Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie-
Velletri-Sabato 22 e domenica 23 marzo si svolgerà a Velletri la 29° Festa delle Camelie e per l’occasione i Musei Civici di Velletri: Museo Archeologico O.Nardini, Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani e Area Archeologica delle SS. Stimmate, apriranno entrambi i giorni dalle ore 10.00 alle ore 19.00.
La giornata di sabato 22 inizierà alle ore 1o.30 con il laboratorio dedicato ai bambini dai 3 ai 5 anni Fiori tra i capelli, in cui i piccoli dopo una lettura animata sul tema dell’amicizia e dell’inclusione, creeranno un copricapo di fiori di carta da indossare durante la festa. Lo stesso si ripeterà domenica 23 alle ore 15.00 per bambini dai 6 anni in su.
Alle 12.00 sia di sabato 22 che di domenica 23 partirà una visita guidata all’Area Archeologica delle SS. Stimmate, mentre domenica 23 alle 18.00 accompagneremo i visitatori al Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani alla scoperta di fossili e di altre testimonianze ritrovate nel nostro territorioper raccontare la Preistoria; sabato 22 alle 15.00 ripeteremo un’esperienza che ha già avuto grande successo: In Con-Tatto con la Preistoria, una visita guidata tattile in cui i partecipanti grandi e piccoli, tutti bendati, potranno toccare fossili, rocce e altri oggetti risalenti a migliaia di anni fa.
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
I fiori raccontano sarà un itinerario nel Centro storico tra chiese, strade e musei che avrà come tappa sabato 22 la Chiesa di Santa Lucia V.M. mentre domenica 23 si fermerà alla Chiesa di Sant’Antonio Abate per cercare in entrambi gli itinerari i fiori nascosti negli angoli di Velletri.
Sabato 22 alle ore 16.00 il percorso partirà da Piazza Martiri di Pratolungo, dove si trova il Giardino delle camelie mentre domenica 23, per lo stesso orario, l’appuntamento sarà davanti alla fontana di Piazza Mazzini. La direttrice museale, Raffaella Silvestri, accoglierà i visitatori sia sabato che domenica alle ore 17.00 nell’iniziativa Il tè delle camelie. Tra le Metamorfosi di Ovidio e le rappresentazioni nell’arte per scoprire come i reperti esposti nel Museo Archeologico parlino di mitologia ancora oggi tra letteratura e arte.
Sabato 22 alle ore 18.00 all’Area archeologica delle SS.Stimmate verrà presentato il libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque, in presenza dell’autore Manlio Lilli e del Prof. Marco Nocca.
Domenica 23 alle 10.30 al Museo di Geopaleontologia e Preistoria e nella Sala Conferenze dei musei il pubblico adulto potrà imparare a preparare degli oleoliti con piante officinali spontanee che si trovano nelle aree naturali dei dintorni, sotto la guida di una biologa con specializzazione in botanica e abilitazione professionale. I prodotti realizzati saranno destinati ad un utilizzo ad uso topico per migliorare il benessere della pelle, dei capelli o come olio da massaggio. Tutto il materiale necessario verrà fornito insieme ad un taccuino per le ricette.
Alle ore 15.00 di domenica 23 partirà da Piazza Mazzini la Riproposizione della festa romana delle Floralia a cura del Gruppo Archeologico Veliterno A.p.s. E di Il Flauto Magico A.p.s. che si concluderà di fronte all’Area archeologica delle SS. Stimmate.
In occasione della Festa delle Camelie il biglietto di ingresso ai Musei sarà ridotto
(3,00 € per l’ingresso a un museo; 5,00 € per l’ingresso nei due musei; 1,00 € per l’ingresso all’Area archeologica).
Visite guidate e In Con-Tatto con la Preistoria
Durata: un’ora circa.
€ 4,00 a partecipante
Prenotazione consigliata
Itinerario I fiori raccontano
Durata: un’ora e mezza circa.
gratuito
Prenotazione obbligatoria.
Laboratorio Fiori tra I capelli
Durata: un’ora e mezza circa.
€ 3,00 a partecipante.
Prenotazione obbligatoria.
Il tè delle camelie
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Prenotazione consigliata
Preparazione di oleoliti e guida al riconoscimento di piante officinali
Durata: due ore circa.
€ 25,00: 1 persona; € 40,00: 2 persone
Itinerario Riproposizione della festa romana delle Floralia
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Presentazione del libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque
Durata: un’ora circa
Gratuito
Per informazioni e prenotazioni:
06 9615 8268 – 3441547465 – museicivicivelletri@gmail.com
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
L’inventore di libri Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo-Articolo di Alessandro Marzo Magno
L’inventore di libri Aldo Manuzio-Forse non lo sapete, ma il piccolo oggetto che avete in mano – così maneggevole, chiaramente stampato, dai caratteri eleganti, corredato da un frontespizio e da un indice – deve quasi tutto al genio di Aldo Manuzio, che cinque secoli fa ha rivoluzionato il modo di realizzare i libri e ha reso possibile il piacere di leggere. Benvenuti nel mondo del primo editore della storia.
Il libro – così come lo conosciamo ancora oggi – nasce a Venezia tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Padre di questa invenzione è Aldo Manuzio. Nato a nel Lazio, transitato per Ferrara e per Carpi, dov’era docente dei principi Pio, approda ormai quarantenne a Venezia. La città in quegli anni è l’indiscussa capitale europea della stampa e così il precettore si trasforma in editore. Pubblica inizialmente grammatiche e testi in greco necessari per apprendere la lingua classica. Poi i suoi orizzonti si allargano: nel 1501 dà vita a una vera e propria rivoluzione, quella del libro tascabile. Se prima si leggeva per necessità (e lo si faceva a voce alta), da quel momento leggere diventa un piacere a cui dedicarsi nel silenzio dell’intimità. E non finisce qui. Manuzio, con il suo amico Pietro Bembo, importa nel volgare italiano i segni di interpunzione che erano utilizzati soltanto nel greco antico: accenti, apostrofi, virgole uncinate e punto e virgola. Quando muore, nel 1515, il mondo del libro è definitivamente cambiato. Alessandro Marzo Magno ricostruisce le tappe di una straordinaria carriera, nell’unico posto al mondo dove sarebbe stata possibile: Venezia.
L’autore è Alessandro Marzo Magno,veneziano per nascita e milanese per lavoro, si è laureato in Storia all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Giornalista, dopo essere stato per quasi dieci anni responsabile degli esteri del settimanale “Diario”, dirige il semestrale “Ligabue Magazine” e scrive nella pagina culturale del “Gazzettino”. Ha pubblicato libri di argomento storico, tra i quali L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti 2012, più volte ristampato e tradotto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e cinese) e Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler (Garzanti 2017). Per Laterza è autore di L’inventore di libri. Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo (2020).
Edizione: 2020, III rist. 2021 Pagine: 224, ril. Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858141601 ISBN digitale: 9788858143636
L’inventore di libri Aldo Manuzio
Erasmo su Aldo-A chi con i libri lavora, di libri vive, i libri ama.
«È un’impresa erculea, per Ercole!»
Arthur Schopenhauer:”I libri sono compagni, insegnanti, maghi, banchieri dei tesori del mondo,i libri sono l’umanità stampata”.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
1.
Aldo è tra noi
Considerate quello che state facendo in questo preciso momento: avete in mano un libro e lo leggete. Con ogni probabilità siete seduti o distesi, e certamente in silenzio, ovvero non state compitando le parole a voce alta, come quando la maestra a scuola vi chiedeva di leggere per il resto della classe. State svolgendo quest’attività (leggere) perché vi dà piacere, oltre che accrescere il vostro patrimonio di conoscenze; anzi, è molto probabile che se non vi appagasse, trascurereste anche l’incremento del sapere.
L’oggetto che sta occupando la vostra attenzione è un parallelepipedo di carta del peso di qualche ettogrammo, maneggevole, dalle pagine stampate in un carattere elegante e chiaro, dove ogni tanto compare qua e là qualche parola in corsivo (per esempio i titoli dei libri, o le parole straniere). Il testo è reso più comprensibile da una serie di segni che chiamiamo di interpunzione: punti e virgola, virgole uncinate, apostrofi, accenti. Tali segni ci guidano nella lettura, ci indicano le pause nonché la loro gerarchia (il punto e virgola «vale» più della virgola), fondono tra loro due parole in modo da semplificarne la lettura, o indicano dove accentare la pronuncia, ancora una volta per facilitarci il compito.
È molto probabile che, una volta notato questo volume nello scaffale o sul bancone di una libreria, lo abbiate preso in mano sollevandone la copertina al fine di poterne guardare il frontespizio, leggerne titolo e sottotitolo e capire chi siano autore ed editore. Poi, se il titolo vi ha solleticato, avete girato qualche pagina per scorrerne l’indice e coglierne meglio il contenuto. Al che avete preso la decisione se riporlo o comprarlo, ma, visto che lo state leggendo, il libro deve aver superato l’esame e vi siete quindi avviati alla cassa.
Benvenuti nel mondo di Aldo, il primo editore della storia. Tutto quello che avete letto nelle righe appena scorse lo dovete a lui. In precedenza chi imprimeva libri era un semplice tipografo: sceglieva le opere da stampare sulla base del loro potenziale di vendita, ma senza un preciso progetto editoriale. L’attenzione alla qualità era minima, il numero dei refusi negli incunaboli – i «libri in culla», cioè stampati entro la fine del 1499 – ci parla ancor oggi di scarsa accuratezza, di composizioni tirate via, di bozze riviste senza troppo impegno. Con Manuzio cambia tutto: Aldo è davvero «l’inventore della professione dell’editore moderno, colui cioè che si avvicina ai libri avendo in mente un preciso e coerente programma culturale», come osserva Mario Infelise, storico dell’editoria e del libro all’università di Venezia, Ca’ Foscari. Manuzio ha fatto del libro «il più efficiente strumento per l’accumulo e la trasmissione delle conoscenze umane degli ultimi cinque secoli».
Lodovico Guicciardini è un nobile fiorentino che vive ad Anversa, discendente del più noto Francesco. Nel 1567 pubblica la Descrittione di tutti i Paesi Bassi, nella quale, nonostante fosse scomparso ormai da un cinquantennio, si ritrova a parlare di Aldo Manuzio, «il quale a giudizio d’ognuno […] ridusse veramente la stampa a perfettione, talché non si diceva, ne cercava altro, che la stampa d’Aldo perché era tanto pura e netta. Innanzi a Aldo […] non si trovava che grosse, goffe e scorrette impressioni senza vista e senza grazia, ma egli non perdonando nulla con ingegno, e con giuditio la polì, facilitò e ridusse (come io dico) a ordine e regola perfetta».
Aldo è un uomo colto, coltissimo: conversa fluentemente in greco antico, traduce a vista dal greco al latino e viceversa, ha studiato l’ebraico. Ha in mente un ben preciso progetto editoriale: stampare i classici greci in greco. Successivamente estenderà il suo programma ai classici in latino e ai testi in volgare. La più efficace enunciazione del programma aldino è quella di un umanesimo senza confini che, anni più tardi, farà dire ad Erasmo: «Anche se la sua biblioteca è chiusa dalle anguste pareti della casa, Aldo ha intenzione di costituire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso».
Aldo si era dato un piano che definire ambizioso è riduttivo: «Verrà pubblicato tutto ciò che merita d’esser letto». Non si esaurisce qui, però: Manuzio è anche un attento, attentissimo, imprenditore. Sarebbe esagerato dire che si metta a stampare per i soldi, ma di sicuro con la stampa guadagna denaro: riesce a garantire una discreta agiatezza a sé e ai suoi eredi. È il primo a unire i due aspetti che dovrebbero caratterizzare un editore anche ai giorni nostri: la conoscenza culturale e la capacità imprenditoriale. Prima dell’inizio della sua attività non ci sono notizie di rapporti tra eruditi e stampatori che fossero diversi da quelli commerciali.
Manuzio, in quanto studioso che già godeva di solida fama tra i dotti, ha fatto sì che si superassero pregiudizi e incomprensioni tra gli uomini di lettere e quelli d’affari: questo ha reso possibile la rivoluzione che ha investito il mondo della tipografia e quello della cultura.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
La nascita del libro
Ora facciamo un viaggio nel tempo e immaginiamo di essere in una bottega libraria del 1493, ovvero l’anno prima che Manuzio cominci a stampare: vedremmo libri privi di quasi tutte le caratteristiche che ci sono tanto familiari – le abbiamo elencate all’inizio – se non quella di essere costituiti da carta stampata con l’inchiostro. Se invece entrassimo in quella medesima bottega una ventina di anni più tardi, ad esempio nel 1515, ovvero quando Aldo Manuzio muore, ci ritroveremmo ad avere a che fare con un oggetto riconoscibile: un libro maneggevole e stampato in modo da essere leggibile ed elegante.
Al di là di carta e inchiostro, tutto quello che caratterizza un libro come lo conosciamo noi oggi lo dobbiamo ad Aldo Manuzio. Questo signore colto e raffinato ha messo in mano ai suoi contemporanei di mezzo millennio fa un oggetto che usiamo sostanzialmente immutato ancora ai nostri giorni. E la locuzione «mettere in mano», come vedremo nel capitolo sui libri tascabili, va intesa in senso letterale.
Con Manuzio nasce un libro nuovo e diverso in tutto; la sua pagina a stampa appare ai contemporanei talmente perfetta da non far più rimpiangere gli antichi codici manoscritti. I «buoni libri» di Aldo Manuzio decretano la fine dei codici: erano trascorsi oltre mille anni dal IV secolo d.C., da quando cioè i fogli rettangolari di pergamena legati fra loro avevano preso il posto dapprima appartenuto ai rotoli di papiro.
Vedremo più avanti come Aldo introduca il bisogno di leggere e la lettura per passatempo, ma diciamo subito che a tutto questo si accompagna pure l’idea dell’interpretazione del testo, del libero arbitrio, della libertà di opinione. Elementi che oggi ci appaiono scontati: si legge un libro e lo si giudica, si decreta se sia piaciuto o meno, se sia scorrevole, noioso, piacevole, avvincente e via così. Nel XV secolo, invece, le cose stavano assai diversamente. Gli scritti erano pubblicati assieme a tutto l’apparato dei commenti, dagli antichi ai moderni, gli stampatori si sforzavano di dare sempre almeno tre-quattro commenti, intrecciati tra loro a mosaico nei margini di grandi libri in formato in folio (ovvero i volumi nei quali i fogli di carta venivano piegati solo una volta, le cui dimensioni si aggiravano almeno sui 40×26 centimetri).
Si trattava quindi di una sorta di testo accompagnato da ipertesto che di fatto impediva di elaborare un giudizio: tutto quello che ci sarebbe stato da dire era già stato detto in precedenza dagli antichi sapienti; e chi mai avrebbe osato contraddirli. Aldo fa una scelta radicale: spoglia il testo, lo pubblica integrale, nudo, senza commenti che lo circondino e lo soffochino. Ognuno sarà libero di interpretarlo come preferisce. Manuzio mette definitivamente fine alla moda del testo incorniciato dalle spiegazioni.
La novità dev’essere prorompente agli occhi dei contemporanei, un po’ come – spostandoci nell’architettura – succederà una quarantina d’anni più tardi, quando Andrea Palladio al posto di edifici di mattoni rossi, pieni di pinnacoli e arzigogoli, comincerà a costruire fabbricati di pietra bianca, lisci e squadrati. La nudità dei testi imposta da Aldo doveva provocare un effetto simile a quello ispirato dall’essenzialità degli edifici voluta da Palladio. Già fermandosi qua sarebbe evidente la portata della rivoluzione aldina. Eppure c’è dell’altro. E che altro.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il marketing
Aldo Manuzio ha avuto l’accortezza di intuire il potere della promozione commerciale e, se non si temesse di esagerare nel dipingerlo a colori troppo brillanti, si potrebbe anche dire che è stato un autentico genio della vendita di se stesso e dei propri prodotti. Ha utilizzato i mezzi che aveva a disposizione, in particolare le dediche e le prefazioni. Ai nostri occhi la dedica di un libro può apparire superflua perché alla fin fine il libro di per sé – al di là del contenuto – oggi è un prodotto comune; entriamo in una libreria e vediamo volumi a migliaia, a decine di migliaia qualora la libreria sia grande; in una biblioteca ce ne possono addirittura essere milioni, svariati milioni in alcuni casi: la biblioteca del Congresso, a Washington DC, la maggiore del mondo, possiede 28 milioni di volumi. In tante case almeno una parete è ricoperta di libri e il costo di ogni singolo testo è, nella media, abbastanza contenuto e affrontabile dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Alla fine del Quattrocento, però, non era così: il libro a stampa era stato inventato una quarantina di anni prima, si trattava di una novità preziosa e ricercata, gli esemplari in circolazione erano pochi e costosi, se non costosissimi. Le dediche, quindi, servono ad Aldo per stabilire una relazione con i potenti ed è bravissimo a ottenere il risultato: nessun altro editore riuscirà a tessere una tela di rapporti a livello tanto alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo arriva a definire l’editore «familiare nostro»; Lucrezia Borgia sarà nominata sua esecutrice testamentaria e lo accoglierà a Ferrara durante la guerra di Cambrai; Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo Sforza, riceve un salterio greco con dedica. Il record delle dediche spetta ad Alberto Pio, principe di Carpi: Manuzio gli destina ben dodici edizioni (avremo modo di approfondire nelle pagine che seguono la lunga relazione tra i due).
Alla vigilia dell’erompere della guerra di Cambrai, che contrappone a Venezia una coalizione di potenze europee, quando ormai già si udivano tintinnare le spade, Manuzio intitola edizioni a importanti esponenti di entrambe le parti che si stavano per affrontare. Nel marzo 1509, due mesi prima della fatale – per i veneziani – battaglia di Agnadello, dedica un Plutarco a Jacopo Antiquari, già uomo di fiducia degli Sforza, e un Orazio a Jeffroy Charles, nobile francese originario di Saluzzo nonché presidente del senato milanese (salvo un’eccezione nel 1503, queste sono le uniche dediche aldine che riguardino Milano). Un mese dopo, nell’aprile 1509, a guerra ormai dichiarata, destina Sallustio a Bartolomeo d’Alviano, vicecomandante generale delle truppe veneziane: la sola volta, questa, che indirizza un’opera a un uomo d’arme. È evidente il desiderio di costruirsi benemerenze sui due fronti; utilizzando un linguaggio odierno le si potrebbe definire dediche bipartisan, senza pensare a termini più grevi.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il ruolo delle prefazioni
Le prefazioni costituiscono il testo più importante che Aldo ci abbia lasciato; quello dove, come qualcuno ha scritto, «alterna toni gravi ad altri ironici, sfodera qualche aneddoto e battuta, lancia strali ed elogi, riflette su di sé e sul mondo, e in tal modo ci cattura». Gli esordi diventano il mezzo per comunicare con i lettori, per ingraziarseli: «Sii clemente quando trovi qualche sbaglio», oppure «Per ora, mancando vasi d’oro e d’argento, accontentiamoci, come suol dirsi, di quelli di coccio». Le prefazioni costituiscono il manifesto ideologico aldino, il luogo dove Manuzio proclama la propria idea di conoscenza come bene comune: «Si impicchino» quelli che tengono i libri nascosti a casa, «d’animo così basso da affliggersi per un bene fornito a tutti». Aldo è un precursore: il concetto che la cultura debba essere a disposizione di chiunque si farà strada soltanto ai tempi della rivoluzione francese.
L’editore usa le prefazioni anche per creare l’effetto attesa: «Pubblicheremo altresì tutti i matematici» (1497), «Aspettatevi in breve un Dante» (1501). Inventa un modello di prologo affettuoso e diretto, dove affiora il valore dell’amicizia umana: «Il grande affetto che ti porto», scrive a Girolamo Aleandro (1504), cardinale e umanista originario di Motta di Livenza, nel Trevigiano. «Io vorrei poter sempre stare con te, vivere con te», dice a Marin Sanudo (1502), patrizio e autore dei Diarii. Si tratta di una cronaca giornaliera di Venezia cominciata nel 1496 e terminata nel 1533, tre anni prima della morte: 58 volumi in 37 anni, la più importante fonte storica della Venezia di fine XV e inizio XVI secolo. Lo incontreremo ancora, Sanudo, perché amico di Aldo e anche in quanto proprietario di una delle più importanti biblioteche cittadine dell’epoca.
La fama delle raccolte librarie veneziane del tempo è tale da richiamare visitatori di grande prestigio: nel 1490 arriva a Venezia Giano Lascaris, a caccia di codici greci per conto di Lorenzo de’ Medici. Lascaris visita le biblioteche di Ermolao Barbaro, erede dell’umanesimo avviato dal Petrarca e maestro della generazione di Erasmo; di Alessandro Benedetti, professore a Padova, che aveva trascorso quindici anni in Grecia, acquistandovi manoscritti di pregio; e pure quella di Gioachino Torriano, priore del convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo (lo stesso dove vive Francesco Colonna, il frate ritenuto autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, di cui diremo ampiamente), che aveva acquistato manoscritti provenienti dalla biblioteca di Mattia Corvino, il sovrano ungherese morto nel 1490. Anche i codici di Bessarione vengono dal 1494 provvisoriamente depositati a San Zanipòlo, come i veneziani chiamano i santi Giovanni e Paolo, e Torriano sarebbe stato molto contento di trasformare da temporaneo a definitivo il deposito del fondo nella propria biblioteca. Il cardinale Bessarione è il dotto umanista greco che nel 1468, quattro anni prima della morte, dona alla repubblica di Venezia i manoscritti bizantini che costituiscono il nucleo fondativo dell’attuale Biblioteca nazionale Marciana.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il catalogo
Oggi ci appare tutto sommato ovvio consultare il catalogo di una casa editrice, ma anche di questo dobbiamo essere grati a Manuzio. Aldo pubblica il primo elenco di edizioni nel 1498 e vi enumera soltanto le opere greche – in quel momento evidentemente costituivano quel che davvero gli interessasse – salvo sporadiche eccezioni, tra le quali il De Aetna che con ogni probabilità aveva stampato per amicizia e gratitudine verso l’autore, Pietro Bembo, o le composizioni latine di un altro amico, Angelo Poliziano, impresse in un massiccio in folio che riunisce gli scritti inediti dell’umanista fiorentino. Sono presenti quindici titoli ripartiti in otto sezioni tematiche; la più affollata è quella delle grammatiche, con cinque opere.
Il secondo catalogo, del giugno 1503, distingue tra libri greci, latini e «portatili in forma di enchiridio», ossia i tascabili (che vedremo più avanti); il terzo e ultimo risale al novembre 1513 e non contiene, come invece i precedenti, l’annuncio di futuri libri. I primi due cataloghi riportano anche i prezzi minimi: non sappiamo se i cartolai – i rivenditori di libri – li rispettassero o se invece vendessero i volumi più cari. Un indizio tuttavia ci arriva da Siviglia, grazie alla biblioteca di Fernando Colombo, figlio di Cristoforo, diventata una delle più importanti della prima metà del XVI secolo in virtù dei 15 mila libri che conteneva.
Colombo junior doveva essere pignolo, infatti per la maggior parte delle opere ha annotato data, luogo e prezzo dell’acquisto, con il costo sempre convertito in moneta spagnola, cosa che ci rende possibili i raffronti. Delle ventisei aldine comperate in luoghi diversi, quattordici registrano il medesimo costo annotato nei cataloghi manuziani, di dieci conosciamo soltanto il prezzo pagato da Colombo, di due non abbiamo informazioni.
Un’ulteriore idea ce la possiamo fare anche utilizzando il Zornale di Francesco de Madiis, ovvero il resoconto quotidiano della vendita in una bottega veneziana di 25 mila libri tra il maggio 1484 e il gennaio 1488, ognuno registrato con titolo e prezzo. Il manoscritto, un documento di eccezionale valore, è conservato nella biblioteca Marciana. L’elenco termina sei anni prima che Manuzio cominci a stampare e si riferisce a volumi molto diversi fra loro, ma gli studiosi di storia del libro hanno calcolato il costo per singolo foglio stampato in modo da ottenere un valore coerente.
Visto che in quei tempi i prezzi avevano andamenti piuttosto stabili, è possibile effettuare un comparazione tra il costo per foglio delle aldine e delle edizioni del Zornale. Quest’ultimo oscilla tra i 5 e i 10 denari, con punte più alte in caso di formati che utilizzano carta più pregiata. Il costo per foglio delle aldine di grande formato è simile; aumenta invece vertiginosamente nel caso dei tascabili: quelli stampati in greco sono ovviamente più cari e vanno dai 20 agli oltre 30 denari a foglio, mentre nel caso del latino e del volgare italiano si va dagli 11 agli oltre 13 denari a foglio. Questo smentisce una volta per tutte il mito – più volte ripetuto in vari studi del passato – che i tascabili di Aldo fossero a buon mercato, anche se, ovviamente, un volumetto di qualche decina di fogli aveva un costo unitario di molto inferiore rispetto a un volumone composto da centinaia di carte. In ogni caso possiamo concludere che Manuzio sapeva fare assai bene i conti e che le sue edizioni mantenevano una buona valutazione, anche a distanza di anni dall’uscita, cosa non sempre riscontrabile con le opere stampate da altri editori.
L’indice
Ora veniamo a un’ulteriore eredità aldina, a un altro elemento che ai nostri giorni appare connaturato al libro stesso, ma che nei tempi in cui stava nascendo l’editoria moderna non lo era affatto: l’indice. Gli incunaboli non l’avevano e neppure avevano le pagine numerate; al massimo, ma non sempre, erano numerate le carte, o fogli, tanto che oggi per orizzontarci siamo costretti a distinguerle in r (recto) e v (verso). Ci si arrangiava con il fai da te: ognuno, qualora ne sentisse il bisogno, apponeva a mano i numeri ai fogli e si autocompilava un indice di ciò che lo interessava. Poliziano, tanto per fare un nome significativo, era uno di quelli che si facevano gli indici da soli.
Manuzio – mai dimenticarlo – era un maestro e per chi insegna è importante poter individuare un punto preciso all’interno della massa del testo. La stampa, poi, introduce nuove e sconosciute problematiche: gli errori di stampa, tanto per dirne una. Lo sbaglio nella trascrizione commesso da un copista veniva perpetuato nei manoscritti successivi, spesso senza possibilità di riscontro. Un refuso, invece, si moltiplica subito per le centinaia di copie della tiratura. Gli stampatori del rinascimento, quando scoprivano errori in fase di stampa, invece di correggere i fogli difettosi – la carta era costosa – si accontentavano di ritoccare gli esemplari successivi, con il risultato che le copie differiscono in numerosi particolari. In qualche caso l’omissione di parole poteva essere sanata con una correzione a mano in ciascuna copia: alcuni volumi dei Salmi, editi attorno al 1498 sono stati corretti così, probabilmente dallo stesso Aldo. Più in generale interviene una nuova esigenza: fornire una lista di errata con le relative correzioni, nonché con l’esatto punto del libro in cui inserirle; e l’indice, ovviamente, aiuta.
Comprensibile, quindi, quale importanza avessero le errata, e Aldo già nel primo volume che stampa, una grammatica greca (Erotemata, 1495), aggiunge alla fine un foglio di errata. Si capisce subito dove voglia andare a parare: inizia ora una serie di tentativi, di esperimenti di indicizzazione che proseguiranno per tutto il ventennio di attività.
L’indicazione di Manuzio contiene una novità rispetto alle errata che l’avevano preceduta: rinvia alla riga precisa dove apporre la correzione. Il sistema di rimandi risulta in ogni caso complicato perché le pagine sono prive di numero. Ed ecco che nel 1499 Aldo, per la prima volta, inserisce una rivoluzionaria numerazione per pagina. Per pagina, non per carte: in questo modo ogni singola facciata del foglio porta il numero che la contraddistingue. L’innovazione riguarda un enorme in folio di 642 pagine, non a caso un repertorio della lingua latina (Cornucopiae, di Niccolò Perotti). Manuzio aggiunge anche una numerazione riga per riga, cosicché nell’indice riporta due numeri: il primo rimanda alla pagina, il secondo alla riga. Un sistema molto più efficace e preciso rispetto a quello che utilizziamo noi oggi, anche se ovviamente più macchinoso (e costoso).
Aldo si rende ben conto dell’enorme portata del mutamento e infatti lo annuncia orgogliosamente nel frontespizio, chiamandolo «indice abbondantissimo». Grazie a tale sistema si riesce a individuare con un semplice sguardo il punto cercato, non occorre contare una per una né le pagine né le righe. L’editore fornisce anche le istruzioni: «Abbiamo fatto allestire l’indice unendo insieme il greco e il latino. Ma non ti sfugga, lettore carissimo, che puoi separare del tutto agevolmente il latino dal greco a tuo piacimento».
La novità, tuttavia, non viene usata in maniera continuativa, per esempio le prime edizioni tascabili non presentano le pagine numerate, tanto che parecchie copie giunte fino a noi riportano i numeri aggiunti a mano dai rispettivi proprietari. Aldo numera più spesso le edizioni greche rispetto a quelle latine o volgari, talvolta usa cifre arabe, talaltra romane; in alcuni casi elabora indici assai macchinosi, come quello degli Adagia di Erasmo che l’autore ritiene necessario riformulare e semplificare nelle edizioni successive, stampate a Basilea. Soltanto dal 1509 la numerazione per pagina viene inserita con regolarità, anche nei tascabili, sebbene alcune edizioni continuino a essere numerate soltanto per carta. Quello che per Aldo resta un continuo sperimentare, per i successori diventa una regola da seguire fedelmente: in tal modo è stato compiuto un ulteriore, decisivo, passo verso il libro moderno. Anche il frontespizio, sperimentato a Venezia dal tipografo tedesco Erhard Ratdolt, diventa una presenza regolare nei libri impressi nell’officina aldina.
A questo punto dovrebbe essere chiara la portata della rivoluzione manuziana e quale sia stata la sua impronta in grado di segnare per sempre il mondo del libro. In qualche modo siamo tutti figli di Aldo, anche se spesso a nostra insaputa. Nei prossimi capitoli entreremo maggiormente nei dettagli di questa rivoluzione, ma prima dobbiamo renderci conto che un cambiamento di tale portata sarebbe potuto avvenire nell’Europa del rinascimento soltanto in un luogo: Venezia.
La capitale del libro
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia e a Venezia comincia a stampare. Non conosciamo le ragioni che lo abbiano spinto né all’una né all’altra scelta, ma sappiamo benissimo che soltanto lì sarebbe potuto diventare il primo editore della storia. La Serenissima signoria è una repubblica e quindi Venezia è l’unica capitale europea priva di una corte, con tutte le sue limitazioni; inoltre è la città che trasforma il sapere in un prodotto commerciale non diverso da un sacco di pepe, come rileva acidamente un umanista che certo non la amava.
Prima della fine del XV secolo nella Dominante – così veniva chiamata la capitale dello stato veneziano – sono attivi dai 150 ai 200 torchi che stampano in quel periodo il 15 per cento dei titoli impressi nell’intera Europa (4500 su 30 mila), con tirature che variano da un centinaio alle duemila copie. La percentuale sarà destinata a salire fino ad arrivare a quasi la metà dei titoli europei. Nel sessantennio che trascorre dal 1465, anno dell’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, al 1525, a Venezia si stampa la metà dei libri italiani; dal 1525 al 1550 si arriva ai tre quarti, dal 1550 al 1575 a due terzi. La crescita è talmente impetuosa da far dire a Erasmo che è più facile diventare stampatore che fornaio, ma non può mancare pure il solito lamentoso, un tipografo che se la prende per «la perfida rabia de la concorrentia consueta fra questa miserabil arte».
Vittore Branca, filologo e per tanti anni docente di letteratura italiana a Padova, scriveva che «le tipografie rendono Venezia il carrefour della cultura umanistica europea e le fanno aprire la prodigiosa “via del libro”, quasi a sostituire – almeno in parte – la ormai disastrata “via delle spezie” (fra il 1469 e il 1501 vengono impressi circa due milioni di volumi, soprattutto riguardanti le umanità)». Le quattromila edizioni di incunaboli che vedono la luce a Venezia entro la fine del XV secolo sono il doppio di quelle parigine; nel biennio 1495-1497 – ovvero quando Aldo aveva già aperto la propria tipografia – si stampano in Europa 1821 opere: 447 provengono da Venezia, mentre solo 181 da Parigi, che si colloca in questa classifica al secondo posto.
A permettere l’esplosione dell’attività editoriale è paradossalmente proprio la morte di chi ha introdotto nel 1469 la stampa a Venezia, ovvero il tedesco Giovanni da Spira (o meglio, se vogliamo rendere onore ai suoi natali, Johannes von Speyer). Un anno dopo aver stampato il secondo libro, Plinio, e mentre sta preparando il terzo, sant’Agostino, muore. Il lavoro viene terminato dal fratello Vindelino, ma scomparso Giovanni non è più valido il privilegio che gli accordava il monopolio dell’esercizio della tipografia: da quel momento in poi chiunque lo voglia può mettersi a stampare. Così accade.
Nella prima metà del Cinquecento la Dominante è sì l’indiscussa capitale europea della produzione editoriale, ma contemporaneamente anche un primario centro di consumo: possiedono libri il 15 per cento dei nuclei familiari, i due terzi del clero, il 40 per cento dei borghesi, il 23 per cento dei nobili, il 5 per cento dei popolani; vi si ritrovano alcune delle biblioteche più importanti dell’epoca: il cardinale Domenico Grimani possiede 15 mila volumi, Marin Sanudo 6500; Ermolao Barbaro, bandito da Venezia nel 1491 dopo aver accettato il patriarcato di Aquileia e morto nel 1493, aveva radunato la più ricca tra le numerose biblioteche greche. Non basta: nel 1537 Jacopo Sansovino comincia i lavori per realizzare la Pubblica libreria, ovvero la prima biblioteca statale pubblica (nel senso che viene concepita non come raccolta riservata, ma per essere usufruita dal pubblico), destinata a diventare l’attuale Marciana.
Questa esplosione dell’editoria avviene per un insieme di motivi che vanno dall’ampia liquidità finanziaria a coraggiose scelte commerciali, dalla libertà di stampa a quello che oggi chiameremmo «risorse umane». Nella seconda metà del XV secolo si liberano capitali: i patrizi smettono di investire nel commercio internazionale e si rivolgono altrove, in primo luogo all’acquisto di appezzamenti agricoli nella neoacquisita terraferma veneta, ma non disdegnano di finanziare attività produttive, e fra queste si ritrova anche l’editoria.
Stampare libri è un’impresa ad alta intensità di capitale, soprattutto a causa del notevole costo dei metalli necessari a realizzare i punzoni (acciaio) e i caratteri (lega di piombo, stagno e antimonio). I libri sono beni che viaggiano assieme agli altri lungo le direttrici commerciali che la repubblica aveva già da tempo stabilito e quei traffici sono molto intensi poiché a Venezia si stampa in una molteplicità di lingue.
Approfittando del contrasto tra la Serenissima e il pontefice, e dell’assenza per alcuni decenni dell’Inquisizione romana, le tipografie della Dominante imprimono anche libri – in anni successivi al capostipite dei Manuzio – invisi alle gerarchie ecclesiastiche: testi dei riformati tedeschi e boemi, il primo libro pornografico della storia (Pietro Aretino, Sonetti lussuriosi, 1527), il Talmud che, non a caso, sarà protagonista del primo grande rogo di libri in piazza San Marco, nell’ottobre 1553, comunicato in tempo reale a papa Giulio III dal nunzio apostolico, Lodovico Beccadelli: «Questa mattina s’è fatto un buon fuoco su la piazza di San Marco». A Venezia, infine, si ritrova al completo tutta quella che oggi si definirebbe «filiera del libro»: incisori, rilegatori, inchiostratori, torcolieri, studenti dell’università di Padova disponibili a correggere bozze e, soprattutto, si ha grande disponibilità di carta.
Per produrre carta c’è bisogno di tanta acqua dolce, corrente e pulita (altrimenti la carta vien fuori giallastra), e ovviamente non la si poteva fabbricare in città, ma lo si faceva nello stato da tera: lungo i fiumi Brenta e Piave, nonché sul lago di Garda, e quegli stessi fiumi venivano anche utilizzati come arterie di trasporto per trasferire la medesima carta che avevano contribuito a generare.
A determinare l’alta domanda di libri contribuiscono in maniera decisiva il vicino ateneo di Padova, dove i sudditi della Serenissima sono obbligati a studiare qualora vogliano laurearsi, e le due scuole pubbliche veneziane, dove si formano i giovani destinati all’amministrazione dello Stato, siano patrizi oppure appartenenti all’ordine intermedio dei cittadini, che forniva la burocrazia statale. Si tratta della scuola di San Marco, dove si approfondiscono gli studi umanistici e morali, e della scuola di Rialto, di indirizzo filosofico, naturalistico e matematico.
Gli stranieri
Nel Quattrocento il centro della vendita dei manoscritti era stato Firenze. La città toscana era anche il cuore finanziario dell’Italia rinascimentale, quindi, in teoria, ci sarebbe dovuta essere più disponibilità di capitali in riva all’Arno che sulle sponde del Canal Grande. Ma Firenze era sempre rimasta una città di fiorentini, al massimo di toscani. Venezia invece era da tempo diventata una città di stranieri. A parte i patrizi, che per forza di cose erano locali, la Dominante ospitava un gran numero di immigrati. Non a caso Girolamo Priuli, cronista dei primi anni del Cinquecento, scriveva che in piazza San Marco si vedevano i nobili incaricati del governo, mentre «tuto il resto herano forestieri et pochissimi venetiani». Persino in un mestiere tradizionale come quello del gondoliere, i veneziani assommavano appena alla metà dei nomi presenti in un elenco di fine XV secolo: gli altri barcaioli provenivano dalla terraferma (molti dalla sponda bresciana del lago di Garda) o dalla Dalmazia.
Il settore editoriale non fa eccezione: quasi tutti gli stampatori, in questo periodo, sono immigrati, sia dall’Italia – Aldo Manuzio tra loro – sia dall’estero, come il già nominato tedesco Giovanni da Spira o il francese Nicolas Jenson, che gli succede. Tra l’altro, a conferma del prestigio e dell’agiatezza che dà la professione di stampatore, Giovanni da Spira sposa madonna Paola, figlia di Antonello da Messina, che era uno dei pittori più affermati e famosi dell’epoca.
In città sono presenti comunità strutturate, alcune di queste lo sono ancora ai nostri giorni, con propri luoghi di culto e confraternite: greci, armeni, ebrei, tedeschi, dalmati. Questo significa che nella Venezia quattro-cinquecentesca si possono trovare colti madrelingua in grado di comporre e correggere testi in quasi tutti gli idiomi all’epoca più diffusi, e questo spiega perché qui si stampi il primo libro in greco (1486), in armeno (1512), in cirillico bosniaco (1512), il secondo in glagolitico, l’antico alfabeto croato (1491), il terzo libro in ceco (1506). Dai torchi veneziani escono inoltre la prima Bibbia in volgare italiano (1471), la prima Bibbia rabbinica (1517), il primo Corano in arabo (1538), la prima traduzione del Corano in italiano (1547). La città rimane per secoli il centro mondiale della stampa greca, ebraica, serba, caramanlidica (lingua turca scritta con caratteri greci, oggi scomparsa), nonché armena, in quest’ultimo caso addirittura fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e all’indipendenza della repubblica d’Armenia, nel 1990.
Questa è la Venezia dove approda Aldo Manuzio prima di iniziare la sua avventura di stampatore. Ha scritto Cesare De Michelis, editore veneziano scomparso nel 2018: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti l’uno per l’altra e si incontrarono, anche se la storia del loro rapporto è tutt’altro che idillica, anzi appassionante e ricca di colpi di scena, esaltata e disperante, in perenne tensione».
Ora facciamo gli indiscreti, e andiamo a scoprirla, quella storia d’amore.
2.
La formazione di un umanista
Bassiano è uno splendido borgo medievale del Lazio, sui monti Lepini, a un’ottantina di chilometri a sud di Roma. In quella zona transita la via Appia e oggi Bassiano si trova in provincia di Latina. Nel passato faceva però parte del ducato di Sermoneta, retto dai Caetani; Roffredo, l’ultimo discendente di quel ramo della nobile famiglia, è morto nel 1961. Bonifacio VIII, il papa scaraventato all’inferno da Dante Alighieri, era un Caetani.
Il castello dei duchi è a Sermoneta, ma d’estate i Caetani, che di loro sarebbero stati principi, se ne andavano in quel di Bassiano, e il perché è presto detto: il paese si trova a 560 metri di altitudine, tutto circondato da alture; la sera si gode un bel fresco, ma, soprattutto, sta fuori dal raggio di azione delle pericolose zanzare anofeli, portatrici di malaria. I principi non vivevano proprio in un castello, ma in un massiccio palazzone, che faceva comunque una gran figura, e oggi è sede del municipio. Proprio negli anni in cui il suo figlio più illustre, Aldo Manuzio, faceva l’editore a Venezia, Bassiano passa sotto il controllo dei Borgia per un quinquennio, dal 1499 al 1504, ma poi tornano i Caetani, che lo governano ininterrottamente fino a inizio Ottocento.
Sermoneta è pure un bel posto, la sua cattedrale romanica costituisce un autentico gioiello, ma si trova più in basso rispetto a Bassiano, 230 metri sul livello del mare, e si affaccia direttamente sulla pianura pontina. Oggi lo sguardo arriva ad abbracciare il mare, giù fino ad Anzio e Nettuno, e qualche anziano si ricorda ancora la luminosa e tersa giornata del 22 gennaio 1944, quando la superficie marina spumeggiava per le scie dei mezzi da sbarco alleati. Per secoli, però, quella piana era stata tutta palude, e d’estate le anofeli potevano raggiungere anche la coreografica Sermoneta, mentre Bassiano ne rimaneva esente.
Un tempo il portone di Palazzo Caetani costituiva l’unico accesso all’abitato di Bassiano, interamente circondato da mura trecentesche sorvegliate da dieci torrioni. Mura che sono state forate in tempi più recenti per fare spazio a tre porte cittadine. Le strade, selciate in porfido, hanno un andamento a spirale, gli edifici, oggi purtroppo in gran parte abbandonati, conservano quasi tutti l’originario aspetto medievale; alcuni stretti vicoli – il più angusto di tutti si chiama Baciadonne, un nome un programma – tagliano longitudinalmente l’abitato congiungendone i vari livelli. Da Bassiano non si scorge la pianura, mentre un fianco dell’abitato è dominato dal monte Semprevisa che, con i suoi 1536 metri, è il più alto dei Lepini.
Qui, attorno al 1450, nasce Aldo Manuzio. Una lapide indica oggi la sua casa. Peccato che sia un «tarocco»: l’edificio risale al Sei-Settecento e quindi di sicuro il futuro editore non può essere nato lì. La casa dei Manuzio quasi certamente esiste ancora, poiché il borgo è sopravvissuto intatto, ma non abbiamo idea di quale possa essere.
Sappiamo pochissimo della famiglia di Aldo e niente della sua infanzia. Un atto rogato dal notaio Antonio Tuzi il 30 dicembre 1449 ci dice che tal Paolo di Manduzio di Bassiano vende un appezzamento di terra all’ebreo Abramo di Mosè. Nel più antico manoscritto aldino che ci sia pervenuto, un documento redatto tra il 1480 e il 1486, conservato nella biblioteca Querini Stampalia di Venezia, compare la firma Aldus Manducius (nella forma al genitivo Alti Manducii). Nessun dubbio, quindi, che proprio quello fosse il cognome originario dell’umanista, che in seguito si firmerà Mannuccius, quindi Manucius (dal 1493) e infine Manutius (dal 1497). Il padre di Aldo si chiamava Antonio e aveva alcune sorelle, ma altro non ci è dato conoscere.
A Roma
Si può presumere che la famiglia fosse relativamente benestante, se aveva terreni da vendere, ma non possiamo sapere se potesse anche permettersi di mantenere agli studi un figlio a Roma, o se invece siano stati i Caetani a prendersi cura del giovane Manuzio. Il nipote Aldo junior, un secolo più tardi, ricorderà i rapporti di deferenza che legavano il nonno alla famiglia principesca e d’altra parte non era poi inusuale che i signori di un determinato luogo facessero studiare a proprie spese i ragazzini più svegli.
Sicuro, invece, che Aldo studiasse a Roma all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento, poiché il suo insegnante Gaspare da Verona, docente di retorica alla Sapienza, si trasferisce a Viterbo nel 1474. Un altro suo maestro – è Aldo a rivelarlo in una delle prefazioni – è l’umanista Domizio Calderini, nativo di Torri del Benaco, segretario di papa Sisto IV. Curioso che entrambi i maestri romani di Aldo fossero originari del Veronese.
Calderini fa parte della cerchia del già citato cardinale Bessarione e lo accompagna in un viaggio in Francia, proprio mentre il prelato sta lavorando a un’edizione che sarà pubblicata postuma da Arnold Pannartz e Conrad Sweinheim. Due nomi celebri, questi, poiché appartengono ai chierici tedeschi – Pannartz era un praghese di lingua tedesca, Sweinheim proveniva dall’Assia – che nel 1465 avevano importato la stampa a caratteri mobili in Italia, impiantando una tipografia nel monastero benedettino di Santa Scolastica, a Subiaco, vicino a Roma. Anche Gaspare da Verona conosce l’attività dei due tipografi, visto che li nomina già nel 1467, ovvero quando erano arrivati a Subiaco da due anni soltanto.
L’introduzione della stampa in Italia faceva parlare di sé ed è probabile che a Roma la nuova attività costituisse oggetto d’attenzione e di meraviglia, ma non si sa se già in questi anni Manuzio fosse entrato in contatto con il mondo della tipografia, se avesse avuto modo di osservare le neonate edizioni a stampa, o se il suo sia stato invece un innamoramento tardivo. Aldo per molti anni rimane prima di tutto un maestro e solo in un secondo tempo diventa uno stampatore, quando, ormai quarantenne, concepisce l’attività di tipografo come mezzo per darsi i migliori strumenti di insegnamento del greco: grammatiche e testi di lettura. Non possiamo davvero capire se già una ventina di anni prima avesse intuito le potenzialità della stampa.
Non è certo nemmeno se, dopo aver appreso il latino, a Roma cominci da subito a studiare anche il greco antico, lingua che in seguito apprenderà benissimo, tanto da poterla parlare e tradurre a vista, come abbiamo già ricordato. Certamente nella città papale Manuzio stringe amicizia con l’umanista pistoiese Scipione Forteguerri, detto il Carteromaco, che diventerà un suo stretto collaboratore e al quale dedicherà un’edizione nel 1501. Lo ritroveremo, anche perché sarà uno dei fondatori dell’Accademia aldina.
Il periodo romano di Manuzio rimane molto oscuro, così come quello della sua infanzia e adolescenza. L’unica cosa certa è che dopo pochi anni se ne va. Non conosciamo esattamente né quando né perché, qualcuno ipotizza che possa aver abbandonato Roma a causa della peste del 1478, ma non c’è alcun indizio in grado di trasformare l’illazione in affermazione.
A Ferrara
In realtà Aldo si trova a Ferrara già dal 1475, ma non è possibile stabilire se si fosse trasferito o se si trattasse di una pausa temporanea dal soggiorno romano. Nella città di Ercole I d’Este, umanista e munifico mecenate del rinascimento, Manuzio apprende, o approfondisce, il greco antico con Battista Guarino, figlio di quel Guarino Veronese (ecco che torna ancora una volta Verona) che aveva imparato il greco a Costantinopoli prima della conquista ottomana del 1453 ed era stato precettore alla corte estense. L’incontro con Battista Guarino è senz’altro importante, visto che Aldo nel 1495 dedicherà l’edizione di Teocrito al suo maestro di una ventina d’anni prima. Se Manuzio fosse arrivato a Ferrara conoscendo o meno il greco rimane oggetto di disputa tra gli studiosi, mentre è sicuro che quando se ne va lo parla e lo legge fluentemente.
C’è dell’altro, in ogni caso: a Ferrara incontra un compagno di studi che gli cambierà la vita: Giovanni Pico della Mirandola. Il nobiluomo umanista, evidentemente aiutato dalla sua proverbiale memoria, padroneggia sei lingue, tra antiche e moderne, e ora si sta dedicando a perfezionare il greco. Sua sorella Caterina è moglie – e dal 1477 vedova – del signore di Carpi; nel 1484 sposerà Rodolfo Gonzaga, signore di Luzzara e figlio del marchese di Mantova (i Gonzaga diventeranno duchi soltanto nel 1530).
Ora una piccola digressione: in quest’area tra Emilia e Lombardia e nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo si ritrovano alcune corti medie o piccole che intrattengono relazioni strette l’una con l’altra. I Gonzaga di Mantova, i Pio di Carpi, i Pico di Mirandola, gli Este di Ferrara si imparentano fra loro e sfruttano quelle che oggi si chiamerebbero economie di scala, facendo arrivare artisti, musicisti, precettori che si spostano da una città all’altra. Aggiungiamo che Carpi e Mirandola sono signorie troppo piccole per potersi considerare del tutto sicure dalle mire dei vicini e quindi cercano di appoggiarsi agli stati più potenti e influenti.
Negli anni di cui ci stiamo occupando la potenza che stende sull’area l’ombra della propria egemonia, quella che suscita timori e apprensioni, e di conseguenza la potenza da battere, è senza dubbio la repubblica di Venezia. Non a caso, quando sarà sconfitta, il principe Alberto Pio si rivolgerà sia all’impero, sia alla Francia, sia al papato, finendo per rimetterci il trono in un gioco triangolare più grande di lui. Aldo Manuzio – lo vedremo – si muove all’interno di quest’ambito, concedendosi tutt’al più un paio di digressioni verso Milano. Di certo sviluppa una sorta di rapporto d’affetto con Ferrara (trasporto che invece mai proverà per Venezia), visto che nel suo primo testamento consiglia la giovane moglie, sposata appena un anno prima, di trovarsi un nuovo marito nella città degli Este, qualora non dovesse tornare dal viaggio. Tutto questo ci racconta tra l’altro quanto al tempo fossero considerati pericolosi i viaggi: così tanto da indurre a far testamento prima di partire.
Aggiungiamo un ulteriore elemento per comprendere meglio gli intrecci di questa zona dell’Italia rinascimentale: Alberto Pio sposa prima una Gonzaga e poi una Orsini; dalla seconda moglie ha due figlie, una delle quali, di nome Caterina come la nonna, si coniuga con un Caetani. Questo indizio ci permette di ipotizzare che sussistesse un qualche nesso tra i duchi di Sermoneta e i signori di Carpi e che, quindi, il legame di Aldo Manuzio con la piccola corte emiliana possa essere passato anche attraverso i Caetani. Non lo sappiamo, ma le relazioni tra le famiglie esistevano e quindi l’eventualità è quantomeno verosimile.
A Carpi
Caterina Pico è una donna di notevole cultura: nel corredo per le nozze con Lionello I Pio di Savoia sono presenti, oltre ai consueti gioielli, argenti e biancheria, anche codici manoscritti e testi di autori classici, come Virgilio e le epistole di Cicerone (queste ultime sono pure il primo testo stampato a Venezia, nel 1469, da Giovanni da Spira: tutto si tiene in questo scorcio del rinascimento).
Quando il principe di Carpi muore, lascia alla vedova una notevole somma affinché realizzi una biblioteca. È proprio Caterina, con ogni probabilità su consiglio del fratello Giovanni, a chiamare Aldo Manuzio perché faccia da precettore ai due figli, Alberto e Lionello, di cinque e tre anni. Un atto notarile conservato negli archivi carpigiani ci dice che l’8 marzo 1480 Aldo ottiene l’incarico di insegnamento a corte, nonché la cittadinanza con esenzione fiscale. Pochi mesi dopo, il 5 agosto, il «magistro Aldo Manutio de Bassiano» risulta proprietario di «unum caxamentum» che affaccia sull’attuale corso Cabassi (identificato nell’unico edificio gotico ancora esistente nella via, ma non si sa se in effetti sia proprio quello). In quanto precettore dei principini Aldo abita a palazzo, quindi è possibile che questa casa e un altro paio che gli sono intestate costituiscano un emolumento, sotto forma di riscossione degli affitti. Vengono assegnati a Manuzio anche alcuni campi coltivabili che andranno in eredità al figlio Paolo e saranno amministrati da Lionello Pio.
Tra Aldo e Alberto si instaura una relazione ben più solida di quella tra maestro e allievo che, lo vedremo, perdurerà fino alla scomparsa dell’editore, nel 1515. Nel primo dei cinque volumi di Aristotele che l’editore bassianese dedica al principe di Carpi (1495) fornisce al «dotto giovinetto» una sorta di vademecum: «A te infatti non manca nulla: non il talento, che possiedi in abbondanza; non l’eloquenza, di cui sei ben dotato; non i libri, né di cultura latina, né greca, né ebraica, di cui vai in cerca con una solerzia senza pari; non gli insegnanti più preparati, che tu hai assoldato senza badare a spese. Continua dunque a dedicarti, come stai facendo, alle nobili discipline: io certo, per quel che posso, non ti farò mai mancare la mia presenza».
Tali righe ci restituiscono un Manuzio attento, paterno, benevolo. È solo da dettagli come questi che possiamo cercare di ricostruire e immaginare il carattere di quest’uomo straordinario. Infatti, la rielaborazione della sua biografia, lacunosa per alcune parti della sua vita e della sua attività, è addirittura oscura per quanto riguarda gli aspetti personali. Vedremo che Erasmo ci descrive paturnie e spilorcerie del suocero, Andrea Torresani (o Torresano), ma di lui, a parte che era maniaco delle grammatiche, non ci dice nulla.
I tanti studiosi che si sono dedicati al primo editore della storia hanno provato ad azzardare qualche ipotesi, sulla base degli elementi conosciuti. Per esempio si sa dei molti amici, ai diversi livelli della scala sociale, mentre non si conoscono nemici, se non rivali editoriali, quindi si può pensare che fosse cordiale, una persona con la quale passare un po’ di tempo in piacevole compagnia. Era capace di lavorare per molte ore di seguito, applicandosi con attenzione a quel che stava facendo, probabilmente era pignolo, attento, e abile. Amava il lavoro di squadra e cercava di sollecitare in tutti i modi la collaborazione tra gli studiosi; quel che chiedeva in cambio erano manoscritti da poter stampare.
Non c’è dubbio che avesse il bernoccolo degli affari e che utilizzasse tribunali e amicizie per far valere i propri diritti, ma mai in modo violento e prevaricatore, in un’epoca che violenta e prevaricatrice lo era parecchio. Non manifesta mai l’aggressività tipica dei suoi contemporanei, anzi appare schivo e talvolta imbarazzato per la celebrità. Ci sono tuttavia da registrare alcuni litigi per questioni di denaro con collaboratori che a causa di tali liti lo abbandoneranno. Viene quindi da domandarsi se Aldo condividesse almeno in parte l’estrema taccagneria del suocero.
Andare oltre queste deduzioni, però, appare difficile. Com’era il suo rapporto con la moglie, così tanto più giovane di lui? E con i figli? Nell’ultimo testamento lascerà alle due figlie la facoltà di scegliere se maritarsi o monacarsi, ed era una concessione molto avanzata in quei tempi, ma, al di là di questo, altro non sappiamo.
Durante gli anni di Carpi Aldo Manuzio con ogni probabilità ancora non pensa alla stampa e si dedica al mestiere di precettore, che si presume gli riesca piuttosto bene: Alberto e Lionello Pio non saranno gli unici allievi con cui conserverà rapporti di affetto. Dev’essere comunque un’attività molto impegnativa, infatti si lamenta che, oppresso da incombenze di ogni genere, gli restano soltanto quattro ore al giorno per scrivere un trattato grammaticale a beneficio dei suoi allievi. Non specifica però quali siano gli altri suoi compiti, oltre all’insegnamento vero e proprio.
Uno dei pochi punti certi del soggiorno di Aldo a Carpi è che trascorre il suo tempo quasi sempre assieme ai principini e li accompagna prima a Ferrara (1481) e poi a Mirandola dallo zio Pico (1482), dopo che Venezia dichiara guerra agli Este. Conosciamo questo soggiorno, durato qualche mese, grazie a una lettera del Poliziano: Angelo Ambrogini – questo il suo nome – era il più importante grecista dell’epoca e diventerà molto amico di Manuzio; i due si scambiano una fitta corrispondenza, ma si incontreranno di persona soltanto una volta, a Venezia. È a Mirandola che Aldo rimane colpito dal greco raffinatissimo del fiorentino Poliziano, in una sua lettera che legge in compagnia dell’umanista cretese Manuel Adramitteno.
Giovanni Pico in quegli anni sta cercando di trasformare Mirandola in un centro culturale di prima grandezza e potrebbe essere che Aldo si imbatta proprio qui nell’idea di un’accademia che possa diventare luogo di scambio e discussione tra dotti conoscitori della cultura greca.
Si può presumere che Aldo abbia approfondito la propria abilità a esprimersi in greco antico nei ritrovi che i grecisti tenevano nella villa di Pico. Il tono delle sue lettere del periodo è tuttavia quello di un giovane che si sforza di ben figurare nel mondo intellettuale che lo circonda. È sopravvissuta un’unica lettera di Pico ad Aldo, in cui il signore di Mirandola esorta l’umanista a proseguire nell’indagine filosofica. Evidentemente Manuzio era anche un suo compagno di studi, oltre che un protetto.
Incerto, invece, è un possibile viaggio a Venezia di Aldo assieme ai giovani Pio (nel 1487), che potrebbe essere stato il primo contatto del futuro editore con la Serenissima. Tre anni prima Caterina si era risposata con Rodolfo Gonzaga e si ritiene che il ruolo di Aldo a corte fosse diventato con il tempo più influente rispetto a quello di semplice maestro e precettore dei figli di primo letto. Caterina avrà altri sei figli da Rodolfo. Questi rimarrà ucciso nel luglio 1495 nella battaglia di Fornovo, mentre la donna morirà nel dicembre 1501, avvelenata da una damigella che sembra si fosse innamorata di lei senza esserne corrisposta. Amore e morte in una corte del rinascimento.
Il soggiorno di Manuzio a Carpi termina tra l’autunno e l’inverno del 1489: un rogito notarile di ottobre dove Aldo di Sermoneta è indicato come precettore del principe Alberto costituisce l’ultimo atto ufficiale che ne registri la presenza.
Il rapporto con i Pio, come detto, continuerà: Aldo entra a far parte della famiglia, dal 1503 adotta il cognome Pio e dal 1506 lo userà per firmarsi. Delle dodici dediche ad Alberto abbiamo già detto, e si presume che da Carpi gli siano anche regolarmente arrivati finanziamenti. Atti ufficiali e lettere registrano le relazioni tra l’editore e Alberto III fino al 1509, ovvero fino a quando il principe si schiera con i nemici di Venezia, mentre i legami con Lionello II proseguono fino alla morte di Aldo.
Il tenore della corrispondenza dei fratelli Pio con Manuzio diverge già dal 1498: Alberto gli scrive in tono affettuoso e intimo riguardo a libri, a comuni frequentazioni culturali, a questioni che Aldo intrattiene a Carpi. Lionello, che talvolta si firma filius, si occupa invece del lato pratico dei rapporti, e risponde alle richieste di Aldo di gestire gli interessi nelle terre emiliane, come, per esempio, nel luglio 1508, quando informa l’editore di «aver avuto cura del raccolto delle sue terre e di averglielo fatto accreditare». D’altra parte Lionello ha sposato una nobile veneziana, Maria Martinengo, e quindi le connessioni tra il castello di Novi, dove la coppia risiede, e la Dominante rimangono intense. Un atto notarile del marzo 1508 registra il mandato di Lionello Pio a Manuzio per ottenere una condotta militare dalla Serenissima (condotta che però non verrà concessa).
Aldo è legalmente un membro a tutti gli effetti della famiglia Pio e ha intestate a sé numerose terre che, almeno in parte, risulteranno proprietà degli eredi ancora nel 1556. Lionello nel settembre 1498 scrive a Manuzio affermando che manterrà fede alla promessa del fratello Alberto di donargli altre terre e un castello dove installare una stamperia e l’accademia. Non è quindi casuale che Aldo scriva che userà il «bel castello» per «insediarvi un’accademia nella quale, posta fine alla barbarie, si coltivino con impegno le belle lettere e le belle arti».
La donazione del castello, tuttavia, non diventerà mai effettiva, mentre Aldo nei momenti di difficoltà, nel 1506 e nel 1510, lo reclama per potersi trasferire con famiglia e stamperia. Sono entrambi anni nei quali Manuzio è assente da Venezia; i motivi li vedremo meglio più avanti.
Il castello è stato identificato con quello di Novi dove, come detto, risiedono Lionello e la moglie e dove effettivamente viene installata una tipografia che stampa una sola edizione. Secondo una fonte settecentesca e non verificabile, Alberto III avrebbe invitato Manuzio ad allestire una tipografia, ma questi ormai si era trasferito a Venezia e avrebbe quindi declinato la richiesta del principe. Quel che è certo, invece, è che il carpigiano Benedetto Dolcibelli (o Dolcibello) del Manzo – il soprannome viene dal fatto che proveniva da una famiglia di macellai – impianta una stamperia a Carpi prima in città (1506) e poi nel castello di Novi (1508), dove stampa la suddetta unica edizione, e quindi si trasferisce a Ferrara.
Dolcibelli aveva lavorato – assieme a Giovanni Bissolo, pure lui di Carpi, e a Gabriele Braccio, di Brisighella – a Venezia nell’officina di Aldo, dove aveva imparato il mestiere. Si era però ritrovato coinvolto in una brutta storia di contraffazione dei caratteri greci aldini, che vedremo meglio nel capitolo sui falsi, e se n’era andato da Venezia assieme ai due complici continuando a stampare, dapprima a Milano e poi altrove. I documenti sopravvissuti riguardo a questa vicenda sono molto pochi e quindi la conosciamo solo a tratti. Di conseguenza non possiamo neanche sapere se nel 1506, quando Aldo va a Milano e a Mantova, ci siano stati o meno contatti tra lui e il suo ex lavorante, che in quel momento faceva il tipografo nella città dei Pio. Questo fatto comunque dimostra che Aldo si avvale della collaborazione di alcuni carpigiani al momento di aprire la sua tipografia a Venezia.
La presenza di Aldo a Carpi è eternata da un affresco nella cappella di Palazzo Pio. Molto ben conservato, opera del pittore Bernardino Loschi, sulla parete di destra raffigura una specie di gruppo di famiglia dei Pio: in primo piano il trentenne Alberto III, dalle fluenti chiome bionde, con un copricapo nero; alle spalle il padre Lionello I, che quando l’affresco viene dipinto (inizio Cinquecento) è ormai defunto da una ventina d’anni. In secondo piano il fratello più giovane, Lionello II. Davanti al principe Alberto stanno due figure vestite con un lungo abito nero e berretto dello stesso colore. Una delle due, quella più arretrata, è identificata con Aldo Manuzio, poiché si tratta di un uomo di una cinquantina d’anni, che era proprio l’età di Aldo quando l’opera è stata eseguita.
Il personaggio che è ritratto davanti, più giovane, potrebbe essere o il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi o l’umanista cretese Marco Musuro; entrambi si trovavano a Carpi assieme a Manuzio ed erano più giovani di lui, il primo di una decina d’anni, il secondo di una ventina. Musuro, colto filologo, lo ritroveremo perché diventerà uno dei più stretti collaboratori di Aldo. L’affresco si è conservato perché dopo l’esautorazione dei Pio e il passaggio di Carpi agli Este è stato semplicemente coperto con una tenda e non distrutto, come spesso accadeva quando si voleva rimuovere la memoria dei signori spodestati.
Adesso lasciamo l’emiliana Carpi e seguiamo finalmente Aldo nella città dove cambierà la storia del libro: Venezia.
3.
Come si diventa editore
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia tra il 1489 e il 1490. Con ogni probabilità la sua intenzione era di continuare a insegnare, e nulla di quel che sappiamo (poco) del suo primissimo periodo nella Dominante lascia presagire che stesse già pensando di mettersi a stampare. Di conseguenza non abbiamo idea se e quanto abbia contato sulla sua scelta di spostarsi il fatto che la città all’epoca fosse l’indiscussa capitale dell’editoria. Forse quel che davvero lo attirava di Venezia era la presenza di tanti dotti umanisti, in particolar modo greci: «Venezia, città che possiamo definire la nuova Atene del nostro tempo per la presenza di moltissimi uomini dotati di eccezionale cultura», scriverà Aldo anni più tardi.
Comunque non amerà mai a fondo la città che lo ospitava, non si sentirà mai veneziano, non sarà mai animato da particolare trasporto per il luogo dove era forse arrivato perché non poteva farne a meno, e dove si è fermato perché soltanto lì poteva mettere in pratica il suo progetto editoriale. I suoi primi tempi veneziani sono contrassegnati dalla continuità dei legami con Carpi, sia per quel che fa, sia per i collaboratori che si sceglie (abbiamo già detto, e vedremo ancora, che nell’appena aperta tipografia lavorano alcuni carpigiani).
Poco dopo l’arrivo nella Serenissima signoria Aldo pubblica la sua prima opera, il Panegirico delle muse (Musarum Panegyris), un lavoro in latino che costituisce un po’ il manifesto del suo metodo di insegnamento. Per farlo si rivolge allo stampatore Battista Torti, un calabrese di Nicastro, che nel 1489 imprime il testo – più un opuscolo che un libro – formato da due componimenti in rima dedicati ad Alberto Pio nonché da una parte centrale costituita da una lettera a sua madre Caterina. Ce ne sono giunte soltanto sette copie, in Italia se ne trovano due: a Bologna e a Napoli.
Aldo osserva che latino e greco vanno insegnati assieme e non separatamente, prima il latino e poi il greco, come si usava al tempo, e insiste nel sottolineare il valore educativo della lettura dei classici in originale. Fino a quel momento era stato possibile conoscere l’antichità ellenica soltanto attraverso le traduzioni latine. Certamente si era in tal modo potuto entrare in contatto con un mondo che sarebbe stato altrimenti destinato a rimanere sconosciuto, ma nel contempo le traduzioni lo avevano alterato, distorcendolo attraverso le lenti del latino. Aldo quindi ritiene che sia necessario tornare alla fonte e leggere le opere greche direttamente in greco (pure questa una concezione sorprendentemente moderna, come si vede).
Manuzio porta con sé a Venezia il manoscritto del Panegirico: con ogni probabilità gli serviva per promuoversi e farsi conoscere come insegnante. Se era stato precettore dei principini di Carpi poteva ben diventarlo dei figli di qualche patrizio della città di San Marco. E infatti viene assunto da Pierfrancesco Barbarigo con il compito di far da maestro a Santo, suo figlio naturale. Difficilmente sarebbe potuta andargli meglio: il doge in carica, Agostino Barbarigo, è zio di Pierfrancesco, il precedente, Marco, era suo padre, e per di più il patrizio entrerà in società con Manuzio quando deciderà di aprire la stamperia.
Non dobbiamo commettere l’errore di ritenere che Aldo, maestro prima ed editore poi, pensasse a un’istruzione allargata al popolo, che immaginasse i suoi libri in mano a schiere di giovani animati dalla voglia d’imparare. Proprio no: si rivolge ai figli dei ricchi e dei molto ricchi – cioè a una fascia di popolazione che al massimo arriva al 5 per cento – e la sua idea è quella di istruire la futura classe dirigente attraverso lo studio di una lingua morta: il greco antico. Una lingua che non è possibile imparare da soli per la semplice ragione che nessuno la parla, quindi la si può apprendere soltanto a scuola. Il tutto ha poco a che fare con il valore intrinseco della letteratura classica, quanto piuttosto con un metodo: i ragazzini che crescono studiando sui medesimi libri, da adulti si capiranno meglio. Ai nostri giorni si direbbe networking, assomiglia un po’ alla «rete dei vecchi compagni di scuola» che ancora oggi unisce in Gran Bretagna la classe dirigente che ha frequentato Eton e poche altre public schools.
Franco Leggeri Fotoreportage–ROMA-chiesa di Santa Passera, la chiesa che ispirò “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini-Santa Passera, chiesetta graziosa ma in cattivo stato – fra il Tevere e via della Magliana. Costruita nel V secolo nel luogo in cui le spoglie i santi alessandrini Giovanni e Ciro, in basso a destra, approdarono a Roma, la chiesa fu in seguito intitolata a Santa Passera, santa che non è mai esistita.
– ROMA-Santa Passera
La chiesa di Santa Passera è una chiesa romana risalente agli inizi del V secolo, ristrutturata e ampliata nel XIV secolo, edificata sui resti di un mausoleo romano e di una cripta risalenti alla seconda metà del II secolo.
L’origine del nome della chiesa, ubicata nel quartiere Portuense di Roma, è incerta poiché non è mai esistita una santa di nome “Passera”.
Storia
Secondo la tradizione, essa fu costruita sulle rive del Tevere nel luogo in cui, agli inizi del V secolo, i resti di due santi alessandrini, Ciro e Giovanni, furono sbarcati, provenienti dall’Egitto, per essere trasferiti nella città di Roma. Dal secolo XI in poi appartenne al monastero di Santa Maria in Via Lata, e, nei documenti dell’XI–XIII secolo è chiamata Sancti Abbacyri oppure Sancti Cyri et Iohannis, in ricordo dei due santi per i quali fu costruita la chiesa. Nel XIV secolo al nome di Abbaciro si sostituì quello di Santa Pacera o Passera: così in un documento del 1317 si parla di un appezzamento posita extra portam Portuensem in loco qui dicitur S. Pacera.[1] Questo appellativo sarà poi prevalente nei secoli successivi.[2]
Sull’origine del nome “Passera”, santa che non è mai esistita nella storia del cristianesimo, l’ipotesi è che esso derivi dal titolo Abbàs Cyrus (“padre Ciro”), da cui il nome Abbaciro: dalla storpiatura popolare di questo termine sarebbero derivati Appaciro, Appàcero, Pàcero, Pàcera e infine Passera.[3]
A confondere ulteriormente l’onomastica della chiesa si aggiunge inoltre l’errore popolare che volle arbitrariamente assimilare la fantomatica “santa Passera” con santa Prassede e festeggiarne in tal luogo la ricorrenza il 21 di luglio[3] in concomitanza con le celebrazioni di quest’ultima martire.[4][5]
Nel XIV secolo l’antica chiesa fu completamente ristrutturata e sopraelevata.
Descrizione
Esterno dell’abside
Il complesso di Santa Passera è composto di tre piani sovrapposti.
La chiesa
La chiesa superiore del XIV secolo è a pianta rettangolare ad un’unica navata, con abside e soffitto ligneo, edificata su di un edificio preesistente, un mausoleo romano, le cui caratteristiche architettoniche ancora si distinguono esternamente sul lato sinistro della chiesa; l’edificio presenta tratti molto simili al cenotafio di Annia Regilla, quest’ultimo risalente alla seconda metà del II secolo d.C..[2] La facciata della chiesa si trova in una posizione elevata, preceduta da una terrazza a cui si accede tramite una doppia rampa di scale. All’interno un presbiterio semicircolare che custodisce l’immagine del Cristo in compagnia di uno stuolo di santi. Un’altra pittura raffigura sempre il Cristo con i santi Ciro e Giovanni.[6]
L’oratorio
Al piano inferiore i resti sotterranei dell’oratorio medievale del V secolo cui si accede da una porta esterna sotto elevata rispetto al terreno. L’oratorio si compone di quattro locali costruiti con mattoni e intercomunicanti. Sulla porta campeggia l’iscrizione che testimonia l’antico utilizzo della struttura quale sepolcro dei santi Ciro e Giovanni:[2]
(LA)«CORPORA SANCTI CYRI RENITENT HIC ATQVEE IOANNIS
QVOÆ QUONDAM ROMÆ DEDIT ALEXANDRIA MAGNA.»
(IT)«Qui risplendono i santi corpi di Ciro e Giovanni
che un giorno la grande Alessandria dette a Roma.»
(Iscrizione sulla porta d’ingresso della cripta[5])
La cripta
Dall’oratorio una scaletta consente di scendere nella stretta criptaipogea a pianta rettangolare che originariamente custodiva i resti dei due santi martirizzati. L’ambiente, interrato dopo il 1706, riscoperto nel 1904, è databile tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo. La poca illuminazione proviene da un’apertura nella volta e dalle scale. Difficilmente visibili sulle pareti tracce di decorazioni pittoriche, in parte ammalorate dalle innumerevoli piene del vicino Tevere, e in parte vandalizzate. Si intravedono ancora tracce di decorazioni a carattere funerario: sulla volta alcuni glifi e stelle. Sulla parete nord era rappresentata, con in mano la bilancia, la dea Dike, quindi un uccello e un pugile. Sulla parete sud si intravede una pecora e alcuni tratti in pigmento rosso. Verso la fine XIII secolo fu dipinta una Madonna col Bambino, asportata e trafugata nel 1968.[2]
Nella cultura di massa
La corrispondenza del nome dell’ipotetica santa con quello dell’organo sessuale femminile, così come noto nel dialetto romanesco e citato dal poeta Giuseppe Gioachino Belli, ha spesso dato origine a doppi sensi e giochi di parole diffusi popolarmente.[6][7][8]
^Santa Prassede di Roma, in Santi, beati e testimoni – Enciclopedia dei santi, santiebeati.it.
Antonio Bosio, Roma sotterranea opera postuma di Antonio Bosio romano antiquario ecclesiastico singolare de’ suoi tempi, a cura di Giovanni Severani da S. Severino, Roma, Lodovico Grignani, 1650.
Lilia Berruti, Santa Passera: una chiesa per una Santa che non c’è, in Capitolium. Rassegna di attività municipali, anno XL, n. 5, Roma, Arti Grafiche Vecchioni & Guadagno, 1965.
Claudio Rendina, Le Chiese di Roma, Roma, Newton & Compton, 2007, p. 290, ISBN978-88-541-0931-5.
L’AQUILA – Lunedì 17 marzo 2025 si terrà la XXII edizione del Certamen Sallustianum, organizzato dal Centro Studi Sallustiani dell’Aquila, in collaborazione con il Convitto Nazionale “Domenico Cotugno” con i Licei annessi.
Una delle principali finalità del Certamen è quella di dare agli alunni meritevoli la possibilità di approfondire la conoscenza del mondo classico, anche attraverso le varie testimonianze che fanno parte integrante del tessuto storico del nostro territorio, che si colloca nel contesto di un percorso più ampio, quello delle grandi civiltà.
La XXII edizione del Certamen vedrà la partecipazione di 32 alunni, appartenenti a 12 licei italiani, e si svolgerà presso la sede del Liceo Classico “Domenico Cotugno”.
Al Certamen Sallustianum sono collegate le Giornate della Cultura Classica, che vogliono offrire l’opportunità di esplorare tra i percorsi del passato, a volte sconosciuti, le origini del nostro presente. Diventa necessario, in una società in cui tutto è messo in discussione, ritrovare le solide radici culturali della nostra civiltà e riscoprire i valori e le certezze che la stessa ci ha tramandato.
Nell’ambito delle Giornate della Cultura Classica sarà ospite del Centro Studi Sallustiani il prof. Andrea Angius, docente di Storia Romana ed Epigrafia Latina presso l’Università degli Studi “Roma Tre”, che martedì 18 marzo 2025, alle ore 11.00, in presenza presso il Liceo Classico “Domenico Cotugno” e su piattaforma digitale Zoom, terrà una conferenza dal titolo “Carceri, carcerieri e carcerati nella Roma antica”. Le credenziali per accedere all’incontro sono le seguenti: https://us06web.zoom.us/j/86542148242?pwd=E9KfdKutQ22PgrwFDb9yRlHyntR7Ri.1
Per ulteriori informazioni si rimanda alla pagina web del Centro Studi http://www.studisallustiani.com/
Pescara-Collezione Museo Paparella Treccia rinasce con nuova illuminazione, presentato catalogo –
PESCARA – “È come se la collezione del Museo Paparella Treccia fosse rinata, a Villa Urania”. Queste le parole del sindaco di Pescara Carlo Masci che stamani, insieme al vice sindaco Maria Rita Carota e al presidente della commissione Cultura, Mariarita Paoni Saccone, ha visitato la collezione dopo i lavori per realizzazione la nuova illuminazione.
Alla visita ha partecipato anche il presidente del Consiglio regionale dell’Abruzzo, Lorenzo Sospiri. Ad accoglierli è stato Augusto Di Luzio, presidente del Consiglio di amministrazione della Fondazione Museo Paparella Treccia Devlet, che ha parlato “di una vera e propria svolta visiva” della collezione, perché “con la nuova illuminazione sono tornati in evidenza i colori e i particolari delle ceramiche. Ora è come vedere questa esposizione per la prima volta. L’intervento è stato realizzato grazie alle indicazioni di due illuminotecnici di grande fama, e cioè Carlos Dodero e Sara Forlani. Dodero ha illuminato, tra l’altro, gli affreschi di Giotto alla Basilica di San Francesco di Assisi, e Forlani ha fatto parte del gruppo di illuminotecnici che hanno modernizzato l’illuminazione della Cappella Sistina. Oggi entrambi stanno lavorando alla nuova illuminazione del Quirinale, e insieme hanno creato l’effetto del sole al padiglione italiano all’Esposizione Universale di Dubai”, ha detto Di Luzio. Non è stato facile “rimuovere e poi riallestire la collezione, con i suoi 151 esemplari, e di questo ringrazio il personale”, ha aggiunto.
Oggi è stato presentato alla stampa anche il catalogo, curato “da due critiche romagnole ceramologhe di fama internazionale, Carola Fiocco e Gabriella Gherardi la cui notorietà è legata al fatto, clamoroso, che proprio loro hanno attribuito a Castelli la collezione delle ceramiche Orsini Colonna, per secoli attribuita a Faenza. Il catalogo (bilingue, italiano e inglese) ha una bella veste editoriale”, ha spiegato Di Luzio, “e si compone di un breve scritto di Paparella, della mia presentazione, di un saggio delle due critiche e di 146 schede tecniche, una per ogni esemplare: lo consegnerò al Museo del Louvre e al Museo Ermitage che posseggono le ceramiche di Castelli e l’ho già consegnato all’ambasciatore italiano in Spagna che conosce la collezione”.
Entusiasta il sindaco Masci che ha parlato del museo come di “un patrimonio della città e della nazione che vogliamo valorizzare sempre più. Abbiamo dei musei a Pescara di livello altissimo, visitati anche da molti stranieri, e mi auguro che siano conosciuti sempre più anche dai pescaresi, perché visitare un museo comporta una crescita culturale. E poi, grazie ai musei, il territorio cresce. Ringrazio Sospiri per la sua presenza perché mi fa piacere pensare che la Regione possa dare più forza al Museo e una maggiore capacità di espansione. Ma ringrazio soprattutto Di Luzio, che vive questa realtà con passione da 29 anni”.
Sospiri ha sottolineato che il suo “compito è di accelerare le ultime procedure che riguardano la Regione” con l’obiettivo, “come è accaduto per il Museo dell’Ottocento, di destinare una contribuzione a questo museo”, per consentirgli “di avere una maggiore tranquillità per la sua vita ordinaria” e di organizzare iniziative ed eventi. “L’intervento sull’illuminazione ha avuto un risultato meraviglioso”, ha commentato Carota, “e ha consentito di rivalorizzare questo enorme patrimonio che noi abruzzesi conosciamo troppo poco”. Paoni Saccone ha parlato del Museo come del “fiore all’occhiello della città” e il suo legame con questa collezione è datato, dal punto di vista affettivo, perché “mio padre rogitò l’atto costitutivo della Fondazione Paparella Treccia”, ha ricordato stamani.
ROMA-Castel di Guido-Scavi Archeologici nella Villa Romana delle Colonnacce
CASTEL DI GUIDO-Roma Municipio 13- Villa Romana delle Colonnacce .
I Volontari del Gruppo Archeologico Romano (GAR) nel Fotoreportage di Franco Leggeri nella Villa Romana delle Colonnacce.I Volontari capitanati dall’Arch. VALERIA GASPARI hanno ripreso, a pieno ritmo, gli scavi nella Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido. La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale. La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono, catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Contessa di Bertinoro dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “. Ricordiamo il recente, superbo, lavoro della Dott.ssa Daniela Rossi nel quartiere Massimina sulla via Aurelia. La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela.Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Note a margine dell’articolo-
Oggi erano presenti, tra gli altri, il mitico Archeologo VINCENZO ARNESE, ATTILIO PASSERINI in rappresentanza del CRSA –SOTTERRANEI di ROMA- il simpaticissimo NICOLA CURCIO e alla sua prima uscita sul campo la Dott.ssa ALESSIA NATALE-Oggi è venuto a visitare gli scavi anche il Dott. STEVE BASLEY famoso ornitologo inglese.
Si consiglia anche la visita all’Oasi Lipu di Castel di Guido, adiacente alla Villa romana, la Direttrice dell’Oasi è la Dott.ssa Alessia de Lorenzis-
Contatti -Tel.328 55 69123-e.mail:. oasi.casteldiguido@lipu.it
Articolo e Foto di FRANCO LEGGERI per Associazione CORNELIA ANTIQUA
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.mitico Archeologo VINCENZO ARNESEVolontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
CITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San Vittorino
CITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San Vittorino
La chiesa di Santa Maria di San Vittorinola si vuole sorta sui resti di un tempio pagano, sul luogo dove fu martirizzato San Vittorino, e nasce dalla radicale ristrutturazione di una chiesa più antica operata dai vescovi de Padilla e Quintavalle, tra il 1606 e il 1613, per mano del mastro lombardo Antonio Trionfa di Domodossola “de villa Roscie de Val de Premia”, definito nei documenti scarpellinus. L’imponente chiesa, a croce greca, un tempo coperta da volte e piccola cupola centrale, è scandita in altezza da un alto cornicione che corre per tutto il perimetro interno. È ora uno scenografico rudere invaso dall’acqua: la chiesa venne infatti costruita tra due sorgenti ma, agli inizi dell’800, il loro spostamento andò a coincidere con l’area interna dell’edificio. I crolli più importanti si verificarono negli anni ottanta del ’900. La Salaria gli corre alle spalle, e la bella facciata barocca in travertino, rivolta a est, guarda la piana: è articolata in uno pseudo pronao lievemente aggettante, e aperta da tre portali, mentre il timpano di coronamento è crollato. Si legge la data del 1608 sul portale centrale, e quella del 1613 sul fregio del cornicione che divide la fronte in due ordini. L’edificio è ormai fuori asse e semisommerso per circa due metri e mezzo.
CITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San Vittorino
La chiesa di Santa Maria in Vittorino, meglio nota come chiesa di San Vittorino, è un edificio religioso diroccato situato nei pressi delle Terme di Cotilia, nel comune di Cittaducale in provincia di Rieti. È nota anche come “la chiesa sommersa”, “la chiesa nell’acqua” o “la chiesa che sprofon da”.Descrizione
La chiesa si trova al km 88,1 della Via Salaria, nella piccola frazione San Vittorino del comune di Cittaducale, a breve distanza dalle Terme di Cotilia.
È posta all’interno della Piana di San Vittorino (da cui prende il nome di Santa Maria “in Vittorino”): un territorio dove si trovano molte sorgenti mineralizzate e sono frequenti fenomeni carsici come i sinkhole (sprofondamenti improvvisi del terreno).
L’edificio è diroccato, non ha più il tetto ed è parzialmente sprofondato nel terreno. Sono ancora in piedi le mura perimetrali e in particolare la monumentale facciata in calcare giallo.[1] Il suo interno è allagato da una sorgente sotterranea che sgorga nel pavimento, con l’acqua che defluisce per mezzo del portale d’ingresso nella campagna circostante.
L’interno, a tre navate, ospitava diverse opere d’arte. Tra queste sopravvivono un bassorilievo dell’Annunciazione e una fonte battesimale (entrambi risalenti al XIV secolo e conservati nella cattedrale di Cittaducale),[2] un affresco (conservato al museo diocesano di Rieti) e l’altare in pietra (collocato nel cortile del centro anziani di Cittaducale).[1]
Storia
Il tempio pagano
La piana di San Vittorino, per via degli evidentissimi fenomeni carsici che vi avvengono, nell’antichità era considerata punto di accesso agli inferi e pertanto era sin da allora un luogo di pellegrinaggio e di devozione. Infatti già in epoca preromana i Pelasgi e i Sabini, forse testimoni dell’impressionante sprofondamento che diede origine al Lago di Paterno, ritenevano quel territorio sacro e vi compivano sacrifici. La zona mantenne la sua sacralità anche presso i romani (tanto che Varrone la definì Umbilicus Italiae), e in tale epoca acquisì ulteriore importanza grazie allo sfruttamento delle sorgenti nell’impianto termale di Cutilia.
In epoca romana, al posto dell’attuale chiesa, si trovava un tempio dedicato alle ninfe dell’acqua,[2] sorto nei pressi di una sorgente considerata sacra.
La tradizione pagana della sacralità di tale sorgente non finì con l’avvento del cristianesimo ed è sopravvissuta fino ai giorni nostri: ancora oggi gli abitanti del luogo venerano una madonna ospitata in un’edicola sulla parete esterna della chiesa diruta, e attribuiscono miracolosi poteri curativi all’acqua che sgorga dal pavimento.[3]
La costruzione della chiesa
L’edificazione della chiesa sui resti dell’antico tempio pagano si deve al fatto che, proprio in quel luogo, nel 96 d.C. subì il martirio san Vittorino di Amiterno.[1] Il santo fu appeso a testa in giù su una sorgente sulfurea e morì dopo tre giorni, avvelenato dalle emissioni gassose di acido solfidrico provenienti dalla fonte.[4]
Sembra che, già nel IV secolo, nel luogo del martirio del santo sorgesse una piccola cripta, che per un certo periodo ospitò il sepolcro del santo;[4] nel secolo successivo il suo corpo fu trafugato e trasportato nella chiesa di San Michele Arcangelo, ad Amiterno.[4] La piccola cripta lasciò il posto ad una chiesa vera e propria solo diversi secoli più tardi, tra il Trecento e il Quattrocento; è in quel periodo che fu eretta la chiesa di San Vittorino.[2]
L’aspetto attuale della chiesa risale a dei lavori di ampliamento che, come riporta un’iscrizione ancora leggibile sulla facciata, iniziarono nel 1608 e furono completati nel 1613.[2] L’intervento di rifacimento fu voluto dal vescovo di Cittaducale, Pietro Paolo Quintavalle,[1] ed è attribuito da alcuni all’architetto romano Giovanni Battista Soria[5] mentre da altri al domese Antonio Trionfo.[4] Divenne in breve tempo una delle più importanti chiese di Cittaducale.[2]
Tuttavia nell’Ottocento il terreno su cui era stata costruita iniziò a sprofondare e una sorgente sotterranea emersa dal pavimento allagò la chiesa, che pertanto dovette essere abbandonata.[2] L’improvviso sinkhole fu dovuto alla superficialità della falda nel terreno dove la chiesa fu fondata (posta a soli 90 cm dal piano di campagna),[6] e probabilmente innescato dal terremoto del 1703.[7]
Dopo oltre un secolo di abbandono, il terremoto del 1979 causò il crollo del tetto della chiesa. Nel gennaio del 1988 la provincia di Rieti avviò l’esecuzione di lavori urgenti per rallentare l’inabissamento ed evitare ulteriori crolli.[8] All’intervento doveva seguire il recupero completo dell’edificio, che tuttavia non venne mai eseguito. La chiesa è tuttora abbandonata e continua lentamente a sprofondare.
Nel cinema
Per il carattere suggestivo e surreale del luogo, nel 1983 il regista sovietico Andrej Tarkovskij lo scelse per girare una scena del film d’essaiNostalghia. Nella scena il protagonista, dopo un lungo vagabondare solitario, entra nella chiesa dove incontra una bambina e riflette sul valore della felicità, tra la lettura di un libro e bicchieri di liquore; infine il protagonista incendia il libro e si addormenta nella chiesa.[9]
· Andrea Del Vescovo, San Vittorino di Amiterno, su enrosadira.it. URL consultato il 19 agosto 2017.
^Storia di Cittaducale, su webalice.it. URL consultato il 10 giugno 2017 (archiviato dall’url originale il 20 maggio 2017).
^Prone area: Piana di Cotilia – Peschiera, su Italiav Web Sinkhole Database, 31 agosto 2011. URL consultato il 6 luglio 2016 (archiviato dall’url originale il 15 ottobre 2012).
^ Giuseppina Giangrande, Una liberata, un’altra ingabbiata (PDF), in Frontiera, n. 2, Diocesi di Rieti, 16 gennaio 1988, p. 24. URL consultato il 31 maggio 2020.
CITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San VittorinoCITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San VittorinoCITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San VittorinoCITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San VittorinoCITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San VittorinoCITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San Vittorino
Storia del fiume ADIGE-Il fiume è stato protagonista di alcune devastanti alluvioni. Già in epoca romana la sua idrografia subì una variazione: Plinio il Vecchio[3] non cita più il Po di Adria perché l’Adige aveva subito una rotta ed era confluito nella Filistina e in altri due canali, chiamati il Fossone e la Carbonaria (Po di Goro).[4] Successivamente la rotta della Cucca, la catastrofica alluvione del VI secolo (589), secondo le cronache di Paolo Diacono, provocò morte e distruzione a Verona e nelle campagne. Vi è la notizia di altri fenomeni di questo tipo in passato: tra i più gravi sono da ricordare le inondazioni del 1882, del 1966 e del 1981.
Nel 1474, vicino a Castel Firmiano presso Bolzano, l’Adige in piena – chiamato nel documento «wasszer Etsch» – aveva inondato e distrutto le vie di passaggio, al che i duchi d’Austria misero in atto misure di ripristino delle comunicazioni viarie.[6]
Nel 1858 il corso del fiume fu deviato dal centro della città di Trento con uno spostamento del corso verso ovest: si trattò di rettificare il percorso che invece in origine faceva un’ansa verso est, fin quasi sotto alle mura del castello del Buonconsiglio. Tale operazione, che nei progetti doveva servire ad evitare inondazioni e piene nel centro della città, di fatto trasformò profondamente la zona del tracciato originale.
Nel settembre 1882 il fiume ruppe gli argini in nove punti a Bolzano e a San Michele all’Adige, e inondò la parte nord della città di Trento; la piena provocò anche un’alluvione a Verona e un’alluvione in Polesine. Proprio per salvare la città di Verona da possibili inondazioni, nella prima metà del XX secolo fu progettato, costruito e completato nel 1959 un tunnel scolmatore (Galleria Adige-Garda) che congiunge l’Adige in località Mori con il lago di Garda in località Nago-Torbole e che è in grado di convogliare le acque in eccesso dal fiume al lago. A causa della notevole differenza di temperatura e qualità delle acque, si fece ricorso al travaso delle acque molto raramente, soltanto quando strettamente necessario. Il tunnel venne usato infatti soltanto 13 volte tra il 1960 e il 2023: nel 1960, 1965, 1966 (due volte), 1976, 1980, 1981, 1983, 2000, 2002, 2018, 2022 e 2023. L’utilizzo dello scolmatore deve essere coordinato con il livello del lago di Garda e del fiume Mincio per evitare problemi.
Nel novembre 1966 la città di Trento conobbe la più grande alluvione della sua storia: buona parte della città e circa 5.000 ettari di campagna furono sommersi da circa due metri d’acqua. In seguito all’alluvione, gli argini vennero alzati di circa un metro. Nel luglio 1981 gli argini cedettero nei pressi di Salorno che fu sommersa assieme alle campagne circostanti.
Nel 2019 la portata massima che può transitare nel fiume era pari a 2.500 m³/s ed era corrispondente a un tempo di ritorno di 200 anni.
Nel corso del medioevo l’Adige fu anche teatro di importanti azioni militari, come nel 1439, quando le flotte congiunte dei Visconti e dei Gonzaga, allora in guerra contro Venezia, riuscirono a risalire il fiume e prima assediarono Legnago e poi gettarono un ponte di barche fortificato a valle di Verona per bloccare i rifornimenti alla città, mentre nel 1487, sempre lungo l’Adige, a Calliano i veneziani furono sconfitti dall’esercito del duca Sigismondo d’Austria[7].
Informazioni e curiosità sul fiume Adige
Lungo le rive del fiume, sfruttando le strade degli argini, si sviluppa la ciclopista della valle dell’Adige, una delle più lunghe presenti in Italia, che unisce la provincia di Verona con quella di Bolzano.
Ogni anno nel mese di ottobre nel tratto compreso tra Borghetto (TN) e Pescantina (VR) si svolge l’Adige marathon, una gara canoistica sia a livello agonistico che amatoriale.
La Rivista Pan
La Rivista Pan(sottotitolo: «Rassegna di lettere, arte e musica») fu una rivista di lettere, arte e musica, fondata da Ugo Ojetti nel 1933.
La rivista PAN professava un sollecito ossequio a tutte le forme del regime, condivideva gli obiettivi di grandezza nazionale e di ordine nuovo da instaurare nella società italiana e dava il suo pieno consenso ai miti della civiltà latino-mediterranea e del fascismo universale.
Redatta da Giuseppe De Robertis e dal giovane scrittore Guido Piovene per la milanese Rizzoli, Pan, rispetto alla rivista Pegaso che l’aveva preceduta, allarga gli orizzonti a interessi più ampi, spaziando dalla letteratura greca e latina, alla storia, alle arti figurative, secondo un ideale di Humanitas completamente antinovecentesco e filofascista che venne espresso nel numero del gennaio 1934 nell’Avvertenza al lettore.
L’allineamento al regime di Pan passa dai contributi dell’architetto ufficiale del regime Marcello Piacentini e del compositore Ildebrando Pizzetti, alle adulazioni di Ojetti che nel suo articolo Scritti e discorsi di Benito Mussolini, febbraio 1935, ne esalta l’oratoria e altre virtù.
Per quanto riguarda la musica classicistica e antiavanguardista, Mario Labroca esalta la “ricchezza ritmica, chiarezza, logicità di linguaggio” dello stile musicale di Stravinskij.
A parte le specializzazioni differenti, le due riviste di Ojetti sono sostanzialmente simili. Pan terminerà le pubblicazioni nel 1935.
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Da Sharjah a Roma: i tesori della Via delle Spezie in mostra al Foro Romano-
mostra Da Sharjah a Roma lungo la via delle spezie, allestita nella Curia Iulia, nel cuore del Foro Romano. L’iniziativa nasce dalla collaborazione tra il Parco archeologico del Colosseo e la Sharjah Archaeological Authority, con il sostegno dello sceicco Sultan bin Al Qasimi, membro del Consiglio supremo e sovrano di Sharjah.
Da Sharjah a Roma
L’esposizione, curata da Eisa Yousif e Francesca Boldrighini, offre uno sguardo inedito sulle ricchezze archeologiche dell’Emirato di Sharjah. Situata nella parte centrale della penisola dell’Oman, questa regione vantava una posizione strategica lungo le antiche rotte carovaniere che collegavano l’India e la Cina al Mediterraneo e a Roma. In particolare, le città di Mleiha e Dibba, fiorite tra l’età ellenistica e i primi secoli dell’Impero Romano, erano punti chiave di un intenso scambio di merci e culture.
Attraverso preziosi reperti rinvenuti nelle necropoli e negli abitati, la mostra racconta un’epoca di straordinaria apertura culturale. Tra gli oggetti esposti figurano anfore da vino provenienti da Rodi e dall’Italia, contenitori in ceramica mesopotamici e persiani, raffinati unguentari in alabastro dall’Arabia e in vetro dal Mediterraneo orientale, oltre a gioielli e pettini in avorio dall’India. Testimonianze sorprendenti dell’influenza ellenistica sono rappresentate da statuine di Afrodite e dediche alla divinità al-Lat, mentre la circolazione monetaria è documentata dalla presenza di monete indo-greche e romane, sia originali sia di produzione locale. Un affresco vivido di una società cosmopolita e dinamica, capace di intrecciare culture e tradizioni provenienti da ogni angolo dell’Eurasia. Accanto agli oggetti, il percorso espositivo è arricchito da un catalogo breve e da una videoproiezione immersiva, che evidenziano l’importanza dei commerci tra Roma e l’Oriente. Le spezie, tra cui l’incenso, erano tra i beni più ambiti e regolamentati dal potere imperiale. L’eco di questi antichi scambi risuona ancora oggi nel Foro Romano, dove si trovano gli Horrea Piperataria, magazzini costruiti sotto Domiziano per la conservazione del pepe e di altre spezie, recentemente restaurati e resi accessibili al pubblico dal Parco archeologico del Colosseo.
“Con questa nuova esposizione il Parco archeologico del Colosseo intende proseguire il percorso di divulgazione e ricerca scientifica ampliandolo alla dimensione mediterranea ed internazionale”, commenta Alfonsina Russo, direttrice del Parco archeologico del Colosseo. “I legami tra l’Arabia e l’area mediterranea sono antichi, e i commerci contribuirono ad ampliare le connessioni tra le due regioni, plasmando la storia del Mediterraneo e del Vicino Oriente per secoli”.
“Ci auguriamo che questa mostra offra ai visitatori l’opportunità di esplorare una storia globale condivisa: questi oggetti non sono semplici reliquie silenziose; sono storie vibranti che ci raccontano come civiltà e città come Roma e Sharjah abbiano stabilito legami che si estendevano lungo migliaia di chilometri”, afferma Eisa Yousif, curatore della mostra e direttore della Sharjah Archaeological Authority.
La storia di Sharjah è profondamente intrecciata con questi scambi millenari. Tracce di insediamenti umani risalenti al Paleolitico testimoniano una presenza continua fino al Neolitico, all’età del Bronzo e del Ferro. In particolare, nel periodo di Mleiha (III secolo a.C. – III secolo d.C.), l’area divenne un crocevia strategico lungo la Via della Seta marittima, snodo essenziale tra l’Egitto, la Grecia, Roma e l’Asia. Qui non solo si commerciavano spezie e beni di lusso, ma avveniva anche uno scambio culturale e religioso che arricchiva profondamente le società dell’epoca.
L’incenso, prodotto in Arabia, era uno dei beni più preziosi che giungevano a Roma attraverso la penisola omanita. Utilizzato in ambito religioso, medico e alimentare, il suo commercio era regolato dallo Stato con norme rigidissime. Non a caso, l’imperatore Domiziano fece costruire nel Foro Romano appositi magazzini, gli Horrea Piperataria, per custodire questo tesoro aromatico insieme ad altre spezie come il pepe, mentre la Porticus Margaritaria era dedicata al commercio delle perle.
Il sito archeologico di Mleiha ha restituito importanti testimonianze di questa epoca. Qui sono stati rinvenuti vasti cimiteri con tombe monumentali, appartenenti ai membri più influenti della comunità, circondate da sepolture più modeste. Una delle scoperte più significative, avvenuta nel 2015, riguarda una tomba monumentale risalente al III-I secolo a.C., costruita con mattoni di gesso intonacato e caratterizzata da una pianta a forma di “H”. Un’iscrizione bilingue in sudarabico e aramaico, incisa su un mattone della struttura, ha permesso di identificare il defunto come un ispettore reale del regno dell’Oman. Questo ritrovamento è particolarmente rilevante poiché fornisce una delle prime attestazioni storiche del regno omanita, menzionato successivamente in testi come il Periplus Maris Erythraei e la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio.
Tra i reperti emersi dagli scavi spiccano un’anfora da vino proveniente da Rodi, una ciotola in bronzo decorata con motivi ellenistici, africani e arabi, e un set da vino in bronzo, segno di una società raffinata, con una forte tradizione di scambi con il Mediterraneo. Le connessioni tra il mondo arabo e Roma non si limitavano solo ai commerci, ma si estendevano anche all’influenza culturale e politica.
L’importanza delle rotte commerciali arabe per Roma si riflette nelle politiche espansionistiche dell’impero. Già nel 24 a.C., il prefetto d’Egitto Elio Gallo venne inviato da Augusto in Arabia con lo scopo di aprire nuove vie di comunicazione con l’India, puntando al controllo diretto delle importazioni di spezie e beni di lusso. Secondo Plinio il Vecchio, ogni anno giungevano a Roma circa 3000 tonnellate di incenso, oltre a grandi quantità di avorio, seta, perle, pepe e mirra. Le navi romane trasportavano in cambio tessuti, corallo, gioielli, vetro e metalli preziosi, creando un commercio fiorente e altamente redditizio.
Isola di Ponza (Latina)«Anche Ponza ha il Mitreo che purtroppo non è visitabile e pare risulti molto rovinato. È’ situato in salita degli Scarpellini, nelle fondamenta dell’antico Palazzo Tagliamonte, in piazza Gaetano Vitiello, sulla Punta Bianca, inglobato in un negozio di nautica.”
Viene descritto così dal Tricoli [Tricoli Giuseppe, Monografia per le isole del gruppo Ponziano, Stamp. Marcellino, 1855]: “TEMPIO DI MITRA- Nel cennato Palazzo vi è questo speco lungo palmi 50, e 32 largo, avendo nei lati delle celle a fabbriche reticolate, nel mezzo un corridojo largo palmi 8, colla porta a levante ed in fondo la nicchia con vari residui di bassi-rilievi e figure mutilate sulle pareti, non che gli avanzi dell’ara. Nella parte sinistra si veggono tre teste di cavalli ed altrettante di cavalieri, e al di sotto un uomo ignudo. Sulla volta, anche a basso rilievo col diametro di palmi sei, vi sono 12 segni dello zodiaco situati in forma circolare per indicare la grandezza del mondo, avendo nel centro un serpente di palmi cinque ripiegato col gobbo ad oriente, che, a seconda della teologia dei Fenici, denotava il demone felice, buono, e conservatore della natura vivente, per la sua lunga vita, e per l’annuale rinnovazione. Al dire di Plutarco e di Stazio, quivi si esercitavano i misteri di Mitra, mantenuti fino al quarto secolo.”
Ponza (Latina)- il “Tempio di Mitra”
Ma non solo il Tricoli racconta del Mitreo. Il Dies sicuramente lo ha visitato perché ne fa un’accurata descrizione in “Ponza perla di Roma“, 1950.
L’archeologo olandese, Vermaseren [Vermaseren M.J., The Mithraeum at Ponza, Brill Archive, 1974] lo ha visitato nel 1969 e lo descrive così: “Nei pressi del secondo porto (Ponza, all’epoca, aveva tre porti: Venere, Circe e Diva) fu scoperto un Mitreo circa un secolo fa. Esso è rimasto pressoché sconosciuto e trascurato. E’ situato sotto palazzo Tagliamonte alla salita Scalpellini e vi si poteva entrare attraverso il fabbricato che lo ospitava lo studio fotografico di Biagio D’Arco. L’entrata originale allo speleo è ora parzialmente ostruita dalle fondamenta del palazzo…Comunque il tempio mitraico dell’isola di Ponza è degno di attenzione per la decorazione della volta antistante la nicchia. Qui è rappresentato anche in stucco, ma ad alto livello artistico, uno zodiaco che desta interesse non solo tra gli specialisti dell’arte mitraica ma anche tra i vari studiosi dell’importante scienza dell’astronomia e della sua spesso tanto disprezzata ma influente sorella astrologica.”
Ponza (Latina)- il “Tempio di Mitra”schema dello Zodiacon nella volta
Pare, secondo Vermaseren, che ci fosse un’entrata laterale, chiusa da una porta di legno, sulla scalinata che porta sugli Scarpellini, scendendo otto gradini c’è un pianerottolo e dopo altri due ci si ritrova nel tempio. Forse Vermaseren è entrato proprio da qui.
Il Mitreo è un tempio dedicato al culto orientale di Mitra e pare che a Roma oltre a quello di Caracalla, riaperto qualche anno fa dopo un lungo periodo di restauro, ne siano stati scoperti una trentina.
Questi templi erano scavati sotto terra oppure ricavanti all’interno di grotte.
Anche Ponza ha il Mitreo che purtroppo non è visitabile e pare risulti molto rovinato.
E’ situato in salita degli Scarpellini, nelle fondamenta dell’antico Palazzo Tagliamonte, in piazza Gaetano Vitiello, sulla Punta Bianca, inglobato in un negozio di nautica.
Viene descritto così dal Tricoli: “TEMPIO DI MITRA- Nel cennato Palazzo vi è questo speco lungo palmi 50, e 32 largo, avendo nei lati delle celle a fabbriche reticolate, nel mezzo un corridojo largo palmi 8, colla porta a levante ed in fondo la nicchia con vari residui di bassi-rilievi e figure mutilate sulle pareti, non che gli avanzi dell’ara. Nella parte sinistra si veggono tre teste di cavalli ed altrettante di cavalieri, e al di sotto un uomo ignudo. Sulla volta, anche a basso rilievo col diametro di palmi sei, vi sono 12 segni dello zodiaco situati in forma circolare per indicare la grandezza del mondo, avendo nel centro un serpente di palmi cinque ripiegato col gobbo ad oriente, che, a seconda della teologia dei Fenici, denotava il demone felice, buono, e conservatore della natura vivente, per la sua lunga vita, e per l’annuale rinnovazione. Al dire di Plutarco e di Stazio, quivi si esercitavano i misteri di Mitra, mantenuti fino al quarto secolo.”
Ma non solo il Tricoli racconta del Mitreo.
Il Dies sicuramente lo ha visitato perchè ne fa un’accurata descrizione in Ponza perla di Roma.
L’archeologo olandese,Vermaseren lo ha visitato nel 1969 e lo descrive così: “Nei pressi del secondo porto (Ponza, all’epoca, aveva tre porti: Venere, Circe e Diva) fu scoperto un Mitreo circa un secolo fa. Esso è rimasto pressochè sconosciuto e trascurato. E’ situato sotto palazzo Tagliamonte alla salita Scalpellini e vi si poteva entrare attraverso il fabbricato che lo ospitava lo studio fotografico di Biagio D’Arco. L’entrata originale allo speleo è ora parzialmente ostruita dalle fondamenta del palazzo…Comunque il tempio mitraico dell’isola di Ponza è degno di attenzione per la decorazione della volta antistante la nicchia. Qui è rappresentato anche in stucco, ma ad alto livello artistico, uno zodiaco che desta interesse non solo tra gli specialisti dell’arte mitraica ma anche tra i vari studiosi dell’importante scienza dell’astronomia e della sua spesso tanto disprezzata ma influente sorella astrologica.”
Pare, secondo Vermaseren, che ci fosse un’entrata laterale, chiusa da una porta di legno, sulla scalinata che porta sugli Scarpellini, scendendo otto gradini c’è un pianerottolo e dopo altri due ci si ritrova nel tempio. Forse Vermaseren è entrato proprio da qui.
Qualche anno fa, a proposito di Mitreo, Silverio Lamonica ha pubblicato un bellissimo libro, Il culto di Mitra a Ponza, che ritengo molto interessante.
Ecco un altro dei tesori che l’isola di Ponza possiede ma non fruibile!!!
Ponza (Latina)- il “Tempio di Mitra”
Nota importante:
Il 23 luglio 2020, scrive il quotidiano La Repubblica: “Il mitreo di Ponza può pure restare un magazzino dove stipare la merce di un negozio di articoli per la pesca. La tutela del bene archeologico, la sua valorizzazione e fruibilità possono pure attendere. Il Tar di Latina ha accolto infatti il ricorso della proprietaria dell’immobile dove si trova il tempio destinato ai culti mitraici e ha annullato il decreto con cui la Soprintendenza archeologia delle belle arti e paesaggio per le province di Frosinone, Latina e Rieti, l’8 aprile dello scorso anno (2019), aveva dichiarato la causa di pubblica utilità ai fini dell’espropriazione del bene.”
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