Fotoreportage e Articolo di Franco Leggeri-Associazione Cornelia Antiqua
ROMA Municipio XII-Località Malagrotta-
-Scavi Archeologici a ridosso della discarica di rifiuti urbani più grande d’Europa-
Fotoreportage e Articolo di Franco Leggeri-Associazione Cornelia Antiqua
ROMA Municipio XII-Loc.Malagrotta -Associazione Cornelia Antiqua-Lungo la Via di Malagrotta, subito a ridosso della più grande discarica d’Europa, stanno venendo alla luce le antichissime vestigia di una necropoli. Questi nuovi scavi sono poco distanti da quelli di via Castel Malnome-Piana del Sole dove sono venute alla luce oltre 300 sepolture. La prima menzione di “Molarupta” è dell’anno 995, si trova negli annali Camaldolesi che citano una permuta al Monastero di S.Gregorio del fondo Notula da parte di Costanza e negli anni 1014 e 1067 risulta come “casale” come scrive il Nibby.
Mentre il Tomassetti scrive che il nome Malarupta, poi Malarotta e Malagrotta, deriverebbe da una mola sul fiume Galeria sono ancora visibili i resti. Ma il nome di Malagrotta, secondo una leggenda medioevale deriva dalla tana , mala grotta, di un terribile drago che terrorizzava queste terre, il drago fu sconfitto da un Anguillara.. Questa leggenda ha ispirato lo scultore Mauro Martoriati che ha realizzato una scultura, tra il surreale e il metafisico, alta più di tre metri e pesante 10 quintali utilizzando ferro riciclato ; la scultura è stata collocata nei giardini comunali di Anguillara. Ancora una volta ci si trova di fronte al dilemma di chi vuole portare alla luce i tesori nascosti di questa Valle Galeria e chi, invece, vuole seppellire la valle con i rifiuti. Tutta l’area intorno è piena di siti archeologici che testimoniano i periodi che vanno dal Neolitico al Medioevo.
Franco Leggeri-Articolo e foto 2008 e 2017 per Archivio dell’Associazione CORNELIA ANTIQUA
-LA VILLA ROMANA DI GROTTE DI TORRI LE SUE MURA «CICLOPICHE»
«Lungi da Roma ventidue miglia in circa in un distretto, che si chiama Coltimoni, appartenente al territorio della Fara, evvi una tenuta, che da trent’anni si possiede da’ signori Simonetti, marchesi di Gavignano. (…) Questo luogo si chiama comunemente Torri, ovvero le Grotte di Torri (…). Qui nel centro di questa tenuta sorge una piccola collina (…) intorno la quale si scorge un vestigio di romana antichità, che è dei più magnifici, e sontuosi, che io abbia veduto, e sappia essere in tutta Sabina». Questo scriveva 264 anni fa Pierluigi Galletti, romano, monaco cassinese, nel suo “Gabio, antica città della Sabina, scoperta ove è ora Torri, ovvero le Grotte di Torri” pubblicato da Ottavio Puccinelli a Roma nel 1757. Galletti, che pure ebbe il merito di scoprire il sito dell’antica Capena sul colle di Civitucola, su Grotte di Torri prese una bella topica: non di antica città si trattava ma di una grande, bella villa romana. (Ne abbiamo già parlato un anno fa con un bell’articolo di Natale Madeo corredato da un video trascinante: https://www.facebook.com/gruppodellasabina/videos/370647654207076/ . Ne riparliamo oggi essendoci imbattuti nel testo settecentesco e dopo una bella passeggiata in una splendida giornata di novembre)
Ma com’era questo “vestigio di romana antichità”, dei più “magnifici e sontuosi”, che lui avesse mai veduto? Diamo ancora la parola a Galletti: «Consiste in uno spazio quadrato perfetto, di cui ciascun lato è di passi ordinari centoventi, rinchiuso da muri di travertini di varie grandezze, e di diverse figure, alcuni dei quali sono della grossezza di tre palmi, e più, e di lunghezza di sette, otto, e anche più. Essendo queste mura in buona parte rovinate, si veggono sparsi all’intorno in gran quantità i travertini caduti, ed ora appena sono rimaste all’altezza ove di una canna, e ove di una, e mezza. La porta, per cui si entrava in questo circuito, era nel mezzo del lato, che sta dalla parte di Scirocco, e se ne veggono chiaramente i vestigj. Sotto di questo piano – prosegue il monaco antiquario – tutto è voto, e vi si osservano grotte con volte bellissime, sebbene tutte non si possano vedere o perché sono riempiute di terra, o perché alcune sono state fatte rimurare dal signor Marchese Simonetti».
Oggi, 264 anni dopo, sopra il bellissimo muro in opera poligonale che ancora stupisce per la ingegnosità e la perfezione con cui è stato realizzato più di duemila anni fa, sorge un bel casale ottocentesco parzialmente ristrutturato, che ovviamente ha contribuito alla conservazione del manufatto (sotto il quale ci sono due criptoportici affiancati, uno parzialmente interrato). Sugli altri lati il muro perimetrale praticamente non c’è più, tranne nello spigolo del lato su cui insiste il casale, ma nell’immagine dal satellite delle mappe di Google lo “spazio quadrato perfetto” è evidentissimo.
Il luogo, non lontano da Ponte Sfondato ma nel territorio di Fara Sabina, isolato e servito da una strada bianca abbastanza malmessa, è tra i più suggestivi di tutta la Sabina. Alzata com’è rispetto a tutto quello che c’è intorno, dalla villa di Grotte di Torri si gode ancora di un panorama a perdita d’occhio fino al mare. Per finire diamo la parola alla professoressa Maria Pia Muzzioli che nel suo “Cures Sabini”, pubblicato a Firenze da Olschki nel 1980, scrive a chiusura della lunga scheda su Grotte di Torri: «Le strutture della villa dovettero essere utilizzate a lungo, fino in età medievale; per il primo impianto sembra accettabile la datazione proposta dal Lugli (seconda metà del II secolo a.C.) sia in base alle tecniche usate che alle caratteristiche planimetriche. In particolare è da notare che una piattaforma artificiale su tutti e quattro i lati, che costituisce quindi un intervento radicale sull’ambiente, non motivato dalla necessità di creare un livello uniforme in un pendio, com’è il caso più frequente, si ritrova ad esempio, con criptoportico interno, nella villa repubblicana sotto Villa Adriana».
Manuale di archeologia dei paesaggi- Metodologie, fonti e contesti –
A cura di Franco Conti-Carocci Editore-Roma
DESCRIZIONE
Il libro affronta il tema della metodologia archeologica utile alla ricostruzione dei paesaggi del passato, attraverso lo studio di contesti geografici di diversa estensione. Rivolto agli studenti di archeologia, il libro intende fornire una sorta di introduzione ragionata ai modi di approccio alle forme dei paesaggi antichi, alle procedure utilizzate, alle tecnologie di indagine e di elaborazione. Il testo passa in rassegna aspetti e temi diversi della pratica archeologica: le tipologie delle fonti da utilizzare, la scelta del contesto geografico-storico, la ricognizione del terreno come procedura di acquisizione di masse critiche di dati nuovi, la elaborazione e trasformazione dei dati in informazione archeologica, la loro visualizzazione cartografica. I capitoli conclusivi sono dedicati all’interpretazione degli insediamenti, al delicato rapporto fra archeologia e geografia umana, alla illustrazione sintetica di casi di studio e di ricostruzione di paesaggi del passato.
-Castel di Guido-Il Fienile del Casale della Bottaccia-
La costruzione del Fienile iniziò nel 1781 nell’area antistante il Casale della Bottaccia . I relitti del Fienile sono visibili dalla vecchia via Aurelia ora via di Castel di Guido. Durante la costruzione del Fienile vennero riportati alla luce molti marmi come scrive il Tomassetti :” molti marmi ed una inscrizione di T. Saquinius.” Del Fienile oggi rimangono solo le parti basamentali e porzioni minime di muri perimetrali .
I resti del vecchio Fienile , come si può vedere dalle foto allegate, sono ricoperti da una fitta vegetazione.
Fonti Bibliografiche-(G. Tomassetti, La campagna romana antica, medioevale e moderna-via Appia, Ardeatina ed Aurelia, vol II, a cura di L.Chiumenti, F. Bilancia, L. S. Oloschki, Firenze 1979)
Foto e ricerche storiche in varie biblioteche di Franco Leggeri per Associazione CORNELIA ANTIQUA
Il Museo Civico, situato presso l’ex-Convento della Chiesa di San Francesco, è un museo demoantropologico strutturato in due sezioni: quella virtuale, dedicata alla conservazione della memoria della gente dell’altopiano leonessano con la raccolta di testimonianze orali, foto e documentari; quella Tracce, di prossima apertura, che esporrà, per cicli tematici, gli oggetti usati nei mestieri tipici dell’altopiano.
Durante il mese di agosto e fino al 15 di settembre il Museo è aperto dalle 9 alle 12 ogni giorno.L’intero complesso architettonico che si articola attorno al chiostro dell’ex-convento di S. Francesco, sito nella via omonima, è stato adibito a sede dei servizi culturali della nostra città e sarà strutturato, d’accordo alle norme regionali vigenti, come Centro di Servizio Polivalente.Il Centro di Servizio comprenderà: il Museo Civico; l’Archivio Storico della Città; una Biblioteca Specializzata.Il Museo Civico, a sua volta, comprenderà queste due aree museali: Museo Demoantropologico (è in funzione la Sezione Virtuale) e Museo Archeologico (non ancora allestito). Il Museo Demoantropologico è strutturato in due sezioni 06Sezione Virtuale (già in funzione), dedicata alla conservazione della memoria della gente dell’altopiano leonessano, raccoglie testimonianze orali, foto e documentari a disposizione dei visitatori.Il Museo Archeologico, a sua volta, occuperà la suggestiva struttura architettonica conventuale sottostante il chiostro e conserverà le testimonianze più antiche della cultura locale rinvenute negli scavi eseguiti e ancora da eseguire sull’altopiano leonessano. Valle Fana, con le sue tombe a camera sabine (I secolo a.C.), è il primo anello di una lunga catena di ritrovamenti decisivi per la ricostruzione della storia più antica del territorio.
Museo civico demo-antropologico di Leonessa
Via di San Francesco – 02016 Leonessa (RI)
Info orari estivo visite:
Durante il mese di agosto e fino al 12 di settembre il Museo è aperto
dalle ore 9:00 alle 12:00 ogni giorno.
ROMA Museo delle Civiltà-Come si scava sott’acqua? Come si documenta l’attività? L’elemento acqua in uno scavo archeologico complica notevolmente la situazione e richiede l’impiego di particolari attrezzature; al tempo stesso l’ambiente subacqueo può favorire la conservazione di reperti altrimenti degradabili, che però, una volta estratti dall’acqua, necessitano specifici trattamenti. Attraverso i materiali provenienti dal sito de La Marmotta, si spiegheranno le tecniche utilizzate per lo scavo subacqueo, i metodi di documentazione e di conservazione dei reperti messi in atto durante le ricerche svolte nell’abitato neolitico sommerso individuato nel lago di Bracciano.
Museo delle Civiltà
Da settembre 2016, dopo un complesso piano di riforma e riassetto delle strutture del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, nasce a Roma il Museo delle Civiltà.
La sua istituzione raggruppa in un unico organismo cinque importanti sezioni: il Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini, il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari Lamberto Loria e il Museo Nazionale dell’Alto Medioevo Alessandra Vaccaro, situati nella parte monumentale del quartiere EUR, il Museo Nazionale d’Arte Orientale Giuseppe Tucci che, dalla storica sede di Palazzo Brancaccio in Via Merulana è stato trasferito all’Eur nel Palazzo delle Scienze, e il Museo Italo Africano Ilaria Alpi. L’istituzione di questo importante luogo della cultura intende gestire, valorizzare e promuovere in modo unificato e innovativo collezioni archeologiche ed etnografiche uniche in Italia. Con oltre 2.000.000 di opere e documenti, distribuiti su circa 50.000 metri quadri di sale espositive e depositi infatti, il Museo delle Civiltà ingloba più musei dove sono conservati i più antichi reperti della museologia italiana dalla preistoria alla paleontologia, dalle arti e culture extraeuropee alle testimonianze della storia coloniale italiana, fino alle arti e tradizioni popolari italiane.
Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini, fondato dal palentologo Luigi Pigorini, con lo scopo di illustrare le testimonianze preistoriche italiane e quelle delle popolazioni attuali al fine di confrontare i diversi stadi di sviluppo delle culture, venne inaugurato nel 1876 nel palazzo del Collegio Romano; tra il 1962 e il 1977 è stato trasferito nell’attuale sede dell’EUR. Nel nuovo allestimento inaugurato nel 1994 la struttura è organizzata in due settori: uno dedicato alla Preistoria e uno all’ Etnografia.
Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari Lamberto Loria, costituitosi intorno al nucleo della raccolta di Lamberto Doria, fu arricchito con gli oggetti arrivati da tutta Italia a Roma nel 1911 per la Mostra di Etnografia Italiana, nell’ambito delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia. Il Museo conserva oltre centomila testimonianze della cultura tradizionale italiana, dal XVI al XX secolo, tra cui circa 700 costumi regionali, oltre 4 mila gioielli, più di 6 mila manufatti lignei tra strumenti di lavoro e artigianato popolare e circa 5 mila ceramiche.
Museo Nazionale dell’Alto Medioevo Alessandra Vaccaro, inaugurato nel 1967, il museo ospita reperti provenienti prevalentemente da contesti romani e dell’Italia centrale, che vanno dal periodo tardo-antico fino all’Alto Medioevo. Corredi funerari, arredi marmorei provenienti da chiese del Lazio e materiali ceramici recuperati nell’area del Foro Romano.
Museo Nazionale d’Arte Orientale Giuseppe Tucci, istituito nel 1957 con una convenzione tra il Ministero della Pubblica Istruzione e l’ex IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente), oggi IsIAO, (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) che concedeva in deposito le proprie collezioni, fu inaugurato l’anno successivo. L’esposizione permanente si articola nelle sezioni: Vicino e Medio Oriente Antico, India, Gandhara, Tibet e Nepal, Asia sud-orientale ed Estremo Oriente.
Museo Italo Africano Ilaria Alpi, la collezione dell’ex Museo Coloniale di Roma, nato nel 1923 con lo scopo di far conoscere le “imprese” coloniali italiane, si è andata ampliando fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Passata al Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel 2017, la collezione include attualmente 12.000 oggetti − a carattere etnografico, storico, artistico, antropologico, archeologico, architettonico, e collegato alle scienze naturali ed esplorazioni geografiche − raccolti o realizzati durante l’esperienza militare e coloniale italiana in Africa. Il percorso espositivo è attualmente in corso di progettazione.
Dall’ottobre 2022, con la direzione di Andrea Viliani, il Museo delle Civiltà di Roma ha avviato nuovi percorsi di ricerca, archiviazione, catalogazione e digitalizzazione, per condividere con il pubblico e gli altri musei nazionali italiani nuove conoscenze. Nel contesto del nuovo allestimento delle collezioni preistoriche ad esempio, il percorso Preistoria? Storie dall’Antropocene delinea un itinerario che pone interrogativi sulla definizione stessa di “preistoria”, un periodo caratterizzato da testimonianze materiali che ci rimandano a molteplici sistemi di pensiero, invenzioni culturali, organizzazioni economiche e a politiche sociali. Qui è sposta una selezione di oggetti tra cui il cranio neandertaliano Guattari 1 del Circeo, le tre “Veneri” dei siti di Savignano, Lago Trasimeno e La Marmotta, e le piroghe recuperate dal fondo del lago di Bracciano insieme a centinaia di reperti provenienti dal villaggio neolitico de La Marmotta. La sezione si conclude con il primo capitolo di una ominazione immaginifica, disegnata dall’artista e graphic designer Goda Budvytytėe e dalla studiosa di nanotecnologie Laura Tripaldi per delineare i possibili sviluppi dell’evoluzione. Nella sezione sono inoltre presenti gli interventi di due artisti contemporanei: il libanese Ali Cherri, recente vincitore del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia di cui il Museo delle Civiltà introduce in collezione il filmThe Digger, e l’artista e antropologa Elizabeth A. Povinelli, membro del collettivo indigeno australiano Karrabing Film & Art Collective. Si inaugurano, inoltre, i due nuovi ingressi simmetrici del Museo delle Civiltà: quello già operativo ne Palazzo delle Scienze e quello del Palazzo delle Arti e Tradizioni Popolari, riaperto dopo un restauro dell’area al piano terra dell’edificio. Entrambi gli ingressi sono ridefiniti come un’introduzione storica e critica al museo, quasi una sorta di racconto dell’istituzione nel corso del tempo.
Al primo piano del Palazzo delle Scienze inoltre, è stata inaugurata la mostra di Georges SengaComment un petit chasseur païen devient Prêtre Catholique, a cura di Lucrezia Cippitelli, che per la prima volta presenta in un allestimento unitario le opere fotografiche e filmiche e i materiali d’archivio ricercati e prodotti dell’artista congolese sulla figura di Bonaventure Salumu, “cacciatore pagano” che tra gli anni ‘40 e ’60 del XX secolo, dopo aver ricevuto un’educazione cristiana da alcuni missionari, viene ordinato sacerdote gesuita, si trasferisce in Europa per un certo periodo per tornare infine nel proprio villaggio natale, dove diventa padre.
Al complesso museale si potrà accedere tramite due nuovi ingressi simmetrici. A quello già operativo, nel Palazzo delle Scienze, si affianca quello del Palazzo delle Arti e Tradizioni Popolari, riaperto dopo un restauro complessivo dell’area al piano terra dell’edificio. Oltre a ospitare servizi comuni, offrono un’introduzione storica e critica al museo, ossia un racconto dell’istituzione nel corso del tempo.
Centro di ricerca e sperimentazione, l’istituzione accoglie sei Research Fellowship, di cui sono protagonisti artisti internazionali. Nucleo del loro lavoro sono gli archivi e le collezioni museali, incluse quelle in deposito, che possono ispirare progetti espositivi, nuove opere, pubblicazioni, seminari, attività pedagogiche o ulteriori esiti.
Note: a partire
-dal 26 giugno 2024 (area limitrofa alla vetrata Giulio Rosso)
-dal 9 luglio 2024 (attuali sale delle Collezioni di Arti e Culture Asiatiche)
-dal 16 luglio 2024 (aree dei sottoportici intorno allo scalone centrale)
-e fino a conclusione lavori, non sarà possibile accedere temporaneamente alle suddette aree e sale per permetterne il riallestimento in corso.
L’area limitrofa alla vetrata di Giulio Rosso e le aree dei sottoportici saranno nuovamente visitabili in concomitanza dell’inaugurazione del nuovo allestimento EUR-Asia, previsto entro l’estate 2024. Le altre sale rimarranno chiuse per permetterne l’adeguamento impiantistico e il successivo ampliamento dell’attuale percorso di visita delle Collezioni di Arti e Culture Americane, la cui inaugurazione è prevista nei primi mesi del 2025.
Il Museo di immenso valore storico e culturale…siamo andati per vedere la sezione medioevale, e siamo rimasti estasiati dall’immensità di collezioni presenti. Sembra di poter fare un viaggi intorno al mondo con tanto di macchina del tempo! Interessantissimo sia per adulti che per bambini, merita di impiegarci molto tempo per una visita completa e approfondita, forse più volte addirittura.
Sono praticamente tre musei in un uno. (con la prima domenica del mese visitabile interamente gratis).
Spazi immensi pieni di curiosità, storia, cultura, arte, tradizioni, usanze, raccolte di tantissime culture differenti di tutto il mondo…bello bello bello è dir poco! Dovrebbe essere un punto di riferimento per tutte le scolaresche per vedere dal vivo LA STORIA (dalla preistoria in realtà fino al 1900 si trova di tutto e di più perfettamente diviso e catalogato).
Torneremo sicuramente per poter scoprire altro ancora.
Informazioni
Durata: 1 ora e 30 minuti circa. Visite guidate su prenotazione per un minimo di 5 persone e un massimo di 25. Prezzo: 8,00 euro per adulti e bambini, più il biglietto di ingresso Prenotazione: è previsto un diritto di prenotazione, di 10 euro, se si tratta di laboratorio fuori da calendario.
Biblioteca DEA SABINA-Associazione CORNELIA ANTIQUA-
ROMA MUNICIPIO XIII-Associazione CORNELIA ANTIQUA-Castel di Guido-La Villa Romana Olivella
Roma Municipio XIII-All’interno della tenuta agricola di Castel di Guido, è da mettere in relazione con l’antico insediamento di Lorium
Il territorio di Castel di Guido non è certo privo di sorprese. Oltre alle 300 tombe che si trovano nell’area compresa tra il Castello, la scuola di via Sodini e la vecchia via Aurelia che dovranno essere, prima o poi, portate alla luce oltre alla Villa Romana localizzata alle spalle della Chiesa del Santo Spirito, la Villa delle Colonnacce affidata alle cure del Gruppo Archeologico Romano, nella zona denominata “Colle Cioccari- Quarto della Vipera”, si sta portando alla luce il complesso archeologico di Villa Olivella.
La Villa Olivella, sita all’interno della tenuta agricola di Castel di Guido, è da mettere in relazione con l’antico insediamento di Lorium, noto dagli antichi itinerari (Tabula Peutingeriana e Itinerarium Antonini), come prima stazione sull’antica via Aurelia al XII miglio da Roma, ”Casale della Bottaccia”.
Lorium è ricordato dagli scritti degli storici dell’antica Roma come sede del palazzo imperiale degli Antonini, in particolare di Antonino Pio (vi morì nel 161 d.C), e della presenza di Marco Aurelio che sposò Faustina “la giovane” figlia dell’Imperatore Antonino Pio. Una nota curiosa che emerge dagli antichi scritti (Frontone) è che Marco Aurelio si lamentava per la sconnessione dei basoli della via Aurelia i quali facevano “inciampare e scivolare il suo cavallo”.
Numerosi e preziosi i ritrovamenti segnalati da scavi (tra cui statue, capitelli, iscrizioni) nel il 1649. Il Saulnir segnala: ” essersi trovate medaglie ed una statua di Cibele assisa sopra un leone”. Nel 1815 vennero trovati, nei pressi del Castello, due frammenti d’iscrizione, in uno dei quali si leggeva:” FAUSTIN. AUGUSTUS “. Durante gli scavi del 1824, come scrive il Nibby: “Si trovarono varie statue tra cui una Giunone Velata, una Livia in forma di Pietà ed una Domizia in abito di Diana, conservate al Museo Clementino in Vaticano”, che consentono di confermare l’ipotesi che nell’area compresa tra Castel di Guido e la Tenuta della Bottaccia fosse localizzato un praetorium e il palazzo imperiale.
Le ripetute segnalazioni, anche da parte della Guardia di Finanza, di scavi clandestini e le numerose segnalazioni di presenze archeologiche hanno spinto la Soprintendenza ad un intervento di scavo in località Olivella. L’area è oggetto da alcuni anni (campagne 2007-2010) di un vasto progetto condotto in collaborazione tra la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (responsabile Dott.ssa Rossi), l’Università di Roma La Sapienza (Cattedra di Topografia Antica, Scuola di Specializzazione in Archeologia Prof. Sommella), l’Università di Foggia (Cattedra di Topografia Antica, Prof.ssa M.L. Marchi).
Il complesso finora evidenziato è costituito da una serie di ambienti pertinenti un edificio termale e si sono finora messi in luce alcuni ambienti riscaldati (calidaria e tepidaria) con relativi praefurnia, il frigidarium con pavimento musivo. Di particolare interesse e pregio la presenza di abbondanti quantità di marmi e paste vitree che fanno presupporre rivestimenti pregiati in opus sectile.
L’impianto termale è localizzato a fondovalle ed è possibile che si tratti di un corpo di fabbrica separato connesso ad una vicina fonte o corso d’acqua. La parte residenziale del complesso si localizza ad Ovest, sempre nella valle, come sembrano confermare anche i materiali ceramici e da costruzione e le strutture individuate, attraverso alcuni saggi effettuati a corona intorno all’area di scavo principale, nell’arco di alcune decine di metri.
I dati forniti dal rinvenimento di diversi bolli laterizi sembrano confermare l’orizzonte di II-III d.C., testimoniato anche dagli apparati decorativi rinvenuti: in uno compare Stertinia Bassula figlia di Stertinius Noricus, consul suffectus nel 113 d.C. e proprietaria di praedia suburbani, mentre in due bolli è menzionato un personaggio legato all’imperatore Antonino Pio, Marcus Pontius Sabinus, dominus figlinarum, consul suffectus nel 153 e poi amministratore nella Misia superiore nel 159-160, infine un bollo di Faustina, moglie di Antonino Pio.
I materiali e, soprattutto, gli apparati decorativi marmorei e vitrei e i pavimenti musivi, testimoniano un complesso di notevoli dimensioni e ricchezza, con un momento di particolare sviluppo inquadrabile tra la metà del II e il III secolo d.C. L’ambito cronologico e la presenza di paste vitree relative a rivestimenti parietali o pavimentali che sembrano avere uno stringente confronto con quelle provenienti dalla villa di Lucio Vero all’Acqua Traversa, permettono di ricollegare il complesso con il palazzo imperiale degli Antonini nel comprensorio di Lorium.
La scoperta che tutti si attendono è quella del ritrovamento della Villa Imperiale di Antonino Pio.
Bilioteca DEA SABINA -Associazione CORNELIA ANTIQUA
Gli Indiana Jones di CORNELIA ANTIQUA alla ricerca del :
“ RACCONTO DELLE PIETRE”
La Mission di Cornelia Antiqua:”Il fascino di ascoltare il “racconto delle pietre” , l’emozione di entrare in luoghi abbandonati da secoli dagli uomini. Gli Indiana Jones di Cornelia Antiqua sono sempre in azione per trovare i pezzi mancanti del grande mosaico della Storia che è sepolta nella Campagna Romana. Manufatti in pietra, frammenti di pietre scheggiate, elementi di frecce e piccoli reperti in selce. Trovare le “connessioni” tra le Valli di Galeria e dell’Arrone. Cercare e scoprire il segreto che costudisce questo gioiello naturalistico racchiuso nei territori dei Municipi XIII e XIV di Roma Capitale dove ,tra vasti prati, piccole alture, caverne sepolte sotto la vegetazione dei boschi , sono nascoste ancora tante risposte alle domande degli Archeologi , Paleontologi , Storici e i tantissimi appassionati e amanti della Campagna Romana. Sì è questa la Mission di Cornelia Antiqua“.
Dal “libretto di Campagna “ del 12 luglio 2022
Roma -Municipio XIV -Borgo Santa Maria di Galeria– Ingresso ed esplorazione dei sotterranei del Santuario di Santa Maria in Celsano che si trova nel Borgo agricolo medioevale di Santa Maria di Galeria. Si chiarisce che il sopralluogo nei sotterranei è stato autorizzato e supervisionato da Don Roberto Leone , Parroco del Santuario , Cancelliere della Diocesi di Porto e Santa Rufina, Fondatore del Museo del Santuario di Galeria, Autore di varie pubblicazioni tra le quali LE CATACOMBE di SAN MARIO site sulla via Boccea. Hanno partecipato alla ricognizione :Tatiana Concas, Cristian Nicoletta, Danilo Cairani, Riccardo Paolucci e David Monti operatore videomaker.
N.B.Pubblichiamo in anteprima alcune foto relative ai sotterranei del Santuario di Santa Maria in Celsano, mentre per la Relazione tecnica e le conclusioni, dovremo aspettare ancora qualche giorno.
P.S. Il libretto di Campagna relativo alle uscite del Gruppo Operativo di CORNELIA ANTIQUA diventerà una rubrica permanente.
Pietro Stocchi-Antrodoco e dintorni, storia, arte e cultura popolare
Associazione Culturale ” Amici della Cecilia “
Resti del ponte romano sulla Via Cecilia in località ” Rapelle “presso Antrodoco.
la Via Cecilia, dal nome del console Cecilio Metello, collegava Roma con il mare Adriatico passando per Amiternum, Interamnia
( Teramo ) Atri e concludendo il suo percorso a Castrum Novum, l’odierna Giulianova. Secondo autorevoli archeologi questa strada potrebbe essere di epoca anteriore alla Via Salaria per Ascoli.
L’olivo coltivato o domestico deriva dall’olivo selvatico o oleastro che cresce nei luoghi rupestri, isolato o in forma boschiva, e dai cui minuscoli frutti si trae un olio amaro il cui uso è, però, sempre stato limitato.I Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici cui davano nomi diversi, agrielaìa, kòtinos, phulìa; i Romani invece, le riunivano tutte sotto la denominazione oleaster, che è poi quella passata nel vocabolario botanico moderno.La patria di origine dell’olivo va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo olio di sesamo, l’olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come gli Armeni e gli Egiziani.Non solo, anche nei libri dell’Antico Testamento l’olivo e l’olio di oliva sono spesso nominati : basti pensare che la colomba dell’arca porta a Noè un ramo d’olivo colto sul monte Ararat, montagna dell’Armenia.La trasformazione dell’oleaster in olivo domestico pare sia stata opera di popolazioni della Siria. Molto presto l’uso di coltivare l’olivo passò dall’Asia minore alle isole dell’arcipelago, e quindi in Grecia: lo Schlieman riferisce di aver raccolto noccioli d’oliva sia negli scavi del palazzo di Tirino sia in quelli delle case e delle tombe di Micene e, nell’Odissea, troviamo scritto che Ulisse aveva intagliato il suo letto nuziale in un enorme tronco di olivo.
In Grecia esistevano molti e fiorenti oliveti; particolarmente ricca ne era l’Attica e soprattutto la pianura vicina ad Atene. D’altra parte l’olivo era la pianta sacra alla dea Atena ed era stata lei che, in gara con Posidone per il possesso dell’Attica, aveva vinto facendo nascere l’ulivo dalla sua asta vibrata nel terreno. In suo onore si celebravano le feste dette Panatenee, durante le quali gli atleti vincitori delle gare ricevevano anfore contenenti olio raffinato: si tratta di anfore di una forma molto particolare, con corpo assai panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse “a maniglia”, dette per questo loro particolare uso, panatenaiche.L’olio attico era considerato tra i migliori; ma si apprezzavano molto anche gli olii di Sicione, dell’Eubea, di Samo, di Cirene, di Cipro e di alcune regioni della Focile. Le olive costituivano inoltre la ricchezza della pianura di Delfi sacra ad Apollo.Le zone della Magna Grecia dove più florida era la coltura dell’olivo erano quelle di Sibari e di Taranto; nell’Italia centrale, si segnalavano in primo luogo il territorio di Venafro, quindi la Sabina e il Piceno, mentre nell’Italia del nord erano famose le coste della Liguria.L’olivo esigeva molte cure, che potevano risultare anche costose, ma i proprietari degli oliveti erano ben ripagati dei loro disagi: non solo la cucina, ma anche i bagni, i giochi, i ginnasi e persino i funerali, esigevano l’impiego di grandi quantità di olio.Le olive venivano raccolte, a seconda dell’uso cui erano destinate, in periodi diversi: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si raccomandava di staccarle dal ramo con le mani ad una ad una; quelle che non si potevano cogliere salendo sugli alberi, venivano fatte cadere servendosi di lunghi bastoni flessibili (in greco ractriai), sempre ponendo la massima attenzione a non danneggiarle. Alcuni aiutanti raccattavano e riunivano le olive battute che, solitamente venivano macinate il più presto possibile.In Grecia l’olio era generalmente prodotto dai proprietari stessi degli oliveti che spesso procedevano anche alla sua vendita; il mercante di olio si chiamava elaiopòles o elaiokàpelos.La vendita al dettaglio non si praticava solo in campagna o nelle botteghe; era ugualmente attiva nell’agorà, dove venivano trattate le merci più diverse. I mercanti erano installati in baracche, sotto umili tende o, più comunemente, all’aperto, ma questa situazione migliorò ben presto quando furono edificati i primi portici.Per quanto riguarda l’Italia, è importante sottolineare che la presenza di noccioli di oliva in contesti archeologici e documentata fino al Mesolitico. Tali attestazioni non significano necessariamente che già in epoca preistorica l’olivo venisse coltivato, anche perché all’esame dei noccioli non è possibile stabilire se si trattasse di olivastri oppure di olivi domestici. Sono comunque evidenze significative, soprattutto se inquadrate nel più generale panorama archeologico e vegetazionale della penisola italiana, che fanno ragionevolmente presumere un precoce riferimento all’olivo coltivato. Certamente il passaggio da una fase di semplice conoscenza della pianta a quella del suo sfruttamento agricolo avrà richiesto un lungo periodo, ciò nonostante, quanto esposto sembra sufficiente per sollevare almeno qualche perplessità sulle teorie che sostengono che l’olivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni greci; pur senza dimenticare che dal greco derivano sia la parola olivo (elaìa), sia il termine etrusco amurca che, nella sua forma greca amòrghe, indica quel liquido amaro ottenuto dalla prima spremitura delle olive, che veniva scartato ed utilizzato come concime, nella concia delle pelli e nell’essiccazione del legno.Il vero problema, dunque, non è stabilire a quando risalga la presenza dei primi olivi in Italia, dato che certamente si trattava di piante che esistevano da molto tempo, almeno in forme selvatiche, quanto piuttosto definire il periodo in cui è cominciata la loro coltivazione in età storica, momento importante che segna l’inizio dello sfruttamento razionale delle campagne, tipico della civiltà urbana.Le evidenze linguistiche, letterarie ed archeologiche permettono di affermare che, già fra l’VIII e il VII sec. a.C. non solo la coltivazione dell’olivo era praticata, ma esistevano colture organizzate che, grazie al clima mediterraneo, ben presto permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi.Per quanto riguarda l’età storica esistono anche evidenze paleobotaniche: sono da ricordare il relitto della nave del Giglio, del 600 a.C. circa, con le sue anfore estrusche piene di olive conservate e la cosiddetta “Tomba delle Olive” di Cerveteri, databile al 575-550 a.C., contenente, oltre ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto, anche una sorta di caldaia piena di noccioli di olive.Non è facile ricostruire il paesaggio agrario dell’Etruria antica: le trasformazioni subite nel corso del tempo, e soprattutto l’impoverimento e l’abbandono delle campagne, iniziato in età romana, impediscono di cogliere, in tutti i suoi dettagli, una situazione che doveva essere comunque piuttosto fiorente. Anche il panorama offerto dalle fonti antiche va letto con prudenza, tenendo conto del contesto storiografico di appartenenza in cui dominavano la memoria di un passato felice e i riscontri di un realtà contemporanea, quella della prima età imperiale, in cui i caratteri del paesaggio etrusco e i metodi di conduzione agricola erano senz’altro strutturati in modo diverso.Per quanto riguarda i riscontri forniti dall’archeologia, le ricerche condotte in questi ultimi anni sui vasi-contenitori hanno permesso di analizzare, negli aspetti complementari di produzione, consumo e smercio, tipi di agricoltura intensiva quali le coltivazioni dell’olivo e della vite.Dopo una prima fase in cui i contenitori di olio deposti nelle tombe principesche del Lazio e dell’Etruria risultano essere in massima parte di importazione, nel corso del terzo quarto del VII sec. a.C. inizia una produzione in loco di questi vasi, destinata nel tempo ad intensificarsi: si tratta non solo di contenitori di essenze odorose a base di olio, ma anche di recipienti destinati a contenere olio alimentare. E’ il momento in cui l’olio e il vino da beni preziosi di marca esotica, inclusi nel commercio di beni di lusso, diventano in Etruria prodotti di largo uso come attestano appunto i loro contenitori che diventano frequentissimi nei corredi tombali in età alto e medio-arcaica: particolarmente diffusi sono i piccoli balsamari in bucchero e in ceramica figulina, che imitano gli aryballoy e gli alabastra corinzi di importazione.Per quanto riguarda l’ambito alimentare l’olio è sempre stato uno dei prodotti principali dell’antichità classica. Nel mondo romano non si usava altro condimento per cucinare, e per condire le insalate si utilizzava l’olio migliore: particolarmente rinomati erano l’olio verde di Venafro, come attestano Marrone, Plinio, Orazio e Stradone, e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo.
Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo.
Per questo motivo si consigliava anche di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio.
In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.
Solitamente erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele. Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico.Con le olive verdi si facevano le colymbadas (letteralmente “le affiorate”), così dette perché galleggiavano in un liquido fatto di una parte di salamoia satura e due parti di aceto. La preparazione consisteva nel praticare alle olive, dopo la salagione, due o tre incisioni con un pezzo di canna, e quindi tenerle immerse per tre giorni in aceto; poi le olive venivano scolate e sistemate con prezzemolo e ruta, in vasi da conserve che erano poi riempiti con salamoia e aceto facendo in modo che restassero ben coperte. Dopo venti giorni erano pronte per essere portate in tavola.
Un altro tipo di conserva era l’epityrum che si faceva sempre con le olive migliori, di solito le orcite e le pausiane: era una salsa molto saporita che si otteneva da frutti colti quando cominciavano appena ad ingiallire, scartando quelli con qualche difetto. Dopo aver fatto asciugare le olive sulle stuoie per un giorno, si mettevano in un fiscolo nuovo, cioè in una di quelle ceste di fibra vegetale fatte a forma di tasca, con un foro superiore e uno inferiore, in cui si racchiudevano le olive frantumate per poi spremere l’olio; quindi si lasciavano una notte intera sotto la pressa. Dopo di che venivano sminuzzate e condite con sale e aromi e, dopo aver messo l’impasto così ottenuto in un vaso lo ricopriva d’olio.Vi erano poi le conserve di olive nere, che si potevano fare sia con le pausiane mature che con le orcite ed in alcuni casi anche con le olive della qualità Nevia: la preparazione consisteva nel tenerle per 30-40 giorni sotto sale, poi, una volta scosso via tutto il sale, metterle sotto sapa defrutum.Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.Catone, Plinio e Columella e tutti gli scrittore latini di agricoltura più famosi hanno lasciato insegnamenti sulla coltivazione dell’olivo e sulla produzione dell’olio.E noto, ad esempio, che l’olio che si otteneva dalla torchiatura era piuttosto denso e che, per farlo diventare più fluido, occorreva riscaldare l’ambiente in cui veniva preparato per evitare che si rapprendesse: è per questo che l’olio aveva spesso odore di fumo. In qualche occasione, e naturalmente a seconda della temperatura esterna, era sufficiente che il locale dei torchi (torcular) fosse rivolto a sud ed esposto ai raggi del sole, anzi, gli esperti ritenevano che questa fosse la soluzione migliore per garantire la buona qualità del prodotto. E infatti, nella villa della Pisanella a Poggioreale, dove è venuto alla luce un interessante esemplare di torchio da olio, la cella olearia era intiepidita naturalmente, in virtù della sua esposizione al sole.Gli autori antichi descrivono minuziosamente le macchine impiegate dai Greci e dai Romani per la torchiatura delle olive; le scoperte archeologiche hanno poi permesso di controllare e di completare le loro testimonianze.La prima fase della preparazione dell’olio d’oliva consisteva nello schiacciamento dei frutti. La mola olearia assomigliava a quella granaria, essendo anch’essa costituita da due pietre cilindriche, una fissa, il bacino o sottomola, l’altra mobile, la mola verticale: l’operazione di schiacciamento era seguita in modo assai semplice, facendo rotolare una pietra cilindrica avanti e indietro sopra le olive poste in un contenitore.
Il “frantoio” romano, puntualmente descritto da Columella (I sec. d.C.) era di un tipo assai simile a quelli usati anche in età moderna.Sulla base dei dati disponibili è possibile proporne una ricostruzione più che plausibile. In dettaglio, gli elementi componenti la macchina dovevano essere i seguenti:
Base in muratura, superiormente concava, per meglio alloggiare la sottomola
Sottomola
Sostegno verticale in legno dove è infilata la stanga. L’inserzione di questa nel sostegno doveva prevedere la possibilità di regolare l’altezza della mola per non schiacciare i noccioli delle olive
Disco della mola, costituito da una pietra cilindrica che l’uso deforma leggermente in senso troncoconico. Il disco è inserito nella stanga in modo da poter girare sia intorno al sostegno centrale, sia attorno al proprio asse. Il disco della mola era mantenuto nella posizione corretta per mezzo di cunei in legno (clavi)
Stanga, la cui estremità è collegata ai finimenti che imbrigliano l’asino sottoposto alla mola.
Quando il perno centrale veniva fatto ruotare, i rulli giravano rapidamente a una distanza regolabile sopra il recipiente che conteneva le olive era così possibile separare la polpa senza schiacciare i noccioliDopo la frangitura, le olive venivano pressate. Per questo secondo passaggio in antico venivano usate presse a trave, simili a quelle usate per il vino. Sembra che la pressa a trave abbia avuto origine e si sia sviluppata nella civiltà egea, dove la coltivazione delle olive era già diffusa agli inizi dell’età del bronzo, ma non si sa con certezza a quale epoca risalga.I resti più antichi conosciuti di una pressa e di un bacino per schiacciare le olive sono quelli rinvenuti a Creta che appartengono al periodo minoico (1880-1500 a.C. ca.): sono però insufficienti per una ricostruzione dettagliata dello strumento. Un’altra pressa a trave per olive, risalente al tardo periodo elladico (1600-1250 a.C. ca.) fu trovata in una delle isole Cicladi. Dopo il 1000 a.C. circa, le presse di questo tipo divennero più frequenti e ne esistono alcune rappresentazioni, in particolare su vasi attici a figure nere del VI sec. a.C.La pressa a trave applica il principio della leva: un’estremità della trave era appoggiata in un incavo del muro, o fra due pilastri di pietra, l’altra veniva tirata giù o spesso caricata con pesi (uomini e pietre). Le olive, sistemate in sacchi o tra tavole di legno, venivano schiacciate sotto la parte centrale della trave e il succo era raccolto in un recipiente sistemato sotto il piano della pressa.Plinio descrive con molta chiarezza quattro tipi di presse. La prima è la vecchia pressa trave di cui parla anche Catone (234-149 a.C.) il cui funzionamento è stato però nel frattempo alquanto meccanizzato. Un’estremità della trave, spesso lunga fino a 15 metri, era fissata sotto una sbarra trasversale posta tra due pali di legno. Le olive schiacciate erano ammucchiate sotto questa pesante trave e la pressione veniva esercitata facendo abbassare l’altra estremità della trave che era tirata in basso da una fune arrotolata intorno ad un tamburo del diametro di 40-50 centimetri. Un secondo miglioramento che permetteva una pressione regolare e prolungata, era attuato nella pressa descritta da Erone (I sec. d.C.), ma gia nota da molto tempo e probabilmente inventata in Grecia. Tale pressa era costituita da un peso di pietra, una trave e un tamburo girevole, Partendo dalla base, una corda passava sotto una puleggia collocata sul peso e sopra un’altra puleggia situata sulla trave, raggiungendo il tamburo. Quando la corda era avvolta al tamburo la trave riceveva l’intero peso della pietra.La massa da pressare era racchiusa in vari modi: dentro fiscoli di corda, giunchi intrecciati, o cesti. Oppure: “le olive venivano schiacciate dentro cesti di vimini o mettendo la pasta tra due asticelle” (Plinio).Le presse a trave erano particolarmente adatte per operazioni su larga scala, quando invece si trattava di quantità limitate, come anche nel caso di semi oleosi, si preferivano altri metodi come la pressa a vite. Di quest’ultima Plinio dice che sembra sia stata introdotta a Roma verso la fine del I secolo a.C., ma che era stata probabilmente inventata in Grecia nel II o I secolo a.C.In una versione perfezionata di questo tipo di pressa, descritta sia da Erone sia da Plinio, la vite solleva un peso di pietra. Questo tipo, chiamato anche “pressa greca”, era senz’altro in uso a Roma ai tempi di Vetruvio (I sec. a.C.).Quindi l’olio veniva messo a decantare in vasche che precedevano il lacus destinato alla raccolta finale del prodotto.
Prof.ssa G. Carlotta Cianferoni-Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana
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