtroppo,come spesso accade,che sia una grande villa “per otivm”, sorta nel II sec aC su un antico “vicvs” sabino,appartenuta alla plebea “Gens Terentia” Romana,originaria di queste terre,con magistrati/letterati/militari noti fin dal V sec aC,cui appartenne Marco Terenzio Varrone (“Terentia” dal latino colui che trebbia/macina ). La grande villa è posta su almeno 3 terrazzamenti,con la classica planimetria composita con “atrivm”,peristilio,oecvs,triclini ecc con un sottostante criptoportico con bocche di lupo,collegato con un adiacente “horrevm” ipogeo,cui venne addossato,in epoca Imperiale un grandioso paramento,lungo oltre 50 mt,con 9 nicchie absidate/piane con un antistante giardino con una sorprendente piscina circolare ! A monte del complesso è ancora visibile una grande cisterna rifornita da una sorgente ora non più attiva… ! “Res magnae gestae svnt !” Grandi cose furono fatte ! “Gratias” agli amici del Gruppo FAI Sabina.
La Villa dei Casoni (o Villa romana dei Casoni o più comunemente detta Villa di Varrone) è ciò che resta di una villa romana d’epoca repubblicana situata nel comune di Montopoli di Sabina, nella frazione di Bocchignano. Descrizione
I ruderi della villa detta di Varrone sono raggiungibili sia da Poggio Mirteto che da Bocchignano. La villa è stata descritta da Guattani nel suo 3° volume dedicato ai monumenti sabini, fu poi descritta ampiamente anche da Ercole Nardi nel suo manoscritto “Ruderi delle ville romano sabine nei dintorni di Poggio Mirteto“.
La villa è stata edificata in epoca repubblicana presumibilmente su un preesistente villaggiosabino, come sembrerebbero testimoniare le tracce di opus poligonalis e quadratum. Essa è rialzata di circa sei metri rispetto al piazzale antistante al ninfeo, ove è presente una struttura circolare identificata con una piscina. Del piano abitativo restano solo le fondamenta delle stanze tra cui l’atrio con ai lati una coppia di cubicole (le camere da letto dei Romani), dall’atrio era possibile accedere a delle stanze identificabili con delle biblioteche una greca e una latina; inoltre era possibile accedere, attraverso un posticum, il Peristilio. Ad est è possibile osservare un altro gruppo di stanze, stavolta ad uso perlopiù rustico, infatti da un’esedra (una stanza di passaggio), era possibile accedere all’horreum (il magazzino delle granaglie), dove erano presenti degli scalini che conducevano al criptoportico sottostante e ad una stanza che secondo alcuni aveva la funzione di officina, luogo in cui si trasformavano i prodotti grezzi in prodotti destinati alla vendita. Il ninfeo con nove nicchie è in opus reticolatum, aggiunto successivamente nel I secolo per dare monumentalità alla struttura, appartenuta senza dubbio a un personaggio facoltoso per il rinvenimento di marmi, mosaici e intonaci policromi affrescati.
La Villa dei Casoni possiede uno dei criptoportici più conservati di tutta la Sabina, esso è a forma di “L” e lungo 50 m., prendeva luce da aperture a bocca di lupo e collegava, come già detto precedentemente, il magazzino delle granaglie (horreum) tramite delle scalette, al criptoportico e di conseguenza al piazzale sottostante, che probabilmente fungeva da giardino[senza fonte].
Inoltre, nei pressi della villa, in direzione nord, è presente un rudere identificato con una fontana romana (fons), probabilmente usata a scopo ornamentale. Non molto lontano dai resti di fondamenta delle stanze descritte precedentemente, sono presenti altri resti frammentari di altre stanze non identificate e lungo il perimetro del piazzale sottostante sono presenti dei resti di mura terminanti con un’esedra semicircolare di cui restano poche tracce.
Essa è conosciuta, non si sa bene a quale titolo documentabile come la “Villa di Terenzio Varrone” (116–27 a.C.), erudito che ebbe da Cesare il compito di organizzare la prima biblioteca della repubblica di Roma. Fu l’autore di circa 70 opere sui più vari campi del sapere tra le quali spiccano le “Antiquitates Rerum Umanarum et Divinarum Libri XLI”; e “Disciplinarum Libri Novem”, entrambe giunte in frammenti. L’opera sua più studiata e conosciuta è “De re rustica” in tre libri giuntici per intero, opera in cui sono presenti dei riferimenti indiretti alla Villa dei Casoni[senza fonte], il quale parla di una sua zia Terenzia che, al XXIV miglio della Salaria (quindi all’altezza di Cures) possedeva una villa con una tenuta non molto prospera. Cosicché ella vi installò un allevamento di tordi ( o forse colombacci o di una varietà allevabile di merli) con il quale riusciva a produrre redditi doppi rispetto a quelli ottenibili con un intero fondo. Tanto che in una sola occasione poté ricavarne 60.000 sesterzi per aver venduto in blocco 5000 uccelli nell’occasione del banchetto in onore del trionfo di Quinto Cecilio Metello Pio Scipione.
Dai recenti scavi effettuati in loc. Acquaviva, vicino Nerola, sono emersi i ruderi di una villa romana del II sec.a.C.-I secolo d.C. in cui sono presenti i resti di un doliarum (una zona dedicata alla conservazione dei doli e del suo contenuto), di un candelabro bronzeo e un’uccellaia per l’allevamento avicolo, rispettando di più la descrizione fornitaci da Varrone.
Bibliografia
Ercole Nardi, Ruderi delle ville romano sabine nei dintorni di Poggio Mirteto illustrati dal prof. Ercole Nardi 1885, edizione critica a cura di Dario Scarpati, Poggio Mirteto, 2010, pp. 61-66.
Carmelo Cristiano, I territori di Montopoli di Sabina e Bocchignano, 1996, pp. 22-24.
Il paese di Montopoli, situato a quota 331 metri s.l.m., vanta il privilegio di offrire la visione di una ininterrotta sequenza di magnifici panorami per la sua particolare collocazione sulla cresta di una verde collina che consente di spaziare l’intero orizzonte. Montopoli ha un territorio molto vasto che va dall’abitato di Passo Corese fino all’abitato di Poggio Mirteto, delimitato, ad est dal fiume Tevere ed a ovest dal torrente Farfa. L’origine del nome sembra derivare da Mons Poilionis che si modificò in Mons Operis per la operosità dei suoi abitanti e successivamente in Montis Opuli per la ricchezza della sua terra. La storia narra che intorno al mille passò sotto l’Abbazia di Farfa e da quell’epoca in poi risentì di tutti gli eventi che riguardarono la famosa Abbazia, fu coinvolta nelle lotte fra imperatori e papi dove gli abitanti si distinsero per il loro comportamento da fedeli guerrieri. Nel 1243 per ordine del Papa Gregorio IX, Montopoli fu saccheggiata e distrutta, fu prima borgo e poi elevato a comune. Dopo la ricostruzione cominciò il periodo della Signoria. Montopoli passò poi agli Orsini e ai Felici. Oggi Montopoli di Sabina è conosciuta soprattutto per l’eccellente qualità dell’olio di oliva e per la bontà del nettare che il suo territorio produce fin dai tempi del concittadino Numa Pompilio.
Palestrina- La cista di un’elegante donna del III secolo a.C.
torna a Preneste, dove fu prodotta e utilizzata.
Palestrina Con “100 opere tornano a casa” i capolavori dell’arte escono dai depositi e tornano a Palestrina nelle sale dei musei. Grazie al progetto del Ministero della Cultura “100 opere tornano a casa” è tornata oggi a Palestrina dai depositi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli la Cista Borgiana. L’opera, rinvenuta nel corso del Settecento nel territorio di Palestrina, l’antica Praeneste, appartenne per un periodo a Ennio Quirino Visconti, prima di entrare a far parte della collezione del cardinale Stefano Borgia.
Con la vendita della collezione da parte del nipote Camillo, seguita alla scomparsa del Borgia, la cista confluì insieme ad una parte della collezione nel Real Museo Borbonico, l’attuale Museo Archeologico di Napoli. La cista è un recipiente di forma cilindrica e dotato di coperchio, in uso durante l’antichità per contenere oggetti di toletta o di abbigliamento sia maschile sia femminile. di vita quotidiana molto diffuso, ricopriva anche una funzione rituale legata ai culti dionisiaci: era chiamata cista mystica, e veniva utilizzata per contenere i serpenti sacri da impiegare durante i riti per la divinità. Fra i centri più noti di questa produzione si annovera proprio Preneste (l’odierna Palestrina), antica città del Lazio, che ne realizzò diversi esemplari dal IV secolo in poi. Dopo secoli, la preziosa cista torna quindi nel territorio per il quale era stata creata, destinata ad accompagnare, insieme alle suppellettili che certamente conteneva, l’ultimo viaggio di una sconosciuta donna prenestina, in una delle necropoli presenti nel territorio. Un percorso comune a tante opere prodotte per la ricca Praeneste, andate nel tempo ad arricchire le collezioni di musei in ogni parte del mondo, e che in questo caso ritorna invece nel contesto di provenienza. La cista andrà ad arricchire la Sala delle Necropoli al secondo piano del Palazzo Colonna Barberini, sede del Museo archeologico Nazionale di Palestrina, in coerenza con l’iniziativa promossa dal progetto “100 opere tornano a casa” voluto dal Ministro della Cultura Dario Franceschini per valorizzare il patrimonio storico artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali e per promuovere i musei più piccoli, periferici e meno frequentati. Hanno accolto l’arrivo dell’opera il Sindaco di Palestrina Mario Moretti, la Direttrice del Museo Marina Cogotti, il Direttore Regionale Musei del Lazio Stefano Petrocchi.
Civita Castellana (Vt). Tesori sotto gli alberi e i prati. Recuperato il tempio di Giunone a Falerii
Il Comune di Civita Castellana, la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale, la direzione regionale Musei Lazio e il dipartimento di scienze dell’antichità della Sapienza – Università di Roma hanno, infatti, ancora una volta unito le proprie forze per affrontare un nuovo percorso di ricerca e disseminazione della città antica.Le ricerche archeologiche sull’antica città preromana di Falerii, che hanno conosciuto una forte ripresa nel corso degli ultimi anni, si sono intensificate nel corso di questo inizio 2023, grazie alla stretta collaborazione tra tutti gli enti operanti sul territorio. Sono loro, infatti, il vero motore di questa nuova stagione di indagini avviata ormai dal 2020. Civita Castellana è un comune di circa 15.000 abitanti della provincia di Viterbo, nel Lazio. È sorta sulle rovine di Falerii Veteres città dei falisci di epoca arcaica. I Falisci erano una popolazione che parlava una lingua simile al latino, ma in Etruria. L’influenza etrusca sulla civiltà falisca è dunque fondamentale. Chiaro esempio è la scrittura della lingua falisca, di origine proto-Latina con influenza etrusca.
“L’attenzione in questa prima parte del 2023 è stata posta su un’altra area di grande rilevanza della città preromana: il santuario in località Celle, tradizionalmente riconosciuto come dedicato a Giunone Curite. – afferma il Comune di Civita Castellana – Indagato per la prima volta alla fine dell’‘800, il suo rinvenimento causò subito grande scalpore per la monumentalità e perché, di fatto, venne riconosciuto come il primo esempio di tempio etrusco-italico a essere riportato alla luce durante l’avventurosa stagione di ricerche che caratterizzò gli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia”.
su un enorme basamento di 1400 mq, venne studiato a più riprese negli anni ’30 e poi negli anni ’70 del secolo scorso. I reperti rinvenuti, oggi in parte esposti presso il museo nazionale Etrusco di Villa Giulia e in parte presso il museo archeologico dell’Agro Falisco a Civita Castellana e pertinenti sia alla decorazione dell’edificio sia alla stipe votiva, attestano una frequentazione dell’area dal VI sec. a.C. alla prima età imperiale. Stando all’interpretazione generalmente accettata, nell’area si deve riconoscere il luogo di culto da cui prendeva le mosse la processione annuale in onore di Giunone, di cui ci dà conto il poeta latino Ovidio in una delle sue odi.
“Un monumento di tale rilevanza aveva necessità di essere nuovamente portato alla luce, di essere pienamente valorizzato e reso di nuovo fruibile dal pubblico. A tale scopo, attraverso la sinergia tra istituzioni, è stato possibile avviare dal mese di marzo scorso un’opera di ripulitura dell’area dalla vegetazione infestante. – affermano i vertici del Comune di Civita Castellana – Parte integrante del percorso di ricerca e divulgazione è anche il PCTO con l’istituto di istruzione superiore Ulderico Midossi di Civita Castellana, realizzato con l’équipe del progetto Falerii del dipartimento di scienze dell’antichità della Sapienza – Università di Roma, al fine di realizzare un percorso espositivo che verrà inaugurato presso il museo dell’Agro Falisco al Forte Sangallo nella seconda metà del prossimo mese di maggio e in cui sarà possibile, per la prima volta, toccare con mano la monumentalità del tempio che si ergeva in località Celle. Queste sono però solo alcune delle attività condotte in questi primi mesi del 2023 per favorire la riscoperta dell’antica Falerii. Consci dell’importanza di rivolgersi al pubblico dei più piccoli, si è infatti ideato il progetto pilota “Venite con noi al museo?”, che ha visto l’adesione di quasi 350 bambini delle scuole primarie di Civita Castellana. I piccoli studenti hanno potuto trascorrere una mattinata in compagnia degli archeologi del progetto Falerii, scoprendo il museo archeologico dell’Agro Falisco e le modalità con cui vengono trattati i reperti rinvenuti in uno scavo archeologico. Tutto ciò in attesa ovviamente della ripresa degli scavi sul colle di Vignale, prevista per il prossimo mese di giugno”.
Roma Municipio XIII- MUSEO PALEONTOLOGICO:” La Polledrara di Cecanibbio”-
ROMA-Articolo scritto dalla Dott.ssa Anna Paola Anzidei, Soprintendenza Archeologica di Roma-Foto originali di Franco Leggeri–Il giacimento pleistocenico de Museo Paleontologico “la Polledrara di Cecanibbio” è ubicato a circa 20 km a Nord-Ovest di Roma tra la via Boccea e la via Aurelia , ad una quota di circa 83 metri s.l.m., nell’ambito dei rilievi periferici del Vulcano Sabatino. Il sito, venuto alla luce a seguito dell’erosione naturale di un pendio di collina, è stato parzialmente disturbato dall’aratura moderna. In base ai dati forniti dallo scavo archeologico, iniziato nel 1985 dalla Soprintendenza Archeologica di Roma e tuttora in corso e che ha rimesso alla luce un’area di oltre 700 mq, il giacimento è stato associato al paleo alveo ed ai margini di un piccolo corso d’acqua, presente in un paesaggio a lieve gradiente ,caratterizzato da canali fluviali a percorso instabile e da acque stagnanti . Il tratto dell’alveo conservato, inciso in un banco di tufite granulare compatta, raggiunge la larghezza massima di 40-50 m. Sulla paleo superficie erano irregolarmente distribuiti oltre 9000 (novemila) reperti faunistici fossili associati a circa 400 strumenti litici e a pochi strumenti su osso, attribuibili culturalmente al Paleolitico inferiore. L’associazione faunistica è costituita prevalentemente da Elefante antico e Bue primigenio; scarsa invece la presenza di altre specie quali il cervo, il cavallo, il lupo , il rinoceronte. Pochi i resti di microfauna e di uccelli acquatici. Le ossa erano accumulate in più livelli nel canale centrale , mentre nelle aree periferiche pianeggianti erano sparse su di un unico livello, con alcune concentrazioni in piccoli avvallamenti . Lo stato di conservazione è ottimo; le ossa presentano un buon grado di fossilizzazione ed un aspetto delle superfici vario, da quello molto fresco nei reperti che hanno subito poco o meno trasporto, a quello fortemente fluitato per quelli di minori dimensioni trascinati dalla corrente . I reperti erano stati successivamente seppelliti, in un tempo relativamente breve, da uno strato di tufite , derivata da prodotti vulcanici rimaneggiati. La distribuzione caotica del materiale, causata dai processi di trasporto e di deposizione che avvengono in un percorso d’acqua, è stata in parte determinata , soprattutto nelle aree marginali, dall’attività di animali da preda quali il lupo , e dall’intervento dell’uomo. Questi doveva avere frequentato le sponde del corso d’acqua , intensamente popolate da animali di varie specie, sia per procacciarsi il cibo , come è testimoniato dalla presenza di strumenti e dalle numerosissime ossa metapodiali di Bue primigenio fratturate per estrarne il midollo . Le ossa di Elefante sono in assoluto le più abbondanti, con la presenza di tutti gli elementi dello scheletro ; alcuni crani quasi completi sono di particolare interesse in quanto offrono una più ampia conoscenza sulla morfologia degli esemplari di Elefante antico nella penisola italiana. Numerose le zanne , le mandibole, i denti isolati e le ossa dello scheletro postcraniale , attribuibili ad almeno 25 individui prevalentemente adulti. Nel corso delle ultime campagne di scavo è stato parzialmente rimesso in luce un microambiente, di poco successivo all’episodio fluviale, caratterizzato da acqua a lentissimo scorrimento. In quest’area sono stati identificati i resti ossei di almeno due elefanti, in parziale connessione anatomica e con le superfici in perfetto stato di conservazione. Finora sono stati rimessi in luce un cranio ed alcune ossa dello scheletro postcraniale : una zampa anteriore, le ossa di una mano, le tibie e peroni, alcune vertebre e costole. Accanto alle vertebre di una degli esemplari vi erano i resti di un lupo , anch’essi parzialmente in connessione. Evidentemente le carcasse degli animali erano rimaste intrappolate nella melma e le ossa non avevano quindi subito spostamenti di rilievo. Sparsi tra i reperti faunistici sono stai raccolti 400(quattrocento) strumenti litici culturalmente riferibili al Paleolitico inferiore. La materia prima, costituita da piccoli ciottoli silicei e calcareo-silicei di colore variabile dal grigio al grigio scuro, non appartiene all’ambiente fluvio-palustre ricostruito, ed è stata evidentemente trasportata dall’uomo. Questi si procurava il materiale nei livelli a ghiaie attribuibili alla Formazione Galeria, i cui affioramenti sono attualmente individuabili alla quota di 40-45 metri s.l.m. lungo la parte terminale dei fossi Arrone e Galeria, ad una distanza minima di km 3 (tre) dal giacimento de La Polledrara. L’industria è caratterizzata dalla presenza di strumenti su ciottolo, in particolare choppers e raschiatoi , molti dei quali con il margine ottenuto con ritocco erto. Numerosi i denticolati , i grattatoi e gli strumenti con caratteri tipologici non ben definiti. Comunemente i manufatti presentano più margini ritoccati; tale sfruttamento intensivo dei ciottoli era probabilmente dovuto proprio alla difficoltà di reperimento della materia prima. Non sono presenti fino ad oggi strumenti bifacciali , comuni negli altri siti dell’area Nord-Ovest di Roma (Castel di Guido, Malagrotta, Torre in Pietra). Vario è la stato fisico dei manufatti; molti dei quali presentano le superfici alterate dal trasporto in acqua. Alcuni strumenti litici , rinvenuti associati alle ossa di elefante in connessione anatomica nell’ambiente di tipo palustre, presentano invece un aspetto fisico freschissimo e margini taglienti. L’analisi delle tracce d’uso ha permesso di riscontrare la presenza di tracce prodotte dal contatto di tessuti animali (ossa, carne e pelle) nel corso della macellazione delle carcasse. Pochi sono gli strumenti su osso, ricavati tutti da frammenti di diafisi di ossa lunghe di elefante , con estremità o margini laterali resi taglienti mediante il distacco di grosse schegge . In occasione del Giubileo dell’anno 2000 è stata attuata una struttura museale , dell’estensione di 900 (novecento) mq, per la fruizione , da parte del pubblico, della paleo superficie rimessa in luce e restaurata.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Anna Paola Anzidei, Soprintendenza Archeologica di Roma-
Dal Volume- CASTEL DI GUIDO dalla Preistoria all’Età moderna. Edizione PALOMBI- ed. 2001-
Foto originali di Franco Leggeri
Bibliografia
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Anzidei, A.P., Arnoldus Arnoldus Huizendveld, A., 1992. The Lower Palaeolithic site of La Polledrara di Cecanibbio (Rome, Italy). Papers of the Fourth Conference of Italian Archaeology. In: Herring, Whitehouse, Wilkins, J. (Eds), 3, 141-153.
Arnoldus Huizendveld, A., Anzidei, A.P., 1993. Ricostruzione di un ambiente fluvio-palustre nella regione vulcanica di Roma (La Polledrara di Cecanibbio). In: Atti della XXX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiamo di Preistoria e Protostoria, 151-165.
Anzidei, A.P., Cerilli, E., 2001. The fauna of La Polledrara di Cecanibbio and Rebibbia – Casal de’Pazzi (Rome, Italy) as an indicator for site formation processes in a fluvial environment. In: Cavarretta, G., Gioia, P., Mussi, M., Palombo M.R. (Eds), Proceedings of the 1st International Congress The World of Elephants, CNR, Roma, 167-171.
Anzidei, A.P., Villa, P., Cerilli, E.,1993. La Polledrara di Cecanibbio (Roma). Dati preliminari sull’analisi tafonomica dei reperti faunistici. In: Preistoria e Protostoria in Etruria. Atti del secondo Incontro di Studi, Farnese, 27-35.
Anzidei,A.P., Angelelli, L., Caloi, L., Damiani, I., Pacciarelli, M., Palombo, M.R., Saltini, A.C., Segre, G., 1988. Il giacimento pleistocenico de “La Polledrara” di Cecanibbio (Roma). Relazione preliminare. Archeologia Laziale 9, 361-368.
Anzidei, A.P., Angelelli, L., Arnoldus Huizendveld, A., Caloi, L., Palombo M.R., Segre, G., 1989. Le gisement pleistocène de La Polledrara di Cecanibbio (Rome, Italie). L’Anthropologie 93, 3, 749-781.
Anzidei, A.P., Arnoldus Huizendveld, A., Caloi, L., Palombo, M.R., Lemorini, C., 1999. Two Middle Pleistocene sites near Rome (Italy): La Polledrara di Cecanibbio and Rebibbia-Casal De’Pazzi. The Role of Early Humans in The Accumulation of European Lower and Middle Palaeolithic Bone Assemblages. Monographien des Römisch-Germanischen Zentralmuseum 42, Mainz, 173-195.
Anzidei, A.P., Biddittu, I., Gioia, P., Mussi, M., Piperno, M., 2001. Lithic and bone industries of OIS9 and OIS7 in the Roman area. In: Cavarretta, G., Gioia, P., Mussi, M., Palombo M.R. (Eds), Proceedings of the 1st International Congress The World of Elephants, CNR, Roma, 3 – 9.
Anzidei, A.P., Arnoldus Huizendveld, A., Palombo, M. R., Argenti,P.,Caloi, L., Marcolini, F., Lemorini, L., Mussi, M., 2004. Nouvelles données sur le gisement Pléistocène moyen de La Polledrara di Cecanibbio (Latium, Italie). In: Baquedano, E., Rubio, S. (Eds). Miscelànea en homenaje a Emiliano Aguirre. Zona Archeologica 4. Archeologia. Museo Arqueológico Regional, Madrid, pp. 20-29.
Anzidei, A.P., Bulgarelli, G.M., Catalano, P., Cerilli, E., Gallotti, R., Lemorini, C., Milli, S., Palombo, M.R., Pantano, W., Santucci, E., 2012. Ongoing research at the late Middle Pleistocene site of La Polledrara di Cecanibbio (central Italy), with emphasis on human-elephant relationships. Quaternary International, 255, 171-187.
Palombo, A.M., Anzidei, A.P., Arnoldus Huizendveld, A., 2003. La Polledrara di Cecanibbio : one of the richest Elephas (Palaeoloxodon) antiquus sites of the late Middle Pleistocene in Italy. Deinsea 9, 317-330.
Il giacimento è attualmente aperto al pubblico e può essere visitato dietro prenotazione da effettuare telefonando al numero +06.39967700 (lunedì-sabato 9-13.30 e 14.30-17), o collegandosi al sito www.archeorm.arti.beniculturali.it
ROMA- Ai Musei Capitolini, nel giardino di Villa Caffarelli,
L’imponente ricostruzione, in dimensioni reali, del Colosso di Costantino.
La statua, alta circa 13 metri, è stata realizzata attraverso tecniche di ricostruzione innovative, partendo dai pezzi originali del IV secolo d.C. conservati nei Musei Capitolini.
Tra le opere più importanti dell’antichità, con i suoi 13 metri circa di altezza, la statua colossale di Costantino (IV secolo d.C.) è uno degli esempi più significativi della scultura romana tardo-antica. Dell’intera statua, riscoperta nel XV secolo presso la Basilica di Massenzio, oggi rimangono solo pochi monumentali frammenti marmorei, ospitati nel cortile di Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini: testa, braccio destro, polso, mano destra, ginocchio destro, stinco destro, piede destro, piede sinistro.
Nel giardino di Villa Caffarelli è possibile ammirare, in tutta la sua imponenza, la straordinaria ricostruzione del Colosso in scala 1:1, risultato della collaborazione tra la Sovrintendenza Capitolina, Fondazione Prada e Factum Foundation for Digital Technology in Preservation con la supervisione scientifica di Claudio Parisi Presicce, sovrintendente capitolino ai Beni Culturali.
La replica del monumento è stata presentata al pubblico dal Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri, dall’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, dal sovrintendente Claudio Parisi Presicce, dal componente del Comitato di indirizzo di Fondazione Prada Salvatore Settis, e da Adam Lowe, della Factum Foundation for Digital Technology in Preservation.
Il progetto è promosso da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e realizzato in collaborazione con Fondazione Prada che ha presentato per la prima volta l’opera a Milano, in occasione della mostra Recycling Beauty a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica.
Il Giardino di Villa Caffarelli, dove è stata collocata la riproduzione del Colosso di Costantino, insiste in parte sull’area occupata dal Tempio di Giove Ottimo Massimo, che un tempo ospitava la statua di Giove, la stessa forse da cui il Colosso fu ricavato o che comunque ne costituisce il modello di derivazione. I resti del tempio sono oggi visibili all’interno dell’Esedra di Marco Aurelio.
“A Roma stiamo cercando di recuperare le dimensioni dell’antichità e la nostra conoscenza e percezione dei capolavori del passato, di cui conserviamo tracce e frammenti. Lo abbiamo fatto poco tempo fa con il Museo della Forma Urbis, lo facciamo andando in profondità con gli scavi della Metropolitana, lo facciamo attraverso l’anastilosi della Basilica Ulpia e adesso rendendo fruibile da tutti questa statua colossale, sia per essere ammirata in se, sia per essere una porta di accesso a quello scrigno di tesori che è il Colle Capitolino e che sono i Musei Capitolini. Voglio davvero ringraziare tutti quelli che hanno reso possibile questa creazione e questa ricostruzione che contribuisce a farci comprendere meglio il passato e quindi a capire meglio chi siamo” ha spiegato il Sindaco Roberto Gualtieri.
Il progetto di ricostruzione della statua colossale di Costantino è partito da un importante lavoro di analisi archeologica, storica e funzionale dei frammenti, supportata dalla lettura delle fonti letterarie ed epigrafiche.
I nove frammenti in marmo pario, attualmente conservati presso i Musei Capitolini, sono stati rinvenuti nel 1486 all’interno dell’abside di un edificio che al tempo si riteneva il Tempio della Pace di Vespasiano, e che solo agli inizi dell’Ottocento sarà correttamente identificato con la Basilica di Massenzio lungo la Via Sacra. Si pensava che appartenessero a una statua dell’imperatore Commodo e, data la loro eccezionale importanza, furono allestiti nel Palazzo dei Conservatori durante i lavori di ristrutturazione dello stesso eseguiti su progetto di Michelangelo tra il 1567 e il 1569. I frammenti sono stati identificati come ritratto colossale dell’imperatore Costantino solo alla fine dell’Ottocento.
Un decimo frammento, parte del torace, rinvenuto nel 1951, è in procinto di essere trasferito dal Parco Archeologico del Colosseo nel cortile del Palazzo dei Conservatori, accanto agli altri frammenti.
Lo studio archeologico dei frammenti ha permesso di ipotizzare che il Colosso fosse seduto e che fosse realizzato come acrolito, ovvero con le parti nude in marmo bianco e il panneggio in metallo o in stucco dorato. Secondo uno schema iconografico tipico del tempo, che assimilava l’imperatore alla divinità, Costantino è rappresentato come Giove con la parte superiore del corpo scoperta e il mantello adagiato sulla spalla; il braccio destro che impugna lo scettro ad asta lunga e la mano sinistra che sorregge il globo.
A fine marzo 2022 un team della Factum Foundation ha trascorso tre giorni nel cortile dei Musei Capitolini per scansionare i frammenti presenti con la tecnica della fotogrammetria.
Ogni frammento è stato modellato in 3D e posizionato sul corpo digitale della statua creata utilizzando come esempio iconografico altre statue di culto di età imperiale in pose simili, tra cui la colossale statua di Giove (I secolo d.C.) conservata al Museo statale Ermitage di San Pietroburgo, probabilmente ispirata allo Zeus di Olimpia ad opera di Fidia e la grande copia in gesso della statua dell’imperatore Claudio, ritratto come Giove, allestita al Museo dell’Ara Pacis.
La complessa operazione di ricostruzione realizzata da Factum ha tenuto conto di molteplici fattori: il tipo di marmo delle parti originali, i restauri e le aggiunte; i dettagli del panneggio mancante e l’aspetto del bronzo dorato di cui era composto; il rapporto tra la ricostruzione e i frammenti superstiti, le condizioni di questi e la loro esatta posizione. Dopo aver ultimato il modello 3D ad altissima risoluzione, si è poi proceduto con la ricostruzione materiale del Colosso.
Resina e poliuretano, insieme a polvere di marmo, foglia d’oro e gesso, sono stati scelti come materiali per rendere le superfici materiche del marmo e del bronzo, mentre per la struttura interna (originariamente forse composta di mattoni, legno e barre di metallo) è stato impiegato un supporto in alluminio facilmente assemblabile e rimovibile.
Il risultato finale permette di ammirare, in una magnifica illusione, il Colosso nel suo complesso, in cui si distinguono visivamente le “ricuciture” tra le parti rimaterializzate e le copie dei frammenti originali presenti nel cortile di Palazzo dei Conservatori.
Info:
Ingresso Piazzale Caffarelli, 2
Orari: Tutti i giorni dalle 9.30 fino alle 18.30
ingresso gratuito
060608 (tutti i giorni ore 9.00-19.00) – www.museicapitolini.org
GAR-Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce-
Roma- 30 marzo 2017-Sabato 22 aprile dalle ore 9:00 alle ore 17:00-I Volontari del Gruppo Archeologico Romano saranno presenti a Castel di Guido, presso l’Azienda Agricola Comunale di Roma Capitale e OASI della LIPU, per condurre gli scavi nella Villa Romana delle Colonnacce.La Villa Romana è databile tra il III sec. a.C. e il III sec. d.C. ed è costituita da strutture sia di epoca repubblicana sia imperiale.
Foto di FRANCO LEGGERI per REDREPORT
Per ulteriori informazioni si prega di contattare la segreteria del GAR: Gruppo Archeologico Romano Via Contessa di Bertinoro 6, Roma Tel. 06/6385256 info@gruppoarcheologico.it
Descrizione della Villa Romana delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione della Dott.ssa Daniela Rossi- Archeologa .
Castel di Guido- La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale. La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono,catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Baldo degli Ubaldi dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “.
N.B. Franco Leggeri:”La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel Borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .”
FOTO GALLERY -Villa Romana delle Colonnacce-Foto di Franco Leggeri
Roma-Municipio XIII-19 luglio 2022-L’Associazione Cornelia Antiqua sta procedendo alla verifica dell’esistenza delle antiche Torri Segnaletiche ancora in essere così come furono disegnate nella ormai famosa mappa da Eufrosino della Volpaia nel 1547. Cornelia Antiqua procede anche alla verifica e confronto con le mappe del Catasto Alessandrino e con quelle più recenti edite dell’Istituto Geografico Militare(IGM).Dopo varie ricerche bibliografiche, noi dell’Associazione Cornelia Antiqua riteniamo di aver individuato quale potrebbe essere l’attuale posizione dell’antica Torre “La Selice”, rappresentata sulla carta topografica di Eufrosino della Volpaia. La Torre è situata a sinistra del Rio Galeria, da noi evidenziata con un cerchio rosso (Foto1).
In base alle nostre ricerche , sembrerebbe che la Torre sia quella che attualmente si trova nei pressi di via di Quarto S. Lucia (Roma-zona Casal Selce). La Torre , recentemente ristrutturata, si trova all’interno di una struttura religiosa , composta da vari edifici, di proprietà delle Suore di Carità di Nostra Signora del Buono e Perpetuo Soccorso. Noi dell’Associazione Cornelia Antiqua ,in data 17/luglio/22, abbiamo effettuato un sopralluogo. Attualmente la Torre, integra, è parte di un edificio realizzato successivamente. Le Suore, gentilmente, ci hanno ricevuto e scortato, sorprese e incuriosite, all’interno della Torre.
Si allegano le foto della Torre così come si presenta dopo il restauro con al suo fianco , com’era prima del restauro (Foto B/N)- La Torre, sembrerebbe non aver subito modifiche strutturali, ma avrebbe mantenuto le vecchie forme architettoniche così come si evince dal posizionamento immutato della finestra di forma rotonda(Oblò).Cornelia Antiqua vuole ringraziare per la collaborazione e l’accoglienza le Suore di Carità di Nostra Signora del Buono e Perpetuo Soccorso.
Articolo di Tatiana Concas- Associazione Cornelia Antiqua-
RIETI- Renato Covino Esplorando l’anima Industriale dell’Italia: “Archeologia e Patrimonio Industriale” presentata il libro mercoledì 14 febbraio, alle ore 16.30, all’Archivio di Stato
Un libro di servizio. Così si può definire “Archeologia e patrimonio industriale in Italia. Questioni di metodo e casi di studio”, il volume a firma di Renato Covino, già docente dell’Università di Perugia e tra i massimi esperti di storia dell’industria. La pubblicazione, edita da Il Formichiere, sarà presentata mercoledì 14 febbraio, alle ore 16.30, all’Archivio di Stato di Rieti (v.le L. Canali, 7).
L’iniziativa vede la collaborazione dell’Associazione italiana per il patrimonio archeologico industriale (AIPAI) e dell’Associazione storica per la Sabina. All’incontro parteciperanno Roberto Lorenzetti, consigliere nazionale dell’AIPAI e Marco Venanzi, storico e archeologo anch’egli dell’AIPAI. Sarà, inoltre, presente l’autore.
Il testo raccoglie articoli e saggi firmati esclusivamente da Covino, eliminando quelli pubblicati a più firme. Sono stati anche esclusi dalla raccolta scritti minori o che riprendevano ampiamente testi già compresi nel volume o che, grazie agli avanzamenti della ricerca, erano superati. Il libro è diviso in due sezioni: la prima è dedicata alle questioni di metodo, dove si ritorna più volte sui temi relativi alla conoscenza, alla periodizzazione della disciplina, all’interdisciplinarietà e al rapporto con la patrimonializzazione dei monumenti, dei siti, delle aree e dei paesaggi industriali.
Nella seconda parte ci si è soffermati su alcuni casi di studio specifici. Qui si sono intrecciate alle tecniche e alle tematiche relative all’analisi del patrimonio le metodologie tipiche della storia dell’industria e dell’impresa, del territorio, della tecnologia. Più semplicemente la formazione storica dell’autore traspare nei singoli contributi e risulta utile per disegnare il contesto in cui si svolgono le diverse attività produttive. Tra i casi di studio presenti nel testo e attinenti l’economia reatina appare quello dal titolo “Contesti urbano-territoriali e industria in provincia di Rieti”.
Descrizione
Questo è un libro di servizio. Soprattutto per il suo autore. Nel corso degli anni, infatti, periodicamente sono giunte richieste – da parte di studiosi, studenti, operatori del settore – di testi spesso pubblicati in riviste specialistiche o in volumi difficilmente reperibili in commercio o esauriti. Da ciò la decisione di pubblicarne una parte. La scelta è stata di ristampare articoli e saggi firmati solo dall’autore, eliminando quelli a più firme. Non c’è sembrato infatti opportuno appropriarsi nei fatti di contributi scritti a più mani, relegando a una nota a pie’ di pagina i nomi degli altri estensori. Sono stati anche esclusi dalla raccolta scritti minori o che riprendevano ampiamente testi già compresi nel volume o che, grazie agli avanzamenti della ricerca, erano ampiamente superati.
Ciò se ha il pregio di rendere più compatto il libro, non dà conto di una notevole parte della produzione e del lavoro compiuto dal 1978 a oggi. D’altro canto non figura nella raccolta – come è in gran parte ovvio – la molteplice attività operativa svolta nel corso degli anni: dalle campagne di catalogazione alle mostre, alle proposte di legge regionali alla cui redazione si è collaborato, agli allestimenti museali, al riordino di archivi industriali, ai convegni organizzati, alla presenza nell’attività di insegnamento in corsi di formazione e master, alla redazione di schede catalografiche.
Si è insomma cercato di rendere più snello il volume che, nonostante questo accorgimento, risulta ben più corposo di quanto si sarebbe voluto.
Il libro è diviso due sezioni.
La prima è dedicata alle questioni di metodo, dove si ritorna più volte sui temi relativi alla conoscenza, alla periodizzazione della disciplina, all’interdisciplinarietà e al rapporto con la patrimonializzazione dei monumenti, dei siti, delle aree e dei paesaggi industriali. A testi già pubblicati se ne è aggiunto uno sui percorsi della conoscenza e sulla catalogazione che altro non è che una lezione più volte riproposta nel master “Conservazione, valorizzazione e gestione del patrimonio industriale” dell’Università di Padova.
Nella seconda parte ci si è soffermati su alcuni casi di studio specifici. Qui si sono intrecciate alle tecniche e alle tematiche relative all’analisi del patrimonio le metodologie tipiche della storia dell’industria e dell’impresa, del territorio, della tecnologia. Più semplicemente la formazione storica dell’autore traspare nei singoli contributi e risulta utile per disegnare il contesto in cui si svolgono le diverse attività produttive. Anche in questo caso si è aggiunto un altro contributo inedito, anch’esso frutto dell’attività d’insegnamento, relativo al caso di Terni e della conca del Nera.
Il libro è dedicato a due amici e colleghi prematuramente scomparsi: Giampaolo Gallo e Massimo Montella. Un lungo sodalizio di attività e ricerca ha legato l’autore a Giampaolo Gallo per oltre un ventennio. Massimo Montella come dirigente del Servizio Beni e attività culturali della Regione Umbria ha promosso e favorito l’interesse e la diffusione delle tematiche archeologico-industriali e come vicepresidente della Commissione presieduta da Salvatore Settis, incaricata di riscrivere il Codice Urbani, ha consentito il pieno ingresso dei beni archeo-industriali nel territorio dei beni culturali. Attenzione che ha mantenuto anche quando da dirigente della Regione Umbria è passato a insegnare all’Università di Macerata come ordinario di Economia aziendale. Senza la loro passione e competenza, buona parte dei contributi e delle ricerche presenti in questo volume difficilmente sarebbero stati pubblicati e avrebbero avuto circolazione, così come l’archeologia industriale come settore specifico all’interno delle discipline che si occupano del patrimonio culturale avrebbe avuto un percorso più stentato. R.C.
INDICE
Nota introduttiva
QUESTIONI DI METODO
Archeologia industriale in Italia: ambito disciplinare, termini cronologici
Stato degli studi sull’archeologia industriale in Italia
L’archeologia industriale come fonte storica
Le seduzioni del dismesso. L’archeologia industriale
Lo storico, l’archeologo industriale e il patrimonio
Un trentennio di archeologia industriale in Italia.
Tra innovazione e impegno civile
Crisi economica e patrimonio industriale: le ragioni di una svolta
Patrimoni culturali, patrimoni industriali e musei della produzione
I percorsi della conoscenza: la catalogazione
CASI DI STUDIO
Di acqua, di terra e di fuoco
Il patrimonio industriale del Salento: evoluzione, specificità e occasione per lo sviluppo locale
Le cartiere di Foligno tra decadenza e recupero
Case e villaggi operai in una città fabbrica: Terni 1885-1975
Le centrali elettriche nell’Appennino Umbro
Molini a cilindri in Umbria
Dall’impianto di Monteleone di Spoleto alla Società delle Miniere di Ferro e sue lavorazioni
Contesti urbano territoriali e industria in provincia di Rieti
Terni e la conca del Nera: città, territorio e industria
APPARATI
Indice dei nomi di luogo
Indice dei nomi di persona
Il Formichiere editore
Indirizzo: via Ippolito Nievo, 20
06034 Foligno PG –Italia
Elio MERCURI- 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Fonte sito web-Scopri la Sabina
Salisano, sali solo se sei sano!
Si sale su una collina non troppo alta, e ci si imbatte in Salisano: si deve, appunto, salire per trovare questo delizioso borgo della Sabina. Si sale e si diventa sani, o c’è bisogno di essere sani per salire: secondo gli abitanti, da questo motto potrebbe derivare il toponimo, alludendo giocosamente alla prestanza fisica necessaria per salire fino ai suoi 460 metri di altitudine con la vecchia mulattiera che un tempo conduceva al borgo.
È un centro piccolo, in cui la campana della chiesa parrocchiale suona ogni quarto d’ora: un’esigenza imprescindibile per gli abitanti di un tempo, impegnati nelle attività dei campi e quindi legati a quel suono per la scansione temporale, un’esigenza ancora imprescindibile per gli abitanti, pochi quelli rimasti, ma che sono strenuamente legati alle loro tradizioni e alle loro radici.
Radici che in realtà non sono solo su questa collina, ma poco più avanti, e ad altitudine inferiore: nei pressi di quello che rimane di Rocca Baldesca. In realtà tutta la zona era ampiamente interessata dalla presenza dei Sabini prima e dei Romani dopo, ma nel corso del Medioevo la sede del borgo era nei pressi di quello che ad oggi è un castello abbandonato, o meglio quello che ne rimane.
Qualche cenno storico su Salisano
Salisano viene nominato, nel registro dei possedimenti dell’Abbazia di Farfa, come Fundus Salisanus: la prima menzione è precisamente dell’anno 840, quando compare nel diploma di Lotario I. Allora il suo aspetto non era certo quello di un castello, ma più di una curtis, con le case disposte intorno alla Chiesa di San Pietro.
È di poco posteriore la suddivisione del territorio in contrade, in base al numero delle strade: si ebbero allora la Contrada della Strada Diritta, la Contrada della Strada dei Ponti (così chiamata dai ponti che collegano le case da una parte all’altra del vicolo ed oggi, non a caso, conosciuta come Via degli Archi) e Contrada Strada del Fico, l’attuale Via Regina Elena. Si può ipotizzare che la prima fosse riservata ai nobili, visti gli aspetti dei palazzi e degli edifici, sontuosi in pietra, la seconda agli operai e ai popolani, mentre la terza a quella che oggi definiremmo il ceto medio, ovvero quella classe di funzionari, ma anche di commercianti e artigiani.
In parallelo, avveniva la nascita di Rocca Baldesca, castello e avamposto prima che Salisano divenisse, anch’esso, castello fortificato. Poco più in basso di Salisano e dunque più esposto a eventuali pericoli, Rocca Baldesca era un castello ampio, che ospitava la popolazione al suo interno. Fu abitato fino al 1400, quando le frequenti incursioni che rendevano il luogo poco sicuro, spinsero gli abitanti a spostarsi nella confinante Salisano.
Dopo essere stato feudo della sua famiglia, il 20 ottobre 1531 il Cardinale Francesco Orsini di Aragona concesse Salisano a Galiotto Ferreolo, il quale edificò un palazzo munito di bastione triangolare. Ad oggi, di questa rocca non rimane pressoché nulla, solo alcune rovine: distrutto per precisa volontà della popolazione, a cui viene attribuito anche l’assassinio, nel 1542, del Ferreolo, reo, secondo le fonti, di ogni sorta di tiranneria e dispotismo. Ed è un vero peccato che del Castello non rimanga che parte del bastione e la base dei due torrioni circolari: pare fosse stato progettato dal Sangallo.
Chiacchierando con la gente, abbiamo scoperto una rivalità con il vicino comune di Mompeo – i due comuni sono separati dalla Gola di Rosciano: non stupisce, è abbastanza frequente tra centri vicini. I due colli, quello di Mompeo e quello di Salisano, sono vicini, separati da una gola. Quello che sorprende è che si nobilita questa antipatia con motivazioni storiche: se Mompeo, come vi abbiamo raccontato nella scheda dedicata, sembra derivare il suo nome dalla presenza di una villa del celebre generale romano Gneo Pompeo Magno, allora non può che essere contrapposta a un centro fedele a Gaio Giulio Cesare, come si racconta, da queste parti, essere stato Salisano all’epoca.
La devozione per la Santa Patrona, Santa Giulia Vergine Martire
Santa Giulia Vergine Martire viene raffigurata in alcune tele poste all’interno della chiesetta parrocchiale, dedicata ai Santissimi Pietro e Paolo. L’intitolazione omaggia quelli che, inizialmente, erano patroni della città, che però Santa Giulia nel corso del tempo ha soppiantato nella devozione dei salisanesi.
Giulia era una giovane nobile cartaginese, verosimilmente vittima delle persecuzioni contro i cristiani perpetrate da Decio, o da Domiziano, imperatori rispettivamente tra il 249 e il 251 e il 244 e il 315. La colpa della fanciulla risiedeva nel non voler rinunciare alla sua fede. Probabilmente le sue reliquie viaggiarono nell’ambito dei flussi migratori dei cristiani, che fuggivano dall’Africa incalzati dalle incursioni dei Vandali di Genserico. E così arrivarono in Corsica, da dove Ansa, la sovrana dei Longobardi moglie di re Desiderio, le fece traslare a Brescia nel 762.
L’agiografia invece ci ha trasmesso un quadro molto più suggestivo delle sue peregrinazioni e sofferenze, di certo influenzato da una tendenza a rassomigliarle a quelle patite da Gesù Cristo. Giulia, tratta in schiavitù e condotta in Corsica durante i viaggi del suo padrone, fu sottoposta a un crudele martirio da un signore locale, tale Felice, per il fermo rifiuto opposto dalla fanciulla a sacrificare agli dei pagani.
Le vennero strappati i capelli, e fu crocifissa e gettata in mare. Le sue spoglie, ancora legate, inchiodate alle due assi di legno, vennero fortunosamente ritrovate da alcuni monaci. Il suo legame con la Corsica è ancora profondo, essendone poi diventata la Patrona. Ad oggi, Santa Giulia viene ricordata nel calendario cristiano il 22 maggio, ma a Salisano i festeggiamenti in suo onore si tengono durante la prima domenica dopo Ferragosto.
La cucina tipica di Salisano
Il piatto tipico di Salisano? Nessun dubbio, sono i maccheroni a fezze. Una pasta semplice, fatta di acqua e farina, tirata con la mano unta di olio, come un unico filo, ben spesso, non interrotto, che poi viene sistemato in una matassa dai cuochi locali, che si aiutano in questo con il gomito. In bianco, condita con olio extravergine della Sabina DOP, un ramoscello di maggiorana, da queste parti chiamata persa, e abbondante pecorino spolverato. Oppure un sugo di cinghiale, o castrato, o di pomodoro e basta. Purché ci sia il pecorino sopra!
Per quanto riguarda i secondi, i salisanesi mettono in tavola lo stracotto di cinghiale al vino rosso, o coniglio porchettato farcito con lardo, accompagnato dal pane ben cotto al forno a legna.
Possiamo chiudere il nostro pranzo con le ciambelle all’anice dolci, che sono distribuite durante la festa di Sant’Antonio.
Ma se vogliamo unire la gola al divertimento, allora occorre monitorare sui suoi canali social gli eventi organizzati dalla Pro Loco di Salisano: tipica è infatti la novembrina Sagra della Polenta e della Padellaccia. E se la polenta non ha bisogno di particolari presentazioni, diffusa com’è in tutto lo stivale, la padellaccia potrebbe non dirvi nulla a prima lettura. Si tratta di una succulenta preparazione a base di tagli tra i meno pregiati del maiale, guancia, diaframma, gola e quello che è disponibile al momento, condita con succo di limone, olive, erbe aromatiche, spadellata in una vecchia padella, una padellaccia, appunto, in una ricetta contadina, antica di almeno un secolo.
Quello che forse abbiamo tralasciato nel nostro racconto, e che speriamo di poter trasmettere anche se solo in parte, è il panorama. Alle volte ci sembra quasi di ripeterci, ma anche gli scorci di Salisano sono davvero, davvero suggestivi. Si affaccia sulla Valle del Farfa, sulle propaggini meridionali dei Monti Sabini, sulle pendici del Monte Ode, con il Monte Tancia sullo sfondo. Poco al di fuori delle mura, il colpo d’occhio viene catturato dalla torre che svetta della Rocca Baldesca e spazia sulla Cipresseta monumentale, in un connubio perfetto tra natura e opera dell’uomo.
Fonte sito web-Scopri la Sabina-
Elio MERCURI- 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
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