-Franco Leggeri Fotoreportage-“Il Castello di Torre in Pietra”
Franco Leggeri Fotoreportage-Il Castello di Torre in Pietra, detto anche Castello Falconieri, è un castello situato a Torrimpietra, frazione del comune di Fiumicino, in provincia di Roma. Inizialmente il borgo era un castra attorniato da torri e da mura di cinta. Nel 1254 il castello era proprietà della famiglia normanna degli Alberteschi, poi passò agli Anguillara che, nel 1457, per mano di Lorenzo e Felice Anguillara, per 3000 ducati d’oro lo vendettero a Massimo di Lello di Cecco dei Massimo, quindi passò ai Peretti. Nel 1639 fu venduta ai principi Falconieri. Ferdinando Fuga realizzò la chiesa e lo scalone del piano nobile del castello, indi Pier Leone Ghezzi ne realizzò gli interni, perlopiù gli affreschi inerenti all’anno giubilare 1725. Il Castello che oggi ammiriamo è sostanzialmente quello che ci hanno lasciato i Falconieri. Gli affreschi sono perfettamente conservati: possiamo rivivere i fasti dell’anno giubilare 1725, quando il Ghezzi viene chiamato da Alessandro Falconieri a decorare il piano nobile con scene celebranti la visita al castello del Papa Benedetto XIII. All’interno della chiesa ottagonale, gli affreschi sugli altari laterali sono ulteriori testimonianze della sua opera. Infine, nella seconda metà dell’ottocento, i Falconieri si estinguono e Torre in Pietra conosce un’epoca di decadenza[2]. Nel 1926 passò al senatore Luigi Albertini che ne bonificò le terre secondo le moderne tecniche e la rese tra le più prestigiose aziende zootecniche italiane. Nel 1941 passò a sua figlia Elena Albertini, sposata con il conte Nicolò Carandini, i cui eredi tuttora risultano proprietari del castello-Fonte Wikipedia-
Foto di Franco Leggeri-Le foto del Castello di Torre in Pietra , sono stati scatti eseguiti per provare vari obiettivi e fotocamere Reflex-:NIKON e CANON-
il CASTELLO DI TORRE IN PIETRA
Castello di Torre in Pietra
Il Borgo di Torre in Pietra che sorge in una vasta zona agricola e boschiva protetta in antico da una “Turris in petra” poco distante e ancora esistente.
Il Borgo si identifica essenzialmente nella struttura denominata più specificamente “Castello” cioè l’insieme delimitato da mura, ma comprende anche alcuni edifici ai margini della cinta muraria, abitativi e commerciali (ristorante, cantina). Il Castello, che si ritiene sorga nel luogo della stazione romana Baebiana, ha origine medioevale e di quell’epoca conserva ancora quasi intatta la struttura rettangolare cinta da mura e definita da torri angolari.
Tra i vari edifici c’è il “Palazzo”, una residenza signorile risultato di interventi di ampliamento e di fusione di più edifici preesistenti ad opera delle famiglie Peretti e Falconieri. A difesa del castrum, al di sopra di un fossato ormai colmato, in direzione Roma, si erge una torre angolare con funzione abitativa e di avvistamento, che si affaccia sul cortile medioevale detto dei cavalli, dalla presenza della scuderia e della selleria. Un edificio seicentesco, a destinazione abitativa, è addossato al lato esterno delle mura, che ne costituiscono la facciata verso il giardino, e ingloba al suo interno una delle torri minori medioevali. Il giardino conserva una fontana seicentesca, tratti di basolato romano, platani e pini secolari.
Il Castello di Torre in Pietra nel 1254 è citato tra i possedimenti della nobile famiglia Normanni Alberteschi, poi diviene proprietà degli Anguillara e dei Massimo. Nel 1590 viene acquistato da Camilla Peretti, sorella di Papa Sisto V. Nei primi anni del 600 il Principe Michele Peretti fa costruire nel borgo fortificato una nuova, grande e sfarzosa residenza signorile dall’architetto Michele Peperelli.
Nel 1639 la tenuta e il Castello sono venduti ai Principi Falconieri, che chiamano a lavorare a Torre in Pietra due grandi ingegni del tempo: l’architetto Ferdinando Fuga, che realizza la chiesa e il nuovo scalone di accesso al piano nobile, e il pittore Pier Leone Ghezzi, che esegue gli affreschi nei saloni del piano nobile e su due altari della Chiesa, ancora oggi perfettamente conservati.
Nella seconda metà dell’800 i Falconieri si estinguono e Torre in Pietra conosce un’epoca di decadenza. Il castello passa nelle mani di diverse famiglie, tra le quali i Florio di Sicilia, fino a quando, nel 1926, diviene proprietà del Senatore Luigi Albertini che, insieme ai figli Leonardo ed Elena e al genero Nicolò Carandini, si impegna in un’imponente opera di bonifica della tenuta agricola e di restauro di castello, chiesa e borgo. I lavori sono condotti dall’architetto Michele Busiri Vici, con il contributo del pittore Eugenio Cisterna.
Dal 1990 i figli e nipoti eredi di Elena e Nicolò Carandini conservano e abitano il Castello, aperto a visite ed eventi, e conducono l’azienda agricola e la cantina.
Foto di Franco Leggeri-Le foto del Castello di Torre in Pietra , sono stati scatti eseguiti per provare vari obiettivi e fotocamere Reflex-:NIKON e CANON-
il CASTELLO DI TORRE IN PIETRA
Il Castello di Torre in Pietra è un meraviglioso complesso architettonico di origine Medioevale, con importanti testimonianze di architettura e pittura sei-Settecentesche. Sono ancora perfettamente conservati il fossato, la torre di guardia e le mura di cinta che abbracciano tutto il complesso, all’interno del quale, nel corso dei secoli, sono stati costruiti e trasformati diversi importanti edifici. Domina su tutto il palazzo Seicentesco, posto al centro del Borgo all’interno del quale, salendo al piano Nobile, si possono ammirare i magnifici affreschi, opera del pittore Pier Leone Ghezzi, che ha decorato le sale con una sequenza di paesaggi, trompe l’oeil, scene religiose, figure di nobili e chierici, figure allegoriche, stemmi, ritratti di Cardinali e di Papa Benedetto XIII. Davanti al palazzo un ampio cortile, in parte lastricato da basolato Romano, conduce a due grandi giardini, ombreggiati da platani e pini secolari, con al centro un’antica fontana. Sul lato destro si affaccia la bella Chiesa ottagonale di S. Antonio Abate, opera Settecentesca del celebre architetto Ferdinando Fuga, decorata anch’essa dal Ghezzi. Sulla sinistra, al piano terra di un altro edificio, si raggiunge la vasta Sala Peretti, con il suo imponente soffitto a volta e il bel camino, recentemente restaurata. Una cintura di boschi circonda e protegge il Castello che mantiene il suo carattere affascinante e segreto nonostante la sua vicinanza alla via Aurelia e a Roma.
La storia del Castello di Torre in Pietra L’attuale complesso di edifici ha origini Medioevali e si è costituito nella forma di un castrum, un villaggio agricolo fortificato attorno a una residenza signorile, secondo un modello di insediamento rurale molto diffuso all’epoca nella campagna Romana; lo si può veder ancora oggi osservando le torri, il bastione, il fossato e le mura di cinta.
Il primo documento nel quale si descrive questo insediamento con l’antico nome di “Castrum Castiglionis” è un testamento che risale al 1254, nel quale viene menzionato tra i beni che un Nobile della famiglia Romana dei Normanni Alberteschi lascia in eredità a uno dei suoi figli. Diventa in seguito proprietà degli Anguillara e dei Massimo.
Il nome di Torre in Pietra, che deriva da una Torre isolata costruita su un roccione di pietra nei pressi del castello, è indicato per la prima volta in una pianta del 1620 dove sono illustrate le tenute dei principi Peretti. Nel 1590, infatti, la tenuta venne acquistata da Camilla Peretti, sorella di Papa Sisto V°, e Michele Peretti, nipote del Papa, commissionò all’architetto Francesco Peperelli la costruzione di una nuova residenza signorile sui resti del castrum Medioevale.
Al piano Nobile alcune sale, secondo l’usanza del tempo, vennero rivestite con pannelli di cuoio decorato, altre affrescate. Il palazzo che noi oggi vediamo conserva ancora quasi intatto il suo impianto seicentesco e lo stemma Peretti campeggia ancora sul portone d’ingresso. Ma l’altissimo tenore di vita intaccò irrimediabilmente il loro patrimonio familiare e così, nel 1639, i Peretti dovettero vendere il castello e la tenuta al principe Orazio Falconieri.
I Falconieri, che ebbero Torre in Pietra tra i loro possedimenti per più di due Secoli, erano dei potenti banchieri che raggiunsero l’apice del potere e della ricchezza quando nel 1724 Alessandro, nipote di Orazio, fu nominato Cardinale dal Papa Benedetto XIII°. Tra il 1712 e il 1725, Alessandro volle mutare in parte l’aspetto seicentesco del Castello, chiamando due ingegni del suo tempo: l’architetto Ferdinando Fuga e il pittore Pier Leone Ghezzi. La chiesa Medioevale venne abbattuta e ricostruita su disegno del Fuga, che progettò anche il nuovo scalone d’ingresso al palazzo. Sia la Chiesa che i saloni del piano Nobile vennero poi affrescati dal Ghezzi.
Dal 1870 il castello e la tenuta passarono nelle mani di numerosi proprietari (i Carpegna, i Florio, la Società Bonifiche Agrarie) e conobbero un lungo periodo di abbandono, fino a quando nel 1926 divennero di proprietà del Senatore Luigi Albertini. Egli, avendo dovuto abbandonare la direzione del Corriere della Sera per la sua opposizione al fascismo, dedicò tutte le sue risorse a una imponente opera di bonifica dei terreni paludosi, di avvio di un’azienda agricola modello, e di restauro del castello, della chiesa e del borgo, coadiuvato dal figlio Leonardo Albertini e dal genero Nicolò Carandini.
Matrimoni al castello di Torre in Pietra Il castello è il luogo ideale per celebrare matrimoni religiosi nella Chiesa dedicata a S. Antonio Abate e, grazie alla convenzione con il Comune di Fiumicino, il rito del matrimonio civile.
Visite al castello e alla cantina Organizziamo anche visite guidate al Castello e alla Chiesa e, in collaborazione con la Cantina, degustazioni di vini e visite guidate della Cantina.
Torrimpietra è stata la quarantaseiesima zona di Roma nell’Agro romano, indicata con Z. XLVI, istituita con delibera del commissario straordinario n. 2453 del 13 settembre 1961 e soppressa con delibera del commissario straordinario n° 1529 dell’8 settembre 1993[2] a seguito dell’istituzione del comune di Fiumicino, avvenuta con legge regionale n. 25 del 6 marzo 1992.
Il toponimo deriva dalla Torre In Pietra, castello del XIII secolo.
Chiesa di Sant’Antonio Abate, su via Francesco Marcolini.
Chiesa di San Pietro
Chiesa della Misericordia
Economia
Fino alla fine degli anni novanta del Novecento l’economia comunale, tra cui l’allevamento di bovini, era legata principalmente all’azienda locale, denominata appunto Torre in Pietra, che produceva latte fresco pastorizzato e yogurt, un tempo appartenuta ai proprietari della Tenuta Torre in Pietra; lo storico marchio ha poi spostato la sua produzione altrove e oggi non è più legato alla realtà locale. È ancora in attività invece la produzione di vino nella storica cantina del castello[3].
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Torre della Bottaccia disegno ricavato dal Catasto Alessandrino del sec. XVII
Franco Leggeri Fotoreportage -Roma Municipio XIII-Torre della Bottaccia di Castel di Guido –
ROMA Municipio XIII-Franco Leggeri Fotoreportage -La Torre della Bottaccia è sita sulla via Aurelia Antica, Municipio XIII- Brano e foto tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.In Italia esistono luoghi, se pur carichi di storia per le Città e i Borghi dove sorgono, lasciati nel degrado e nella più completa rovina. Le Torri della Campagna Romana non sono “pietre disperse” e senza storia , ma sono sicuramente edifici, porzione di edifici, dal passato antico che per qualche ragione sconosciuta non godono dei “diritti” di recupero e restauro come di altri luoghi simili esistenti nella Roma Capitale d’Italia.La Torre della Bottaccia è forse condannata a una fine ignobile, soffocata dai suoi stessi calcinacci?
A proposito delle Torri della Campagna Romana il Tomassetti scrisse:”…pensi il lettore , contemplandole ora così poeticamente desolate, quasi giganti feriti ed impietriti sul posto , a ricostruire la Storia con l’immaginazione , e figurarsi le feste, gli armamenti, le battaglie, tutto ciò che formò la vita agiata della Campagna Romana nel Medioevo; ed egli dovrà convenire con me che esse esercitano grande seduzione nella nostra mente. Pensino pertanto i proprietari dell’Agro Romano a conservare gelosamente questi ruderi dell’Arte e della Poesia; ne impediscano ai pecorari e ai contadini la continua malversazione; pensi il Governo a farne compilare l’esatto elenco ed a farne regolare consegna ai proprietari, come dei Monumenti Antichi, sia perché hanno aspetto pittoresco , sia perché appartengono alla Storia; e col tempo la posterità domanderà conto alla presente generazione del non aver arrestato e posto fine ai guasti dovuti all’ignoranza dei nostri predecessori ”.Brano e foto tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.
Campagna Romana.
ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della Bottaccia Foto di Franco Leggeri
Disegno copiato dal catasto Alessandrino del secolo XVII.
Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaTorre della BOTTACCIATorre della BOTTACCIATorre della BOTTACCIATorre della BOTTACCIAROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaTorre della BOTTACCIA
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Castelli Romani- “Afrodite di Tuscolo”. Essere acefala acuisce il mistero-
Castelli Romani-“Afrodite di Tuscolo”-Durante una interessante serie di scavi effettuati nell’area del sito delle Terme di Adriano, a Tuscolo (in latino, Tusculum), un’antica città del Lazio, che secondo la leggenda fu fondata da Telegono, figlio di Ulisse e della maga Circe, sita sui Colli Albani/Castelli Romani non molto lontana da Roma, inizialmente latina e successivamente romana, è stata scoperta una sala termale, ricoperta da diversi strati di depositi medievali, ed una statua femminile, sicuramente di epoca romana, meravigliosamente scolpita in marmo, forse pario (parian lychtites): questo è una varietà di marmo bianco a grana fine, altamente apprezzato da scultori e amatori, estratto dalle cave dell’isola greca di Paro.
Castelli Romani-“Afrodite di Tuscolo”-
Peccato, però, che la statua sia acefala e gli arti superiori siano privI di parti. Il ritrovamento è avvenuto a seguito di una campagna di scavi programmata per la realizzazione del progetto Tuscolo Eterna Bellezza, dopo gli studi effettuati dalla Scuola Spagnola di Storia ed Archeologia di Roma (EEHAR-CSIC), avente lo scopo di scoprire la struttura termale d’epoca adriana, datata fra il I e il II secolo d.C. E il fatto che la statua sia priva del capo mette su piani diversi gli studiosi, che non riescono a mettersi d’accordo sull’identità della donna rappresentata. Pertanto, è un mistero che, di per sé, rende interessanti gli approfondimenti degli studi, imponendo agli archeologi di sbrigliare la loro fantasia, facendo ipotesi e confrontandole fra di loro. E, infatti, sono state ventilate tre ipotesi: secondo la prima, la donna potrebbe essere una menade (donna invasata del dio del vino, Dioniso, il Bacco dei Romani); oppure, una musa (dea della danza, del canto e del suono); o, ancora, una ninfa (dea minore della natura). Comunque, poiché gli studiosi non riescono a mettersi d’accordo su quello che può essere il personaggio rappresentato dalla statua, li lasciamo ai loro incontri ed alle loro discussioni, con la speranza che possano giungere alla sua identificazione definitiva, e noi, intanto, ce la godiamo così com’è, come una maschera veneziana della Festa del Redentore, che non si sa chi nasconda. D’accordo, mancano la testa e parte delle braccia, ma ciò non toglie il piacere di ammirarne la struttura, immensamente bella, con il vestito raffinato, ricco di drappeggi, ed il solido seno destro scoperto, come lo era quello delle Amazzoni per poter più liberamente usare le armi; interessante l’allacciatura del vestito al braccio dovuta ad una serie di bottoncini; inoltre, sul lato sinistro, la nabride, cioè la pelle del cerbiatto, dalla quale pendono le zampette della bestiola, munite delle loro unghiette: come il resto, costituisce un complesso bello, raffinato e sicuramente molto elegante. Non c’è nulla da eccepire: la statua è a tutto tondo, ricavata a grandezza naturale, da un blocco unico di un meraviglioso marmo, con rifiniture meticolosamente realizzate da uno scultore di qualità eccelsa. Dopo essere stata estratta dal suolo, la statua è stata trasportate in un laboratorio dell’Istituto Centrale per il Restauro per sottoporla ad un attento recupero conservativo, pronta per andare ad arricchire il già cospicuo patrimonio archeologico del museo di Tuscolo. Si tratta di un reperto che, come ha chiarito il responsabile della Soprintendenza Direzione Generale Archelogia, Belle Arti e Paesaggio, molti musei capitolini l’avrebbero ospitato a braccia aperte; ma si preferì affidarlo al luogo dove era stato ritrovato, dopo che fu esposto al pubblico nei giorni 29 e 30 settembre 2023. E non solo, perché si è deciso di continuare le ricerche, mettendo insieme, con spirito di collaborazione, le forze del Museo, del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), del DigiLab della Comunità di Roma e la già citata Scuola Spagnola di Storia e Archeologia di Roma attraverso il suo direttore, Antonio Pizzo. Che l’Afrodite di Epidauro fosse molto apprezzata lo dimostrano le copie eseguite e note (non si sa se ne esistano altre, ancora non scoperte), che sono conservate nei musei di Atene, Monaco, Genova, Firenze e Roma.
Il Tempio-I resti del monumento sono situati nell‘area archeologica di Metaponto, più precisamente sull’ultima ondulazione dei Givoni, antichi cordoni litoranei, presso la sponda destra del fiume Bradano, eretto sui resti di un antico villaggio neolitico, lungo la strada preistorica proveniente da Siris-Heraclea, a circa 3 km dall’antica città di Metaponto.
Fotoreportage di Franco Leggeri-METAPONTO -Tempio di Hera
STORIA
Il tempio delle Tavole Palatine, restaurato nel 1961, era stato inizialmente attribuito al culto della dea Atena, successivamente sul frammento di un vaso, trovato nel corso degli scavi archeologici del 1926, venne rinvenuta una dedica votiva alla dea Hera. Fino al XIX secolo le Tavole Palatine erano localmente definite anche “Mensole Palatine” o “Colonne Palatine“, probabilmente in ricordo alle lotte contro i Saraceni dei Paladini di Francia. Il tempio era anche chiamato “Scuola di Pitagora“, in memoria del grande filosofo Pitagora. Nel medioevo era ancora chiamato “Mensae Imperatoris“, probabilmente a ricordo dell’imperatore Ottone II che, nella spedizione contro i Saraceni del 982, si accampò a Metaponto.
Fotoreportage di Franco Leggeri-METAPONTO -Tempio di Hera
DETTAGLI
I resti del tempio sono composti da 15 colonne con 20 scanalature e capitelli di ordine dorico. Delle 15 colonne, 10 sono sul lato settentrionale e 5 sul meridionale. In origine le colonne erano 32, poiché il tempio aveva una forma periptera con 12 colonne sui lati lunghi e 6 sui lati corti. Lo stilobate era lungo 34,29 metri e largo 13,66 metri, la cella di 17,79 x 8,68 metri. Il tempio risulta molto degradato, poiché costruito con calcare locale (detto mazzarro)
Fotoreportage di Franco Leggeri-METAPONTO -Tempio di Hera
ITINERARI
Bernalda: Castello, Chiesa madre di San Bernardino da Siena, Palazzo Margherita; spiagge del Metapontino, Torre Mare con la chiesa di San Leone Magno;
Pisticci: chiesa madre di Santi Pietro e Paolo, Rione Dirupo e Terravecchia, Castello di San Basilio, Torre dell’Acquedotto;
Policoro: Castello Baronale, Museo della Siritide, Parco archeologico di Herakleia;
Montescaglioso: Abbazia di San Michele Arcangelo;
Miglionico: Castello del Malconsiglio
Matera
Fonte- Museo Archeologico Nazionale Metaponto
Contatti
Museo Archeologico Nazionale Metaponto
Via D. Adamesteanu, 21
75010 Bernalda (MT)
Fotoreportage di Franco Leggeri-METAPONTO -Tempio di Hera
Descrizione dal sito MiC – Ministero della Cultura
I resti del monumento sono situati nei pressi di Metaponto, nell’area archeologica del Tempio di Hera detto delle Tavole Palatine, presso la sponda destra del fiume Bradano. Si tratta delle rovine del tempio di stile dorico, eretto nel VI secolo a.C., che ornava il santuario extraurbano dedicato alla stessa dea Hera e marcava, visibile a distanza, il confine con il territorio della polis antagonista di Taranto.
Fotoreportage di Franco Leggeri-METAPONTO -Tempio di Hera
Fino al XIX secolo le Tavole Palatine erano localmente definite anche “Mensole Palatine” o “Colonne Palatine”, forse in ricordo delle lotte dei Paladini di Francia contro i Saraceni.
Fotoreportage di Franco Leggeri-METAPONTO -Tempio di Hera
Nel medioevo risulta anche il nome “Mensae Imperatoris”, che richiama il passaggio dell’imperatore Ottone II il quale, nel X secolo d.C., si accampò a Metaponto di ritorno dalla spedizione contro i Saraceni.
Fotoreportage di Franco Leggeri-METAPONTO -Tempio di Hera
Del tempio si conservano 15 colonne sormontate da capitelli di ordine dorico e dagli architravi. L’edificio, in origine dotato di 32 colonne, 12 si lati lunghi e 6 sulle fronti. La cella, di cui si conservano solo i blocchi di fondazione, era munita di pronao, naos e adyton. Il tempio era ornato da ricche decorazioni architettoniche in terracotta policroma, i cui resti sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Metaponto.
Fotoreportage di Franco Leggeri-METAPONTO -Tempio di Hera
Da alcuni anni una missione della Scuola Superiore Meridionale ha ripreso gli scavi nell’area del tempio e del santuario.
nelle incisioni , affreschi , dipinti e foto dal 1500 sino al 1900-
Ricerca e pubblicazione a cura Franco Leggeri per l’Associazione DEA SABINA
Ratto delle Sabine-Autore: Poussin Nicolas (1594-1665)
Descrizione: La stampa rappresenta il momento più drammatico del Ratto delle Sabine. La scena si svolge in un contesto urbano dove, sullo sfondo, fanno da quinta un tempio e diversi edifici cittadini ripresi nella classica prospettiva centrale. A sinistra, su di un piedistallo, davanti a due uomini togati, si trova Romolo, ripreso in una teatrale posa plastica, con la corona che gli cinge il capo e la mano sinistra elevata chiusa a pugno intorno a un lembo del suo mantello. È intento a impartire ordini mentre intorno a lui si concretizza la violenza, con uomini e donne che lottano e fuggono. Nella parte inferiore, al di sotto dell’immagine, si trova un’iscrizione in caratteri capitali e corsivi che funge da didascalia all’immagine stessa.
Notizie storico-critiche: La stampa di traduzione fa parte di una serie di incisioni che illustrano la storia delle origini di Roma sulla base delle fonti storiche di Plutarco (Vite Parallele, Vita di Romolo) e di Tito Livio (Storia di Roma dalla fondazione). In particolare lo storico latino Tito Livio, nato nel 59 a. C. e morto nel 17 d. C. a Padova, dedica tutta la sua vita alla stesura di un’unica colossale opera storiografica “Ab Urbe condita libri”, che inizia dopo il 27 a. C. e viene pubblicata in successione per gruppi di libri; l’ultimo volume esce dopo la morte di Augusto, avvenuta il 14 d.C. L’intenzione dell’autore era quella di coprire l’intera storia di Roma dalle origini fino all’età contemporanea, ma la narrazione si ferma con il libro CXLII, che giunge fino alla morte di Druso (9 a.C.). La data della fondazione di Roma è stata fissata dallo Storico Latino Varrone sulla base dei calcoli effettuati dall’astrologo Lucio Taruzio. Il soggetto della presente stampa è preso da un famoso dipinto di Poussin del 1637/ 1638, oggi conservato al Louvre, che il veneto Angelo Biasioli incide utilizzando la raffinata tecnica dell’acquatinta per restituire i passaggi tonali e chiaroscurali dell’animata scena mitica, nella quale la classicità è esaltata sia nelle architetture che nei costumi. Biasioli lavora soprattutto a Milano per diversi editori; questa tiratura, eseguita proprio a Milano dall’editore Luigi Valeriano Pozzi, è presumibilmente eseguita tra il 1820, quando i rami di buona parte della serie sono già stati tirati dall’editore romano Scudellari (1819), ed il 1824, quando la serie compare sul Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti (tomo XXXIV, aprile maggio giugno 1824) come edite dal milanese Pozzi.
Collocazione
Provincia di Cremona
Ente sanitario proprietario: A.S.S.T. di Crema
Compilazione: Casarin, Renata (2009)
Aggiornamento: Uva, Cristina (2012)-
Descrizione
Autore: Poussin Nicolas (1594-1665), inventore; Sala Vitale (1803-1835), disegnatore; Biasioli Angelo (1790-1830), incisore; Pozzi Luigi Valeriano (notizie 1800 ca.-1808), editore
Cronologia: post 1820 – ante 1824
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ acquaforte; carta/ acquatinta
Misure: 565 mm x 480 mm (parte incisa); 66 cm x 58 cm (cornice)
Ratto delle Sabine-Autore: Conti Primo (1900-1988)-Studio per il ratto delle sabine
Descrizione
Identificazione: Studio per il ratto delle sabine
Autore: Conti, Primo (1900-1988)
Cronologia: 1924
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ grafite
Misure: 279 mm x 212 mm
Descrizione: matita di grafite su carta
Notizie storico-critiche:A cavallo tra la fine degli anni Dieci e gli inizi del decennio successivo, nell’opera di Primo Conti si osserva una svolta poetica che condurrà la pittura dell’artista fiorentino lontano dall’aggressione futurista, per assorbire gradualmente, invece, un sintetismo formale di carattere purista, tipico della corrente novecentista, ma scevro da quella retorica compositiva per cui quest’ultima si contraddistingue. Tra le più grandi e articolate composizioni di figure del pittore, il “Ratto delle sabine”, presentato alla “III Esposizione Internazionale di Roma”, si concretizza per una fortissima novità espressiva lontana dagli archetipi novecenteschi. Il dipinto infatti è definito da Enrico Crispolti come un’opera “furiana”, nel quale “la “sospensione” malinconica, la sottile insinuazione di malaise psichico avviene smussando cromaticamente la nettezza del plasticismo purista, introducendo spiazzamenti asimmetrici, e ritmi di profili continuamente ondulati e curvilinei, ma mai in senso d’ispirazione geometrica” (E. Crispoldi, Primo Conti: catalogo retrospettivo per le mostre tenute in occasione dei sessanta anni di lavoro dell’artista, Firenze 1971). In alcune lettera indirizzate all’amico Pavolini, Conti racconta le vicende che hanno contrassegnato la realizzazione dell’opera. Il 29 ottobre 1924, fa sapere, “esporrò a Roma insieme al Trittico e a qualche ritratto, un Ratto delle Sabine del quale non possiedo altro che qualche disegno” e nuovamente allo stesso il 13 novembre scrive “stò ultimando i disegni per il Ratto delle Sabine”, e ancora annuncia la fine del lavoro con una lettera del 14 gennaio 1925 “fra qualche ora, forse, metterò l’ultima pennellata e la firma alle Sabine”, e la stessa sera conclude con una cartolina dicendo “Le Sabine vivono ormai di luce propria” (Calvesi, in Primo Conti 1911-1980, Firenze 1980). Tra i numerosi bozzetti preparatori di cui l’artista parla nelle lettere a Pavolini, due disegni firmati e datati “P. Conti / 1924” sono conservati presso la Fondazione dedicata al pittore a Fiesole, mentre un altro bozzetto, firmato e datato come i precedenti, è custodito presso le Raccolte Civiche del Gabinetto di Disegni del Castello Sforzesco dal 1932, dopo essere stato donato dall’autore stesso alle raccolte pubbliche milanesi. Il disegno raffigurante la parte sinistra del dipinto, così come l’opera a olio o i disegni della fondazione (i quali descrivono invece la parte destra e la parte centrale del quadro, attraverso linee più abbozzate e veloci e senza rifinitura o forti contrasti chiaroscurali) è contraddistinto da una composizione ottenuta mediante il serrato incastro volumetrico dei corpi che si affollano, contorcendosi attraverso un energico dinamismo, inedito fino a questo momento nelle opere del pittore. Confrontando il dipinto con il disegno in questione, si osservano piccole differenze nella raffigurazione dei personaggi e di alcuni particolari. Nel disegno è infatti assente la donna in secondo piano sulla destra tra le quatto figure o i due lembi di panneggio accanto alla donna accovacciato a terra. Ancora, nel disegno il piccolo omino in basso che sembra scappare in primo piano, nel dipinto diventa un carnefice ed è posto stavolta sullo sfondo. Il disegno milanese, probabilmente uno degli ultimi realizzati dall’artista, è caratterizzato da un fitto chiaroscuro eseguito con matita dura tramite linee oblique parallele, le quali invadono tutta la composizione risultando più marcate e fitte tra le giunture dei vari corpi che si accostano tra di loro.
Ratto delle Sabine-l’Affresco raffigura un episodio mitico delle origini di Roma
Descrizione
Ambito culturale: Ambito comasco
Cronologia: post 1615 – ante 1630
Tipologia: pertinenze decorative
Materia e tecnica: affresco finito a secco
Misure: 170 cm x 13 cm x 120 cm
Descrizione: L’affresco, realizzato sulla parete destra del salone, è presentato illusionisticamente come un quadro racchiuso in una cornice di legno e fissato alla parete. Raffigura un episodio mitico delle origini di Roma, il cosiddetto Ratto delle Sabine, ordinato da Romolo per supplire alla carenza di donne dei romani. L’anonimo pittore raffigura il rapimento delle mogli e delle figlie dei Sabini, un’antica popolazione del Lazio, messo in atto dai soldati romani che le avevano attirate con l’inganno nella loro città. Una particolarità dell’affresco è costituita dall’ambientazione della scena, che si svolge in una città di Roma trasfigurata dalla fantasia, dove il richiamo all’architettura antica, rappresentata dal tempio circolare a sinistra, più vicino alle architetture rinascimentali di Bramante che agli edifici classici, si affianca a una sfilata di edifici moderni, molto simili a quelli che si potevano vedere nella Como di primo Seicento. Anche il paesaggio d’acque,con barche cariche di merci, più che al fiume Tevere sembra ispirarsi a una veduta marina o, addirittura, al lago di Como su cui si affaccia la villa dei Gallio.
Notizie storico-critiche:L’affresco con il Ratto delle Sabine fa parte della decorazione del salone centrale di villa Gallia, edificata a partire dal 1614. Non conosciamo il nome dell’artista che eseguì questo affresco e la datazione esatta del suo intervento, che molto verosimilmente fu commissionato dall’abate Marco Gallio, cui si deve la costruzione dell’edificio. Come altre scene del salone, anche questa è un omaggio diretto alla storia di Roma, città in cui Marco Gallio aveva vissuto a lungo a fianco del potente zio cardinale Tolomeo, artefice della fortuna della famiglia.
Ratto delle Sabine-disegno probabilmente preparatorio per una scena teatrale-
seconda metà del XVII secolo
Descrizione
Ambito culturale: ambito veneto
Cronologia: ca. 1750 – ca. 1799
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ matita/ penna/ inchiostro/ acquerellatura
Misure: 495 mm. x 397 mm.
Descrizione: Matita, penna, inchiostro nero, acquerello grigio, acquerelli colorati su carta bianca. Filigrana intera: forma di aquila stilizzata che regge due lance e, sotto, in lettere capitali, “LAF”.
Notizie storico-critiche:Il disegno, probabilmente preparatorio per una scena teatrale, non reca alcuna attribuzione: per il tratto leggero, frammentato e luminoso, per l’acquerellatura di delicata policromia, è probabilmente da assegnare ad un artista veneto, attivo nella seconda metà del XVII secolo.
Collezione: Collezione di disegni di Riccardo Lampugnani del Museo Poldi Pezzoli
Ratto delle Sabine-Autore: Ricchi Pietro detto Lucchese (attr.) (1606/ 1675)
Descrizione
Autore: Ricchi Pietro detto Lucchese (attr.) (1606/ 1675)
Cronologia: post 1600 – ante 1699
Tipologia: pittura
Materia e tecnica: olio su tela
Misure: 90,5 cm x 66,8 cm
Descrizione: In primo piano a destra un soldato afferra una giovane donna, mentre dietro di lui un altro sta già sollevando la preda; in secondo piano la scena è stipata di donne e soldati con insegne militari, picche, vessilli.
Collezione: Collezione dei dipinti dal XII al XVI secolo dei Civici Musei d’Arte e Storia di Brescia
Collocazione-Brescia (BS), Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo
Compilazione: Basta, C. (1991)
Aggiornamento: Giuffredi, L. (2003)
Ratto delle Sabine-Milano- Museo Martinitt e Stelline
Descrizione
Cronologia: post 1725 – ante 1775
Tipologia: pittura
Materia e tecnica: tela/ pittura a olio
Misure: 228 cm x 177 cm
Collocazione
Milano (MI), Museo Martinitt e Stelline
Compilazione: Amaglio, Silvia (2013)
Ratto delle Sabine-Cremona (CR), Museo Civico Ala Ponzone
Ratto delle Sabine
Descrizione
Ambito culturale: ambito neoclassico
Cronologia: ca. 1800 – ca. 1815
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: matita nera su carta bianca
Misure: 288 mm x 204 mm
Collocazione
Cremona (CR), Museo Civico Ala Ponzone
Compilazione: Iato, V. (2001)
Aggiornamento: Bora, G. ()
Ratto delle Sabine-Autore: Pistrucci Filippo (sec. XIX), inventore / incisore-
Misure: 185 mm x 115 mm (parte incisa); 181 mm x 125 mm (parte figurata); 191 mm x 140 mm (Impronta)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Marchesi, Ilaria (2010)
Ratto delle Sabine-Autore: Aquila Pietro (1640/ 1692), incisore
Ratto delle Sabine
Descrizione
Autore: Aquila Pietro (1640/ 1692), incisore / disegnatore; Berrettini Pietro detto Pietro da Cortona (1596/ 1669), inventore
Cronologia: ca. 1670 – ante 1692
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquaforte
Misure: 613 mm x 418 mm (parte incisa)
Collezione: Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi
Collocazione
Chiari (BS), Pinacoteca Repossi
Compilazione: Brambilla, Lia (2003); Scorsetti, Monica (2003)-
Ratto delle Sabine Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830)
Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830), incisore
Cronologia: post 1790 – ante 1830
Oggetto: stampa
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquatinta
Misure: 181 mm. x 114 mm. (Parte figurata); 195 mm. x 135 mm. (Parte incisa)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Fumagalli, Monica (2005)
Ratto delle Sabine-Bartoli Pietro Santi; Caldara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio
Descrizione
Autore: Bartoli Pietro Santi (1635/ 1700), incisore; Caldara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio (1499-1500/ 1543), inventore
Ambito culturale: Scuola romana
Cronologia: post 1650 – ante 1699
Oggetto: stampa
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquaforte
Misure: 386 mm x 122 mm (inciso); 392 mm x 158 mm (foglio)
Collocazione
Brescia (BS), Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo
Compilazione: Menta, L. (1999)
Aggiornamento: D’Adda, R. (2002)
Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Firenze – Loggia dei Lanzi
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1890 – 1899
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: 30 x 40
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Scrocchi, SCR_4_STABC_TQ
Classificazione
Genere: foto d’arte
Soggetto: arte
Compilazione: Truzzi, Stefania (2005)
Aggiornamento: Casone, Laura (2006)
Pietro da Cortona – Ratto delle Sabine – Dipinto – Olio su tela – Roma – Palazzo del Campidoglio – Galleria Capitolina – Sala Pietro da Cortona
Pietro da Cortona – Ratto delle Sabine – Dipinto – Olio su tela – Roma – Palazzo del Campidoglio – Galleria Capitolina – Sala Pietro da Cortona
Anderson Domenico
Descrizione
Autore: Anderson Domenico (1854/ 1938), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Roma (RM), 1855-1919
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo Fondo Frizzoni, Fototeca storica – Armadio Frizzoni – FF 302
Classificazione
Compilazione: Lapesa, C. (2008)-
Dipinto – “Ratto delle Sabine”
Fotografia dello Studio Calzolari (studio) (1882/1996)
Dipinto – “Ratto delle Sabine” (?)
Foto Studio Calzolari (studio)
Descrizione
Autore: Studio Calzolari (studio) (1882/1996), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Mantova (MN), Italia, XX
Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/vetro
Misure: n.d.
Note: Dipinto, olio su tela, raffigurante ratto delle Sabine (?).
Collocazione: Mantova (MN), Archivio di Stato di Mantova, fondo Archivio fotografico Calzolari, ASMn, Archivio Calzolari
Classificazione
Genere: da attribuire
Compilazione: Previti, Serena (2008)
Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Paoletti, Antonio
Descrizione
Autore: Paoletti, Antonio (1881/ 1943)
Luogo e data della ripresa: Milano (MI), Italia
Materia/tecnica: gelatina a sviluppo
Misure: n.d.
Note: Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Collocazione: Milano (MI), Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco. Civico Archivio Fotografico, fondo Foto Milano, FM APL 22
Classificazione
Compilazione: Paoli, Silvia (2013)
Firenze – Piazza della Signoria – Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Loggia dei Lanzi
Firenze – Piazza della Signoria – Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Loggia dei Lanzi
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1920 – 1930
Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/carta
Misure: 18 x 24
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Scrocchi, SCR_82_ST_DV
Classificazione
Genere: architettura
Soggetto: città
Compilazione: Tonti, Stella (2007)
Leggende di Roma – Ratto delle Sabine (in alto) – Caio Muzio pone la mano destra sul braciere davanti a Porsenna (in Basso) – Disegno
Leggende di Roma – Ratto delle Sabine (in alto) – Caio Muzio pone la mano destra sul braciere davanti a Porsenna (in Basso) – Disegno
Fotografo non identificato
Descrizione
Autore: Fotografo non identificato (notizie), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: 1855-1919
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Note: La fotografia riprende il foglio sul quale sono riportati i due disegni.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo Fondo Frizzoni, Fototeca storica – Armadio Frizzoni – FF 1513
Classificazione
Compilazione: Lapesa, C. (2009)
Gruppo scultoreo – Marmo – Ratto delle Sabine – 1574-1580 – Giambologna – Firenze – Piazza della Signoria – Loggia della Signoria o dei Lanzi
Gruppo scultoreo – Marmo – Ratto delle Sabine – 1574-1580 – Giambologna – Firenze – Piazza della Signoria – Loggia della Signoria o dei Lanzi
Fotografo-Non identificato
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1860 – 1880
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco. Civico Archivio Fotografico, fondo Vedute Italia, VI H 218
Classificazione
Genere: foto d’arte
Soggetto: arte
Compilazione: Ossola, Margherita (2016)
Il ratto delle Sabine-Biasioli Angelo
Il ratto delle Sabine- Biasioli Angelo-Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830), incisore
Cronologia: post 1790 – ante 1830
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquatinta
Misure: 180 mm. x 113 mm. (Parte figurata); 186 mm. x 127 mm. (Parte incisa)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Fumagalli, Monica (2005)
Ratto delle Sabine-Autore: Caraglio Giacomo (1500/ 1570), incisore
Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Caraglio Giacomo (1500/ 1570), incisore
Cronologia: ca. 1527
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 508 mm x 360 mm (parte incisa)
Notizie storico-critiche:Malgrado questa stampa sia tradizionalmente intitolata “Il ratto delle Sabine”, Archer sottolinea che quello che è stato rappresentato non è il ratto vero e proprio, bensì un episodio successivo raccontato da Livio e da Plutarco, ovvero il tentativo di riscatto dei Sabini che raggiunsero Roma e combatterono nel Foro, mentre le donne Sabine intervennero per chiedere il mantenimento della pace. La figura femminile raffigurata seduta su un asino sarebbe la dea Vesta, presso il cui tempio avvenne la lotta. Questa incisione fu l’ultimo lavoro del Caraglio, che la lasciò incompiuta. Essa venne completata da un incisore anonimo, dallo stile più duro e più largo rispetto al Caraglio. Bartsch testimonia che l’invenzione è da attribuire a Baccio Bandinelli; Vasari invece l’attribuiva a Rosso Fiorentino. Il timbro al verso dell’esemplare qui catalogato indica che questo foglio fece parte della collezione di Heinrich Buttstaedt, pittore, fotografo collezionista e mercante d’arte nato a Gouda e morto a Berlino nel 1876. Entrò a far parte del Fondo Calcografico della Pinacoteca Repossi tramite il legato Cavalli.
Collezione:Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi
Ratto delle sabine
Caladara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio; Alberti Cherubino
Descrizione
Autore: Caladara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio (1499-1500/ 1543), inventore; Alberti Cherubino (1553/ 1615), incisore
Cronologia: post 1553 – ante 1615
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: mitologia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 200 mm. x 103 mm. (Parte figurata)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Ruiu, Daniela (2004)
Ratto delle Sabine-Polidoro da Caravaggio; Le Blon, Jakob Christof (attribuito)
Descrizione
Autore: Polidoro da Caravaggio (1500 ca.-1543), inventore; Le Blon, Jakob Christof (attribuito) (1667/1670-1741), incisore
Cronologia: post 1667 – ante 1741
Oggetto: stampa tagliata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 449 mm x 167 mm (Parte figurata); 449 mm x 167 mm (Parte incisa)
Tarquinia (VT): nella necropoli etrusca del sito Unesco scoperta nuova tomba dipinta
Tarquinia-Straordinaria scoperta nel sito Unesco di Tarquinia nella necropoli etrusca, dove gli archeologi hanno ritrovato una nuova tomba a camera dipinta: le pitture sulle pareti mostrano scene di danza e di officina. La scoperta risale alla fine del 2022, anche se è stata comunicata dalla Soprintendenza di Viterbo soltanto in queste ore. Tutto comincia nel corso di un’ispezione della Soprintendenza a seguito dell’apertura di alcune cavità nel terreno: l’eccezionale scoperta è avvenuta nella necropoli etrusca dei Monterozzi, vicino a Tarquinia, dove gli archeospeleologi, esplorando quelle cavità, hanno confermato che si trattava di sepolcri già visitati da scavatori clandestini in passato. Tuttavia, una delle tombe celava un segreto ancora intatto: il crollo di una parete aveva rivelato una camera funeraria più profonda, decorata con scene dipinte dai colori straordinariamente vividi.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Questa nuova tomba, catalogata con il numero 6438, è stata dedicata alla memoria di Franco Adamo, rinomato restauratore delle tombe dipinte di Tarquinia, scomparso nel maggio 2022. Il ritrovamento rappresenta un evento di grande rilievo per l’archeologia etrusca, riportando alla luce uno spaccato di vita e cultura di oltre duemila anni fa.
La scoperta è frutto del lavoro della Soprintendenza di Viterbo e dell’Etruria Meridionale, e in particolare degli archeologi Daniele F. Maras e Rossella Zaccagnini del Ministero della Cultura, assieme ai collaboratori esterni Gloria Adinolfi e Rodolfo Carmagnola, mentre lo scavo è stato condotto da Archeomatica s.r.l.s., e il restauro delle superfici da Adele Cecchini e Mariangela Santella. A.S.S.O. si è invece occupata delle operazioni di archeospeologia.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Un delicato lavoro di scavo e messa in sicurezza
Per evitare che il sito venisse compromesso da tombaroli o da visitatori imprudenti, la Soprintendenza ha mantenuto il massimo riserbo sulle operazioni di scavo Grazie a un finanziamento straordinario del Ministero della Cultura, gli archeologi hanno potuto condurre un intervento meticoloso per mettere in sicurezza la tomba e preservarne il delicato equilibrio: per queste ragioni, oltre che per studiare quanto riemerso, la notizia è stata comunicata due anni dopo l’effettivo ritrovamento.
“Dopo aver ripristinato l’accesso alla camera funeraria”, spiega Daniele F. Maras, il funzionario archeologo responsabile della scoperta, oggi direttore del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, “e una volta installata una porta metallica, lo scavo archeologico ha dimostrato che tutto il materiale raccolto non apparteneva al corredo della tomba dipinta, che risale alla metà del V secolo a.C., ma era franato da quella superiore, più antica di oltre un secolo, della fine dell’epoca Orientalizzante”.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Una stratificazione complessa tra storia e natura
L’indagine archeologica ha rivelato una situazione unica e complessa. La tomba dipinta era stata scavata in profondità sotto una sepoltura preesistente. In epoca antica, ladri di tombe erano riusciti a penetrare nel sepolcro forando il lastrone di chiusura, saccheggiando il corredo originario. Successivamente, il crollo della camera superiore ha portato con sé detriti e oggetti, mescolandoli ai resti della tomba inferiore.
Di ciò che un tempo costituiva il corredo funerario della tomba dipinta restano solo pochi frammenti di ceramica attica a figure rosse, testimonianza del pregio degli oggetti deposti con il defunto. Tuttavia, il vero tesoro del ritrovamento è rappresentato dagli affreschi che decorano le pareti della camera funeraria.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Scene di danza e di officina: un’iconografia senza precedenti
Le pitture parietali, ancora in fase di restauro, offrono uno spaccato unico della cultura etrusca. La parete sinistra è animata da una danza frenetica: uomini e donne si muovono in cerchio attorno a un elegante flautista, in una scena che esprime la vitalità e il gusto per la celebrazione tipici del popolo etrusco.
Sulla parete di fondo, invece, emergono le figure di una donna – forse la defunta – e due giovani, ma parte della decorazione è andata irrimediabilmente perduta a causa di un crollo. Ancora più enigmatica è la parete destra, dove affiora un’officina metallurgica in attività. Gli studiosi ipotizzano che possa rappresentare il mitico laboratorio del dio Sethlans (equivalente etrusco di Efesto), oppure un’officina reale appartenente alla famiglia sepolta.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Restauro e tecnologie avanzate per riportare i colori alla luce
Gli interventi di restauro sono ancora in corso e richiedono estrema precisione. “Il livello straordinario delle pitture”, commenta con soddisfazione la soprintendente Margherita Eichberg, “è evidente già nel primo tassello di restauro, operato da Adele Cecchini e Mariangela Santella, che mette in luce la raffinatezza dei dettagli delle figure del flautista e di uno dei danzatori”. E aggiunge Daniele Maras: “Da decenni, questa è la prima nuova tomba dipinta con fregio figurato che viene scoperta a Tarquinia e si preannuncia molto intrigante per la sua storia, per il livello artistico e per alcune delle scene rappresentate, uniche nel loro genere”.
Il progetto di conservazione prevede la costruzione di una struttura protettiva intorno alla tomba, dotata di una porta a taglio termico per garantire condizioni climatiche ottimali. Inoltre, gli archeologi stanno applicando tecnologie avanzate di imaging multispettrale per recuperare i colori scomparsi dei pigmenti antichi. I primi test hanno già dato risultati sorprendenti, restituendo nuova luce a queste straordinarie testimonianze dell’arte funeraria etrusca.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Verso un futuro di studi e accessibilità pubblica
Mentre il restauro procede, gli archeologi continuano a studiare il materiale raccolto per comprendere meglio il contesto storico e sociale della tomba. L’obiettivo a lungo termine è quello di rendere il sito accessibile al pubblico, permettendo di ammirare da vicino questa straordinaria testimonianza dell’arte e della cultura etrusca.
Il ritrovamento della tomba n. 6438 non è solo una grande scoperta per l’archeologia italiana, ma un tassello fondamentale per riscoprire l’identità di un popolo che, attraverso la bellezza delle sue pitture funerarie, continua a raccontare la propria storia a distanza di millenni.
Arch. Maurizio Pettinari-POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
Arch. Maurizio Pettinari-POGGIO NATIVO: Convento di S. Paolo. Cenacolo del Refettorio.
Un’analisi al particolare del pregevole affresco.
Nota e Foto sono dell’Arch. Maurizio Pettinari
Nota e Foto sono dell’Arch. Maurizio Pettinari–Un’analisi al particolare del pregevole affresco.La vecchia chiesa del monastero fu trasformata in Coro, che fu arredato con magnifici scanni in legno intarsiato tuttora ben conservati: l’opera fu ultimata nel 1482 e questa data la si trova scolpita nell’architrave di una porticina situata nella parete di sinistra, che mette dal Coro alla torre campanaria. Fu costruito un nuovo refettorio, lo stesso attualmente in funzione, ed il vecchio fu trasformato in magazzino; recentemente in una parete di quest’ultimo sono venuti alla luce affreschi di pregevole fattura, raffiguranti Gesù assiso tra gli apostoli nell’Ultima Cena ed un S. Francesco d’Assisi.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
Convento di San Paolo – Poggio Nativo (Rieti)
Nei pressi dell’abitato sorge la Badia delle suore benedettine di S. Paolo che, rimasta disabitata per circa dieci anni dopo le guerre del papa Pio II, fu ceduta nel 1471 ai frati minori di San Francesco. Di questa badia si trova una prima menzione nel Codice Barberiniano Latino nell’anno 1322. Fu edificata in una zone ove quasi certamente era esistita una villa romana, poiché , quando passò ai francescani che ampliarono il monastero e la chiesa, vennero alla luce sepolture e grosse tegole di terracotta, simili a quelle rinvenute negli antichi cimiteri di Roma e numerosi altri reperti. “molte fabbriche sotterranee alla foggia di conserve di acqua, non più grandi di una gran cassa capace di due grandi cadaveri, molte vittine di terracotta… quantità grande di pezzi di finissimo marmo et un cavallo di bronzo vuoto dentro, di peso di 40 libbre romane e così ben formato dall’arte che non haveva di che invidiar la natura che nella vita. Molte monete di Roma di bronzo et una anche d’oro, di valore di sei scudi romani, cioè di Vespasiano, Galba e Caracolla. Onde parmi si possa dire in questo luogo medesimo fosse in quei trasandati secoli qualche nobile e ragguardevole edificio romano”.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
La costruzione dell’abbazia risale alla metà del XIII secolo (1261). Ne fa fede un’iscrizione ancora leggibile, scolpita nell’architrave dell’attuale porta della chiesa del convento, che doveva essere lo stesso architrave della porta della primitiva chiesa abbaziale delle suore:
AD PORTV(M) VI(TA)E QVI Q
FERT VENIT E TER(R)AM
CALCANTES SVRSVM PIA(M)
CORDA(M) LEVANTES
ARCHIPR. ODO HOC OP(VS)
ANN(O) DMNI MCCLXI
Secondo P. Ludovico da Modena fu il monastero di Farfa “assai famoso per lunga giurisdizione, che fabbricò un divoto monastero di Monache in detto territorio, sotto l’invocazione di S. Paulo, assegnandoli tutto il territorio in dote con l’aggiunta di due altre considerevoli tenute chiamate anche hoggi S. Severino una e Carpignano l’altra, delle quali tenute si vede il monastero suddetto in pacifico possesso, come consta da un antichissimo instromento fatto dalla Madre Abbadessa, con un tale di Toffia, a cui diede le mole del Poggio Nativo in affitto, et essa si sottoscrisse in tale forma = Suor Massimilla Abbatissa S. Pauli S. Severini et Carpignani =”.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
Le suore vi rimasero fino al 1460 (la loro presenza è attestata già nel 1343 nel Registrum Jurisdictionis Episcopatus Sabinensis in cui sono registrate tutte le visite effettuate in quell’anno dal vescovo della diocesi di Sabina, Cardinal Pietro Gomez de Barcos), poi papa Pio II ordinò che si trasferissero a Roma, ove furono accolte (e qui le notizie sono discordi) o nel monastero di Campo Marzio o in quello di Tor de’ Specchi o di S. Ambrogio. Il monastero rimase disabitato per oltre dieci anni, durante i quali non vi si celebrarono funzioni religiose. Minacciava di andare in rovina ed il pontefice Paolo II, pochi giorni prima di morire, accogliendo le insistenti preghiere della popolazione e su istanza stessa del Capitolo della Basilica vaticana, cui il castello confiscato era stato assegnato, nel 1471ordinò la cessione del monastero ai frati Minori Osservanti di San Francesco (che nel 1596 passò ai Padri Riformati di San Francesco), “perché abitandolo ne evitassero la ulteriore rovina.
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Nel novembre dello stesso anno papa Sisto IV ratificò la concessione, che divenne pertanto operante. Ne riporta la notizia il Wadding: Extra muros castri Podii Donadei, vulgo Poggio Nativo, Dioc. Sab. constitit olim Monasterium S. Pauli Monalium S. Benedicti, quod ruinae proximum, et incolsi destitutum, unicum et Capitulo Basilicae Principis Apostolorum de Urbe. Castri universitas et Capitulum praedictum, cuius temporali dominio praedictum castrum tunc erat subiectum, rogarunt Paulum pontificem ut liceret illud in Conventum Minorum converti. Annuit Paulus, paucis ante obitum diebus, non scilicet Kalendis Augusti; sed cum, superveniente morte, de hac re litterae non fuissent confectate, suas dedit Sixtut hoc anno 8 kalendis septembris quibus rata voluti Pauli concessionem. Commodus est Conventus paretque fratribus strictioris observantiae Provinciae Romanae Anno 1471 Sisto IV anno I – Federico III imp. A. 32.
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I frati, con l’aiuto della popolazione (oppidanorum sumptibus) presero, appena possibile, a ricostruire e ad ingrandire il convento. La vecchia chiesa del monastero fu trasformata in Coro, che fu arredato con magnifici scanni in legno intarsiato tuttora ben conservati: l’opera fu ultimata nel 1482 e questa data la si trova scolpita nell’architrave di una porticina situata nella parete di sinistra, che mette dal Coro alla torre campanaria. Fu costruito un nuovo refettorio, lo stesso attualmente in funzione, ed il vecchio fu trasformato in magazzino; recentemente in una parete di quest’ultimo sono venuti alla luce affreschi di pregevole fattura, raffiguranti Gesù assiso tra gli apostoli nell’Ultima Cena ed un S. Francesco d’Assisi. Fu ex novo costruita l’attuale chiesa (nel pavimento in cotto furono inclusi i magnifici marmi intarsiati con mosaici di fattura cosmatesca che erano nella vecchia chiesa) ed il monumentale altare maggiore, che ai due lati ha le statue di S. Giacomo e S. Filippo, fu riccamente ornato di pregevoli marmi.
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Nell’unica navata sono sei cappelle, concesse in patronato alle nobili famiglie del luogo, i cui stemmi gentilizi fanno tuttora mostra di se negli archi delle stesse. Il portale della vecchia chiesa venne riutilizzato anche per la nuova. P. Ludovico da Modena così lo descrive: “ ha soglie di finissimo marmo listato di antico e pretioso mosaico con lettere e millesimo apportato di sopra et è probabile, anzi comune opinione, siino quelle soglie le medesime che servirono alla porta dell’antichissima chiesa delle Monache”. Ai lati del portale sono due pitture murali rappresentanti la decollazione di S. Paolo e la crocifissione di S. Pietro.
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Dal citato manoscritto del P. Ludovico da Modena si apprende ancora: “in prosieguo di tempo, vedendo i religiosi esserci necessarie più stanze per dare ai poveri passeggeri religioso e comodo ricovero, determinarono nuovo dormentorio fabbricare, e con tale occasione anche nuove officine e fu cominciato l’anno 1672, quando il feudo era già stato acquistato dai Borghese. Avendo cominciata la fabbrica soverchiamente maestosa e più da ricchi monaci che da poveri Riformati, non è per anche finita benché siino ad hora 26 anni trascorsi, e vi siano fatte considerabili spese, provenienti dalla bontà et amorevolezza delle povere genti. Sono in convento stanze abitabili in ambedue li dormitori, vecchio e nuovo, sino al numero di 31, oltre le officine che di tutta comodità vi godono tanto superiori quanto anche inferiori e sotterranee. Vi è una assai comoda Libraria, ricca di 685 pezzi di libri”.
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Questa fu successivamente dotata di altri pregevoli libri per le sollecite cure del reverendo padre Francesco Antonio da Collelungo, come è tramandato dalla seguente epigrafe:
D.O.M.
UT SUORUM CONSODALIUM
PROSPICERET
BIBLIOTHECAM HANC EXCITAVIT SELECTISQUE LIBRIS
LOCUPLETAVIT
FRANCISUA ANTONIUS A COLLILUNGO LECTOR EMERITUS
CONCILII ROMANI SUB BENEDICTO XIII THEOLOGUS
SACRORUMQUE RITUUM CONGREGATIONIS CONSULTOR
ANNO MDCCXL
Nell’interno del convento è un chiostro con il caratteristico pozzo d’acqua al centro e con spaziosi porticati, nelle cui pareti, nelle lunette, sono affrescate scene della vita di S. Francesco d’Assisi.
In questi ultimi anni la chiesa ha subito nuovi rifacimenti di gusto molto discutibile, in quanto soffitto e pavimento modernissimi offrono un contrasto troppo stridente con quello che è lo stile prevalentemente barocco della chiesa. Sono di conseguenza scomparse dal pavimento le lastre di marmo intarsiate con il mosaico cosmatesco che dava austerità e solennità all’ambiente.
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“nel Coro eranvi a quel tempo ragguardevoli quadri in tela rappresentanti i diversi misteri dell’humanato Iddio, della Sua dolcissima Madre e altri Santi del cielo. Vedevasi nel mezzo della volta del Coro un Salvatore dipinto, a cui hanno dato li nimici dell’antichità ai tempi nostri il bianco, che mostravasi fosse posto un principio della sua erezione, cioè quando fu edificato per chiesa delle Monache”. Sopra il detto Coro si vede ancora il vecchio campanile delle suore: “sono nella Tribuna per vago ornamento di essa dui quadri riguardevoli che ne rappresentano quello in corno epistulae S. Salvatore d’Horto… vedesi anche in alto nella Tribuna medesima, sopra un pezzo di finissimo marmo il seguente millesimo scolpito: …”.
Il Guardabassi vide “presso l’altar maggiore una tavola a tempra in fondo oro: Maria in trono con Gesù e ai lati S. Paolo e S. Francesco; nel gradino si legge Anthonatius Romanus pinxit”. Il dipinto rimase ignorato per moltissimi anni, finché Diego Angeli, solerte studioso e ricercatore di antichità, lo ritrovò “sotto un cumula di immondizie nel convento di S. Paolo”. Il campo artistico nazionale ed internazionale si interessò alla ritrovata tavola ed Adolfo Venturi ottenne che la Sovrintendenza alle Bella Arti l’acquistasse per curarne il restauro e l’esposizione al pubblico: acquistata dallo Stato fu restaurata ed esposta nel museo di Palazzo Venezia, quindi alla Galleria Nazionale Romana di Palazzo Barberini, ove si trova tuttora. La tavola misura 1,66m x 1,55m ed il primo a studiarla minuziosamente fu lo stesso Venturi il quale, parlando dell’attività di Antonio Aquilio, detto Antoniazzo Romano, così ne scrive: “ma il campo maggiore dell’attività dell’artista dovette essere la Sabina, donde proviene il quadro della Galleria Nazionale segnato Anthonatius Romanus pinxit e con la data in una tabellina MCCCCLXXXVIII.
A Poggio Nativo, ove si trova un’altra pittura di Antonizzo, il quadro stava sulla parete della soppressa chiesa di S. Paolo. Rappresenta la Madonna in trono di marmo rosso col Bambino in piedi benedicente sulle sue ginocchia, S. Paolo a sinistra e S. Francesco a destra su fondo oro. L’opera eseguita con la rapidità propria di un frescante; e molte parti si disegnano di primo acchitto, con segni facili e pronti, sulle carni e sulle vesti condotte a tratti e sfumate. Il divin Bambino non manca di bellezza nelle forme sane e forti, né S. Paolo della sua energia; la Vergine è meno piacente per la pienezza delle forme e così S. Francesco per la poca spiritualità. È opera dell’età matura di Antoniazzo, quando si erano in lui affievoliti gli influssi del suo grande maestro Melozzo da Forlì”.
Gino Focolari a proposito del trittico dello stesso artista, conservato nell’antica cattedrale di S. Pietro in Fondi, che riproduce in maniera identica la figura della Vergine e di S. Paolo, così scrisse: “il trittico di Antoniazzo assomigliano un poco al quadro che si conserva nella Galleria Nazionale di Roma, proveniente da Poggio Nativo; la Madonna ha la stessa faccia stretta e lunga, con l’alta fronte e il naso diritto che si unisce alle sopracciglia con disegno schematico un poco duro, gli occhi dalle pupille tonde e nere che guardano fisse e come trasognate, le labbra strette insieme e sporgenti come nella Madonna e nella S. Lucia della tavola di Antoniazzo nel duomo di Capua. La Madre divina stende intorno alla nudità del Bambino lo stesso velo trasparente, e le mani aperte con le lunghe dita piegate leggermente stanno nell’atteggiamento di chi tocchi e suoni un istromento a corde. Nello sportello di destra il pittore ha ripetuto la figura di S. Paolo con lo spadone e col libro, imponente nella sua rigida immobilità…”.
La datazione controversa colloca il quadro tra il 1460 e il 1489.
La tradizione locale attribuisce all’Antoniazzo anche l’affresco che è nella lunetta della Porta di S. Paolo del paese, che fu innalzata verso la fine del XV secolo, dopo il ritorno del castello dei Savelli; l’affresco non è purtroppo ben conservato, essendo esposto alle intemperie e non mostra pertanto caratteristiche sufficienti per poterne stabilire con esattezza la paternità; il dipinto riproduce la figura di S. Michele.
Appesa alle pareti del coro sono rimaste alcune tele di qualche pregio e precisamente: nella tribuna un quadro raffigurante la conversione di S. Paolo (restaurato dalle mani di un artista locale in obsequium Divi Pauli magis crescens ac magis Johanna Crescentii Pauletti hanc renovavit iconem MDCCXXVIII), una discreta Deposizione nella parete di destra, una Natività ed un S Antonio in quella di sinistra, un grande quadro nella parete di fondo che raffigura S. Anna nell’atto di insegnare la scrittura alla Madonna che ha ai suoi lati S. Francesco e S. Bernardino.
Altare maggiore: ha incorniciata una grande tela di ottima scuola raffigurante S. Paolo che mostra a S. Francesco e a S. Pasquale una sua epistola; nella parte più alta un quadro di minori dimensioni ma di ottima fattura che rappresenta la Santissima Vergine col Bambino attribuito forse a torto ad Antoniazzo Romano.
I cappella: con l’altare dedicato alla Madre degli Angeli per la presenza di un grande quadro “con la bellissima effigie dipinta in nuovo, che da numerosa moltitudine d’Angeli coronata ne La rappresenta, insieme con li Santi Antonio Abate et Egudin similmente Abate”. È ora sostituito da un quadro con l’immagine della Vergine col Bambino. L’arco della cappella è sormontato da un elaborato stemma gentilizio della famiglia Sassi, poiché la cappella fu concessa in patronato a questa famiglia e vi furono tumulate le salme di persone appartenenti alle famiglie Ruffetti, Ottaviani e Mazzetti.
II cappella: con l’altare dedicato a S. Anna in quanto vi era collocato il quadro che attualmente è nel coro, ora sostituito da un dipinto di buona maniera raffigurante Cristo sotto la croce e S. Giovanni. Nell’arco della cappella, che appartenne alle famiglie Pascazi e Giordani, è lo stemma gentilizio attribuibile a una delle suddette famiglie.
III cappella: detta della Circoncisione, essendovi delineato da buona mano “in muro il misterioso fatto della circoncisione di Cristo et anche il nostro S. Padre stigmatizzato, che in tanto mistero devotamente adora”. La cappella appartiene alle famiglie Colantoni e Farsarelli.
IV cappella: con l’altare dedicato a S. Antonio, appartenente ai Pisauri, poi agli Angelici-Traversa ed in ultimo ai Pompei. Vi era una tela “con S. Antonio che accarezza il Bambino e dipinta in muro la gloriosa S. Barbara Vergine e Martire”. Attualmente sono venute alla luce pitture murali raffiguranti S. Giovanni a destra e S. Biagio a sinistra con la seguente iscrizione: “Clara Christi germina immaculatae Virginis Beatorum Johannis Baptistae Blasii atque Antonii vos precarum supplices pro nobis Deo supplicare ut vestris meriti set precibus de regnum consequamur. Amen Pisaurus Podii Donadei Archypresbiter Palumbariae fieri curavit die X 8bris MDLX (segue stemma gentilizio)”.
V cappella: con l’altare dedicato alla conversione di S. Paolo, appartenente ai signori Paletti prima, poi concesso ai marchesi Ciccalotti. Vi era una tela raffigurante la conversione dell’apostolo, ora situato nella tribuna del coro ed al suo posto è stata collocata la statua di S. Francesco.
VI cappella: altare dedicato a S. Pietro d’Alcantara, è più recentemente detta del Crocifisso e posta sotto il patronato della famiglia dei baroni Brunetti. Di un certo pregio artistico sono pure i 14 quadretti delle stazioni della Via Crucis, opera firmata da “F. Joseph Venetus inventor. Anno 1737”.
L’ultimo rinnovamento della chiesa fu fatto dopo il terremoto del 1915, che vi produsse serie lesioni, ad opera di P. Atanasio Pecci dei Minori si S. Francesco che ne fu parroco. In quell’occasione fu riparato il tesso, fu abbellito il soffitto, furono convenientemente rafforzate le mura maestre e fu rifatto il pavimento, avendo cura di lasciare in si tu le epigrafi sepolcrali.
La pavimentazione: La mancanza di documentazione precisa riguardo l’originaria sistemazione interna della chiesa antica di S. Paolo, prima della sua trasformazione nel Coro dell’attuale impianto, non permette di stabilire con esattezza assoluta la collocazione dei cinque pannelli. Da una attenta analisi dei manufatti in questione sono emersi dati significativi per la ricostruzione della loro funzione primitiva: la tecnica dell’intarsio e le dimensioni dei pannelli inducono a pensare ad un loro impiego come elementi verticali. Sappiamo da Padre Ludovico da Modena che al momento della costruzione della chiesa del XV secolo, nel nuovo pavimento si inclusero i marmi intarsiati di fattura cosmatesca che provenivano dal vecchio edificio e che il nuovo altare maggiore fu riccamente ornato di pregevoli marmi. Supponendo che il nuovo altare ne abbia sostituito uno più antico, ma altrettanto importante, l’ipotesi più plausibile sembra essere quella per cui i cinque pannelli facessero parte dell’antica decorazione dell’altare maggiore, poi smembrati e riutilizzati disordinatamente nel pavimento della chiesa del XV secolo. Se così fosse, questa sarebbe stata la posizione dei pannelli nell’altare: al centro il pannello E con quincunx con croce, al lati i pannelli A e B con fiori a quattro petali lanceolati, sui lati minori le lastre C e D.
Si tratta di cinque lastre in marmo bianco venato con decorazioni a commesso marmoreo:
– Pannello A: l’unico ad esserci pervenuto in buono stato di conservazione, è composto di una lastra di marmo bianco venato (dimensioni: 60cm x 43cm; spessore: 3cm circa) mutila nella parte alta e decorata da una doppia incisione (quella più esterna è larga ca. 1,5cm, mentre quella esterna solamente pochi millimetri). La lastra marmorea mostra un incavo di 20cm x 50cm al cui interno è presente la decorazione ad intarsio nella quale si può riconoscere il motivo a cerchi intersecanti che generano fiori a quattro petali lanceolati, che includono un quadrato in porfido rosso di 3cm x 3cm posto diagonalmente e negli spazi di risulta triangolini in porfido rosso e porfido verde alternati a triangolini di calcare bianco. Nella zona inferiore è inserita una stretta fascia di riempimento composta da listelli di porfido verde dello spessore di ca 2,5cm. Completano la decorazione sui lati lunghi e nella parte superiore del pannello listelli porfiretici verdi e rossi alternati.
– Pannello B: giunto a noi quasi del tutto privo delle tarsie marmoree appartenenti alla decorazione, mostra caratteristiche tipologiche (dimensioni: 60cm x 43cm; spessore: 3cm circa) e decorative del tutto analoghe al pannello A. composto da una lastra di marmo bianco venato mutila nella parte bassa e decorata da una doppia scanalatura, presenta uno schema decorativo uguale a quello già visto e descritto nel pannello precedente.
– Pannello C: Anche esso di marmo bianco (dimensioni: 67cm x 52cm; spessore: 3,5cm circa) è giunto a noi piuttosto danneggiato. Si può riconoscere uno schema disegnativo a quincunx del tipo più canonico con cinque rotae annodate, di cui quella centrale (24cm di diametro) probabilmente a disco centrale in porfido e fascia circolare, quelle periferiche, anch’esse con dischetto porfiretico al centro e fascia che si annoda secondo lo schema consueto. Dei quattro dischetti in porfido contenuti nelle rotae angolari rimane solamente quello in basso a sinistra di 4,5cm ca. di diametro. Nella campitura dello spazio lungo nel lato corto superiore è da notare, oltre ai soliti triangoli in porfido e calcare, anche l’uso di listelli e quadratini anch’essi di materiale porfiretico.
– Pannello D: si presenta mutilo di tutta la porzione angolare superiore di sinistra. Anche esso di marmo bianco con venature (dimensioni: 67cm x 52cm; spessore: 3,5cm circa), riproduce un disegno decorativo che ricorda espressamente il quincunx a quadrato centrale. Tale quadrato, privo della decorazione ad intarsio, si raccorda, tramite le annodature caratteristiche dello stile cosmatesco, con quattro rotae a fascia che si impostano al centro dei quattro lati del quadrato stesso. La campitura dell’annodatura e della rota superiore, di dimensioni minori rispetto a quella inferiore, presenta un intarsio marmoreo del tutto analogo a quello descritto per il pannello C. Nella rota inferiore invece si apprezza uno schema a clessidre composto da triangolini di porfido verde e di calcare bianco intervallato da elementi di forma quadrata e trapezoidale in porfido rosso. Gli spazi di risulta al centro dei quattro lati e negli spazi angolari sembrano anch’essi campiti dallo stesso motivo. Al centro di ciascuna rota un dischetto in porfido rosso di ca. 4-5cm di diametro completa il motivo decorativo secondo la consuetudine dello stile cosmatesco.
– Pannello E: Pervenutoci interamente spogliato dell’antica decorazione, presenta solamente alcuni piccolissimi frammenti di porfido su un braccio della croce. Del tutto integra è invece la lastra di marmo bianco venato di forma perfettamente quadrata (dimensioni: 70cm x 70cm; spessore: 3-4cm circa). Dal disegno dell’incavo, nel quale alloggiava il commesso marmoreo, si può ricostruire facilmente lo schema del pannello. Anch’esso presenta il quincunx a quadrato centrale con quattro rotae a fascia che si impostano al centro dei quattro lati dello stesso, ciascuna con dischetto centrale. Quadrato e roate sono raccordati tramite annodature spezzate. Il quadrato centrale presenta un motivo decorativo composto da una croce a quattro bracci di eguali dimensioni (10cm di lunghezza) e da quattro sfere di 8cm di diametro poste tra i bracci. Al centro si trova un incavo di forma quadrata di 6cm di lato
Il borgo sorge su uno scosceso sperone di roccia a 455 metri s.l.m. sulle propaggini meridionali dei monti Sabini. Il territorio comunale è di tipo collinare, tipico delle colline della Sabina, ed è caratterizzato da un andamento ondulato e ricco di vegetazione. La caratteristica morfologia collinare del terreno favorisce, principalmente, la coltura della vite, dell’ulivo, mentre il grano è coltivato negli appezzamenti più grandi. Nelle zone più impervie si conservano le macchie, caratteristiche dei colli sabini.
Nella maggior parte dei documenti medievali disponibili, la denominazione di Podium de Donadei (o Podium Donadei) deriva probabilmente dal nome di quello che viene identificato come il fondatore del paese, un possidente locale chiamato Donadeo (o Donadio). Non esiste però una documentazione concreta che possa permettere di identificare in modo inequivocabile il presunto Donadeo. Una versione più accreditata sull’origine del nome è invece legata alla posizione arroccata in cima ad una collina che il paese occupa. Tale posizione lo rendeva difficilmente accessibile e, in epoca medievale, ciò rappresentava un grande vantaggio per la difesa del paese, in quanto questo offriva un sicuro rifugio alla popolazione durante le invasioni barbariche del periodo e venne per questo battezzato “podium donum Dei”, dono di Dio.
Qualunque sia stata la sua origine, tuttavia, l’antica denominazione “Podium de Donadei” o solamente ”Podium Donadei”, negli anni, attraverso le corruzioni linguistiche del latino e l’evoluzione del volgare, si sarebbe evoluta in “Podium Donadei, poi Podio Donadeo, per passare a Poggio Donadio, Poggio Nadio, Poggio Natio ed infine a Poggio Nativo, come lo conosciamo oggi.
Storia
Il territorio di Poggio Nativo risulta abitato già durante l’età del Bronzo. In località Casali di Poggio Nativo, lungo le pareti del Fosso di Riana, sono presenti due grotticelle che hanno restituito reperti ceramici pertinenti all’età del Bronzo antico e medio, entrambe indicate con il toponimo di Battifratta. Accanto ai frammenti ceramici vennero rinvenute anche parti scheletriche umane, pertinenti ad una sepoltura “in grotta”. Questo fece supporre che entrambe le grotte fossero destinate ad uso funerario ed adibite a sepolcreto. Tuttavia la presenza di fauna selvatica, tra cui i resti osteologici di cervo, cinghiale, capriolo, tasso e lupo, farebbe supporre che la prima grotticella venisse utilizzata anche come postazione durante i periodi di caccia[5].
Il primo nucleo abitato, databile all’alto Medioevo, si trovava probabilmente nella parte più alta. In quel luogo, ben protetto e più sicuro, si erano rifugiati gli abitanti del contado in seguito all’invasione saracena. Nella metà del XII secolo, il possessore del Podium Donadei era Rainaldo Senibaldi che lo donò al papa, sotto la cui giurisdizione rimase fino al ‘400, quando passò ai Savelli, sotto il cui dominio il borgo fu protagonista di un episodio ricordato nei Commentarii di papa Pio II. Poggio Nativo, dopo aver ospitato in paese per ordine di Jacopo Novelli le truppe del Piccinino al soldo dei Braccesi, fu cinto d’assedio dalle truppe pontificie guidate da Antonio Piccolomini. Il castello si arrese, ma quando il Piccolomini, con la scorta, ebbe varcato l’accesso al centro le porte furono chiuse e il drappello catturato. L’esercito papale reagì e fece irruzione nel paese sottoponendolo a saccheggio e distruzione. Vent’anni più tardi, nel 1480, Poggio Nativo tornò in possesso dei Savelli e nel XVII secolo passò sotto il dominio dei Borghese, che ne furono proprietari per lungo tempo. Durante il secondo dominio della famiglia Savelli fu eretto il castello, fu ricostruita dalle fondamenta la chiesa di San Paolo, con l’annesso convento (risalenti al XIII secolo), e furono apportati considerevoli miglioramenti all’assetto urbano.
I Borghese nel 1600 ne divennero duchi, esercitandone i diritti fino all’abolizione della feudalità (1816), cui spontaneamente rinunciarono.
Poggio Nativo è patria dell’insigne umanista Francesco Floridio.
Simboli
Lo stemma e il gonfalone sono stati concessi con decreto del presidente della Repubblica del 18 ottobre 2002.[6] Lo stemma si può blasonare:
«d’azzurro, al monte di tre cime all’italiana di verde, movente dalla punta, sostenente una colomba sorante dello stesso, con la testa rivolta, tenente col becco un ramoscello di verde. Ornamenti esteriori da Comune.»
Il gonfalone è un drappo di bianco.
Monumenti e luoghi d’interesse
Della rocca-palazzo ben poco rimane, soprattutto in conseguenza del funesto terremoto del 1915 che lo rase al suolo quasi completamente: ne rimangono oggi, al centro del paese, due livelli di finestre quattrocentesche murate ed un bastione poligonale.
Fonte-Wikimedia-enciclopedia multilingue liberamente consultabile sul Web.
Nota e Foto sono dell’Arch. Maurizio Pettinari
POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.POGGIO NATIVO(RI) : Convento San Paolo. analisi Cenacolo del Refettorio.
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Silvia Cipolletta-La diocesi di Nomentum- Edizioni Archeoares-
Silvia Cipolletta-La diocesi di Nomentum
Descrizione del libro di Silvia Cipolletta- Edizioni Archeoares -Nella diocesi di Nomentum, estremo lembo della Bassa Sabina, grazie alla vicinanza con Roma, la diffusione del Cristianesimo fu abbastanza precoce, come è provato dalle numerose testimonianze materiali e documentarie, legate all’evangelizzazione della chiesa romana e all’esistenza delle due principali vie di comunicazione (vie Salaria e Nomentana), che ebbero funzione di arterie di irradiazione religiosa. La diocesi non ha avuto, in passato, una sua organica trattazione e, prescindendo dall’opera di Corrado Pala, non esiste alcuno studio complessivo delle evidenze storico-archeologiche presenti. Il presente contributo vuole offrire un quadro critico e una documentazione aggiornata delle emergenze archeologiche del territorio legato, dal punto di vista amministrativo, alla diocesi di Nomentum in un periodo che va dall’età tardo antica all’epoca alto medievale. Partendo da una cartografia moderna, si sono esaminate a ritroso nel tempo le trasformazioni, avvenute nel corso dei secoli, al fine di giungere alle più antiche testimonianze esistenti. Si tratta di uno dei territori più esposti, per la sua posizione nell’hinterland metropolitano, alla speculazione edilizia e ad una notevole tensione antropica. Uno degli obiettivi, che mi sono proposta, è stato effettuare il censimento di tutti gli edifici religiosi e il loro posizionamento in una cartografia adeguata. Questa operazione ha consentito di rilevare la scomparsa totale di interi complessi e, per quanto riguarda le strutture sopravvissute, la frammentarietà dei dati esistenti, che rendono improponibile una sintesi organica di carattere archeologico. Per le poche strutture, rinvenute in alzato, si è proceduto alla classificazione dei paramenti murari, nel tentativo di fornire una chiave cronologica utile alla comprensione del singolo monumento. L’assenza, in molti casi, della documentazione storica non ha consentito l’approfondimento necessario per la ricostruzione delle dinamiche di fondazione degli edifici e per un particolareggiato inquadramento storico.
Il territorio, che comprende le moderne località di Fonte Nuova, Tor Lupara, Mentana e Monterotondo, non offre problemi dal punto di vista dell’individuazione preventiva dei monumenti da tutelare, perché è stato oggetto di studi e ricerche settoriali da parte di Pala, Passigli, Quilici e Quilici Gigli, La Porta e Moscetti, che offrono una cartografia esaustiva.
Questo elevato livello di conoscenza non ha evitato, però, al territorio in questione, la perdita di gran parte delle documentazioni della sua storia e delle sue origini, tanto da rappresentare un modello emblematico del grave deterioramento a cui può essere soggetto un ambiente storico in nome di un progresso meramente quantitativo. Il territorio nomentano, come tutti quelli della cintura metropolitana, sembra inoltre penalizzato da una situazione che contrappone, nel circuito del comune di Roma, da un lato le esigenze di espansione e dall’altro la richiesta di servizi per la tutela dei monumenti e dell’ambiente, esigenze che spesso si riversano in modo non positivo sull’hinterland, destinato ad accogliere quanto di negativo la metropoli rifiuta. Con questo lavoro, revisione degli studi già esistenti, si intende fornire una serie di nuove considerazioni, risultato di una ricerca storico-topografica. Si è tentato di dare, in questa sede, un articolato status quaestionis, con il panorama più completo possibile delle interpretazioni, delle ipotesi e delle opinioni succedutesi in oltre due secoli di studi, prestando particolare attenzione alle novità, che sono emerse negli ultimi anni. Ho elaborato, a tal scopo, i risultati di una ricerca, che ha comportato la lettura e, a volte, la rilettura di quei testi, che hanno preso in esame il territorio, una rivisitazione del patrimonio cartografico e della documentazione esistente presso gli archivi, nonché i dati emersi dall’attività di ricognizione.
Edizioni Archeoares-Viterbo
Edizioni Archeoares è specializzata in saggistica e pubblicazioni accademiche ed è impegnata nella valorizzazione del patrimonio artistico attraverso la realizzazione di guide turistiche e cataloghi d’arte.Opera al servizio della cultura con professionalità. Attenta alle sfide del settore, porta avanti un progetto solido e coerente affidandosi a professionisti ed esperti riconosciuti in diversi ambiti per garantire al pubblico prodotti di alto contenuto.La casa editrice collabora con Associazioni, Istituti, Enti e Società che gravitano nel settore culturale.
I libri di Edizioni Archeoares sono disponibili nei maggiori circuiti librari italiani e on-line. La distribuzione nazionale è affidata a Libro Co.
Roma -Università la Sapienza-È stata fondata da papa Bonifacio VIII, il 20 aprile 1303, l’università più laica d’Italia: “La Sapienza”; la più grande d’Europa e la ventunesima ed essere nata al mondo.
Un papa che con il concetto di laicità aveva un rapporto molto personale. E cioè grande interesse, attenzione e rispetto, purché anch’essa fosse sottomessa completamente all’autorità religiosa.
A modo suo laicissimo, visto che era più interessato a cultura, politica e turismo ante-litteram che alla spiritualità, non riusciva però proprio a tollerare che tutto questo potesse muoversi autonomamente, senza riconoscere al vicario di Cristo il potere supremo. Mai contrappasso fu più sublime, di un’Università pontificia che oggi ostenta nel nome e nel suo monumento-simbolo una divinità pagana: Minerva, dea della Sapienza, la cui statua troneggia di fronte alla grande vasca nel mezzo della città universitaria e che non bisogna mai guardare – secondo una leggenda studentesca – prima di sostenere gli esami.
Forse fu il più teocratico dei pontefici dell’intera storia della Chiesa, Benedetto Caetani. Era nato ad Anagni, nel Lazio, intorno al 1230 e apparteneva ad una delle famiglie più importanti della Roma medievale che, originaria di Pisa, si spartiva con gli Orsini e i Colonna papi e potere.
Di temperamento energico e dotato di grandi capacità diplomatiche, rese ancora più decisive da una notevole cultura e da profonde conoscenze giuridiche, Benedetto aveva studiato prima a Todi e poi a Bologna, dove si era laureato in Diritto Canonico; poi aveva iniziato la carriera diplomatica in Laterano, prendendo parte anche ad una importante e delicata missione a Londra.
Diventato cardinale a 51 anni e sacerdote dieci anni dopo, nel 1291 era stato in missione in Francia per dirimere una controversia tra clero secolare e ordini religiosi e aveva partecipato a quattro conclavi: quello che aveva eletto Onorio IV nel 1285, quello da cui era uscito papa per la prima volta un frate francescano (Niccolo IV, nel 1288) e poi quello – lunghissimo – seguito alla morte di Nicolò nel 1292 e che era rimasto bloccato due anni a causa della lotta tra le famiglie rivali. Dall’impasse si era usciti quando era venuta fuori l’idea di eleggere una figura completamente al di fuori dei giochi di potere e sicuramente apprezzata dal popolo cristiano: Pietro dal Morrone, monaco eremita con fama di santità, che aveva preso il nome di Celestino V.
Dopo appena 6 mesi di pontificato Celestino, con un gesto del tutto inedito, aveva rinunciato spontaneamente al pontificato. Spontaneamente fino a un certo punto, secondo i suoi sostenitori che poi erano anche i nemici di Bonifacio, accusato di manipolare il papa santo per convincerlo a dimettersi. Quel che è certo è che il cardinale Caetani era diventato quantomeno un autorevole consigliere giuridico per il vecchio eremita finito sul trono più ambito e più scomodo del mondo. E quel che è certo è che appena dieci giorni dopo la rinuncia, i 22 cardinali riuniti in conclave a Napoli (di cui ben 13 erano stati scelti da Celestino) avevano eletto Benedetto, che aveva assunto il nome di Bonifacio VIII.
A scanso di equivoci, la prima cosa che aveva fatto Bonifacio era stata quella di arrestare e chiudere in carcere Celestino, per evitare che i suoi nemici ne facessero un antipapa. Intanto, gran parte del mondo spirituale e intellettuale, accusava il nuovo papa di simonia, ovvero di aver pagato i cardinali che lo avevano eletto.
Convinto assertore della superiorità del potere spirituale su ogni altro potere, dopo aver riportato ordine a Roma, Bonifacio VIII aveva ingaggiato una lotta con il re di Francia Filippo IV il Bello (che gli sarebbe costato il celebre “schiaffo di Anagni”), guadagnandosi – nel frattempo – un posto all’inferno all’interno della Divina Commedia.
Bonifacio VIII indice il giubileo del 1300, Giotto, affresco staccato in San Giovanni in Laterano (Roma)
Era stato proprio lui, nel 1300, a “inventare” il Giubileo moderno, grande evento turistico-spirituale, ma soprattutto segno tangibile della superiorità della Chiesa su qualsiasi altro potere. Solo lei può infatti perdonare ogni colpa e aprire la porte del cielo.
A rimarcare questa assoluta autorità, Bonifacio aveva aggiunto allo stemma papale la tiara pontificia con due corone, a rappresentare il potere temporale e quello spirituale.
Ultimo importante atto di Bonifacio, pochi mesi prima dell’umiliazione di Anagni e della morte, è la fondazione dell’Università di Roma, formalizzata con la bolla In Supremae praeminentia Dignitatis promulgata il 20 aprile 1303.
L’Università era allora un’istituzione ancora giovanissima, ma in piena espansione.
Con il decadere dell’impero romano, a lungo gli unici luoghi di insegnamento erano stati gli studia organizzati presso le sedi vescovili urbane per l’apprendimento dei fondamenti della grammatica e della retorica e la formazione teologica.
Presso alcuni di essi, a partire dalla fine del decimo secolo, un numero crescente di docenti e studenti provenienti da ogni parte d’Europa, aveva dato vita a gruppi di studio (studia generalia), inizialmente organizzati in modo spontaneo, sulla base della nazionalità, ma presto strutturatisi in corporazioni di docenti e studenti delle Universitates magistrotrum et scholarium. La prima a sorgere era stata Bologna nel 1088, alla quale era seguita Oxford nel 1167 e poi Parigi nel 1170. Nel corso del XIII secolo le università si erano andate moltiplicando in Italia, Francia, Inghilterra e nella penisola iberica, dove erano diventate un ponte tra mondo europeo e arabo e, tramite questo, veicolo della riscoperta della cultura greca.
Come tutte le corporazioni di mestieri, le università erano dotate di propri statuti e autonome autorità di governo: assumevano i docenti e organizzavano l’attività didattica in un ciclo introduttivo alle arti liberali (6 anni di frequenza), seguito dagli insegnamenti superiori di Diritto, Medicina (6 anni) e Teologia (8 anni), si preoccupavano di garantire gli alloggi e i locali per la comunità di studenti e maestri e ne curavano gli interessi di fronte all’autorità
Studenti a lezione in un frammento dell’arca di Giovanni da Legnano, Pierpaolo dalle Masegne, 1383, Museo medievale di Bologna
Dopo Parigi erano nate le università di Vicenza (1204), Valencia (1208), Cambridge (1209), Arezzo (1215), Padova (1222), Napoli (1224), Vercelli (1228), Tolosa (1229), Angers (1229), Salerno (1231), Salamanca (1242), Piacenza (1248), Siviglia (1254), Reggio Emilia (1276), Montpellier (1289), Lisbona (1290), Lerida (1300) e Avignone (1303).
A Roma, prima della istituzione dello “studio bonifaciano”, gli istituti di istruzione superiore erano esclusivamente rivolti al clero di Roma. Tra questi c’era la Scuola capitolare Lateranense, a indirizzo teologico e giuridico, destinata alla formazione dei quadri direttivi del governo ecclesiastico, la Universitas Romanae Curiae, istituita a Lione da Innocenzo IV intorno al 1245, aperta agli impiegati della curia, e che, senza sede stabile a Roma seguiva la corte papale “ubicumque Romanam Curiam residere contigerit” a causa di eventi religiosi o politici; gli Studi generali in teologia, tenuti dalla seconda metà del secolo XIII dagli Ordini mendicanti erano invece riservati ai frati. Mancava quindi un centro di studi superiori aperto alla cittadinanza romana e destinato a formare la futura classe dirigente.
Statua di Bonifacio VIII, Arnolfo di Cambio (1298 ca.), Museo dell’Opera del Duomo, Firenze
Bonifacio, che è tra i primi papi ad essersi laureato in un’Università (la prima al mondo, quella di Bologna, appunto) vuole dotare anche la sua città di una struttura simile, capace di offrire una formazione in tutte le discipline e aperta anche ai laici. Laici come lui stesso era stato, dopotutto, fino a 60 anni.
Quella di Roma diventa così la prima università ad essere fondata dall’autorità politica e religiosa e non costituita spontaneamente da un’associazione di studenti e insegnanti.
Bonifacio la chiama “Studium Urbis” (nome ancora oggi utilizzato nello stemma) e la colloca fuori dalle mura vaticane, ubicazione che segna l’inizio di un nuovo rapporto tra la città di Roma e gli studiosi che in essa giungono da tutte le parti del mondo.
L’università municipale di Roma comprende tutte le facoltà con una forte presenza degli studi giuridici. Nasce come istituzione laica ma subisce inevitabilmente le ingerenze del papato risentendo, nei suoi primi decenni di vita, del clima turbolento che i moti politici e gli scontri tra le fazioni guelfa e ghibellina provocano a Roma.
Nella seconda metà del Trecento, lo Studium è costretto a ricorrere a docenti non romani di Legge, Medicina, Grammatica e Logica, non compromessi nelle lotte politiche. I finanziamenti iniziali giungono dalla tassazione del vino forestiero, oltre che dalla munificenza di alcuni nobili romani. Quando la sede pontificia sarà spostata ad Avignone, la gestione dell’università sarà affidata al Comune di Roma.
Lo Studium Urbis acquista man mano importanza e prestigio e dal 1363 riceve dalla città di Roma un contributo stabile. La sede di Trastevere non è più sufficiente; così nel 1431 papa Eugenio IV, per dare all’Università una struttura più articolata, affianca al rettore quattro amministratori e provvede all’acquisto di alcuni edifici nel rione Sant’Eustachio, tra piazza Navona e il Pantheon. In quell’area sorgerà duecento anni dopo l’edificio della Sapienza.
Già nella seconda metà del ‘400, invece, il termine “Sapientia” viene usato nei documenti per indicare l’insieme di scuole e collegi riuniti nello Studium Urbis.
Con Niccolò V (1447-1455), papa mecenate e protettore di studiosi e letterati, il ginnasio attraverserà un periodo di rinascimento delle lettere latine e greche, con maestri illustri quali Lorenzo Valla, fondatore della critica filologica, Poggio Bracciolini, il grande letterato greco Crysoloras, il cardinal Bessarione e il poeta Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa con il nome di Pio II.
In un periodo di espansione dell’università, Alessandro VI (1492-1503) ne amplierà la sede e i lavori saranno portati avanti da Pio VIII (1503) e Giulio II (1503-1513).
Nel Cinquecento sarà il figlio di Lorenzo De’ Medici, papa Leone X, a dare un forte impulso all’Università romana, chiamando da tutta Europa studiosi famosi. È a Roma che per la prima volta in Europa vengono introdotte materie come i simplicia medicamenta, base della spagirica, un sistema di cure che a partire dall’energia presente nell’uomo cerca di ristabilirne l’equilibrio turbato dalla malattia. È in quegli anni che lavora nello Studium Urbis Bartolomeo Eustachio, uno dei fondatori della scienza anatomica moderna. Sarà sempre papa Leone X a dare impulso agli insegnamenti storici, umanistici, archeologici e scientifici mentre nel 1592 papa Clemente VIII chiamerà a Roma Andrea Cesalpino che l’anno dopo fornirà la prova della circolazione sanguigna.
Papa Celestino V, oggetto di importanti studi proprio nell’università fondata da Bonifacio VIII, il pontefice che lo fece incarcerare
Sotto l’impulso di Paolo III Farnese (1534-1549), cultore di astronomia e di matematiche, l’università si aprirà inoltre alle scienze e all’archeologia. La crescita continuerà nel Seicento con l’inaugurazione nel 1660 – sotto Alessandro VII – del Palazzo della Sapienza e della chiesa annessa dedicata a Sant’Ivo, protettore degli avvocati. Sarà lo stesso Alessandro VII a fondare la biblioteca universitaria ancora oggi chiamata “Alessandrina”.
Nel 1870, dopo l’unità d’Italia, l’Università passerà al Regno d’Italia e nel 1935 la sede sarà trasferita nella Città piacentiniana, teatro di alcuni dei momenti più importanti della storia politica, sociale e culturale dell’Italia degli ultimi 60 anni. Qui insegnerà infatti Storia del cristianesimo uno dei più importanti teologi del Novecento: Ernesto Bonaiuti, antifascista e modernista, cacciato dall’università per una singolare convergenza di interessi di fascismo e Vaticano, formalizzata in un apposito articolo nei Patti Lateranensi; ma qui fiorirà negli anni ‘60 anche una delle più importanti cattedre di Storia Medievale, destinata a diventare con Raoul Manselli il più importante centro al mondo di studi francescani; e da qui partirà anche la riscoperta della figura di Celestino V, riabilitato in tutta la sua grandezza dopo secoli di luoghi comuni sulla sua presunta vigliaccheria dovuti a quel “fece per viltade il Gran rifiuto” di Dante Alighieri.
Chissà, se lo avesse saputo, cosa avrebbe detto Bonifacio.
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Dalla raccolta:Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana.
FOTO di Franco Leggeri IL SORGERE DEL SOLE su ROMA e il suo GAZOMETRO 14 giugno 2023
“Storia del Gasometro (o Gazometro) di Roma”
Dove si trova
Lungo la via Ostiense, sul lato destro uscendo da Roma, per la precisione in via del Commercio 9/11, si impone la presenza di un’enorme struttura cilindrica, metallica che ormai fa parte del paesaggio urbano della città di Roma. Anzi, è stato definito “un pezzo pregiato dello skyline di Roma”. Si tratta del gasometro o gazometro. L’area che ospita il gasometro, fin dall’antichità, è stata deputata ad accogliere le derrate alimentari e le merci necessarie all’approvvigionamento dell’Urbe.
Nel 1863 la zona è stata attraversata dalla ferrovia costruita da Pio IX e vi è stato costruito il ponte dell’Industria (che i romani chiamano “ponte di ferro”). La presenza della ferrovia ha stimolato la crescita di alcuni insediamenti commerciali ed industriali, come il mattatoio e i Mercati Generali (dove confluivano tutta la frutta e la verdura destinate al commercio al dettaglio).
Perché è stato costruito e che cosa è
Agli inizi del XX secolo il sindaco Ernesto Nathan, uno dei migliori che abbia servito Roma, ha cominciato a promuovere una politica industriale, perciò nella zona fu costruito lo stabilimento del Gas (ora Italgas) con il Gasometro. Il gasometro è una struttura inventata nel 1789 dal fisico francese Antoine-Laurent de Lavoisier che veniva usata per accumulare il gas che in origine veniva prodotto per gassificazione del carbone e poi per cracking del petrolio.
La gassificazione è un processo chimico che permette di trasformare in monossido di carbonio, in idrogeno e in altre sostanze gassose materiali ricchi di carbonio, come per esempio carbone, petrolio o biomassa. Nel gasometro romano veniva distillato e opportunamente depurato, soprattutto il carbon fossile. Il gas veniva prodotto nei forni di distillazione e poi temporaneamente immagazzinato nei gasometri.
Quando è stato costruito
Il complesso del gasometro di Roma fu progettato nel 1909 e la struttura oggi visibile è stata preceduta da tre gasometri “minori” che sono stati costruiti dalla Samuel Cuttler & Sons di Londra tra il 1910 e il 1912. Il gas ivi prodotto veniva utilizzato sia per l’illuminazione pubblica, sia per quella domestica.
La struttura ancora visibile, in ferro, è stata messa in opera tra il 1935 e il 1937 dalla società Ansaldo di Genova e dalla tedesca Klonne Dortmund. Misura un’altezza di m 89,10 e un diametro di m 63; i pali che la compongono raggiungono una lunghezza totale di km 36; la sua capienza è di 200.000 mc di gas.
Come funziona
Il gasometro aveva la funzione di contenere il gas, dopo la sua produzione che avveniva nei forni e prima della distribuzione. Il gasometro, quando era in funzione, si alzava e si abbassava; il nostro gasometro è del tipo detto a “telescopio” che vuol dire che il cilindro interno si innalza e si abbassa, attraverso le guide laterali, indicando la quantità di gas contenuto.
I gasometri non avevano un grande capienza e quindi non potevano essere utilizzati come serbatoio a lungo termine, ma si limitavano solo a regolare a breve termine il passaggio tra la produzione del gas e il suo consumo.
Quando e perché è stato dismesso
Con la diffusione del gas metano il gasometro è caduto in disuso. Infatti nel 1960 si decide di portare a Roma il metano naturale. Nel 1970 il gas metano ha cominciato ad alimentare il quartiere di Spinaceto e nel 1981 è stata avviata la completa metanizzazione della città di Roma. La società Italgas che prima produceva il gas, attualmente si occupa solo della sua distribuzione.
Dagli anni ’90 sono state avanzate varie ipotesi di recupero del gasometro, ma ad oggi non è stato realizzato nulla. Nella zona limitrofa però, dalla fine degli anni ’90, sono stati aperti numerosi locali (discoteche, ristoranti, pub, gelaterie) e adesso il quartiere intorno al gasometro si annovera tra quelli che fanno da sfondo alla “movida” romana.
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
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