Museo di Fotografia Contemporanea e l’Archivio Basilico-La Mostra
Gabriele Basilico. Roma-
Roma-L a Mostra Gabriele Basilico-La Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, in collaborazione con il Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps, il MUFOCO – Museo di Fotografia Contemporanea e l’Archivio Basilico, presenta Gabriele Basilico. Roma. La mostra restituisce, in occasione dell’ottantesimo anniversario dalla nascita del grande maestro della fotografia italiana, un inedito spaccato della sua ricerca visiva. L’esposizione apre al pubblico da giovedì 12 dicembre 2024 a domenica 23 febbraio 2025 nelle sale di Palazzo Altemps a Roma. Curata da Matteo Balduzzi e Giovanna Calvenzi, la mostra presenta per la prima volta al pubblico un itinerario che attraversa le principali ricerche realizzate da Gabriele Basilico su Roma, città profondamente amata e intensamente frequentata dal fotografo milanese. Una selezione di oltre cinquanta opere in un percorso narrativo pensato appositamente per dialogare con gli spazi di Palazzo Altemps, le cui sale stabiliscono una relazione diretta con i soggetti delle fotografie in mostra. Filo conduttore dell’esposizione è il legame tra Gabriele Basilico e la Città Eterna, costruito grazie a venti incarichi professionali ricevuti dal fotografo tra il 1985 e il 2011 e alle numerose campagne fotografiche che ne sono scaturite.
MNR Palazzo Altemps
dal 12.12.2024 al 23.02.2025
dal martedì alla domenica, dalle ore 9.30 alle ore 19.00,
ultimo ingresso ore 18.00
Museo Nazionale Romano
Via di Sant’Apollinare, 8 – 00186 Roma
tel. 06.684851
fax 06.6897091
C.F. 97902780580
Il Museo Nazionale Romano fu istituito il 7 marzo del 1889.
La creazione di un “Museo delle Antichità nella Capitale del Regno” fu un’esigenza avvertita non appena Roma divenne la Capitale d’Italia nel 1870. Con l’espansione urbanistica volta ad adeguare la città al suo nuovo ruolo di capitale, si rinvennero numerose opere, spesso di eccezionale valore artistico; si confermava così la necessità di realizzare un museo in cui esporre e raccontare la grandezza del passato celebrando l’ambizione di un Paese finalmente unito.
La scelta cadde sulle Terme di Diocleziano e su parte del chiostro michelangiolesco, già utilizzato come deposito dei materiali archeologici rinvenuti nel corso della costruzione del vicino Ministero delle Finanze. Nel Museo confluirono inoltre numerosi altri materiali provenienti da raccolte preesistenti, come il Museo Kircheriano, e dalle acquisizioni di sculture e collezioni di rilievo appartenute a nobili famiglie romane, tra cui la celebre Collezione Ludovisi. Al momento della sua istituzione, il Museo dispose di una minima parte degli ambienti Terme, occupate dalle più varie istituzioni e attività, dall’ Ospizio Margherita di Savoia per i poveri ciechi, negli spazi appartenuti alla Certosa, al celebre Caffè Concerto Al Diocleziano nell’Aula V. La scelta del Comitato Esecutivo per le Feste commemorative del 1911 in Roma di ospitare nelle Terme di Diocleziano la Grande Mostra Archeologica per le celebrazioni dei 50 anni dell’Unità di Italia rappresentò un’importante occasione per liberare l’intero complesso e riportarlo alla sua dimensione originaria di monumento archeologico.
Un nuovo capitolo della storia del Museo si aprì agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Grazie alla Legge speciale per le antichità di Roma del 1981 furono acquistati Palazzo Altemps, Palazzo Massimo e l’intero isolato della Crypta Balbi, mentre le Terme di Diocleziano furono interessate da importanti lavori di restauro. Il Museo fu quindi riorganizzato in quattro sedi, ognuna con la propria specificità: Palazzo Altemps, aristocratica dimora cinquecentesca, fu dedicato alle collezioni storiche e al racconto del collezionismo mentre a Palazzo Massimo furono esposti i capolavori della produzione artistica romana rinvenuti nella città di Roma e del suo territorio. Le Terme di Diocleziano, con i suoi monumentali spazi, accolsero il Museo della Comunicazione Scritta dei Romani e il Museo di Protostoria dei Popoli Latini. A seguito di una sistematica ricerca archeologica, fu allestita la sede della Crypta Balbi e la relativa area archeologica. A Palazzo Massimo fu inoltre trasferito alla fine degli anni Novanta il Medagliere del Museo Nazionale Romano, istituito alla fine dell’Ottocento per raccogliere i materiali numismatici provenienti dal territorio di Roma e del Lazio, e giunto a contare oggi nelle proprie collezioni oltre mezzo milione di pezzi. L’organizzazione in quattro sedi è stata mantenuta anche con il DM del 23 gennaio 2016, che ha reso il Museo Nazionale Romano uno degli istituti di rilevante interesse nazionale, dotato di autonomia speciale.
Pescara- Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus-Presentazione del libro
di M. Vanni, M. Lanzinger e D. Piraina:”Musei , cambiare pelle per evitare il fallimento”-
Pescara, 11 dicembre 2024 – Evento Culturale della Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus al Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara- Sabato 14 dicembre (ore 11), la Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus presenta il volume “Museologia del presente. Musei sostenibili e inclusivi si diventa” (Pacini Editore), scritto dal museologo Maurizio Vanni, insieme al presidente di ICOM Italia, Michele Lanzinger e al Direttore Cultura di Milano, Domenico Piraina, per aiutare i musei a vincere le sfide del cambiamento–L’appuntamento, in collaborazione con i Musei Archeologi Nazionali di Chieti Direzione Regionale Musei Nazionali Abruzzo, si svolgerà al Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara
Cambiare radicalmente per sopravvivere al futuro ed evitare di fallire. Come? Attraverso una rinnovata gestione, più assimilabile a quella di un’impresa che di un’istituzione museale per come siamo abituati a conoscerla oggi. È questa la strada da percorrere per i musei, se vogliono restare al passo con i tempi e rispondere alle nuove esigenze della società contemporanea, senza mettere a rischio la loro sopravvivenza. Un tema, questo, al centro di “Museologia del presente. Musei sostenibili e inclusivi si diventa” (Pacini Editore), primo volume della nuova collana “Musei e Museologia del presente”, curato dal museologo (Università di Pisa), critico e storico dell’Arte, Maurizio Vanni.
Il libro, scritto insieme al presidente di ICOM Italia, Michele Lanzinger e a Domenico Piraina, Direttore Cultura del Comune di Milano e Direttore di Palazzo Reale, sarà presentato a Pescara, dalla Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus in collaborazione con i Musei Archeologici Nazionali di Chieti Direzione Regionali Musei Nazionali Abruzzo. L’appuntamento è per sabato 14 dicembre, alle ore 11, al Museo delle Genti d’Abruzzo (via delle Caserme, 24), ad ingresso libero.
:”Musei , cambiare pelle per evitare il fallimento”-
Dopo i saluti istituzionali del Sindaco di Pescara, Carlo Masci e di Luigi Di Alberti Presidente della Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus, interverrà la Direttrice della Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus, Letizia Lizza per introdurre i lavori. A seguire gli interventi del museologo Maurizio Vanni e del Direttore Musei Archeologici Nazionali di Chieti Direzione Regionali Musei Nazionali Abruzzo, Massimo Sericola. Modererà l’incontro Ermanno de Pompeis, conservatore Museo delle Genti d’Abruzzo.
Il volume vuole rappresentare un vademecum per invitare i musei ad aprirsi alla collettività, affinché sappiano elaborare programmi che pongano la relazione con le proprie comunità al centro della loro azione. Una sfida che passa anzitutto da una gestione simile a quella delle imprese, elaborando quindi piani economici, bilanci di missione, strategie di marketing, profilazione e fidelizzazione del pubblico, percorsi inclusivi e progetti di fundraising per entrare nella dimensione quotidiana dei cittadini.
“Senza una solida progettualità che ne garantistica anzitutto la sostenibilità economica il museo non può adempiere alle proprie mission e non può raggiungere obiettivi misurabili – spiega Maurizio Vanni, Direttore scientifico della collana. – La creazione di valore non significa far prevalere gli aspetti manageriali rispetto a quelli storico-artistici, ma prendere coscienza che un piano economico è qualcosa di più di un elenco di costi e ricavi, ovvero uno strumento strategico di misurazione e verifica per rendere ancora più appropriate le offerte culturali su misura e migliorare gli impatti sul territorio”.
Maurizio Vanni, museologo, critico e storico dell’arte, specialista in sostenibilità, valorizzazione e gestione museale. È docente di Museologia all’Università di Pisa. Ha al suo attivo 3 direzioni museali, 400 mostre e 700 pubblicazioni.
Michele Lanzinger, geologo e Dottore di Ricerca in Scienze Antropologiche, è stato direttore del MUSE – Museo delle Scienze di Trento, dal 1992 al 2024. Attualmente è presidente di ICOM Italia, la principale organizzazione non governativa che rappresenta i musei ed i suoi professionisti
Domenico Piraina, ha una duplice formazione, storico-artistica-letteraria e giuridico-economica. È Direttore Cultura del Comune di Milano e Direttore di Palazzo Reale. Ha diretto e organizzato oltre 1500 mostre.
Tarquinia(VT)-Archeologia, apertura straordinaria di due tombe etrusche-
Tarquinia(VT)-Archeologia -Nell’ambito del piano di valorizzazione strutturato per l’anno che sta per chiudersi dalla Soprintendenza, sabato 14 dicembre è in programma un’apertura straordinaria della Tomba del Tifone e della Tomba del Morto a Tarquinia. Un’occasione eccezionale, possibile in due turni di visita guidata, alle ore 15 e alle ore 16, con prenotazione obbligatoria da effettuare entro il 13 dicembre scrivendo a sabap-vt-em.tarquinia@cultura.gov.it. I partecipanti dovranno compilare e consegnare al momento dell’ingresso un modulo di liberatoria che verrà fornito via mail. L’appuntamento è fissato al parcheggio della necropoli di Monterozzi e si consiglia di indossare scarpe comode.
Le caratteristiche delle tombe
La Tomba del Tifone, scoperta nel 1832, colpisce per le sue dimensioni imponenti: un ambiente ipogeo alto 2 metri, lungo quasi 13 e largo poco meno di 10. Punto focale della struttura è il pilastro centrale con altare annesso, attorno al quale si dispongono tre ordini di gradoni. Anche la Tomba del Morto, rinvenuta nello stesso anno in località Calvario e databile al VI secolo a.C., si distingue per imponenza, con un’altezza di 1,80 metri e una pianta di 2,5 metri per lato. Il soffitto a doppio spiovente sovrasta un ambiente caratterizzato da pitture murali che rappresentano scene di danza, suono e il rituale di commiato al defunto.
Un’occasione per approfondire la cultura etrusca
L’apertura delle due tombe offre una rara opportunità per immergersi nel patrimonio della necropoli di Monterozzi, approfondendo il culto funerario etrusco: pitture e architetture testimoniano il valore simbolico attribuito ai rituali legati al trapasso, arricchendo la conoscenza di una civiltà che ha segnato profondamente il territorio.
Tarquinia(VT)- necropoli di Monterozzi
Descrizione
La collina dei Monterozzi, lunga circa 6 km e sede della principale necropoli cittadina, si estende parallela alla costa tirrenica, tra questa e l’altura della Civita dove sorgeva la città etrusca. Le tombe coprono praticamente tutto il colle; se ne conoscono più di seimila, per la maggior parte camere scavate nella roccia e sormontate da tumuli. Sono proprio questi ultimi, oggi ormai appena visibili sul terreno perché spianati dai lavori agricoli (ma solo un secolo fa se ne contavano più di 600), che hanno dato al colle il nome popolare ed espressivo. La serie straordinaria di tombe dipinte -ne conosciamo circa 200- rappresenta il nucleo più prestigioso della necropoli che resta, per questo aspetto, la più importante del Mediterraneo, tanto da essere definita da Massimo Pallottino ‘il primo capitolo della storia della pittura italiana’. L’uso di decorare con pitture i sepolcri delle famiglie aristocratiche è documentato anche in altri centri dell’Etruria, ma solo a Tarquinia il fenomeno assume dimensioni così ampie e continuate nel tempo: esso è infatti attestato dal VII al II secolo a.C., cioè per quasi tutta la durata della vita della città. Nel settore di necropoli attualmente aperto al pubblico è possibile ammirare alcuni degli ipogei dipinti più celebri, come le tombe delle Leonesse, dei Leopardi, della Caccia e Pesca etc.; la visita della cosiddetta necropoli Scataglini, un suggestivo angolo integralmente scavato, consente inoltre al visitatore di capire come dovesse in origine presentarsi la ”città dei morti”.
La Necropoli dei Monterozzi di Tarquinia ora fa parte del Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia, Istituto dotato di autonomia speciale, di rilevante interesse nazionale.
-conclusi i restauri delle fontane di piazza Farnese-
Roma- 10 dicembre 2024-Parte del programma Roma Caput Mundi – PNRR, i restauri delle fontane, sotto la direzione scientifica della Sovrintendenza Capitolina, hanno previsto una serie di attività volte a ripristinare e preservare lo stato di conservazione dei monumenti e a garantirne nuovamente la piena leggibilità.
In particolare, sono stati effettuati interventi di consolidamento delle superfici; operazioni di disinfezione e disinfestazione per eliminare i micro organismi che possono danneggiare la fontana o comprometterne l’estetica; è stata eseguita la pulizia per rimuovere lo sporco accumulato, le patine biologiche e il calcare e la pulitura e il trattamento antiossidante delle parti metalliche; sono state verificate le stuccature, con interventi di riparazione e sostituzione; sono stati applicati trattamenti protettivi sulle superfici per preservarle dagli agenti atmosferici e dall’usura; è stato verificato l’impianto idrico e lo strato di impermeabilizzazione delle vasche. Infine, è stato rinnovato completamente l’impianto di illuminazione artistica con la posa in opera di nuovi corpi illuminanti.
Cenni storici
La denominazione dell’attuale piazza deriva dalla presenza del Palazzo Farnese, ora sede dell’Ambasciata di Francia, che ne occupa tutto il lato lungo verso Ovest, tra via del Mascherone e via dei Farnesi. All’origine, era la piazza principale del rione Regola.
L’area fu sistemata a partire dal 1537, intesa come pertinenza esterna di palazzo Farnese, i cui lavori di rifacimento e ampliamento iniziarono all’inizio del 1500, a seguito dell’acquisto da parte del cardinale Alessandro Farnese, divenuto poi papa Paolo III (pontificato 1534 – 1549).
Inizialmente, papa Paolo III aveva posto al centro della piazza una vasca romana di granito, che costituiva una anticipazione delle antichità esposte all’interno del palazzo. Era stata prelevata da piazza san Marco (attuale piazza Venezia) ma già proveniente dalle terme di Caracalla, all’epoca oggetto di estesi scavi da lui commissionati, nel corso dei quali erano emersi anche l’Ercole, la Flora e il Toro, oggi detti “Farnese”, costituenti il nucleo centrale delle collezioni della famiglia. La funzione del bacino doveva essere essenzialmente decorativa consentendo un punto di osservazione privilegiato per i giochi che si svolgevano in piazza (tauromachie e naumachie).
Esisteva una seconda vasca romana, praticamente uguale alla precedente e probabilmente della stessa provenienza; si trovava anch’essa in piazza San Marco, anche se inizialmente doveva essere stata posta presso la scomparsa chiesa di San Giacomo al Colosseo. Una quarantina d’anni dopo aver sistemato la prima, il cardinale Alessandro Farnese il Giovane (nipote di Paolo III) tra il 1577 e il 1580 riuscì ad ottenerla, in cambio di un’altra più piccola, e la trasferì nella piazza, di fronte al proprio palazzo. Dopo aver fatto spostare sulla destra quella già presente, le sistemò entrambe, nella posizione che occupano attualmente.
Le due fontane gemelle
Le due fontane devono la loro attuale configurazione al progetto seicentesco di sistemazione della piazza, voluto da Odoardo Farnese, eseguito da Girolamo Rainaldi e completato entro il 1626.
Con la costruzione dell’acquedotto cosiddetto Paolo (o Paolino) fu possibile trasformare le vasche in fontane, Odoardo Farnese ne commissionò la costruzione nel 1626 all’architetto di fiducia Girolamo Rainaldi.
Ispirandosi ai modelli di Giacomo della Porta, Rainaldi realizzò due fontane gemelle, costruendo due bacini mistilinei di travertino molto più grandi, anch’essi di forma oblunga con i lati marcatamente bombati e poggiati su un gradino. All’interno dei bacini, collocò le due vasche antiche, poggiate su basi di muratura che mostrano una superficie di travertino modanato, che con molta probabilità fungevano da adduttori ai due getti presenti all’interno. Al centro, tra queste due basi, vi è il blocco murario che contiene il sistema verticale che porta l’acqua acqua fino alla tazzetta superiore. Al centro dei bacini collocò un ricco balaustro a forma d’anfora con scudi, mascheroni e festoni, tipici del gusto tardo-manierista di Rainaldi. Sul balaustro posò un’ulteriore vasca, una tazzetta quadrilobata e baccellata dai bordi sfrangiati, di forma simile a quella più esterna, ma molto più piccola, sormontata dal giglio araldico dei Farnese, presente anche nella vicina fontana del Mascherone. Quest’ultima fu realizzata nello stesso periodo molto probabilmente dallo stesso Rainaldi, sempre impiegando un’antica vasca termale in granito, oltre a un altro celebre pezzo di spoglio, il mascherone.
Ben sette erano i punti da cui fuoriusciva l’acqua: uno zampillo centrale dal giglio superiore, due alle estremità della vasca romana, e altri quattro nella vasca più grande, in corrispondenza delle anse.
Roma- Piazza Farnese Le due fontane gemelle
Roma- Piazza Farnese Le due fontane gemelle
o.
Nel Settecento le fontane passarono all’Azienda Farnesiana creata dai Borboni di Napoli, discendenti dei Farnese, per divenire proprietà del Comune di Roma solo dopo il 1930.
Nel 1938-39 la fontana a sud-est subì un intervento di restauro che comportò la sostituzione integrale del giglio, del balaustro e del labbro del bacino inferiore. Nuovi interventi vennero eseguiti negli anni Settanta. Nel 1992-93 venne realizzato un restauro completo e poi nuovamente nel 2007.
Esposizione internazionale di Presepi provenienti da 17 Nazioni
Natale a Roma-In occasione del Giubileo 2025, la Federazione Internazionale degli Amici del Presepio “Un. Fœ. Præ.” in collaborazione con l’Associazione presepistica maltese, Ghaqda Hbieb Tal-Presepju di Gozo – Malta e l’Ambasciata Maltese presso la Santa Sede presenta a Roma, nello splendido complesso della Basilica di Sant’Andrea della Valle in Corso Vittorio Emanuele, Sede Generalizia dell’Ordine dei Chierici Regolari dei Padri Teatini, un’esposizione internazionale di Presepi con opere provenienti da 17 Nazioni, in rappresentanza di 21 Associazioni nazionali presenti nel mondo. Tra queste anche A.I.A.P., l’Associazione Italiana degli Amici del Presepio.
Percorrendo l’interno della Basilica, 40 presepi accompagnano i visitatori alla scoperta di opere varie, in un percorso sia stilistico che materico: dai diorami spagnoli e catalani, ai Presepi in legno del Tirolo e dell’Alto Adige, a quelli in sagome dipinte e traforate di cui uno di oltre sei metri di larghezza, fino ad arrivare al presepio francese con i santons provenzali. Inoltre si possono ammirare due grandi scene in stile biblico realizzate dai maestri presepisti maltesi, una splendida composizione della notte di Greccio in cui San Francesco abbraccia il Bimbo Gesù e alcune opere della Renania – Westfalia, della Baviera, del Belgio, della Slovenia, dei Paesi Bassi, della Svizzera e del Liechtenstein. Infine non mancano le rappresentazioni della Natività d’Oltreoceano, provenienti da Perù, Argentina, Colombia, Stati Uniti d’America e Amazzonia.
Roma Natale 2024
Mercoledì 17 dicembre alle ore 20.00 si terrà un concerto con la banda della Gendarmeria Vaticana e quella maltese accompagnate dal coro della Basilica Papale di San Paolo Fuori le Mura.Spiega il Vice presidente Un. Fœ. Præ Pier Luigi Bombelli: “lo scopo primario dell’Un. Fœ. Præ, è quello di diffondere il Presepio, facendolo conoscere ad un pubblico sempre più vasto. La nostra Federazione rispetta la pluralità, non tiene conto delle differenze sociali di genere o d’età, ma aiuta le persone mettendole in relazione con altre attraverso esperienze diverse, proponendo un arricchimento umano e culturale. Nel nostro tempo così frenetico e sadico di guerre, non c’è simbolo di armonia e di Pace più grande del Presepio. Insieme a tutte le Associazioni Nazionali, la Federazione augura che questo periodo di grazie offerto dalla Chiesa attraverso il Giubileo, sia un momento di riflessione sul senso vero della vita e sul percorso che ognuno di noi è invitato a fare per poter costruire un futuro di Pace in un mondo difficile. Il nostro augurio è anche la nostra preghiera”.
NATALE A ROMA
Esposizione Internazionale di Presepi
“È Nato per Noi – Lo sguardo di Dio è negli occhi di Gesù”.
Dal 30 novembre 2024 al 2 febbraio 2025 nella Basilica di Sant’Andrea della Valle.
Ingresso gratuito. Orari 8.30 – 20.00 continuato Mercoledì 17 dicembre ore 20.00 concerto con la banda del Vaticano e quella maltese accompagnate dal coro della Basilica Papale di San Paolo fuori le mura.
Roma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco Leggeri-
Torretta di Porta Pertusa
Nota -Fotoreportage di Franco Leggeri,la Torretta di Poerta Pertusa si trova a Roma ,sulla via Aurelia vicino al Vaticano di fronte all’ingresso dell’Ospedale San Carlo di Nancy, esisteva una sola foto in B/N. risalente agli anni 1940.
La storia in beve-Il Tomassetti parla di questa Torretta e la chiama “torretta nei pressi di Porta Pertusiam…(1)”. Il Tomassetti cita gli Atti Capitolini e citazioni della Camera Apostolica.
Questa Torretta è l’ultima delle torri di avvistamento della via Aurelia immediatamente a ridosso , linea d’aria (100/150 metri) dalle mura vaticane proprio di fronte a Porta Pertusa in posizione strategica sopra a Via Baldo degli Ubaldi in posizione dominante Valle Aurelia e Valle del Gelsomino-Via Gregorio VII. Dalla Torretta era possibile vedere Villa Carpegna e la Torre Rossa,oggi non più esistente ma ricordata dalla via omonima (poi è stato scoperto che Torre Rossa è in essere e pubblicherò foto e storia..).La Torretta ha una altezza di circa 7 m. La base di 3 m. circa.
La torretta si trova all’interno della Villa Pacelli in via Aurelia civ. 290 di fronte all’ospedale San Carlo . Nel 1947 Pio XII donò la villa Pacelli alla Congregazione Oblati di Maria Immacolata che ancora la possiedono , la villa è sede Generalizia della Congregazione.
Per le foto si ringrazia Monsignor Gilberto Pinon Gaytàn- Padre Generale della Congregazione Oblati di Maria Immacolata che mi ha ricevuto e mi ha permesso di scattare le foto . Per ultimo allego anche la foto in B/N del 1940-
(1)- Durante la Repubblica Romana del 1849 i francesi cercarono, ma invano, di aprirla per attaccare Garibaldi il quale aveva piazzato l’artiglieria repubblicana nei giardini vaticani.
È strutturata su tre aperture: due accessi secondari posti ai lati del portale principale, contornato da un maestoso bugnato. Attualmente è murata, e si trova su viale Vaticano, vicino alla via omonima, in corrispondenza del torrione di San Giovanni (restaurato da papa Giovanni XXIII che vi risiedette negli ultimi tempi del suo pontificato) che costituisce il baluardo sud-occidentale delle originali mura leonine.
L’epoca di edificazione, come anche per la porta Cavalleggeri, è alquanto controversa. Come l’altra, sembra dover risalire al tempo del rientro dei papi dalla cattività avignonese, quindi verso la fine del XIV secolo, quando i pontefici, di ritorno a Roma da Avignone con un consistente seguito, fissarono definitivamente la loro dimora in Vaticano (abbandonando la precedente residenza del Laterano) e le tre aperture delle mura leonine[1] si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze del conseguente incremento demografico ed edilizio. Venne aperta forando le mura originarie, da cui il nome, e sembra dovesse servire solo per un utilizzo da parte della Curia e non per il traffico cittadino. Stefano Piale, basandosi sul fatto che non ne esistono menzioni precedenti all’umanista Flavio Biondo, ritiene che fu aperta dall’antipapa Giovanni XXIII, facendola quindi risalire al primo quarto del XV secolo. Di contro, potrebbe invece esserci un riferimento in un documento del 1279.
Praticamente nessuna citazione fa riferimento alla posterula situata poco oltre la porta, della quale esiste una sola testimonianza che la definisce “porta Palatii”.
Il restauro più consistente, insieme a quello dell’intero tratto occidentale di mura, sembra si possa far risalire a papa Pio IV, nel 1565, che però non vide la fine dei lavori, sebbene presso la porta sia stata apposta, in memoria, una lapide con lo stemma dalla sua casata, i Medici.
Fu probabilmente chiusa e riaperta in varie occasioni, di una sola delle quali però si ha notizia, poiché un documento del 1655 riferisce che fu aperta per l’arrivo a Roma della regina Cristina di Svezia[2].
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Denise Levertov (1923-1997)-Nata e cresciuta in Inghilterra, ma trasferita negli Stati Uniti nel 1947, Denise Levertov (1923- 1997) è una voce importante del canone poetico nordamericano del ventesimo secolo, e tuttavia ancora non ben conosciuta in Italia. Il corpus completo della sua opera è stato raccolto nel 2013 in un volume di oltre mille pagine, Collected Poems (a cura di P. A. Lacey e A. Dewey per New Directions), consentendo per la prima volta uno sguardo complessivo sulla molteplicità delle forme e dei registri poetici impiegati, da quello autobiografico-confessionale a quello di ispirazione etica e religiosa, dalla poesia di impegno e testimonianza civile alla riflessione sul lavoro poetico.Le poesie proposte, tratte da due raccolte degli anni ottanta del Novecento, accentuano un motivo profondo e pervasivo di tutta la sua opera : l’osservazione, l’ascolto, l’empatia con il mondo naturale – animali, alberi, montagne, laghi – creature viventi e senzienti, a volte trasfigurate in senso antropomorfico e metapoetico, la cui esistenza è spesso minacciata dall’opera di distruzione dell’uomo. Motivo, o assillo, che diventa dominante negli ultimi anni della vita di Levertov, in coincidenza con il suo trasferimento a Seattle, dove vive in prossimità del lago Washington e del gigantesco vulcano Rainier, presenza viva e misteriosa di molte sue poesie.
Creare la pace Una voce dal buio gridò, “I poeti devono donarci immaginazione di pace, per scacciare la violenta, consueta immaginazione del disastro. Pace, non solo l’assenza di guerra”. Ma la pace, come una poesia, non esiste prima di esserci, non si può immaginare prima che sia creata, non si può conoscere se non nelle parole di cui è fatta, grammatica di giustizia, sintassi di mutuo soccorso. Un’ impressione, la vaga intuizione di un ritmo, è tutto quello che abbiamo finché non cominciamo a pronunciarne le metafore, a scoprirle mentre parliamo. Un verso di pace potrebbe forse nascere se riformuliamo la frase della nostra esistenza, cancelliamo la sua riaffermazione di profitto e potere, mettiamo in discussione i nostri bisogni, ci prendiamo lunghe pause . . . Un ritmo di pace potrebbe forse reggersi su quel fulcro diverso; la pace, una presenza, un campo di forza più intenso della guerra, potrebbe allora palpitare, strofa dopo strofa nel mondo, ogni gesto di vita una sua parola, ogni parola un fremito di luce – facce del cristallo che si va formando.
Denise Levertov
da Collected Poems, New Directions, 2013
traduzione di Paola Splendore
Toccare il centro
“Sono un paesaggio” dice lui
“un paesaggio e una persona che cammina in quel paesaggio.
Ci sono dirupi spaventosi qui,
e pianure appagate dalla loro
bruna monotonia. Ma soprattutto
ci sono foibe, luoghi
di terrore improvviso, di corto diametro
e infida profondità”.
“Lo so”, dice lei. “Quando vado
a passeggiare dentro me, come capita
un bel pomeriggio, senza pensarci,
presto o tardi arrivo dove falasco
e mucchi di fiori bianchi, ruta forse,
segnano la palude, e so che lì
ci sono pantani che possono tirarti
giù, farti affondare nel fango gorgogliante”.
“Avevamo un vecchio cane, dice lui, quand’ero ragazzo”,
un buon cane, socievole. Ma aveva una ferita
sulla testa, se ti capitava
di toccarla appena, saltava su con un guaito
e ti azzannava. Diede un morso a un bambino,
e dovettero portarlo dal veterinario e abbatterlo”.
“Nessuno sa dove si trova” dice lei,
“e nessuno la tocca neppure per sbaglio.
È dentro il mio paesaggio, e io sola, mentre avanzo
ansiosa nella vita, tra le mie colline,
dormendo sul muschio verde dei miei boschi,
inavvertitamente la tocco,
e mi avvento contro me stessa -“
“oppure mi fermo
appena in tempo”.
“Sì, impariamo a farlo.
Non è di paura, ma di dolore che parliamo:
quei punti dentro noi, come la testa ferita del tuo cane,
feriti per sempre, che il tempo
mai lenisce, mai.”
Zeroing In
“I am a landscape,” he said,
“a landscape and a person walking in that landscape.
There are daunting cliffs there,
And plains glad in their way
Of brown monotony. But especially
There are sinkholes, places
Of sudden terror, of small circumference
And malevolent depths.”
“I know,” she said. “When I set forth
To walk in myself, as it might be
On a fine afternoon, forgetting,
Sooner or later I come to where sedge
And clumps of white flowers, rue perhaps,
Mark the bogland, and I know
There are quagmires there that can pull you
Down, and sink you in bubbling mud.”
“We had an old dog,” he told her, “when I was a boy,
A good dog, friendly. But there was an injured spot
On his head, if you happened
Just to touch it he’d jump up yelping
And bite you. He bit a young child,
They had to take him to the vet’s and destroy him.”
“No one knows where it is,” she said,
“and even by accident no one touches it:
It’s inside my landscape, and only I, making my way
Preoccupied through my life, crossing my hills,
Sleeping on green moss of my own woods,
I myself without warning touch it,
And leap up at myself”
“or flinch back
Just in time.”
“Yes, we learn that
It’s not terror, it’s pain we’re talking about:
Those places in us, like your dog’s bruised head,
That are bruised forever, that time
Never assuages, never.”
*
Presagio
Basta con questi rami, questa luce.
Il cielo, anche se azzurro, mi intralcia.
Da quando ho cominciato a capire
di avere altro da fare,
non so più stare dietro al ritmo
dei giorni col passo agile degli altri inverni.
L’albero svettante,
quello che l’alba tingeva d’oro
è stato abbattuto – quel fervore di uccelli e cherubini
soffocato. La siccità ha scurito
più di una foglia verde.
Da quando
so che un altro desiderio ha cominciato
a proiettare i suoi lacci fuori di me
in un luogo ignoto, mi protendo
in un silenzio quasi presente,
inafferrabile tra i battiti del cuore.
Denise Levertov
Intimation
I am impatient with these branches, this light.
The sky, however blue, intrudes.
Because I’ve begun to see
there is something else I must do,
I can’t quite catch the rhythm
of days I moved well to in other winters.
The steeple tree
was cut down, the one that daybreak
used to gild – that fervor of birds and cherubim
subdued. Drought has dulled
many a green blade.
Because
I know a different need has begun
to cast its lines out from me into
a place unknown, I reach
for a silence almost present,
elusive among my heartbeats.
*
Due montagne
“Avvertire l’aura di una cosa che guardiamo significa dotarla della capacità di rispondere al nostro sguardo.”
Walter Benjamin
Per un mese (un attimo)
ho vissuto accanto a due montagne.
Una era solo un bastione
di roccia pallida. ‘Una facciata di roccia’ si dice
senza pensare a un’espressione o a un volto –
un’astrazione.
Ma si dice anche
‘un uomo dal volto di pietra’, oppure ‘si è chiusa
in un silenzio di pietra.’ Questa montagna,
avesse avuto occhi, avrebbe sempre guardato
oltre o attraverso; la bocca, ne avesse avuta
una, avrebbe stretto le labbra sottili,
implacabile, senza concedere niente, proprio niente.
L’altra montagna emanava
un silenzio tutto diverso.
Può essere che (da me non avvertita)
cantasse, addirittura.
Burroni, foreste, nudi picchi di roccia, obliqui, fuori centro,
in un elegante cono acuto o corno, avevano l’aria
di provare piacere, piacere di esistere.
Questa la guardavo e riguardavo
senza trovare
un modo per convincerla a incontrare il mio sguardo.
Dovetti accettare la sua totale indifferenza,
la mia totale insignificanza,
essere
inconoscibile per la montagna
come un ago di pino o di abete
sui suoi lontani pendii, per me.
Denise Levertov
Two Mountains
“To perceive the aura of an object we look at means to invest it with the ability to look at us in return.”
Walter Benjamin
For a month (a minute)
I lived in sight of two mountains.
One was a sheer bastion
of pale rock. ‘A rockface’, one says,
without thought of features, expression –
it’s an abstract term.
But one says, too,
‘a stony-faced man’, or ‘she maintained
a stony silence.’ This mountain,
had it had eyes, would have looked always
past one or through one; its mouth,
if it had one, would purse thin lips,
implacable, ceding nothing, nothing at all.
The other mountain gave forth
a quite different silence.
Even (beyond my range of hearing)
it may have been singing.
Ravines, forests, bare rock that peaked, off-center
in a sharp and elegant cone or horn, had an air
of pleasure, pleasure in being.
At this one I looked and looked
but could devise
no ruse to coax it to meet my gaze.
I had to accept its complete indifference,
my own complete insignificance,
my self
unknowable to the mountain
as a single needle of spruce or fir
on its distant slopes, to me.
Denise Levertov
Denise Levertov (1923-1997)-Nata e cresciuta in Inghilterra, ma trasferita negli Stati Uniti nel 1947, Denise Levertov (1923- 1997) è una voce importante del canone poetico nordamericano del ventesimo secolo, e tuttavia ancora non ben conosciuta in Italia. Il corpus completo della sua opera è stato raccolto nel 2013 in un volume di oltre mille pagine, Collected Poems (a cura di P. A. Lacey e A. Dewey per New Directions), consentendo per la prima volta uno sguardo complessivo sulla molteplicità delle forme e dei registri poetici impiegati, da quello autobiografico-confessionale a quello di ispirazione etica e religiosa, dalla poesia di impegno e testimonianza civile alla riflessione sul lavoro poetico.Le poesie proposte, tratte da due raccolte degli anni ottanta del Novecento, accentuano un motivo profondo e pervasivo di tutta la sua opera : l’osservazione, l’ascolto, l’empatia con il mondo naturale – animali, alberi, montagne, laghi – creature viventi e senzienti, a volte trasfigurate in senso antropomorfico e metapoetico, la cui esistenza è spesso minacciata dall’opera di distruzione dell’uomo. Motivo, o assillo, che diventa dominante negli ultimi anni della vita di Levertov, in coincidenza con il suo trasferimento a Seattle, dove vive in prossimità del lago Washington e del gigantesco vulcano Rainier, presenza viva e misteriosa di molte sue poesie.
Paola Splendore
Paola Splendoreha insegnato Letteratura inglese all’Università Orientale di Napoli e all’Università di Roma Tre, occupandosi in prevalenza di letterature post-coloniali e di letteratura migrante. Tra le sue aree di studio vi è anche la rappresentazione letteraria della violenza nella narrativa scritta da donne. Ha pubblicato saggi sull’opera di scrittori indiani, sudafricani e caraibici, oltre ad aver curato le edizioni italiane di opere di Virginia Woolf, del filosofo Raymond Williams e del premio Nobel J.M. Coetzee. Per Donzelli ha tradotto poesie di Sujata Bhatt (Il colore della solitudine, 2005), Ingrid de Kok (Mappe del corpo, 2008), Karen Press (Pietre per le mie tasche, 2012) e Moniza Alvi (Un mondo diviso, 2014); ha inoltre curato con Jane Wilkinson l’antologia di poesia sudafricana Isole galleggianti (2011) e tradotto una raccolta di poesie di Jo Shapcott (Della mutabilità, 2015). Dal 2016 a oggi ha coordinato il gruppo di traduttrici di un poemetto di Philip Schultz (Erranti senza ali) e ha curato le edizioni italiane di sillogi poetiche di Hardi Choman (La crudeltà ci colse di sorpresa, 2017), Philip Schultz (Il dio della solitudine, 2018) e Ruth Padel (Variazioni Beethoven, 2021).
– Prof. GIUSEPPE LUGLI-Il Restauro del Tempio di Venere e Roma-
Copia anastatica dalla Rivista PAN -numero Luglio 1935-diretta da UGO OJETTI
Editore RIZZOLI e C. Milano-Firenze-Roma.
Prof.Lugli, Giuseppe. – Archeologo italiano (Roma 1890 – ivi 1967);
Prof.Lugli Giuseppe – Archeologo italiano (1890 – 1967) professore di topografia romana e di architettura all’università di Roma La Sapienza. La carriera del Lugli è stata prolifica anche se fra i suoi molti contributi significativi alcuni sono preminenti: – Fontes ad topographiam veteris urbis romae pertinentes (8 vols. 1952-69). corpus che raccoglie tutte le citazioni testuali nelle fonti antiche romane di carattere topografico e monumentale. – La tecnica edilizia romana: con particolare riguardo a roma e lazio, roma (bardi, 1957) rimane uno studio fondamentale sulle tecniche di costruzione durante il primo millennio a.C. – Forma italiae, una serie di programmi e di concordanza archeologica per l’Italia. Questo lavoro continua oggi come pubblicazione seriale ed ha un progetto di ricerca collegato, diretto dal prof. Paolo Sommella nel dipartimento di storia dell’archeologia e dell’antropologia di Roma antica presso l’Università degli Studi La Sapienza.
Restauro del Tempio di Venere e Roma-
Restauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaRestauro del Tempio di Venere e RomaProf.Giuseppe Lugli – Archeologo italiano (Roma 1890 – ivi 1967);PAN- 1935-Prof.Lugli Giuseppe Restauro del Tempio di Venere e Roma
Giuseppe Lugli Archeologo italiano (Roma 1890 – ivi 1967); prof. di topografia romana nell’univ. di Roma (1933-61); socio nazionale dei Lincei (1946). Pubblicò, tra l’altro, un ampio manuale (I monumenti antichi di Roma e suburbio, 3 voll. e un Supplemento, 1930-40), e ricerche sulla tecnica costruttiva e sull’architettura (La tecnica edilizia romana con particolare riguardo a Roma e Lazio, 2 voll., 1957). Iniziò la pubblicazione sistematica dei Fontes ad topographiam veteris urbis Romae pertinentes e la collana della Forma Italiae.
Lugli’s career was prolific, although among his many significant contributions, several are paramount. He is credited with more than 230 scholarly publications.[2] In his topographical career, Lugli compiled the landmark Fontes ad topographiam veteris urbis Romae pertinentes (8 vols. 1952-69).[3] The aim of this corpus was to collect all of the textual mentions in the ancient sources that pertain to the topography and monuments of Rome. The work is organized according to the Augustan regions of the city.
Lugli was also a student of architecture, and in particular of building techniques. His study La tecnica edilizia romana: con particolare riguardo a Roma e Lazio, Roma (Bardi, 1957) remains a seminal study of the technology of construction in Italy during the 1st millennium B.C.[4]
Lugli also founded the Forma Italiae, a series of archaeological maps and concordance for Italy. This work continues today as a serial publication, and associated research project, directed by Prof. Paolo Sommella in the Department of Ancient History, Archaeology and Anthropology at the Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. The aim of Forma Italiae is to map the full archaeological landscape of Italy at a sufficient scale to facilitate a variety of research and teaching needs.[5]
A. M. Colini “Ricordo di Giuseppe Lugli” RIASA, n.s., XV, 1968.[2]
Scholarship
1930-1940. I monumenti antichi di Roma e suburbio. [I. La zona archeologica.–II. Le grandi opere pubblicha.–III. A traverso le regioni.] 3 vol., plus Supplemento: un decennio di scoperte archeologiche. Rome: G. Bardi. Worldcat.
1940. Pianta di Roma antica: forma Urbis imperatorum temporibus (1:10.000). Worldcat.
1946. Roma antica: il centro monumentale. Rome: G. Bardi. Worldcat.
1948. La Velia e Roma aeterna. Elementi topografici e luoghi di culto.Worldcat.
1952-1969. Fontes ad topographiam veteris urbis Romae pertinentes. Colligendos at que edendos curavit Iosephus Lugli. Rome. Worldcat.
1957. La tecnica edilizia romana con particolare riguardo a Roma e Lazio. 2 v. Rome: Bardi. Worldcat.
1969. La Domus Aurea e le Terme di Traiano. Rome: G. Bardi. Worldcat.
Manuale di archeologia dei paesaggi A cura di Franco Conti
Manuale di archeologia dei paesaggi- Metodologie, fonti e contesti –
A cura di Franco Conti-Carocci Editore-Roma
Descrizione del libro Manuale di archeologia dei paesaggi-Il libro affronta il tema della metodologia archeologica utile alla ricostruzione dei paesaggi del passato, attraverso lo studio di contesti geografici di diversa estensione. Rivolto agli studenti di archeologia, il libro intende fornire una sorta di introduzione ragionata ai modi di approccio alle forme dei paesaggi antichi, alle procedure utilizzate, alle tecnologie di indagine e di elaborazione. Il testo passa in rassegna aspetti e temi diversi della pratica archeologica: le tipologie delle fonti da utilizzare, la scelta del contesto geografico-storico, la ricognizione del terreno come procedura di acquisizione di masse critiche di dati nuovi, la elaborazione e trasformazione dei dati in informazione archeologica, la loro visualizzazione cartografica. I capitoli conclusivi sono dedicati all’interpretazione degli insediamenti, al delicato rapporto fra archeologia e geografia umana, alla illustrazione sintetica di casi di studio e di ricostruzione di paesaggi del passato.
Contatti
Carocci editore
Viale di Villa Massimo, 47
00161 Roma
Tel. 06 42 81 84 17
L’archeologia dei paesaggi è la disciplina che studia, utilizzando fonti, metodologie e procedure diverse, i paesaggi del passato e il loro stratificarsi nei diversi ambiti o comprensori geografici e a seconda del periodo storico. Fra un concetto spaziale come quello di comprensorio e un concetto prevalentemente storico come quello di territorio sono sottesi nessi innumerevoli. Questi nessi sono sufficienti a sintetizzare i contenuti storico-culturali di una ricerca e le strutture geografiche che da questi sono originate.
Cause che portano alla mutazione del paesaggio
Le formazioni della storia e le strutture geografiche in senso letterale rappresentano un binomio fecondo nelle fasi di più intensa interazione. Questa interazione genera a sua volta, senza soste, paesaggio, anzi multiformi paesaggi. In senso archeologico il paesaggio va inteso come il prodotto della storia, che dissemina comprensori e territori, a seconda dei momenti e delle formazioni politiche, istituzionali, economiche, sociali e culturali, di strutture che antropizzano i comprensori e i territori medesimi. È la storia a costruire paesaggi diversi, paesaggi con limiti cronologici frastagliati, confini geografici approssimativi e una tendenza spiccata a presentarsi in forme variabili a seconda dello spazio locale. Percorrendo la strada che attraversa il Chianti, oggi si percepisce nettamente il paesaggio della monocolturavitivinicola e dell’agriturismo assai più che il fatto di essere in questo o quel territorio comunale, in questa o quella provincia. Si tratta, in questo caso, di uno spazio regionale che ha costruito in maniera prepotente il paesaggio contemporaneo e l’immagine che intende rappresentarne all’esterno.
Le ville romane come esempio concreto
Lo stesso ragionamento può esser fatto riguardo al fenomeno della villa romana di età tardo-repubblicana. In questo caso le nostre principali fonti per l’individuazione di ville romane sul terreno sono: la letteratura antica (Cicerone, Varrone ed altri), le iscrizioni, la toponomastica, lo studio delle immagini remote (aeree e satellitari) e così via, fino ad arrivare alla ricognizione archeologica. Da tutte queste fonti emerge con altrettanta prepotenza un paesaggio della villa romana che può esser cominciato prima (II secolo a.C.) in certe zone (Lazio, Campania settentrionale ed Etruria meridionale) rispetto ad altre ed essersi sviluppato più tardivamente ancora (I secolo a.C.) altrove (Puglia, Calabria) magari anche in maniera incompleta. Questo paesaggio segna con particolare vigore le regioni dell’Italia centrale tirrenica, lo scenario nel quale i relitti di quegli assetti sono ancora oggi percettibili malgrado tante e tanto profonde alterazioni e manomissioni. Le mutazioni del paesaggio della villa sono tali e tante che, anche all’interno della stessa regione storica, possono strutturarsi paesaggi assai differenti. La costa dell’Etruria meridionale compresa fra la foce del Tevere e il golfo di Talamone, per esempio, è molto ricca di ville romane e le piccole valli aperte verso il mare hanno ospitato decine di questi lussuosi edifici. A nord di Talamone, in corrispondenza con l’inizio del territorio di Roselle e di quella che comunemente viene chiamata Etruria settentrionale, le ville romane si rarefanno. A nord di Grosseto e del lago di Bolsena le ville romane sono poche in rapporto a quelle enormi estensioni di terreno e privilegiano soltanto alcuni specifici habitat, particolarmente attraenti.
L’importanza del paesaggio
Il concetto di “paesaggio” in archeologia può quindi essere strumento utile alla definizione e alla comprensione del dispiegarsi sul terreno di una particolare situazione storica (in questo caso la vocazione fondiaria delle aristocrazie senatorie) e delle tipologie processuali dai vari fenomeni seguite. Detto che esiste un certo tipo di paesaggio, occorrerà naturalmente tenere presente che possono esserci delle varianti fra il sistema della villa, configuratosi in maniera diversa nelle regioni centrali rispetto a quelle periferiche dell’Italia antica, più lontane da Roma. Non diversamente, prima dei paesaggi delle ville, altri se ne sono avuti, ora più ora meno complessi e articolati (si pensi alle frequentazioni di epoca etrusca) e lo stesso è accaduto dopo (i villaggi, i castelli, la mezzadria) fino ad arrivare all’industrializzazione e al paesaggio dell’agriturismo ancora sotto i nostri occhi. Non si intende qui per paesaggio una determinata situazione geografica, circoscritta, descritta da un pittore o da uno scrittore (saggi in De Seta 1982), sorgente dall’ispirazione e alla funzione che un determinato paesaggio deve svolgere nell’ambito della narrazione. Il paesaggio dell’artista serve dunque a sostenere l’ambientazione di vicende umane con le quali può avere un rapporto stretto e determinante oppure di pura coincidenza. Il paesaggio dell’arte cessa di essere contenitore di storia, prodotto di processi storici e rappresentazione scenica e diviene funzionale alle vicende che si vogliono rappresentare.
Il concetto di paesaggio
Nella geografia il concetto di paesaggio evoca immediatamente il libro di Emilio Sereni, edito nel 1976. Nel titolo del libro la parola “paesaggio”, al singolare, è seguita dall’attributo “agrario”, dall’autore visto non soltanto come immagine ma come esito di una serie di situazioni storiche, ovvero come convergenza degli eventi che fanno la storia di un comprensorio plasmandone la superficie, sommando, sottraendo, costruendo, distruggendo. In questo sta la novità. Per l’archeologo i paesaggi sono, o dovrebbero essere, complesse stratificazioni da leggere studiando un comprensorio in estensione. L’archeologia dei paesaggi ambisce a studiare i paesaggi stratificati di un comprensorio. La storia produce paesaggi, operando sui quadri ambientali naturali attraverso le azioni dell’uomo. Queste, strutture e infrastrutture necessarie alla vita, all’agire economico, culturale e spirituale, in maniera diversa e con diversa complessità si sovrappongono al substrato naturale e si inseriscono in un’eredità storica che va progressivamente arricchendosi, secondo un processo paragonabile alle trasformazioni inarrestabili del patrimonio genetico di un individuo, che continuano, anche dopo la sua morte, nelle generazioni successive.
L’impatto dell’uomo sul paesaggio
L’uomo che, per definizione, ha maggiore impatto sul paesaggio è l’uomo economico, che abita, produce, consuma, costruisce, coltiva, fabbrica, traffica. Questa visione contiene molte verità ma è incompleta, in quanto condizionata dal punto di osservazione dei moderni, che dal XVI secolo vivono un mondo profondamente segnato dalla grande avventura del capitalismo e dai suoi esiti nel XX secolo, fino ad arrivare all’epoca post-industriale. In realtà, il complesso gioco dei fattori che generano i paesaggi storici non può essere circoscritto alla sola economia. La tentazione economicistica e materialistica, rischiosa per i paesaggi del nostro tempo, diviene distorcente per i paesaggi antichi. In questo senso il concetto di “paesaggio” espresso da Sereni appare parziale, almeno da un punto di vista archeologico. I paesaggi possono infatti stratificarsi anche per cause diverse e per fattori non propriamente o non direttamente economici, come avviene nei casi di alcune importanti aree sacre dell’Italia antica, situate nei boschi o nei pressi di un villaggio di scarsa entità, talvolta marginali, se osservate dal punto di vista delle grandi città o delle grandi vie di comunicazione. In questi casi la marginalità si fa centralità e queste aree erano spesso i centri, religiosi, culturali e sociali, di ampi spazi geografici. Talvolta esse finivano per essere anche i centri di un potere istituzionale ed economico, mutuato attraverso i villaggi e gli abitati. In questa prospettiva, che si discosta dalla mentalità moderna e che si avvicina a quella antica, anche una montagna isolata diventava luogo centrale e spesso punto di tangenza dei confini fra territori diversi. I fenomeni di antropizzazione, meno marcati in senso materiale, procedevano attraverso i quadri ambientali naturali con forme di preservazione. Ancora in età romana, certi paesaggi sacri, esclusi dalle centuriazioni, non coltivati né popolati, erano al tempo stesso antropizzati in senso immateriale e quindi preservati. In questo modo il tema della definizione del paesaggio archeologico può essere reimpostato su basi più concrete.
La rilevanza economica di un comprensorio indica che la struttura del comprensorio è in grado di sostenere elevati livelli produttivi in determinati settori e che le potenzialità economiche possono attrarre forza lavoro e sono sfruttate in modo soddisfacente da gruppi umani e compagini sociali attrezzate per farlo. All’opposto, le aree sacre montane rappresentano casi tipici di paesaggi sorti per impulsi almeno entro certi limiti svincolati dall’economia oppure non direttamente legati ai fattori economici. Questo invito al superamento delle visioni troppo restrittive degli spazi geografici ha lo scopo di far emergere anche gli intrecci più nascosti fra le pieghe dei paesaggi antichi. Forse non esistono leggi che regolino i processi di formazione di un paesaggio o, forse, è preferibile ammettere che non sempre eventuali leggi possono essere individuate e interpretate. Sarà, in ogni caso, apprezzabile che sin dall’inizio vengano stabilite le regole del gioco, ovvero i principi che guideranno la ricerca. La prima regola da fissare dovrà descrivere le idee e i motivi che hanno ispirato la scelta del contesto. L’ambiente entra solo marginalmente in questo ragionamento. Si tratta, infatti, di un concetto quasi paradossale nell’ambito della archeologia dei paesaggi. In quanto formazione storica operante in uno spazio dato, il paesaggio è fattore di trasformazione profonda dell’ambiente naturale.
L’antropizzazione del paesaggio
Il concetto di ambiente antropizzato appare superfluo perché l’uomo con l’ambiente si è sempre dovuto misurare e l’ambiente (antropizzato) è comunque la somma di condizioni naturali e di condizioni storiche. Oggi tutte le zone della terra, in misura diversa, possono essere considerate “paesaggi” o somme di paesaggi diversi, non esistendo più aree del pianeta che possano essere considerate “naturali”. L’azione umana, oggi come nel passato, non si è mai limitata a grattare la superficie terrestre usandone limitatamente le risorse ma, anche quando è stata circoscritta nell’intensità e nella portata, ha innescato processi di trasformazione con effetti millenari e profondi. L’archeologo dei paesaggi si trova di fronte, più che a un ambiente naturale, ad una catena di ecofatti, o di componenti dei diversi paesaggi stratificati, variamente distribuiti nel tempo e nello spazio. Gli ambienti, anche quando appaiono naturali, sono comunque prodotti di processi storici di varia durata. Negli ecofatti si riflettono tracce e potenzialità ambientali che caratterizzano un determinato spazio geografico e che sono attrattori nei confronti gruppi umani e formazioni sociali: cave di pietra da costruzione o di argilla, distretti minerari, lagune pescose, valli favorevoli alla viticoltura. Anche gli ecofatti si intrecciano inestricabilmente con il paesaggio e con le sue sorti. Il concetto di paesaggio appare dunque, una volta di più, indispensabile non tanto nell’ambito della programmazione della ricerca, trattandosi di una definizione già fortemente interpretativa e non potendo prescindere da un’avanzata fase di raccolta dei dati, quanto nella rappresentazione finale, nella sintesi ultima della storia di un particolare spazio locale. La complessità dell’intreccio ha acquisito rilevanza con il nostro tempo e con le tensioni che lo attraversano. Solo fino a mezzo secolo fa, nessuno, o pochissime persone, nella politica, nell’economia e nella cultura, riuscivano a comprendere che la natura, l’ambiente, le stesse ricchezze paesaggistiche potessero esaurirsi. Il dibattito nelle scienze geografiche nel dopoguerra appariva concentrato in gran parte sui temi delle risorse e delle fonti di energia. La consapevolezza che le risorse primarie del pianeta fossero meno rinnovabili di quanto si pensasse si è fatta strada con il tempo e si è consolidata negli anni settanta del secolo scorso. Al tempo, un’altra definizione si è affermata, quella dei beni culturali, e quindi dei paesaggi, urbani e rurali che fossero, da considerare non soltanto come prodotti di processi storici di variabile durata, ma anche come beni, appunto, ovvero risorse (apparentemente) rinnovabili, da sfruttare e da far fruttare. La risorsa “paesistica” è divenuta un’attrattiva, in senso storico-culturale e naturale, che i diversi comprensori possono offrire, fonte di ricchezza per le comunità post-industriali. A pochi decenni di distanza anche questo tipo di approccio appare logoro, come appare dai nostri centri storici soffocati dai flussi turistici e dalle nostre coste e campagne, svendute e svilite nel nome delle denominazioni di origine controllata e del profitto senza scrupoli.
Roma Capitale-L’Open Studio Gallery presenta la mostra fotografica di Chiara Ricciotti-
Roma Capitale-L’Open Studio Gallery presenta la mostra fotografica di Chiara Ricciotti-
Roma Capitale-L’Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi è lieto di presentare la mostra fotografica di Chiara Ricciotti, talentuosa fotografa italiana che esplora con sensibilità i confini tra moda e ritratto in un percorso visivo suggestivo e profondo. La mostra raccoglie una serie di immagini che vanno oltre la semplice rappresentazione della moda, trattandola come un potente mezzo narrativo e di espressione.
Ogni scatto esposto esprime una visione della moda che trascende i canoni tradizionali, enfatizzando l’umanità del soggetto, il movimento e le emozioni. Con uno sguardo cinematografico e una spiccata estetica, Ricciotti combina rigore strutturale e spontaneità, catturando momenti intensi e autentici. Le ambientazioni si intrecciano armoniosamente con il mood delle fotografie, arricchendo la narrazione visiva e coinvolgendo profondamente lo spettatore.
Chiara Ricciotti, nata in Italia nel 1997, ha nutrito fin da giovane la sua passione per la fotografia. Dopo aver completato un Master sotto la guida di Patrizia Genovesi nel 2019 e aver maturato esperienza nel campo della moda e del ritratto, oggi è responsabile del laboratorio fotografico presso l’ACM – Accademia di Costume e Moda di Roma. Attualmente frequenta un Master in Fashion Photography presso l’ISFCI di Roma, continuando a perfezionare uno stile personale e intensamente emozionale, ispirato al cinema e alle persone che incontra.
Questa esposizione rappresenta un’opportunità unica per il pubblico di esplorare la moda come un viaggio emozionale e artistico, dove ogni immagine è concepita per suscitare emozioni e creare un dialogo visivo profondo. La Direzione Artistica è curata da Patrizia Genovesi.
Informazioni, orari e prezzi
Dettagli e Informazioni per il Pubblico
La mostra sarà aperta dal 1 al 20 dicembre 2024.
Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi in Via di Villa Belardi 18, Roma.
Inaugurazione 30 novembre 2024, ore 18:00 – su prenotazione
Orari di apertura: dal lunedì al venerdì, dalle ore 10:00 alle 19:00 su prenotazione
Per ulteriori informazioni e prenotazioni:
Email: openstudiogallery.pg@gmail.com www.patriziagenovesi.com
Instagram: @c_ricciotti
LinkedIn: Chiara Ricciotti
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