Roma Capitale –Cristiana Perrella è la nuova Direttrice del MACRO –
Roma, 26 marzo 2025 – Cristiana Perrella è la nuova Direttrice del MACRO- Al termine di lunghe considerazioni per stabilire a chi affidare la direzione del Macro – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, a seguito delle quarantaquattro domande presentate all’Azienda Speciale Palaexpo, il Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri e l’assessore alla Cultura di Roma Capitale Massimiliano Smeriglio, insieme al Presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo Marco Delogu, hanno annunciato questa mattina in conferenza stampa la nomina della nuova direttrice del Macro – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, si tratta della dottoressa Cristiana Perrella.
Roma Capitale –Cristiana Perrella è la nuova Direttrice del MACRO
La Commissione nominata da Palaexpo era composta da: Federica Pirani, direttrice della Direzione Patrimonio artistico delle Ville storiche della Sovrintendenza Capitolina; Laura Iamurri, professoressa ordinaria di Storia dell’Arte contemporanea dell’Università Roma Tre; Carla Subrizi, professoressa di Storia dell’Arte contemporanea dell’Università Sapienza; Daniela Lancioni, curatrice senior di Palaexpo; Fabio Merosi, direttore generale Azienda Speciale Palaexpo.
Gli altri candidati che la Commissione ha selezionato sono: Johanne Affricot e Lucrezia Cippitelli, Maria Alicata, Cecilia Canziani e Ilaria Gianni, Annamaria Cestelli Guidi e Lorenzo Romito, Florence Derieux.
“Per la direzione del Macro è stato scelto un profilo professionale di grande esperienza. Cristiana Perrella ha un curriculum di grande spessore che è stato considerato il più convincente per il futuro di una struttura per noi molto importante. Crediamo che il Macro abbia enormi potenzialità che vorremmo fossero pienamente dispiegate in un grande polo dedicato all’arte contemporanea e alla creatività, capace di costruire percorsi espositivi, di organizzare sia mostre temporanee che tematiche, di offrire una piena accessibilità e garantire un forte legame con la città e il suo territorio. Questa la missione che ci siamo dati e che affidiamo alla neo direttrice. Grazie a Luca Lo Pinto per il suo prezioso lavoro in questi anni”. Lo afferma il Sindaco di Roma Roberto Gualtieri.
“Sono molto soddisfatto del lavoro svolto in grande sintonia con il Sindaco Roberto Gualtieri e con il Cda di Palaexpo per la scelta di questa nomina. In meno di un mese, dal momento in cui è stata selezionata la rosa di candidati, abbiamo preso questa decisione dopo uno studio attento dei curricula, tutti di altissimo profilo, e dopo un’analisi dei progetti presentati. Siamo inoltre felici che la scelta sia ricaduta su una donna, anche questo per noi è un motivo di soddisfazione. Cristiana Perrella ha un profilo particolarmente adatto per questa carica, una grandissima esperienza nazionale e internazionale e una visione in linea con il nostro desiderio di rafforzare l’arte contemporanea a Roma. Lavoreremo in un rapporto di stretta collaborazione con Macro, Palazzo Esposizioni, Mattatoio, Museo delle Periferie. Auguro buon lavoro a Cristiana Perrella e al Macro” – dichiara l’assessore alla Cultura di Roma Capitale, Massimiliano Smeriglio.
“Estrema soddisfazione per questa nomina avvenuta nel massimo criterio di trasparenza grazie al lavoro di una Commissione molto autorevole nella quale non sono voluto entrare per non sovrapporre il mio ruolo di Presidente di Palaexpo con quello di esaminatore. Le candidature pervenute erano numerose e tutte di altissimo profilo ed è per questa ragione che ci sono stati dei ritardi. Sono in totale sintonia con il Sindaco Roberto Gualtieri e l’assessore alla Cultura Massimiliano Smeriglio sulla scelta della nomina alla dottoressa Cristiana Perrella. Credo che il Macro ripartirà in modo aperto e forte, iniziamo già il 27 maggio con il Festival delle Accademie e degli Istituti di Cultura stranieri arrivato alla sua terza edizione con la curatela affidata a Saverio Verini. Lavoreremo in stretta sintonia con Palazzo Esposizioni, Macro, Museo delle Periferie e Mattatoio” – dichiara il presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo, Marco Delogu.
“Sono molto felice di tornare alla direzione di un museo e in particolare, di farlo a Roma, che è la mia città. Le istituzioni culturali, oggi più che mai, possono giocare un ruolo importante, quello di espandere il pensiero, di porre domande, di articolare un discorso critico che aiuti a interpretare le questioni centrali del nostro tempo, offrendo, grazie alle arti e agli artisti, prospettive inedite e sfaccettate. Ho la fortuna, grazie al lavoro di Luca Lo Pinto che mi ha preceduto e di tutto il suo team, di arrivare in un museo che ha operato già in questo senso, con una coerenza e una visione fuori dal comune, costruendo intorno a sé una comunità e allo stesso tempo acquisendo un posizionamento internazionale. È mia intenzione lavorare il più possibile in continuità con quanto realizzato negli ultimi cinque anni e fare delle basi poste finora la premessa per un museo che sia insieme accogliente e radicale, generoso e all’avanguardia, e che sia fortemente orientato a rendere l’arte contemporanea significativa e vicina per un pubblico quanto più ampio possibile”- dichiara la nuova direttrice del Macro, Cristiana Perrella.
BREVE BIOGRAFIA DI CRISTIANA PERRELLA
Cristiana Perrella è curatrice e critica d’arte, e insegna Management ed economia delle arti e delle istituzioni culturali al corso di laurea magistrale in Teoria e storia delle arti e dell’immagine dell’Università San Raffaele, Milano.
Ha diretto il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato dal 2018 al 2021 e, in precedenza, il Contemporary Arts Programme della British School at Rome (1998-2008).
Ha fondato e curato Sacs- Sportello arte contemporanea della Sicilia per il museo Riso a Palermo (2007-2009) e ha curato il progetto arte e scienza della Fondazione Marino Golinelli, Bologna (2009-2018).
Come curatrice indipendente ha collaborato con istituzioni Italiane e internazionali, tra cui il Maxxi, Roma, la Bienal de Valencia, l’Iksv, Istanbul, la Fondazione Prada, Milano.
Nel 2023 è stata curatrice di Panorama L’Aquila, la terza edizione della mostra diffusa itinerante organizzata da Italics.
Dal 2022 è direttrice artistica del Milano Design Film Festival.
Per il 2025 è curatrice del programma di Conciliazione 5, il nuovo spazio espositivo del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede inaugurato a Roma, in via della Conciliazione, in occasione del Giubileo.
Fara in Sabina (Rieti)- Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina-
La sala dedicata alla tomba di “Colle del Forno”-
Fara in Sabina (Rieti)-26 marzo 2025-Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito nel cuore del centro storico di Fara in Sabina, è lieto di invitarvi a un evento esclusivo che si terrà sabato 29 marzo alle ore 15:00. Questo incontro speciale, dedicato al primo anniversario della sala che ospita il prezioso corredo della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, offrirà l’opportunità di approfondire la storia di una delle pagine più travagliate e avventurose della storia dell’archeologia. Il Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina infatti, lo scorso 16 marzo 2024, ha accolto il reperto che non solo rappresenta un patrimonio inestimabile per la Sabina, ma simboleggia anche il frutto di un recupero (seguito da un’operazione di cura e restauro) reso possibile dal lavoro sinergico tra il Comune di Fara in Sabina, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti, nonché grazie all’apporto tecnico-scientifico di professionisti vari.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina
Per omaggiare questo primo anniversario, il museo (gestito dalla Pro Loco di Fara in Sabina APS) organizza un visita speciale alla Tomba XI di Colle del Forno guidata direttamente dalla dott.ssa archeologa Paola Santoro, dirigente emerito del Consiglio Nazionale delle Ricerche ed ex dirigente dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico a Montelibretti. È stata allieva del grande etruscologo Massimo Pallottino e attualmente ricopre il ruolo di direttrice del Museo Civico Archeologico di Magliano Sabina. “Chi ha trafugato la tomba – racconta la dott.ssa Santoro – ha trovato il carro intatto, evento raro in questo ambito, ma a causa degli scavi fatti con la ruspa sono stati riportati diversi danni. Io scientificamente ho potuto scavare i lacerti, i quali erano soprattutto frammenti d’oro. Ed è proprio questo il dettaglio che mi ha particolarmente colpito, cioè scoprire che i materiali d’oro rinvenuti si possono collegare alla veste di una principessa sepolta nella tomba. Si tratta di elementi decorativi provenienti dal Lazio e dall’interno della penisola e questo fa supporre che tutto il corredo sia appartenuto a una delle famiglie più emergenti di Eretum. Penso inoltre – continua – che questo reperto rappresenti un valore aggiutno per il museo e per la città. D’altronde, il museo di Fara in Sabina ha il vanto di custodire i due poli principali della Sabina Tiberina meridionale nominati dalle fonti e scavati scientificamente, uno dalla Soprintendenza e uno dal CNR”.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina
Durante l’evento quindi si potranno conoscere i dettagli relativi agli scavi che hanno portato alla luce i preziosi reperti della Tomba XI di Colle del Forno a Montelibretti, insieme al celebre Carro di Eretum. A seguire, si terrà un incontro con il Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina: Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Siamo certi che questo evento sarà un’occasione imperdibile per conoscere meglio la storia e la cultura del nostro territorio, nonché i reperti sabini conservati presso il museo. La partecipazione è gratuita, ma è consigliata la prenotazione anticipata, poiché i posti sono limitati. Per maggiori informazioni, si può contattare l’ufficio turistico comunale all’indirizzo mail visitfarainsabina@gmail.com o ai numeri 0765/277321 e 380/2838920.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Flaminia Leggeri Fotoreportage –Tirana, la città colorata, è la capitale dell’Albania è un paese indicato come una delle 10 destinazioni da non perdere dalla Rough Guide. Ecco i loro 10 motivi perché visitare Tirana. Marzo sarà un vero mese di festa non solo per i residenti di Tirana, ma anche per i suoi numerosi visitatori che arrivano da altri distretti dell’Albania e dall’estero.
Nell’ambito del centenario della capitale, il Comune di Tirana ha organizzato un’agenda di attività, che ricopre tutto il mese di marzo.
La notizia è stata annunciata dallo stesso sindaco Erion Veliaj, che ha condiviso con molti follower sui social network, l’agenda delle attività festive delle prossime quattro settimane.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Tirana è solitamente in cima alla lista delle città peggiori d’Europa. Dopo decenni di dittatura stalinista, grigia e triste, povera di infrastrutture e servizi, di certo può rimanere poco attraente per i piu’ superficiali. Nel 1992. con il collasso del regime comunista, la situazione è solo peggiorata, e il caos ha avuto la meglio, ingolfando la città e creando la migliore condizione per la crescita della criminalità.
Adesso tutto è cambiato. Oggi Tirana, anche se rimane comunque una città caotica, è una piacevolissima cittadina, centro della cultura, dell’intrattenimento e della politica dell’Albania. Ha visto crescere rapidamente la sua popolazione, arrivando quasi ad un milione di abitanti ( la totalità della popolazione albanese ne conta tre milioni ). La città ti sorprenderà, ed in tutto il paese non si troverai nulla del genere!
Ecco le 10 ragioni per andare a Tirana.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Sperimentare l’ospitalità degli abitanti
Essere invitati per un caffè o un rakia (un brandy di prugna) è un’abitudine locale e troverete gli albanesi amichevoli verso i visitatori stranieri. Essendo stata isolata dal resto del mondo per la seconda metà del ventesimo secolo, molti sono curiosi dell’afflusso di viaggiatori.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Tirana, la città colorata
Poiché è una piccola città, è possibile coprire facilmente la zona centrale di Tirana in un giorno. Ma oltre a un’esplorazione piacevole della manciata di musei, monumenti, edifici storici e parchi, trovate un po’ di tempo per ammirare le abitazioni tiranesi . Verniciati con colori arcobaleno, aggiungono luminosità a quello che un tempo era un paesaggio urbano piuttosto monocromatico.
La cultura del caffè
L’Albania potrebbe non essere famosa per la sua cucina, ma non è un motivo per non fare attenzione al cibo. Cercate l’ottimo caffè e birra (l’Islam è la religione predominante, ma è praticata in modo molto tollerante), nonché pasticcini decenti e buon gelato. I caffè sono il luogo perfetto per guardare la gente, impostato su una colonna sonora di albanese e di Euro-pop.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Una lezione di storia a Piazza Scanderbeg
Il centro di Tirana è Piazza Scanderbeg, che prende il nome dall’eroe nazionale che ha dato vita anche se brevemente all’indipendenza dell’Albania dall’Impero Ottomano nel XV secolo. Al centro della piazza c’è una grande statua bronzea di Scanderbeg a cavallo (immaginate Alessandro Magno incontra Thor), e la Moschea Et’hem Bey, uno degli edifici più preziosi della nazione che risale alla fine del XVIII secolo, che si trova nell’angolo sud-est. Sempre nella stessa piazza si trovano anche i principali musei della nazione, tra cui il Museo Storico Nazionale albanese adornato con un enorme muro socialista di partigiani vittoriosi.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Quale occasione migliore per visitare una piramide dell’era moderna?
Troverete la piramide di cemento di Tirana, Piramida, a pochi passi da Piazza Skanderbeg. Costruito nel 1987 dalla figlia del dittatore albanese Enver Hoxha (che tirannicamente governò l’Albania dal 1944 al 1985) come museo a suo padre, ora sembra abbandonata, spogliata delle piastrelle che una volta la coprivano e spruzzi di graffiti. Si parla di demolirlo, ma alcuni sostengono che dovrebbe essere mantenuto intatto come un monumento adatto allo spirito dello stalinismo.
Per il “Blloku”, il cuore della movida albanese
“Blloku” è un quartiere di Tirana. Letteralmente, il suo significato è, Il Blocco ex quartiere dei dirigenti del Comitato Centrale del Partito del Lavoro. Progettato come “quartiere giardino” dall’architetto Gherardo Bosio, divenne dopo la Seconda Guerra il quartiere residenziale del dittatore Enver Hoxha. Oggi è il cuore della “movida” albanese. Oggi si trovano alberghi costosi, caffè di design, ristoranti e negozi.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Per la vita notturna
Ogni anno la scena notturna di Tirana si muove su di un livello e i club della città, in gran parte situati intorno a Blloku, variano notevolmente in tema e atmosfera. È meglio visitarli con qualcuno del posto per sapere dove andarci (e quali evitare). Siate tuttavia consapevoli che l’Albania è ancora una società tradizionale.
Un pò di relax in Parku i Madh (Grand Park)
Questo grande parco boscoso è dove molti cittadini di Tirana vanno per passare qualche ora, sia che si tratti di pesca nel lago artificiale, picnic sui prati o passando il tempo in uno dei tanti bar-caffetterie. Tenuto conto del traffico opprimente di Tirana, questo parco consente di brillare l’atmosfera mediterranea della città.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Per visitare il Parco Nazionale del Monte Dajti
Se volete una pausa dal centro della città, dirigetevi verso il Parco Nazionale del Monte Dajti, popolare tra i residenti di Tirana per l’aria fresca e le passeggiate fuori dal centro abitato. Potete prendere una funivia costruita dagli Austriaci (costosa) o il bus della città (a buon mercato) e una volta lì troverete alberghi, pensioni e ristoranti se ti senti di trascorrere la notte.
Un salto al mare, perché no?
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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La città storica di Durazzo sul mare Adriatico è stata per decenni, dove i potenti di Tirana andavano per rilassarsi (Enver Hoxha e Re Zog disponevano di case vacanze). Oggi sono in gran parte i turisti kosovari che si avvalgono di numerosi hotel e ristoranti economici lungo il lungomare. Le cose sono ruvide e pronte, ma Durazzo è vivace, poco costosa e facilmente accessibile.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Situata geograficamente al centro del Paese, circa 35 km a est di Durazzo e circa 40 km a nord-ovest di Elbasan, sorge in una valle racchiusa da montagne e colline (Monte Dajt a est, le colline di Kërrabë e Sauk al sud, le colline Vaqarr e Yzberisht a ovest e Kamzë a nord). È attraversata da due fiumi (il Tirana e il Lana) ed è affiancata da diversi laghi (lago di Tirana, Thatë, Farkë e Paskuqani) e da una riserva naturale nazionale (parku i madh).
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
È la sede del potere del governo albanese, con le residenze ufficiali del presidente e del primo ministro albanese e del parlamento albanese. La città è oggi il principale centro economico, finanziario, politico e commerciale, nonché culturale e religioso d’Albania, sede di istituzioni pubbliche e dell’università, e grazie alla sua posizione nel centro del paese, snodo di trasporti e traffici, e al suo moderno trasporto aereo, vicino ai poli marittimi, ferroviari e stradali, è in progressiva crescita urbana. È stata insignita dei titoli di Capitale europea della gioventù per il 2022[5] e di Capitale mediterranea della cultura e del dialogo per il 2025[6].
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Estesa su un’ampia pianura al centro dell’Albania, con il monte Dajt che si eleva a est e una valle a nord-ovest che si affaccia sul mare Adriatico in lontananza, è contornata da diversi laghi artificiali.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Territorio
Tirana dal Satellite
Il Comune di Tirana si trova a (41,33 ° N, 19,82 ° E) nell’omonimo distretto. L’altitudine media di Tirana è 110 metri (361 piedi) sul livello del mare mentre il punto più alto è a 1828 m (5,997.38 ft) sulla sommità del Gropà Mali.
Ricca d’acqua, è situata in una pianura fertile. Bagnata dal fiume di Tirana (lumi i Tiranës), il cui affluente Lana attraversa il centro abitato[7] e affiancata nella zona sud dal fiume Erzen.
La comune comprende anche diversi laghi artificiali: il lago artificiale di Tirana, intorno al quale fu costruito il Grande Parco, il lago di Farka, di Bovilla, di Allgjate, di Kus, di Kashar e di Vaqarr.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Il clima di Tirana è temperato, con estati calde e inverni freschi e umidi.[8] Grazie alla sua posizione nella pianura di Tirana e alla vicinanza al Mar Mediterraneo, la città è particolarmente influenzata da un clima stagionale mediterraneo. È tra le città più piovose e soleggiate d’Europa, con 2.544 ore di sole all’anno
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Fara in Sabina-Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Fara in Sabina (Rieti)-Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito nel borgo antico di Fara in Sabina, celebra un anniversario importante: lo scorso 16 marzo 2024, infatti, è stata inaugurata la sala che ospita il prezioso corredo della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, testimone di una delle pagine più travagliate e avventurose della storia dell’archeologia, insieme al suo reperto più celebre: il Carro del Principe di Eretum.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Il recupero, il restauro, la fruizione e la valorizzazione del ritrovamento sono stati resipossibili dal lavoro sinergico del Comune di Fara in Sabina e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti.
Per omaggiare questo primo anniversario, il museo ha organizzato un evento speciale previsto per sabato 29 marzo 2025, al quale saranno presenti diverse figure di rilievo tra cui l’archeologa dott.ssa Paola Santoro, dirigente emerito del Consiglio Nazionale delle
Ricerche ed ex dirigente dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico a Montelibretti. È stata allieva del grande etruscologo Massimo Pallottino e attualmente ricopre il ruolo di direttrice del Museo Civico Archeologico di Magliano Sabina.
Dottoressa Santoro, lei ha diretto e promosso ricerche topografiche e scavi nella Sabina Tiberina, che hanno avuto come risultato l’identificazione di alcune città con le necropoli, tra cui quella di Colle del Forno: può parlarcene?
Sì, dirigevo le ricerche sui Sabini del Tevere. È stato abbastanza complicato perché iprimi scavi, avvenuti negli anni Settanta, sembravano una sorta di libro di cui sono state ritrovate solo alcune pagine sparse. Noi abbiamo cercato di collegarle tra loro, ma ovviamente i buchi restano. Per fortuna siamo stati ricompensati perché nella seconda serie di campagne di scavo, iniziate negli anni 2000, abbiamo trovato la tomba 36, conosciuta come Tomba del Trono, conservata anch’essa al museo di Fara in Sabina.
Cosa avete scoperto durante gli scavi?
Nel ‘73 è stata allestita una prima esposizione al Consiglio Nazionale delle Ricerche per mostrare che la Sabina non è una zona grigia dell’archeologia, come diceva l’archeologo Pallottino, ma appare con un profilo archeologico ben definito. Da quel momento,coadiuvati dalla Soprintendenza, abbiamo ripreso a studiare tutti i Sabini del Tevere confermando la presenza di due fari nella Sabina Tiberina: uno è la città di Tito Tazio e Numa Pompilio, ossia Cures, e l’altro è la necropoli che ci ha dato l’opportunità di tracciare il profilo culturale dell’insediamento sabino, cioè Eretum.
Qual è stato il momento più emozionante per lei?
Chi ha trafugato la tomba ha trovato il carro intatto, evento raro in questo ambito, ma a causa degli scavi fatti con la ruspa sono stati riportati diversi danni. Io scientificamente ho potuto scavare i lacerti, i quali erano soprattutto frammenti d’oro. Ed è proprio questo il dettaglio che mi ha particolarmente colpito, cioè scoprire che i materiali d’oro rinvenuti si possono collegare alla veste di una principessa sepolta nella tomba. Si tratta di elementi decorativi provenienti dal Lazio e dall’interno della penisola e questo fa supporre che tutto il corredo sia appartenuto a una delle famiglie più emergenti di Eretum.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Davvero affascinante. E secondo lei che impatto ha avuto l’arrivo del Carro per il museo e per tutta la comunità?
Io penso rappresenti un valore aggiunto per il museo e per la città, infatti il Comune di Fara in Sabina ci tiene tanto. Bisogna continuare a tutelare questo importantissimo patrimonio. D’altronde, il museo di Fara ha il vanto di avere i due poli principali della Sabina Tiberina Meridionale nominati dalle fonti e scavati scientificamente, uno dalla Soprintendenza e uno dal CNR.
Dottoressa, ha altri progetti in cantiere?
A noi rimane tanto materiale da studiare riguardo alla storia di Eretum. Al momento abbiamo documentato graficamente tutti i reperti e ora stiamo lavorando alla pubblicazione di un libro dedicato alla storia della Tomba XI, che mi auguro
diventi una pietra miliare della storia dei Sabini del Tevere. Magari, il 29 marzo de prossimo anno, potremo finalmente presentarlo.
Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito nel borgo antico di Fara in Sabina, celebra un anniversario importante: lo scorso 16 marzo 2024, infatti, è stata inaugurata la sala che ospita il prezioso corredo della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, testimone di una delle pagine più travagliate e avventurose della storia dell’archeologia, insieme al suo reperto più celebre: il Carro del Principe di Eretum. Il recupero, il restauro, la fruizione e la valorizzazione del ritrovamento sono stati resi possibili dal lavoro sinergico del Comune di Fara in Sabina e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti.
Per omaggiare questo primo anniversario, il museo ha organizzato un evento speciale previsto per sabato 29 marzo 2025, al quale saranno presenti diverse figure di rilievo tra cui l’archeologa dott.ssa Paola Santoro, dirigente emerito del Consiglio Nazionale delle Ricerche ed ex dirigente dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico a Montelibretti. È stata allieva del grande etruscologo Massimo Pallottino e attualmente ricopre il ruolo di direttrice del Museo Civico Archeologico di Magliano Sabina.
Dottoressa Santoro, lei ha diretto e promosso ricerche topografiche e scavi nella Sabina Tiberina, che hanno avuto come risultato l’identificazione di alcune città con le necropoli, tra cui quella di Colle del Forno: può parlarcene?
Sì, dirigevo le ricerche sui Sabini del Tevere. È stato abbastanza complicato perché i primi scavi, avvenuti negli anni Settanta, sembravano una sorta di libro di cui sono state ritrovate solo alcune pagine sparse. Noi abbiamo cercato di collegarle tra loro, ma ovviamente i buchi restano. Per fortuna siamo stati ricompensati perché nella seconda serie di campagne di scavo, iniziate negli anni 2000, abbiamo trovato la tomba 36, conosciuta come Tomba del Trono, conservata anch’essa al museo di Fara in Sabina.
Cosa avete scoperto durante gli scavi?
Nel ‘73 è stata allestita una prima esposizione al Consiglio Nazionale delle Ricerche per mostrare che la Sabina non è una zona grigia dell’archeologia, come diceva l’archeologo Pallottino, ma appare con un profilo archeologico ben definito. Da quel momento,coadiuvati dalla Soprintendenza, abbiamo ripreso a studiare tutti i Sabini del Tevere confermando la presenza di due fari nella Sabina Tiberina: uno è la città di Tito Tazio e Numa Pompilio, ossia Cures, e l’altro è la necropoli che ci ha dato l’opportunità di tracciare il profilo culturale dell’insediamento sabino, cioè Eretum.
Qual è stato il momento più emozionante per lei?
Chi ha trafugato la tomba ha trovato il carro intatto, evento raro in questo ambito, ma a causa degli scavi fatti con la ruspa sono stati riportati diversi danni. Io scientificamente ho potuto scavare i lacerti, i quali erano soprattutto frammenti d’oro. Ed è proprio questo il dettaglio che mi ha particolarmente colpito, cioè scoprire che i materiali d’oro rinvenuti si possono collegare alla veste di una principessa sepolta nella tomba. Si tratta di elementi decorativi provenienti dal Lazio e dall’interno della penisola e questo fa supporre che tutto il corredo sia appartenuto a una delle famiglie più emergenti di Eretum.
Davvero affascinante. E secondo lei che impatto ha avuto l’arrivo del Carro per il museo e per tutta la comunità?
Io penso rappresenti un valore aggiunto per il museo e per la città, infatti il Comune di Fara in Sabina ci tiene tanto. Bisogna continuare a tutelare questo importantissimo patrimonio. D’altronde, il museo di Fara ha il vanto di avere i due poli principali della Sabina Tiberina Meridionale nominati dalle fonti e scavati scientificamente, uno dalla Soprintendenza e uno dal CNR.
Dottoressa, ha altri progetti in cantiere?
A noi rimane tanto materiale da studiare riguardo alla storia di Eretum. Al momento
abbiamo documentato graficamente tutti i reperti e ora stiamo lavorando alla
pubblicazione di un libro dedicato alla storia della Tomba XI, che mi auguro
diventi una pietra miliare della storia dei Sabini del Tevere. Magari, il 29 marzo del
A Velletri la prima Giornata di Studi Internazionale al Museo-
Musei Civici di Velletri-Il 28 marzo, a partire dalle ore 9.30 e per l’intera giornata, la Sala Tersicore, situata al primo piano del Palazzo Comunale di Velletri, ospiterà la 1^ Giornata di Studi Internazionale del Museo Archeologico “O. Nardini”. L’evento, organizzato dalla direttrice dei Musei Civici di Velletri, Raffaella Silvestri, si propone come il primo di una serie di incontri dedicati all’approfondimento e alla valorizzazione della storia del territorio. Il tema scelto per questa prima edizione, “Coriolano, i Volsci e i Romani”, rappresenta un argomento di particolare rilevanza per la città di Velletri e per l’intero territorio dei Castelli Romani, ponendo l’accento su alcuni dei protagonisti storici che ne hanno segnato le vicende. Al convegno parteciperanno illustri studiosi e ricercatori del settore, tra cui Filippo Coarelli, Luigi Capogrossi Colognesi, Emanuele Di Fazio, Giuseppina Ghini, Francesca Diosono, Marco Nocca, Elena Foddai e molti altri esperti, i quali offriranno un contributo scientifico di alto livello attraverso le loro relazioni e discussioni. L’iniziativa rappresenta un’importante occasione per studiosi, appassionati e cittadini interessati a conoscere più da vicino la storia e l’archeologia del territorio. L’ingresso è libero e aperto a tutti. L’iniziativa è aperta alla partecipazione delle scuole, come opportunità per coinvolgere studenti e insegnanti.
Per l’occasione, i Musei Civici di Velletri saranno aperti con i seguenti orari: dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00.
Info e prenotazioni:
06 96158268 – museicivicivelletri@gmail.com
Il Museo è collocato nell’ala sud-est del Palazzo Comunale, condivide con il museo archeologico “O. Nardini” l’ampio e luminoso ingresso, la biglietteria e la sala accoglienza. Il percorso è articolato su due livelli (per una superficie di circa cinquecento metri quadrati) e in cinque sezioni attraverso cui è possibile seguire i principali eventi che hanno caratterizzato la storia più remota del territorio dei Colli Albani, le trasformazioni che il paesaggio, il mondo animale e vegetale hanno subito per arrivare a come oggi noi li osserviamo e li viviamo. Rivolto ad un pubblico eterogeneo, diverso per età, lingua, formazione e cultura, questo museo utilizza vari strumenti comunicativi, affiancando ai materiali esposti e ai classici pannelli descrittivi italiano/inglese ricostruzioni, exhibits, “pannelli cassettonati”, filmati e scenografiche ambientazioni. Il Museo vuole favorire nel visitatore l’uso combinato di tutti i sensi percettivi: egli può vedere, ascoltare, e toccare, coinvolto e soprattutto incuriosito da un’ esperienza da ricordare e raccontare, che si spera susciti in lui interessi più profondi da coltivare poi in altre sedi. Si predilige in verità il senso tattile, sia per dar modo anche ai visitatori non vedenti di effettuare un viaggio attraverso le origini del territorio, sia per lasciare a ciascuno il ricordo di un museo “sperimentato” e non “subìto”. In un allestimento marcatamente didattico come quello proposto, che ove possibile favorisce l’interattività con il visitatore, argomenti molto complessi sono spiegati con la presentazione dei materiali paleontologici e archeologici, con un apparato esplicativo-fotografico particolarmente ricco che illustra le varie attività sul campo (ricognizioni, analisi degli affioramenti geologici, scavi archeologici e illustrazioni delle analisi di laboratorio) e con l’ausilio di uno speciale strumento didattico, l’Itinerario Bimbi, un percorso illustrato per i visitatori più giovani.
Il racconto della nascita dei Colli Albani ha inizio nella sezione dedicata alla Geologia, nell’atmosfera irreale creata dai supporti audiovisivi, con l’espediente scenico del “condotto di fuoco” che catapulta il visitatore oltre cinquecentomila anni indietro, nel bel mezzo di un’eruzione vulcanica. Prosegue attraverso un affascinante ed articolato percorso contraddistinto da “pannelli cassettonati”, dal plastico della piattaforma carbonatica (ricostruzione del territorio laziale di oltre 140 milioni di anni fa) e da quello del Vulcano Laziale.
La fossilizzazione, invece, è il primo tema affrontato nella sezione di Paleontologia, il punto di partenza per indagare più a fondo la vita del passato attraverso una ricca raccolta di fossili, un plastico con i dinosauri, i calchi delle loro impronte ed un filmato sulla nascita e l’evoluzione della vita nel territorio prima della comparsa dell’uomo.
La successiva sezione di Antropologia esamina le spinte biologiche e ambientali che hanno portato alla comparsa dell’uomo e le tappe principali della sua evoluzione. Di grande impatto per immediatezza e forza espressiva risulta l’installazione artistica che con sei sagome in legno dipinte a mano, di grandezza naturale, illustra la variazione delle forme, della postura, e della mole del corpo, dai primati a Homo sapiens nel corso di 3 milioni di anni.
I cambiamenti che hanno caratterizzato il lungo cammino dell’uomo, dal Paleolitico inferiore al Neolitico sono rappresentati nella sezione di Preistoria, attraverso numerose testimonianze di vita quotidiana (strumenti in pietra e materiali ceramici), diversi diorami e la scenografica ricostruzione di una grotta in cui il visitatore può entrare a contatto diretto con l’ambiente e le abitudini dell’uomo del Paleolitico.
La sezione di Protostoria illustra infine, i diversi tipi di organizzazione sociale ed economica in atto nell’area dei Colli Albani, nel periodo dal Bronzo antico all’età del Ferro, presentando testimonianze materiali, la ricostruzione di un rogo funebre e l’interno di una capanna in cui è possibile entrare, interagire con i materiali esposti e assistere a brevi filmati sull’argomento.
Ad ospitare il Museo è l’imponente Palazzo Comunale alle cui vicende sono in un certo senso collegate quelle del Museo stesso. Iniziato nel 1575 da Giacomo della Porta su disegno del Vignola ed impostato sui resti di un edificio romano, il Palazzo ha sempre presentato in corso d’opera numerosi problemi, mai risolti del tutto, che hanno comportato restauri e consolidamenti della struttura sia prima che venisse completato, ad opera dell’architetto Filippo Barigioni nel 1720, sia dopo. Colpito dai bombardamenti dell’ultima guerra, il Palazzo fu ricostruito secondo l’originario progetto del Vignola. Eretto su pianta rettangolare senza cortile, presenta caratteristiche architettoniche sobrie ed eleganti ed un impianto planimetrico molto semplice; due grandi scaloni ne organizzano la suddivisione spaziale a partire dal piano rialzato, per tre piani, mentre il piano seminterrato è indipendente, con accesso dall’esterno sulla facciata retrostante. A partire dal Dicembre 2003 sono stati annessi al Museo gli spazi adiacenti dell’ala Sud-Est del seminterrato del Palazzo Comunale: alla collezione archeologica, che occupa l’ala Sud-Ovest, si è aggiunto così nella nuova ala il secondo Museo Civico dedicato alla Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani. Il Palazzo Comunale assieme a quello dei Conservatori e al Tempietto del Sangue delimita la piazza civica, anticamente detta” Piazza di Corte”, di impronta rinascimentale.
Storia della Collezione
Una serie di ricognizioni sistematiche svolte da ricercatori dell’Università di “Tor Vergata” e recenti ritrovamenti della Soprintendenza Archeologica per il Lazio hanno aiutato a comprendere nuovi elementi del passato del territorio dei Colli Albani fino ad oggi poco rappresentati al pubblico. Tali aspetti (la formazione del Vulcano Laziale, i giacimenti fossiliferi, i cambiamenti climatici, la presenza umana nel Paleolitico medio, la nascita della complessità sociale e la formazione della città in epoca protostorica) non erano di certo sconosciuti, ma mancavano molti documenti materiali (oggetti, strutture, studi scientifici) e un’organica recensione che li comprendesse complessivamente. L’assegnazione al Museo di nuovi locali, insieme alle recenti acquisizioni paleontologiche e archeologiche, nonché a una cospicua donazione di fossili lo hanno consentito determinando nel 2005 la creazione di un nuovo percorso museale. Senza interferire con l’adiacente museo archeologico esso si muove su aspetti del sapere più problematici e lontani di quelli legati alla cultura classica, secondo due principi ispiratori: da una parte il rigore scientifico nella raccolta e nello studio dei materiali, dall’altra lo spirito didattico sempre più presente in una struttura preposta alla formazione e allo stimolo delle menti. Oggi i Musei Civici sono costituiti da due distinti itinerari: quello archeologico nell’ala ovest che accoglie l’antica raccolta, quello di geopalentologia e preistoria nell’ala est che espone nuovi materiali e importanti raccolte della Soprintendenza Archeologica per il Lazio.
Nelle prime sezioni al piano terra sono esposti diversi minerali e la raccolta di fossili; la sezione di Preistoria accoglie invece i più recenti ritrovamenti provenienti dal versante esterno sud-occidentale della caldera del Vulcano Laziale (Genzano – Velletri), da cui provengono pietre lavorate e abbandonate dai gruppi di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico che si spostavano nel territorio in cerca di selvaggina, acqua e di ogni altra fonte possibile di sostentamento. Una grande vetrina espone anche punte, raschiatoi e coltelli a dorso che dimostrano l’elevata abilità dell’uomo di Neanderthal, e l’industria litica di Homo sapiens.
La sezione di Protostoria espone infine materiali provenienti da alcuni insediamenti dell’età del Bronzo e, soprattutto, diversi corredi provenienti da ampie necropoli recentemente ritrovate intorno agli antichi centri che nell’età del Ferro sorgevano nell’area dei Colli Albani. Urne a capanna, oggetti legati alla cerimonia del banchetto funebre, alla distribuzione del vino (anfore, brocche, coppe, tripodi) e alla ripartizione della carne (coltelli, spiedi, ciotole), nonché oggetti di ornamento e gioielli sono i diversi reperti delle importanti raccolte della Soprintendenza.
Goethe J.W., Viaggio in Italia -Johann Heinrich Wilhelm Tischbein
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
Goethe J.W., Viaggio in Italia -,Roman CampagnaGoethe J.W., Viaggio in Italia -William Stanley Haseltine-Morning LIght,Roman Campagna
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
Goethe J.W., Viaggio in ItaliaGoethe J.W., Viaggio in ItaliaGoethe J.W., Viaggio in ItaliaGoethe J.W., Viaggio in Italia -Johann Heinrich Wilhelm TischbeinGoethe J.W., Viaggio in Italia -,Roman CampagnaGoethe J.W., Viaggio in ItaliaGoethe J.W., Viaggio in Italia
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
Archivio di Stato di Rieti BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
Autore dell’Articolo-Avv. Paolo Amoroso.
Pozzaglia in Sabina -2 novembre 2015-Santa Maria in Valle è stato un monastero rurale benedettino oggi in rovina che si trova nel comune di Pozzaglia in Sabina sul limitare dell’esteso altopiano che costituisce il fondovalle del torrente Muzia, un insignificante ma perenne corso d’acqua tributario del Fosso Corese. Fondato probabilmente nel corso del X secolo, rimaneggiato ed ingrandito prima nel XIII secolo ed ancora nel trecento, quindi abbandonato all’inizio dell’ottocento ed infine utilizzato come cimitero fino al parziale restauro risalente alla metà del novecento, conserva i ruderi della chiesa conventuale dalla facciata a capanna risalente al secolo XI, torre campanaria ed abside duecenteschi.
La valle del torrente Muzia ben si prestava all’insediamento umano malgrado la sua altitudine – circa 700 metri sul livello del mare – sia già montana. Il fondovalle del torrente infatti è composto da un esteso altopiano solcato da ruscelli e punteggiato da collinette dai fianchi poco acclivi lungo i quali era semplice praticare l’agricoltura. Il terreno era ovunque morbido ed ubertoso, le vicine montagne offrivano abbondanti pascoli estivi nonché molto legname, l’altitudine proteggeva dalla malaria ed anche l’acqua era abbondante per tutto l’anno.
Anche se né l’ulivo né la vite riescono a crescere ad un’altitudine così elevata, i terreni pianeggianti del fondovalle potevano comunque essere utilizzati indifferentemente come pascoli invernali, impiego per il quale erano molto versati, oppure per la coltivazione di legumi, cereali minori e forse anche del grano mentre i poderi adiacenti al greto del torrente potevano essere adibiti ad orti senza particolari difficoltà e con buone rese. Tutte queste risorse garantivano con poco sforzo una produzione alimentare largamente superiore alle necessità di una piccola comunità monastica, ragione della prosperità dell’abbazia.
Altro vantaggio della Valle del Muzia era l’isolamento, che proteggeva chi ci viveva dai pericoli esterni, conseguenza dell’orografia molto accidentata della porzione orientale dei Monti Lucretili che la rende ancora oggi la loro parte meno popolata. Quando i monaci giunsero in quella contrada, in un momento per noi insondabile nel corso del X secolo, si stabilirono sulla cima di una collinetta bassa ma dai fianchi abbastanza ripidi, prossima al corso d’acqua, in un posto protetto dal vento e dai ladri, vicino all’acqua e non distante dai campi. Non sembra che temessero granché per la loro incolumità perché non risulta che abbiano fortificato, neppure debolmente, il luogo dove pure vivevano, circostanza che lascia supporre che i dintorni fossero al tempo completamente spopolati.
Appena qualche decennio dopo la sua fondazione e comunque non molto dopo l’anno mille, il cenobio raggiunse un livello di prosperità tale da potersi permettere il lusso di una grande chiesa conventuale in pietra ad una sola navata e con la facciata decorata in stile a capanna, che era quello in voga al tempo. Per tutto il XI secolo costruire edifici in pietra nelle campagne era un’impresa non banale: bisognava trovare personale capace di edificarli in un’epoca in cui i lavori edilizi erano infrequenti, convincerlo ad andare a lavorare in un posto comunque sperduto e disagevole, dargli da mangiare ed un riparo per i diversi anni necessari al completamento dell’opera quindi occorreva in qualche modo remunerare chi la costruiva.
La lavorazione della pietra coinvolgeva tante professionalità diverse: c’era il cavatore che estraeva il blocco dalla cava, lo scalpellino che rendeva i blocchi di dimensioni regolari, il facchino che li trasportava fino al cantiere, l’addetto alla fabbricazione della calce, che comunque doveva avvenire nei dintorni, ed il mastro che costruiva il muro pietra dopo pietra. Gli interni dovevano poi essere abbelliti e ciò richiedeva l’impiego di altri artigiani che dovevano essere anche loro trovati, convinti ad occuparsene quindi retribuiti.
Della chiesa edificata nel XI secolo altro non si è conservato che la facciata e non è chiaro se il suo perimetro ricalcasse quello dell’edificio duecentesco oggi visibile. Le dimensioni di ciò che ne resta, però, lasciano intendere che fosse una chiesa molto grande per gli standard del tempo, sicuramente molto più delle necessità della relativamente piccola comunità monastica che gli viveva intorno. Come sempre nel medioevo, la chiesa conventuale serviva ad ostentare la ricchezza del monastero molto più che come luogo di preghiera anche perché, così grande e non riscaldata, doveva essere anche molto fredda specie in inverno. In ogni caso, già nel XI secolo l’abbazia – che era indipendente da quella di Farfa con cui confinava – possedeva la quasi totalità dei terreni intorno e parecchi castelli nei dintorni, sintomo del suo non modesto benessere.
Il XIII secolo sembra sia stato il periodo d’oro del monastero anche se le fonti scritte sono scarse e lacunose. Nel 1219 un certo abate Lanfranco commissionò estesi lavori di restauro della chiesa conventuale che la portarono ad assomigliare a ciò che ne resta al giorno d’oggi. A questo periodo risale il campanile a pianta quadrata, il reperto di maggior pregio e meglio conservato del complesso. La torre, alta circa venti metri, si presenta divisa in due zone separate da una sottile cornice: quella inferiore priva di aperture ed una superiore con quattro ordini di finestre secondo la successione di monofore, bifore e di due piani di trifore.
Malgrado sia stata più volte danneggiata dai fulmini si presenta in discreto stato di conservazione e quasi intatta ad eccezione del tetto, mal ricostruito negli anni ’50. Sempre al duecento sembra risalga l’abside sopraelevato della chiesa che pure si è ben conservato. Costruito in pietra del luogo e rivestito di lastre regolari di buona fattura su cui era probabilmente steso l’intonaco poi affrescato, venne in seguito chiuso da un muro ben conservatosi, fornito di una porta e di una finestra dipinta probabilmente per puntellarne la struttura vistosamente pericolante.
Nulla resta del sottostante altare. L’unica navata era separata dall’abside da un largo transetto, quasi certamente duecentesco, che collegava la chiesa al retrostante convento, il cui tetto era sorretto da quattro grandi archi a sesto leggermente ribassato con ghiera a conci squadrati poggiati su tozze semicolonne dai capitelli di forme diverse, probabilmente materiale di spoglio. Sotto l’altare doveva essere presente una cripta, costruita in epoca ignota ed adibita fino alla metà dell’ottocento ad ossario, di cui resta un buco nel pavimento del transetto in corrispondenza del luogo in cui doveva trovarsi l’altare maggiore.
La chiesa subì ulteriori rimaneggiamenti nel corso del XIV secolo come testimoniano gli archi a sesto acuto che costituiscono gli architravi delle porte oggi murate ma ancora visibili lungo il suo perimetro. Il trecento, del resto, sembra sia stato un periodo ancora di prosperità per il monastero che è citato in due missive risalenti all’epoca del pontificato di Papa Giovanni XXII, inviate rispettivamente nel 1330 e nel 1333, tramite le quali all’abate di Santa Maria vengono affidati incarichi nel territorio della Sabina. Nel 1343 una visita apostolica elenca beni e proprietà dell’Abbazia e ne evidenzia la prospera situazione amministrativa.
Trenta anni dopo, nel 1373,
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
incarica da Avignone l’abate di San Lorenzo fuori le mura, di riportare all’ordine una serie di monasteri tra i quali spicca proprio l’Abbazia di Santa Maria del Piano. A partire dalla metà del quattrocento, la prosperità dell’abbazia si ridusse fortemente anche se non sono ben chiare le ragioni economiche di questo declino. Comunque, seppur lontano dai fasti del passato, il convento continuò ad essere abitato fino al tardo settecento, quando ancora vi viveva ancora un singolo eremita, e venne infine soppresso nel 1809 quando gli edifici che lo componevano erano ancora in buono stato di conservazione.
Nel 1855 Orvinio venne colpito da un’epidemia di colera ed in mancanza di un cimitero in cui inumare i morti si pensò di utilizzare a questo scopo il monastero ormai in abbandono. Per trasformarlo in un camposanto la struttura venne stravolta: furono infatti scardinate le porte, scoperchiato il tetto, divelto il mattonato e murato l’ingresso principale. Inoltre si procedette ad uno scavo continuato al di sotto del pavimento ed in tutta l’area del Monastero al fine di ricavare i loculi entro cui inumare i cadaveri.
Un secolo dopo, nel 1952, quando ormai l’abbazia era completamente in rovina, la chiesa di Santa Maria, unico edificio di cui si fosse conservato qualcosa, venne restaurata dalla sovrintendenza ai ben culturali con grandi spese per riportarla allo stato originario. In questa occasione furono anche disseppelliti i morti collocati dentro il monastero un secolo prima a cui venne data migliore sepoltura nel cimitero di Orvinio. Tuttavia, alla fine dei lavori il complesso venne di nuovo abbandonato senza nessuna sorveglianza né alcun tentativo di valorizzazione turistica peraltro difficile perché il luogo in cui si trova Santa Maria del Piano è indubbiamente molto sperduto.
Così, nel corso degli anni ’70, i ruderi dell’abbazia furono depredati di qualunque oggetto artistico potesse essere rimosso senza pregiudicare la stabilità dei muri superstiti fra cui il rosone duecentesco rubato nel 1979. Del monastero al giorno d’oggi resta poco o nulla, tranne forse alcuni muri di difficile lettura sul lato della chiesa sul quale si affaccia il campanile. Della chiesa si sono ben conservati i muri perimetrali, la facciata e l’abside mentre del transetto resta abbastanza poco. Peraltro, sono in corso lavori di restauro volti ad arrestare il degrado della struttura che vengono compiuti però con poca attenzione alla conservazione delle murature originali e con gusto artistico a volte molto discutibile.
L’autore dell’articolo è Paolo Amoroso, soprannominato Aioe fin da ragazzo, di professione Avvocato penalista, con la passione per l’aria aperta, la storia medievale e l’informatica.
La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
-Pillole di storia a cura di Franco Leggeri-
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
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Pozzaglia Sabina–Santa Maria del Piano-Bolla papale del XIII sec. Biblioteca DEA SABINA
Archivio di Stato di Rieti
UNA BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO NEL PATRIMONIO DEL NOSTRO ARCHIVIO
Il patrimonio dell’Archivio di Stato di Rieti
si arricchisce di un importante e antico documento. Si tratta di una bolla papale, una “lettera graziosa”, di Onorio III indirizzata all’abate di Santa Maria del Piano a Pozzaglia Sabina e risalente al 1218.
L’acquisizione al patrimonio dell’Archivio reatino è stata possibile grazie all’impegno congiunto della Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio e della Direzione generale archivi del Ministero della Cultura.
Tra alcuni giorni, dopo le necessarie fasi di catalogazione, il documento sarà disponibile per la consultazione al pubblico.
Da sottolineare, inoltre, la particolare importanza di questa bolla poiché coeva al periodo di massimo splendore dell’abbazia e che ci fornisce nuovi e utili dati sul medioevo nel territorio reatino.
Archivio di Stato di Rieti BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLOArchivio di Stato di Rieti BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie-
Velletri-Sabato 22 e domenica 23 marzo si svolgerà a Velletri la 29° Festa delle Camelie e per l’occasione i Musei Civici di Velletri: Museo Archeologico O.Nardini, Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani e Area Archeologica delle SS. Stimmate, apriranno entrambi i giorni dalle ore 10.00 alle ore 19.00.
La giornata di sabato 22 inizierà alle ore 1o.30 con il laboratorio dedicato ai bambini dai 3 ai 5 anni Fiori tra i capelli, in cui i piccoli dopo una lettura animata sul tema dell’amicizia e dell’inclusione, creeranno un copricapo di fiori di carta da indossare durante la festa. Lo stesso si ripeterà domenica 23 alle ore 15.00 per bambini dai 6 anni in su.
Alle 12.00 sia di sabato 22 che di domenica 23 partirà una visita guidata all’Area Archeologica delle SS. Stimmate, mentre domenica 23 alle 18.00 accompagneremo i visitatori al Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani alla scoperta di fossili e di altre testimonianze ritrovate nel nostro territorioper raccontare la Preistoria; sabato 22 alle 15.00 ripeteremo un’esperienza che ha già avuto grande successo: In Con-Tatto con la Preistoria, una visita guidata tattile in cui i partecipanti grandi e piccoli, tutti bendati, potranno toccare fossili, rocce e altri oggetti risalenti a migliaia di anni fa.
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
I fiori raccontano sarà un itinerario nel Centro storico tra chiese, strade e musei che avrà come tappa sabato 22 la Chiesa di Santa Lucia V.M. mentre domenica 23 si fermerà alla Chiesa di Sant’Antonio Abate per cercare in entrambi gli itinerari i fiori nascosti negli angoli di Velletri.
Sabato 22 alle ore 16.00 il percorso partirà da Piazza Martiri di Pratolungo, dove si trova il Giardino delle camelie mentre domenica 23, per lo stesso orario, l’appuntamento sarà davanti alla fontana di Piazza Mazzini. La direttrice museale, Raffaella Silvestri, accoglierà i visitatori sia sabato che domenica alle ore 17.00 nell’iniziativa Il tè delle camelie. Tra le Metamorfosi di Ovidio e le rappresentazioni nell’arte per scoprire come i reperti esposti nel Museo Archeologico parlino di mitologia ancora oggi tra letteratura e arte.
Sabato 22 alle ore 18.00 all’Area archeologica delle SS.Stimmate verrà presentato il libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque, in presenza dell’autore Manlio Lilli e del Prof. Marco Nocca.
Domenica 23 alle 10.30 al Museo di Geopaleontologia e Preistoria e nella Sala Conferenze dei musei il pubblico adulto potrà imparare a preparare degli oleoliti con piante officinali spontanee che si trovano nelle aree naturali dei dintorni, sotto la guida di una biologa con specializzazione in botanica e abilitazione professionale. I prodotti realizzati saranno destinati ad un utilizzo ad uso topico per migliorare il benessere della pelle, dei capelli o come olio da massaggio. Tutto il materiale necessario verrà fornito insieme ad un taccuino per le ricette.
Alle ore 15.00 di domenica 23 partirà da Piazza Mazzini la Riproposizione della festa romana delle Floralia a cura del Gruppo Archeologico Veliterno A.p.s. E di Il Flauto Magico A.p.s. che si concluderà di fronte all’Area archeologica delle SS. Stimmate.
In occasione della Festa delle Camelie il biglietto di ingresso ai Musei sarà ridotto
(3,00 € per l’ingresso a un museo; 5,00 € per l’ingresso nei due musei; 1,00 € per l’ingresso all’Area archeologica).
Visite guidate e In Con-Tatto con la Preistoria
Durata: un’ora circa.
€ 4,00 a partecipante
Prenotazione consigliata
Itinerario I fiori raccontano
Durata: un’ora e mezza circa.
gratuito
Prenotazione obbligatoria.
Laboratorio Fiori tra I capelli
Durata: un’ora e mezza circa.
€ 3,00 a partecipante.
Prenotazione obbligatoria.
Il tè delle camelie
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Prenotazione consigliata
Preparazione di oleoliti e guida al riconoscimento di piante officinali
Durata: due ore circa.
€ 25,00: 1 persona; € 40,00: 2 persone
Itinerario Riproposizione della festa romana delle Floralia
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Presentazione del libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque
Durata: un’ora circa
Gratuito
Per informazioni e prenotazioni:
06 9615 8268 – 3441547465 – museicivicivelletri@gmail.com
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
L’inventore di libri Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo-Articolo di Alessandro Marzo Magno
L’inventore di libri Aldo Manuzio-Forse non lo sapete, ma il piccolo oggetto che avete in mano – così maneggevole, chiaramente stampato, dai caratteri eleganti, corredato da un frontespizio e da un indice – deve quasi tutto al genio di Aldo Manuzio, che cinque secoli fa ha rivoluzionato il modo di realizzare i libri e ha reso possibile il piacere di leggere. Benvenuti nel mondo del primo editore della storia.
Il libro – così come lo conosciamo ancora oggi – nasce a Venezia tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Padre di questa invenzione è Aldo Manuzio. Nato a nel Lazio, transitato per Ferrara e per Carpi, dov’era docente dei principi Pio, approda ormai quarantenne a Venezia. La città in quegli anni è l’indiscussa capitale europea della stampa e così il precettore si trasforma in editore. Pubblica inizialmente grammatiche e testi in greco necessari per apprendere la lingua classica. Poi i suoi orizzonti si allargano: nel 1501 dà vita a una vera e propria rivoluzione, quella del libro tascabile. Se prima si leggeva per necessità (e lo si faceva a voce alta), da quel momento leggere diventa un piacere a cui dedicarsi nel silenzio dell’intimità. E non finisce qui. Manuzio, con il suo amico Pietro Bembo, importa nel volgare italiano i segni di interpunzione che erano utilizzati soltanto nel greco antico: accenti, apostrofi, virgole uncinate e punto e virgola. Quando muore, nel 1515, il mondo del libro è definitivamente cambiato. Alessandro Marzo Magno ricostruisce le tappe di una straordinaria carriera, nell’unico posto al mondo dove sarebbe stata possibile: Venezia.
L’autore è Alessandro Marzo Magno,veneziano per nascita e milanese per lavoro, si è laureato in Storia all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Giornalista, dopo essere stato per quasi dieci anni responsabile degli esteri del settimanale “Diario”, dirige il semestrale “Ligabue Magazine” e scrive nella pagina culturale del “Gazzettino”. Ha pubblicato libri di argomento storico, tra i quali L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti 2012, più volte ristampato e tradotto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e cinese) e Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler (Garzanti 2017). Per Laterza è autore di L’inventore di libri. Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo (2020).
Edizione: 2020, III rist. 2021 Pagine: 224, ril. Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858141601 ISBN digitale: 9788858143636
L’inventore di libri Aldo Manuzio
Erasmo su Aldo-A chi con i libri lavora, di libri vive, i libri ama.
«È un’impresa erculea, per Ercole!»
Arthur Schopenhauer:”I libri sono compagni, insegnanti, maghi, banchieri dei tesori del mondo,i libri sono l’umanità stampata”.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
1.
Aldo è tra noi
Considerate quello che state facendo in questo preciso momento: avete in mano un libro e lo leggete. Con ogni probabilità siete seduti o distesi, e certamente in silenzio, ovvero non state compitando le parole a voce alta, come quando la maestra a scuola vi chiedeva di leggere per il resto della classe. State svolgendo quest’attività (leggere) perché vi dà piacere, oltre che accrescere il vostro patrimonio di conoscenze; anzi, è molto probabile che se non vi appagasse, trascurereste anche l’incremento del sapere.
L’oggetto che sta occupando la vostra attenzione è un parallelepipedo di carta del peso di qualche ettogrammo, maneggevole, dalle pagine stampate in un carattere elegante e chiaro, dove ogni tanto compare qua e là qualche parola in corsivo (per esempio i titoli dei libri, o le parole straniere). Il testo è reso più comprensibile da una serie di segni che chiamiamo di interpunzione: punti e virgola, virgole uncinate, apostrofi, accenti. Tali segni ci guidano nella lettura, ci indicano le pause nonché la loro gerarchia (il punto e virgola «vale» più della virgola), fondono tra loro due parole in modo da semplificarne la lettura, o indicano dove accentare la pronuncia, ancora una volta per facilitarci il compito.
È molto probabile che, una volta notato questo volume nello scaffale o sul bancone di una libreria, lo abbiate preso in mano sollevandone la copertina al fine di poterne guardare il frontespizio, leggerne titolo e sottotitolo e capire chi siano autore ed editore. Poi, se il titolo vi ha solleticato, avete girato qualche pagina per scorrerne l’indice e coglierne meglio il contenuto. Al che avete preso la decisione se riporlo o comprarlo, ma, visto che lo state leggendo, il libro deve aver superato l’esame e vi siete quindi avviati alla cassa.
Benvenuti nel mondo di Aldo, il primo editore della storia. Tutto quello che avete letto nelle righe appena scorse lo dovete a lui. In precedenza chi imprimeva libri era un semplice tipografo: sceglieva le opere da stampare sulla base del loro potenziale di vendita, ma senza un preciso progetto editoriale. L’attenzione alla qualità era minima, il numero dei refusi negli incunaboli – i «libri in culla», cioè stampati entro la fine del 1499 – ci parla ancor oggi di scarsa accuratezza, di composizioni tirate via, di bozze riviste senza troppo impegno. Con Manuzio cambia tutto: Aldo è davvero «l’inventore della professione dell’editore moderno, colui cioè che si avvicina ai libri avendo in mente un preciso e coerente programma culturale», come osserva Mario Infelise, storico dell’editoria e del libro all’università di Venezia, Ca’ Foscari. Manuzio ha fatto del libro «il più efficiente strumento per l’accumulo e la trasmissione delle conoscenze umane degli ultimi cinque secoli».
Lodovico Guicciardini è un nobile fiorentino che vive ad Anversa, discendente del più noto Francesco. Nel 1567 pubblica la Descrittione di tutti i Paesi Bassi, nella quale, nonostante fosse scomparso ormai da un cinquantennio, si ritrova a parlare di Aldo Manuzio, «il quale a giudizio d’ognuno […] ridusse veramente la stampa a perfettione, talché non si diceva, ne cercava altro, che la stampa d’Aldo perché era tanto pura e netta. Innanzi a Aldo […] non si trovava che grosse, goffe e scorrette impressioni senza vista e senza grazia, ma egli non perdonando nulla con ingegno, e con giuditio la polì, facilitò e ridusse (come io dico) a ordine e regola perfetta».
Aldo è un uomo colto, coltissimo: conversa fluentemente in greco antico, traduce a vista dal greco al latino e viceversa, ha studiato l’ebraico. Ha in mente un ben preciso progetto editoriale: stampare i classici greci in greco. Successivamente estenderà il suo programma ai classici in latino e ai testi in volgare. La più efficace enunciazione del programma aldino è quella di un umanesimo senza confini che, anni più tardi, farà dire ad Erasmo: «Anche se la sua biblioteca è chiusa dalle anguste pareti della casa, Aldo ha intenzione di costituire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso».
Aldo si era dato un piano che definire ambizioso è riduttivo: «Verrà pubblicato tutto ciò che merita d’esser letto». Non si esaurisce qui, però: Manuzio è anche un attento, attentissimo, imprenditore. Sarebbe esagerato dire che si metta a stampare per i soldi, ma di sicuro con la stampa guadagna denaro: riesce a garantire una discreta agiatezza a sé e ai suoi eredi. È il primo a unire i due aspetti che dovrebbero caratterizzare un editore anche ai giorni nostri: la conoscenza culturale e la capacità imprenditoriale. Prima dell’inizio della sua attività non ci sono notizie di rapporti tra eruditi e stampatori che fossero diversi da quelli commerciali.
Manuzio, in quanto studioso che già godeva di solida fama tra i dotti, ha fatto sì che si superassero pregiudizi e incomprensioni tra gli uomini di lettere e quelli d’affari: questo ha reso possibile la rivoluzione che ha investito il mondo della tipografia e quello della cultura.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
La nascita del libro
Ora facciamo un viaggio nel tempo e immaginiamo di essere in una bottega libraria del 1493, ovvero l’anno prima che Manuzio cominci a stampare: vedremmo libri privi di quasi tutte le caratteristiche che ci sono tanto familiari – le abbiamo elencate all’inizio – se non quella di essere costituiti da carta stampata con l’inchiostro. Se invece entrassimo in quella medesima bottega una ventina di anni più tardi, ad esempio nel 1515, ovvero quando Aldo Manuzio muore, ci ritroveremmo ad avere a che fare con un oggetto riconoscibile: un libro maneggevole e stampato in modo da essere leggibile ed elegante.
Al di là di carta e inchiostro, tutto quello che caratterizza un libro come lo conosciamo noi oggi lo dobbiamo ad Aldo Manuzio. Questo signore colto e raffinato ha messo in mano ai suoi contemporanei di mezzo millennio fa un oggetto che usiamo sostanzialmente immutato ancora ai nostri giorni. E la locuzione «mettere in mano», come vedremo nel capitolo sui libri tascabili, va intesa in senso letterale.
Con Manuzio nasce un libro nuovo e diverso in tutto; la sua pagina a stampa appare ai contemporanei talmente perfetta da non far più rimpiangere gli antichi codici manoscritti. I «buoni libri» di Aldo Manuzio decretano la fine dei codici: erano trascorsi oltre mille anni dal IV secolo d.C., da quando cioè i fogli rettangolari di pergamena legati fra loro avevano preso il posto dapprima appartenuto ai rotoli di papiro.
Vedremo più avanti come Aldo introduca il bisogno di leggere e la lettura per passatempo, ma diciamo subito che a tutto questo si accompagna pure l’idea dell’interpretazione del testo, del libero arbitrio, della libertà di opinione. Elementi che oggi ci appaiono scontati: si legge un libro e lo si giudica, si decreta se sia piaciuto o meno, se sia scorrevole, noioso, piacevole, avvincente e via così. Nel XV secolo, invece, le cose stavano assai diversamente. Gli scritti erano pubblicati assieme a tutto l’apparato dei commenti, dagli antichi ai moderni, gli stampatori si sforzavano di dare sempre almeno tre-quattro commenti, intrecciati tra loro a mosaico nei margini di grandi libri in formato in folio (ovvero i volumi nei quali i fogli di carta venivano piegati solo una volta, le cui dimensioni si aggiravano almeno sui 40×26 centimetri).
Si trattava quindi di una sorta di testo accompagnato da ipertesto che di fatto impediva di elaborare un giudizio: tutto quello che ci sarebbe stato da dire era già stato detto in precedenza dagli antichi sapienti; e chi mai avrebbe osato contraddirli. Aldo fa una scelta radicale: spoglia il testo, lo pubblica integrale, nudo, senza commenti che lo circondino e lo soffochino. Ognuno sarà libero di interpretarlo come preferisce. Manuzio mette definitivamente fine alla moda del testo incorniciato dalle spiegazioni.
La novità dev’essere prorompente agli occhi dei contemporanei, un po’ come – spostandoci nell’architettura – succederà una quarantina d’anni più tardi, quando Andrea Palladio al posto di edifici di mattoni rossi, pieni di pinnacoli e arzigogoli, comincerà a costruire fabbricati di pietra bianca, lisci e squadrati. La nudità dei testi imposta da Aldo doveva provocare un effetto simile a quello ispirato dall’essenzialità degli edifici voluta da Palladio. Già fermandosi qua sarebbe evidente la portata della rivoluzione aldina. Eppure c’è dell’altro. E che altro.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il marketing
Aldo Manuzio ha avuto l’accortezza di intuire il potere della promozione commerciale e, se non si temesse di esagerare nel dipingerlo a colori troppo brillanti, si potrebbe anche dire che è stato un autentico genio della vendita di se stesso e dei propri prodotti. Ha utilizzato i mezzi che aveva a disposizione, in particolare le dediche e le prefazioni. Ai nostri occhi la dedica di un libro può apparire superflua perché alla fin fine il libro di per sé – al di là del contenuto – oggi è un prodotto comune; entriamo in una libreria e vediamo volumi a migliaia, a decine di migliaia qualora la libreria sia grande; in una biblioteca ce ne possono addirittura essere milioni, svariati milioni in alcuni casi: la biblioteca del Congresso, a Washington DC, la maggiore del mondo, possiede 28 milioni di volumi. In tante case almeno una parete è ricoperta di libri e il costo di ogni singolo testo è, nella media, abbastanza contenuto e affrontabile dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Alla fine del Quattrocento, però, non era così: il libro a stampa era stato inventato una quarantina di anni prima, si trattava di una novità preziosa e ricercata, gli esemplari in circolazione erano pochi e costosi, se non costosissimi. Le dediche, quindi, servono ad Aldo per stabilire una relazione con i potenti ed è bravissimo a ottenere il risultato: nessun altro editore riuscirà a tessere una tela di rapporti a livello tanto alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo arriva a definire l’editore «familiare nostro»; Lucrezia Borgia sarà nominata sua esecutrice testamentaria e lo accoglierà a Ferrara durante la guerra di Cambrai; Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo Sforza, riceve un salterio greco con dedica. Il record delle dediche spetta ad Alberto Pio, principe di Carpi: Manuzio gli destina ben dodici edizioni (avremo modo di approfondire nelle pagine che seguono la lunga relazione tra i due).
Alla vigilia dell’erompere della guerra di Cambrai, che contrappone a Venezia una coalizione di potenze europee, quando ormai già si udivano tintinnare le spade, Manuzio intitola edizioni a importanti esponenti di entrambe le parti che si stavano per affrontare. Nel marzo 1509, due mesi prima della fatale – per i veneziani – battaglia di Agnadello, dedica un Plutarco a Jacopo Antiquari, già uomo di fiducia degli Sforza, e un Orazio a Jeffroy Charles, nobile francese originario di Saluzzo nonché presidente del senato milanese (salvo un’eccezione nel 1503, queste sono le uniche dediche aldine che riguardino Milano). Un mese dopo, nell’aprile 1509, a guerra ormai dichiarata, destina Sallustio a Bartolomeo d’Alviano, vicecomandante generale delle truppe veneziane: la sola volta, questa, che indirizza un’opera a un uomo d’arme. È evidente il desiderio di costruirsi benemerenze sui due fronti; utilizzando un linguaggio odierno le si potrebbe definire dediche bipartisan, senza pensare a termini più grevi.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il ruolo delle prefazioni
Le prefazioni costituiscono il testo più importante che Aldo ci abbia lasciato; quello dove, come qualcuno ha scritto, «alterna toni gravi ad altri ironici, sfodera qualche aneddoto e battuta, lancia strali ed elogi, riflette su di sé e sul mondo, e in tal modo ci cattura». Gli esordi diventano il mezzo per comunicare con i lettori, per ingraziarseli: «Sii clemente quando trovi qualche sbaglio», oppure «Per ora, mancando vasi d’oro e d’argento, accontentiamoci, come suol dirsi, di quelli di coccio». Le prefazioni costituiscono il manifesto ideologico aldino, il luogo dove Manuzio proclama la propria idea di conoscenza come bene comune: «Si impicchino» quelli che tengono i libri nascosti a casa, «d’animo così basso da affliggersi per un bene fornito a tutti». Aldo è un precursore: il concetto che la cultura debba essere a disposizione di chiunque si farà strada soltanto ai tempi della rivoluzione francese.
L’editore usa le prefazioni anche per creare l’effetto attesa: «Pubblicheremo altresì tutti i matematici» (1497), «Aspettatevi in breve un Dante» (1501). Inventa un modello di prologo affettuoso e diretto, dove affiora il valore dell’amicizia umana: «Il grande affetto che ti porto», scrive a Girolamo Aleandro (1504), cardinale e umanista originario di Motta di Livenza, nel Trevigiano. «Io vorrei poter sempre stare con te, vivere con te», dice a Marin Sanudo (1502), patrizio e autore dei Diarii. Si tratta di una cronaca giornaliera di Venezia cominciata nel 1496 e terminata nel 1533, tre anni prima della morte: 58 volumi in 37 anni, la più importante fonte storica della Venezia di fine XV e inizio XVI secolo. Lo incontreremo ancora, Sanudo, perché amico di Aldo e anche in quanto proprietario di una delle più importanti biblioteche cittadine dell’epoca.
La fama delle raccolte librarie veneziane del tempo è tale da richiamare visitatori di grande prestigio: nel 1490 arriva a Venezia Giano Lascaris, a caccia di codici greci per conto di Lorenzo de’ Medici. Lascaris visita le biblioteche di Ermolao Barbaro, erede dell’umanesimo avviato dal Petrarca e maestro della generazione di Erasmo; di Alessandro Benedetti, professore a Padova, che aveva trascorso quindici anni in Grecia, acquistandovi manoscritti di pregio; e pure quella di Gioachino Torriano, priore del convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo (lo stesso dove vive Francesco Colonna, il frate ritenuto autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, di cui diremo ampiamente), che aveva acquistato manoscritti provenienti dalla biblioteca di Mattia Corvino, il sovrano ungherese morto nel 1490. Anche i codici di Bessarione vengono dal 1494 provvisoriamente depositati a San Zanipòlo, come i veneziani chiamano i santi Giovanni e Paolo, e Torriano sarebbe stato molto contento di trasformare da temporaneo a definitivo il deposito del fondo nella propria biblioteca. Il cardinale Bessarione è il dotto umanista greco che nel 1468, quattro anni prima della morte, dona alla repubblica di Venezia i manoscritti bizantini che costituiscono il nucleo fondativo dell’attuale Biblioteca nazionale Marciana.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il catalogo
Oggi ci appare tutto sommato ovvio consultare il catalogo di una casa editrice, ma anche di questo dobbiamo essere grati a Manuzio. Aldo pubblica il primo elenco di edizioni nel 1498 e vi enumera soltanto le opere greche – in quel momento evidentemente costituivano quel che davvero gli interessasse – salvo sporadiche eccezioni, tra le quali il De Aetna che con ogni probabilità aveva stampato per amicizia e gratitudine verso l’autore, Pietro Bembo, o le composizioni latine di un altro amico, Angelo Poliziano, impresse in un massiccio in folio che riunisce gli scritti inediti dell’umanista fiorentino. Sono presenti quindici titoli ripartiti in otto sezioni tematiche; la più affollata è quella delle grammatiche, con cinque opere.
Il secondo catalogo, del giugno 1503, distingue tra libri greci, latini e «portatili in forma di enchiridio», ossia i tascabili (che vedremo più avanti); il terzo e ultimo risale al novembre 1513 e non contiene, come invece i precedenti, l’annuncio di futuri libri. I primi due cataloghi riportano anche i prezzi minimi: non sappiamo se i cartolai – i rivenditori di libri – li rispettassero o se invece vendessero i volumi più cari. Un indizio tuttavia ci arriva da Siviglia, grazie alla biblioteca di Fernando Colombo, figlio di Cristoforo, diventata una delle più importanti della prima metà del XVI secolo in virtù dei 15 mila libri che conteneva.
Colombo junior doveva essere pignolo, infatti per la maggior parte delle opere ha annotato data, luogo e prezzo dell’acquisto, con il costo sempre convertito in moneta spagnola, cosa che ci rende possibili i raffronti. Delle ventisei aldine comperate in luoghi diversi, quattordici registrano il medesimo costo annotato nei cataloghi manuziani, di dieci conosciamo soltanto il prezzo pagato da Colombo, di due non abbiamo informazioni.
Un’ulteriore idea ce la possiamo fare anche utilizzando il Zornale di Francesco de Madiis, ovvero il resoconto quotidiano della vendita in una bottega veneziana di 25 mila libri tra il maggio 1484 e il gennaio 1488, ognuno registrato con titolo e prezzo. Il manoscritto, un documento di eccezionale valore, è conservato nella biblioteca Marciana. L’elenco termina sei anni prima che Manuzio cominci a stampare e si riferisce a volumi molto diversi fra loro, ma gli studiosi di storia del libro hanno calcolato il costo per singolo foglio stampato in modo da ottenere un valore coerente.
Visto che in quei tempi i prezzi avevano andamenti piuttosto stabili, è possibile effettuare un comparazione tra il costo per foglio delle aldine e delle edizioni del Zornale. Quest’ultimo oscilla tra i 5 e i 10 denari, con punte più alte in caso di formati che utilizzano carta più pregiata. Il costo per foglio delle aldine di grande formato è simile; aumenta invece vertiginosamente nel caso dei tascabili: quelli stampati in greco sono ovviamente più cari e vanno dai 20 agli oltre 30 denari a foglio, mentre nel caso del latino e del volgare italiano si va dagli 11 agli oltre 13 denari a foglio. Questo smentisce una volta per tutte il mito – più volte ripetuto in vari studi del passato – che i tascabili di Aldo fossero a buon mercato, anche se, ovviamente, un volumetto di qualche decina di fogli aveva un costo unitario di molto inferiore rispetto a un volumone composto da centinaia di carte. In ogni caso possiamo concludere che Manuzio sapeva fare assai bene i conti e che le sue edizioni mantenevano una buona valutazione, anche a distanza di anni dall’uscita, cosa non sempre riscontrabile con le opere stampate da altri editori.
L’indice
Ora veniamo a un’ulteriore eredità aldina, a un altro elemento che ai nostri giorni appare connaturato al libro stesso, ma che nei tempi in cui stava nascendo l’editoria moderna non lo era affatto: l’indice. Gli incunaboli non l’avevano e neppure avevano le pagine numerate; al massimo, ma non sempre, erano numerate le carte, o fogli, tanto che oggi per orizzontarci siamo costretti a distinguerle in r (recto) e v (verso). Ci si arrangiava con il fai da te: ognuno, qualora ne sentisse il bisogno, apponeva a mano i numeri ai fogli e si autocompilava un indice di ciò che lo interessava. Poliziano, tanto per fare un nome significativo, era uno di quelli che si facevano gli indici da soli.
Manuzio – mai dimenticarlo – era un maestro e per chi insegna è importante poter individuare un punto preciso all’interno della massa del testo. La stampa, poi, introduce nuove e sconosciute problematiche: gli errori di stampa, tanto per dirne una. Lo sbaglio nella trascrizione commesso da un copista veniva perpetuato nei manoscritti successivi, spesso senza possibilità di riscontro. Un refuso, invece, si moltiplica subito per le centinaia di copie della tiratura. Gli stampatori del rinascimento, quando scoprivano errori in fase di stampa, invece di correggere i fogli difettosi – la carta era costosa – si accontentavano di ritoccare gli esemplari successivi, con il risultato che le copie differiscono in numerosi particolari. In qualche caso l’omissione di parole poteva essere sanata con una correzione a mano in ciascuna copia: alcuni volumi dei Salmi, editi attorno al 1498 sono stati corretti così, probabilmente dallo stesso Aldo. Più in generale interviene una nuova esigenza: fornire una lista di errata con le relative correzioni, nonché con l’esatto punto del libro in cui inserirle; e l’indice, ovviamente, aiuta.
Comprensibile, quindi, quale importanza avessero le errata, e Aldo già nel primo volume che stampa, una grammatica greca (Erotemata, 1495), aggiunge alla fine un foglio di errata. Si capisce subito dove voglia andare a parare: inizia ora una serie di tentativi, di esperimenti di indicizzazione che proseguiranno per tutto il ventennio di attività.
L’indicazione di Manuzio contiene una novità rispetto alle errata che l’avevano preceduta: rinvia alla riga precisa dove apporre la correzione. Il sistema di rimandi risulta in ogni caso complicato perché le pagine sono prive di numero. Ed ecco che nel 1499 Aldo, per la prima volta, inserisce una rivoluzionaria numerazione per pagina. Per pagina, non per carte: in questo modo ogni singola facciata del foglio porta il numero che la contraddistingue. L’innovazione riguarda un enorme in folio di 642 pagine, non a caso un repertorio della lingua latina (Cornucopiae, di Niccolò Perotti). Manuzio aggiunge anche una numerazione riga per riga, cosicché nell’indice riporta due numeri: il primo rimanda alla pagina, il secondo alla riga. Un sistema molto più efficace e preciso rispetto a quello che utilizziamo noi oggi, anche se ovviamente più macchinoso (e costoso).
Aldo si rende ben conto dell’enorme portata del mutamento e infatti lo annuncia orgogliosamente nel frontespizio, chiamandolo «indice abbondantissimo». Grazie a tale sistema si riesce a individuare con un semplice sguardo il punto cercato, non occorre contare una per una né le pagine né le righe. L’editore fornisce anche le istruzioni: «Abbiamo fatto allestire l’indice unendo insieme il greco e il latino. Ma non ti sfugga, lettore carissimo, che puoi separare del tutto agevolmente il latino dal greco a tuo piacimento».
La novità, tuttavia, non viene usata in maniera continuativa, per esempio le prime edizioni tascabili non presentano le pagine numerate, tanto che parecchie copie giunte fino a noi riportano i numeri aggiunti a mano dai rispettivi proprietari. Aldo numera più spesso le edizioni greche rispetto a quelle latine o volgari, talvolta usa cifre arabe, talaltra romane; in alcuni casi elabora indici assai macchinosi, come quello degli Adagia di Erasmo che l’autore ritiene necessario riformulare e semplificare nelle edizioni successive, stampate a Basilea. Soltanto dal 1509 la numerazione per pagina viene inserita con regolarità, anche nei tascabili, sebbene alcune edizioni continuino a essere numerate soltanto per carta. Quello che per Aldo resta un continuo sperimentare, per i successori diventa una regola da seguire fedelmente: in tal modo è stato compiuto un ulteriore, decisivo, passo verso il libro moderno. Anche il frontespizio, sperimentato a Venezia dal tipografo tedesco Erhard Ratdolt, diventa una presenza regolare nei libri impressi nell’officina aldina.
A questo punto dovrebbe essere chiara la portata della rivoluzione manuziana e quale sia stata la sua impronta in grado di segnare per sempre il mondo del libro. In qualche modo siamo tutti figli di Aldo, anche se spesso a nostra insaputa. Nei prossimi capitoli entreremo maggiormente nei dettagli di questa rivoluzione, ma prima dobbiamo renderci conto che un cambiamento di tale portata sarebbe potuto avvenire nell’Europa del rinascimento soltanto in un luogo: Venezia.
La capitale del libro
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia e a Venezia comincia a stampare. Non conosciamo le ragioni che lo abbiano spinto né all’una né all’altra scelta, ma sappiamo benissimo che soltanto lì sarebbe potuto diventare il primo editore della storia. La Serenissima signoria è una repubblica e quindi Venezia è l’unica capitale europea priva di una corte, con tutte le sue limitazioni; inoltre è la città che trasforma il sapere in un prodotto commerciale non diverso da un sacco di pepe, come rileva acidamente un umanista che certo non la amava.
Prima della fine del XV secolo nella Dominante – così veniva chiamata la capitale dello stato veneziano – sono attivi dai 150 ai 200 torchi che stampano in quel periodo il 15 per cento dei titoli impressi nell’intera Europa (4500 su 30 mila), con tirature che variano da un centinaio alle duemila copie. La percentuale sarà destinata a salire fino ad arrivare a quasi la metà dei titoli europei. Nel sessantennio che trascorre dal 1465, anno dell’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, al 1525, a Venezia si stampa la metà dei libri italiani; dal 1525 al 1550 si arriva ai tre quarti, dal 1550 al 1575 a due terzi. La crescita è talmente impetuosa da far dire a Erasmo che è più facile diventare stampatore che fornaio, ma non può mancare pure il solito lamentoso, un tipografo che se la prende per «la perfida rabia de la concorrentia consueta fra questa miserabil arte».
Vittore Branca, filologo e per tanti anni docente di letteratura italiana a Padova, scriveva che «le tipografie rendono Venezia il carrefour della cultura umanistica europea e le fanno aprire la prodigiosa “via del libro”, quasi a sostituire – almeno in parte – la ormai disastrata “via delle spezie” (fra il 1469 e il 1501 vengono impressi circa due milioni di volumi, soprattutto riguardanti le umanità)». Le quattromila edizioni di incunaboli che vedono la luce a Venezia entro la fine del XV secolo sono il doppio di quelle parigine; nel biennio 1495-1497 – ovvero quando Aldo aveva già aperto la propria tipografia – si stampano in Europa 1821 opere: 447 provengono da Venezia, mentre solo 181 da Parigi, che si colloca in questa classifica al secondo posto.
A permettere l’esplosione dell’attività editoriale è paradossalmente proprio la morte di chi ha introdotto nel 1469 la stampa a Venezia, ovvero il tedesco Giovanni da Spira (o meglio, se vogliamo rendere onore ai suoi natali, Johannes von Speyer). Un anno dopo aver stampato il secondo libro, Plinio, e mentre sta preparando il terzo, sant’Agostino, muore. Il lavoro viene terminato dal fratello Vindelino, ma scomparso Giovanni non è più valido il privilegio che gli accordava il monopolio dell’esercizio della tipografia: da quel momento in poi chiunque lo voglia può mettersi a stampare. Così accade.
Nella prima metà del Cinquecento la Dominante è sì l’indiscussa capitale europea della produzione editoriale, ma contemporaneamente anche un primario centro di consumo: possiedono libri il 15 per cento dei nuclei familiari, i due terzi del clero, il 40 per cento dei borghesi, il 23 per cento dei nobili, il 5 per cento dei popolani; vi si ritrovano alcune delle biblioteche più importanti dell’epoca: il cardinale Domenico Grimani possiede 15 mila volumi, Marin Sanudo 6500; Ermolao Barbaro, bandito da Venezia nel 1491 dopo aver accettato il patriarcato di Aquileia e morto nel 1493, aveva radunato la più ricca tra le numerose biblioteche greche. Non basta: nel 1537 Jacopo Sansovino comincia i lavori per realizzare la Pubblica libreria, ovvero la prima biblioteca statale pubblica (nel senso che viene concepita non come raccolta riservata, ma per essere usufruita dal pubblico), destinata a diventare l’attuale Marciana.
Questa esplosione dell’editoria avviene per un insieme di motivi che vanno dall’ampia liquidità finanziaria a coraggiose scelte commerciali, dalla libertà di stampa a quello che oggi chiameremmo «risorse umane». Nella seconda metà del XV secolo si liberano capitali: i patrizi smettono di investire nel commercio internazionale e si rivolgono altrove, in primo luogo all’acquisto di appezzamenti agricoli nella neoacquisita terraferma veneta, ma non disdegnano di finanziare attività produttive, e fra queste si ritrova anche l’editoria.
Stampare libri è un’impresa ad alta intensità di capitale, soprattutto a causa del notevole costo dei metalli necessari a realizzare i punzoni (acciaio) e i caratteri (lega di piombo, stagno e antimonio). I libri sono beni che viaggiano assieme agli altri lungo le direttrici commerciali che la repubblica aveva già da tempo stabilito e quei traffici sono molto intensi poiché a Venezia si stampa in una molteplicità di lingue.
Approfittando del contrasto tra la Serenissima e il pontefice, e dell’assenza per alcuni decenni dell’Inquisizione romana, le tipografie della Dominante imprimono anche libri – in anni successivi al capostipite dei Manuzio – invisi alle gerarchie ecclesiastiche: testi dei riformati tedeschi e boemi, il primo libro pornografico della storia (Pietro Aretino, Sonetti lussuriosi, 1527), il Talmud che, non a caso, sarà protagonista del primo grande rogo di libri in piazza San Marco, nell’ottobre 1553, comunicato in tempo reale a papa Giulio III dal nunzio apostolico, Lodovico Beccadelli: «Questa mattina s’è fatto un buon fuoco su la piazza di San Marco». A Venezia, infine, si ritrova al completo tutta quella che oggi si definirebbe «filiera del libro»: incisori, rilegatori, inchiostratori, torcolieri, studenti dell’università di Padova disponibili a correggere bozze e, soprattutto, si ha grande disponibilità di carta.
Per produrre carta c’è bisogno di tanta acqua dolce, corrente e pulita (altrimenti la carta vien fuori giallastra), e ovviamente non la si poteva fabbricare in città, ma lo si faceva nello stato da tera: lungo i fiumi Brenta e Piave, nonché sul lago di Garda, e quegli stessi fiumi venivano anche utilizzati come arterie di trasporto per trasferire la medesima carta che avevano contribuito a generare.
A determinare l’alta domanda di libri contribuiscono in maniera decisiva il vicino ateneo di Padova, dove i sudditi della Serenissima sono obbligati a studiare qualora vogliano laurearsi, e le due scuole pubbliche veneziane, dove si formano i giovani destinati all’amministrazione dello Stato, siano patrizi oppure appartenenti all’ordine intermedio dei cittadini, che forniva la burocrazia statale. Si tratta della scuola di San Marco, dove si approfondiscono gli studi umanistici e morali, e della scuola di Rialto, di indirizzo filosofico, naturalistico e matematico.
Gli stranieri
Nel Quattrocento il centro della vendita dei manoscritti era stato Firenze. La città toscana era anche il cuore finanziario dell’Italia rinascimentale, quindi, in teoria, ci sarebbe dovuta essere più disponibilità di capitali in riva all’Arno che sulle sponde del Canal Grande. Ma Firenze era sempre rimasta una città di fiorentini, al massimo di toscani. Venezia invece era da tempo diventata una città di stranieri. A parte i patrizi, che per forza di cose erano locali, la Dominante ospitava un gran numero di immigrati. Non a caso Girolamo Priuli, cronista dei primi anni del Cinquecento, scriveva che in piazza San Marco si vedevano i nobili incaricati del governo, mentre «tuto il resto herano forestieri et pochissimi venetiani». Persino in un mestiere tradizionale come quello del gondoliere, i veneziani assommavano appena alla metà dei nomi presenti in un elenco di fine XV secolo: gli altri barcaioli provenivano dalla terraferma (molti dalla sponda bresciana del lago di Garda) o dalla Dalmazia.
Il settore editoriale non fa eccezione: quasi tutti gli stampatori, in questo periodo, sono immigrati, sia dall’Italia – Aldo Manuzio tra loro – sia dall’estero, come il già nominato tedesco Giovanni da Spira o il francese Nicolas Jenson, che gli succede. Tra l’altro, a conferma del prestigio e dell’agiatezza che dà la professione di stampatore, Giovanni da Spira sposa madonna Paola, figlia di Antonello da Messina, che era uno dei pittori più affermati e famosi dell’epoca.
In città sono presenti comunità strutturate, alcune di queste lo sono ancora ai nostri giorni, con propri luoghi di culto e confraternite: greci, armeni, ebrei, tedeschi, dalmati. Questo significa che nella Venezia quattro-cinquecentesca si possono trovare colti madrelingua in grado di comporre e correggere testi in quasi tutti gli idiomi all’epoca più diffusi, e questo spiega perché qui si stampi il primo libro in greco (1486), in armeno (1512), in cirillico bosniaco (1512), il secondo in glagolitico, l’antico alfabeto croato (1491), il terzo libro in ceco (1506). Dai torchi veneziani escono inoltre la prima Bibbia in volgare italiano (1471), la prima Bibbia rabbinica (1517), il primo Corano in arabo (1538), la prima traduzione del Corano in italiano (1547). La città rimane per secoli il centro mondiale della stampa greca, ebraica, serba, caramanlidica (lingua turca scritta con caratteri greci, oggi scomparsa), nonché armena, in quest’ultimo caso addirittura fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e all’indipendenza della repubblica d’Armenia, nel 1990.
Questa è la Venezia dove approda Aldo Manuzio prima di iniziare la sua avventura di stampatore. Ha scritto Cesare De Michelis, editore veneziano scomparso nel 2018: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti l’uno per l’altra e si incontrarono, anche se la storia del loro rapporto è tutt’altro che idillica, anzi appassionante e ricca di colpi di scena, esaltata e disperante, in perenne tensione».
Ora facciamo gli indiscreti, e andiamo a scoprirla, quella storia d’amore.
2.
La formazione di un umanista
Bassiano è uno splendido borgo medievale del Lazio, sui monti Lepini, a un’ottantina di chilometri a sud di Roma. In quella zona transita la via Appia e oggi Bassiano si trova in provincia di Latina. Nel passato faceva però parte del ducato di Sermoneta, retto dai Caetani; Roffredo, l’ultimo discendente di quel ramo della nobile famiglia, è morto nel 1961. Bonifacio VIII, il papa scaraventato all’inferno da Dante Alighieri, era un Caetani.
Il castello dei duchi è a Sermoneta, ma d’estate i Caetani, che di loro sarebbero stati principi, se ne andavano in quel di Bassiano, e il perché è presto detto: il paese si trova a 560 metri di altitudine, tutto circondato da alture; la sera si gode un bel fresco, ma, soprattutto, sta fuori dal raggio di azione delle pericolose zanzare anofeli, portatrici di malaria. I principi non vivevano proprio in un castello, ma in un massiccio palazzone, che faceva comunque una gran figura, e oggi è sede del municipio. Proprio negli anni in cui il suo figlio più illustre, Aldo Manuzio, faceva l’editore a Venezia, Bassiano passa sotto il controllo dei Borgia per un quinquennio, dal 1499 al 1504, ma poi tornano i Caetani, che lo governano ininterrottamente fino a inizio Ottocento.
Sermoneta è pure un bel posto, la sua cattedrale romanica costituisce un autentico gioiello, ma si trova più in basso rispetto a Bassiano, 230 metri sul livello del mare, e si affaccia direttamente sulla pianura pontina. Oggi lo sguardo arriva ad abbracciare il mare, giù fino ad Anzio e Nettuno, e qualche anziano si ricorda ancora la luminosa e tersa giornata del 22 gennaio 1944, quando la superficie marina spumeggiava per le scie dei mezzi da sbarco alleati. Per secoli, però, quella piana era stata tutta palude, e d’estate le anofeli potevano raggiungere anche la coreografica Sermoneta, mentre Bassiano ne rimaneva esente.
Un tempo il portone di Palazzo Caetani costituiva l’unico accesso all’abitato di Bassiano, interamente circondato da mura trecentesche sorvegliate da dieci torrioni. Mura che sono state forate in tempi più recenti per fare spazio a tre porte cittadine. Le strade, selciate in porfido, hanno un andamento a spirale, gli edifici, oggi purtroppo in gran parte abbandonati, conservano quasi tutti l’originario aspetto medievale; alcuni stretti vicoli – il più angusto di tutti si chiama Baciadonne, un nome un programma – tagliano longitudinalmente l’abitato congiungendone i vari livelli. Da Bassiano non si scorge la pianura, mentre un fianco dell’abitato è dominato dal monte Semprevisa che, con i suoi 1536 metri, è il più alto dei Lepini.
Qui, attorno al 1450, nasce Aldo Manuzio. Una lapide indica oggi la sua casa. Peccato che sia un «tarocco»: l’edificio risale al Sei-Settecento e quindi di sicuro il futuro editore non può essere nato lì. La casa dei Manuzio quasi certamente esiste ancora, poiché il borgo è sopravvissuto intatto, ma non abbiamo idea di quale possa essere.
Sappiamo pochissimo della famiglia di Aldo e niente della sua infanzia. Un atto rogato dal notaio Antonio Tuzi il 30 dicembre 1449 ci dice che tal Paolo di Manduzio di Bassiano vende un appezzamento di terra all’ebreo Abramo di Mosè. Nel più antico manoscritto aldino che ci sia pervenuto, un documento redatto tra il 1480 e il 1486, conservato nella biblioteca Querini Stampalia di Venezia, compare la firma Aldus Manducius (nella forma al genitivo Alti Manducii). Nessun dubbio, quindi, che proprio quello fosse il cognome originario dell’umanista, che in seguito si firmerà Mannuccius, quindi Manucius (dal 1493) e infine Manutius (dal 1497). Il padre di Aldo si chiamava Antonio e aveva alcune sorelle, ma altro non ci è dato conoscere.
A Roma
Si può presumere che la famiglia fosse relativamente benestante, se aveva terreni da vendere, ma non possiamo sapere se potesse anche permettersi di mantenere agli studi un figlio a Roma, o se invece siano stati i Caetani a prendersi cura del giovane Manuzio. Il nipote Aldo junior, un secolo più tardi, ricorderà i rapporti di deferenza che legavano il nonno alla famiglia principesca e d’altra parte non era poi inusuale che i signori di un determinato luogo facessero studiare a proprie spese i ragazzini più svegli.
Sicuro, invece, che Aldo studiasse a Roma all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento, poiché il suo insegnante Gaspare da Verona, docente di retorica alla Sapienza, si trasferisce a Viterbo nel 1474. Un altro suo maestro – è Aldo a rivelarlo in una delle prefazioni – è l’umanista Domizio Calderini, nativo di Torri del Benaco, segretario di papa Sisto IV. Curioso che entrambi i maestri romani di Aldo fossero originari del Veronese.
Calderini fa parte della cerchia del già citato cardinale Bessarione e lo accompagna in un viaggio in Francia, proprio mentre il prelato sta lavorando a un’edizione che sarà pubblicata postuma da Arnold Pannartz e Conrad Sweinheim. Due nomi celebri, questi, poiché appartengono ai chierici tedeschi – Pannartz era un praghese di lingua tedesca, Sweinheim proveniva dall’Assia – che nel 1465 avevano importato la stampa a caratteri mobili in Italia, impiantando una tipografia nel monastero benedettino di Santa Scolastica, a Subiaco, vicino a Roma. Anche Gaspare da Verona conosce l’attività dei due tipografi, visto che li nomina già nel 1467, ovvero quando erano arrivati a Subiaco da due anni soltanto.
L’introduzione della stampa in Italia faceva parlare di sé ed è probabile che a Roma la nuova attività costituisse oggetto d’attenzione e di meraviglia, ma non si sa se già in questi anni Manuzio fosse entrato in contatto con il mondo della tipografia, se avesse avuto modo di osservare le neonate edizioni a stampa, o se il suo sia stato invece un innamoramento tardivo. Aldo per molti anni rimane prima di tutto un maestro e solo in un secondo tempo diventa uno stampatore, quando, ormai quarantenne, concepisce l’attività di tipografo come mezzo per darsi i migliori strumenti di insegnamento del greco: grammatiche e testi di lettura. Non possiamo davvero capire se già una ventina di anni prima avesse intuito le potenzialità della stampa.
Non è certo nemmeno se, dopo aver appreso il latino, a Roma cominci da subito a studiare anche il greco antico, lingua che in seguito apprenderà benissimo, tanto da poterla parlare e tradurre a vista, come abbiamo già ricordato. Certamente nella città papale Manuzio stringe amicizia con l’umanista pistoiese Scipione Forteguerri, detto il Carteromaco, che diventerà un suo stretto collaboratore e al quale dedicherà un’edizione nel 1501. Lo ritroveremo, anche perché sarà uno dei fondatori dell’Accademia aldina.
Il periodo romano di Manuzio rimane molto oscuro, così come quello della sua infanzia e adolescenza. L’unica cosa certa è che dopo pochi anni se ne va. Non conosciamo esattamente né quando né perché, qualcuno ipotizza che possa aver abbandonato Roma a causa della peste del 1478, ma non c’è alcun indizio in grado di trasformare l’illazione in affermazione.
A Ferrara
In realtà Aldo si trova a Ferrara già dal 1475, ma non è possibile stabilire se si fosse trasferito o se si trattasse di una pausa temporanea dal soggiorno romano. Nella città di Ercole I d’Este, umanista e munifico mecenate del rinascimento, Manuzio apprende, o approfondisce, il greco antico con Battista Guarino, figlio di quel Guarino Veronese (ecco che torna ancora una volta Verona) che aveva imparato il greco a Costantinopoli prima della conquista ottomana del 1453 ed era stato precettore alla corte estense. L’incontro con Battista Guarino è senz’altro importante, visto che Aldo nel 1495 dedicherà l’edizione di Teocrito al suo maestro di una ventina d’anni prima. Se Manuzio fosse arrivato a Ferrara conoscendo o meno il greco rimane oggetto di disputa tra gli studiosi, mentre è sicuro che quando se ne va lo parla e lo legge fluentemente.
C’è dell’altro, in ogni caso: a Ferrara incontra un compagno di studi che gli cambierà la vita: Giovanni Pico della Mirandola. Il nobiluomo umanista, evidentemente aiutato dalla sua proverbiale memoria, padroneggia sei lingue, tra antiche e moderne, e ora si sta dedicando a perfezionare il greco. Sua sorella Caterina è moglie – e dal 1477 vedova – del signore di Carpi; nel 1484 sposerà Rodolfo Gonzaga, signore di Luzzara e figlio del marchese di Mantova (i Gonzaga diventeranno duchi soltanto nel 1530).
Ora una piccola digressione: in quest’area tra Emilia e Lombardia e nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo si ritrovano alcune corti medie o piccole che intrattengono relazioni strette l’una con l’altra. I Gonzaga di Mantova, i Pio di Carpi, i Pico di Mirandola, gli Este di Ferrara si imparentano fra loro e sfruttano quelle che oggi si chiamerebbero economie di scala, facendo arrivare artisti, musicisti, precettori che si spostano da una città all’altra. Aggiungiamo che Carpi e Mirandola sono signorie troppo piccole per potersi considerare del tutto sicure dalle mire dei vicini e quindi cercano di appoggiarsi agli stati più potenti e influenti.
Negli anni di cui ci stiamo occupando la potenza che stende sull’area l’ombra della propria egemonia, quella che suscita timori e apprensioni, e di conseguenza la potenza da battere, è senza dubbio la repubblica di Venezia. Non a caso, quando sarà sconfitta, il principe Alberto Pio si rivolgerà sia all’impero, sia alla Francia, sia al papato, finendo per rimetterci il trono in un gioco triangolare più grande di lui. Aldo Manuzio – lo vedremo – si muove all’interno di quest’ambito, concedendosi tutt’al più un paio di digressioni verso Milano. Di certo sviluppa una sorta di rapporto d’affetto con Ferrara (trasporto che invece mai proverà per Venezia), visto che nel suo primo testamento consiglia la giovane moglie, sposata appena un anno prima, di trovarsi un nuovo marito nella città degli Este, qualora non dovesse tornare dal viaggio. Tutto questo ci racconta tra l’altro quanto al tempo fossero considerati pericolosi i viaggi: così tanto da indurre a far testamento prima di partire.
Aggiungiamo un ulteriore elemento per comprendere meglio gli intrecci di questa zona dell’Italia rinascimentale: Alberto Pio sposa prima una Gonzaga e poi una Orsini; dalla seconda moglie ha due figlie, una delle quali, di nome Caterina come la nonna, si coniuga con un Caetani. Questo indizio ci permette di ipotizzare che sussistesse un qualche nesso tra i duchi di Sermoneta e i signori di Carpi e che, quindi, il legame di Aldo Manuzio con la piccola corte emiliana possa essere passato anche attraverso i Caetani. Non lo sappiamo, ma le relazioni tra le famiglie esistevano e quindi l’eventualità è quantomeno verosimile.
A Carpi
Caterina Pico è una donna di notevole cultura: nel corredo per le nozze con Lionello I Pio di Savoia sono presenti, oltre ai consueti gioielli, argenti e biancheria, anche codici manoscritti e testi di autori classici, come Virgilio e le epistole di Cicerone (queste ultime sono pure il primo testo stampato a Venezia, nel 1469, da Giovanni da Spira: tutto si tiene in questo scorcio del rinascimento).
Quando il principe di Carpi muore, lascia alla vedova una notevole somma affinché realizzi una biblioteca. È proprio Caterina, con ogni probabilità su consiglio del fratello Giovanni, a chiamare Aldo Manuzio perché faccia da precettore ai due figli, Alberto e Lionello, di cinque e tre anni. Un atto notarile conservato negli archivi carpigiani ci dice che l’8 marzo 1480 Aldo ottiene l’incarico di insegnamento a corte, nonché la cittadinanza con esenzione fiscale. Pochi mesi dopo, il 5 agosto, il «magistro Aldo Manutio de Bassiano» risulta proprietario di «unum caxamentum» che affaccia sull’attuale corso Cabassi (identificato nell’unico edificio gotico ancora esistente nella via, ma non si sa se in effetti sia proprio quello). In quanto precettore dei principini Aldo abita a palazzo, quindi è possibile che questa casa e un altro paio che gli sono intestate costituiscano un emolumento, sotto forma di riscossione degli affitti. Vengono assegnati a Manuzio anche alcuni campi coltivabili che andranno in eredità al figlio Paolo e saranno amministrati da Lionello Pio.
Tra Aldo e Alberto si instaura una relazione ben più solida di quella tra maestro e allievo che, lo vedremo, perdurerà fino alla scomparsa dell’editore, nel 1515. Nel primo dei cinque volumi di Aristotele che l’editore bassianese dedica al principe di Carpi (1495) fornisce al «dotto giovinetto» una sorta di vademecum: «A te infatti non manca nulla: non il talento, che possiedi in abbondanza; non l’eloquenza, di cui sei ben dotato; non i libri, né di cultura latina, né greca, né ebraica, di cui vai in cerca con una solerzia senza pari; non gli insegnanti più preparati, che tu hai assoldato senza badare a spese. Continua dunque a dedicarti, come stai facendo, alle nobili discipline: io certo, per quel che posso, non ti farò mai mancare la mia presenza».
Tali righe ci restituiscono un Manuzio attento, paterno, benevolo. È solo da dettagli come questi che possiamo cercare di ricostruire e immaginare il carattere di quest’uomo straordinario. Infatti, la rielaborazione della sua biografia, lacunosa per alcune parti della sua vita e della sua attività, è addirittura oscura per quanto riguarda gli aspetti personali. Vedremo che Erasmo ci descrive paturnie e spilorcerie del suocero, Andrea Torresani (o Torresano), ma di lui, a parte che era maniaco delle grammatiche, non ci dice nulla.
I tanti studiosi che si sono dedicati al primo editore della storia hanno provato ad azzardare qualche ipotesi, sulla base degli elementi conosciuti. Per esempio si sa dei molti amici, ai diversi livelli della scala sociale, mentre non si conoscono nemici, se non rivali editoriali, quindi si può pensare che fosse cordiale, una persona con la quale passare un po’ di tempo in piacevole compagnia. Era capace di lavorare per molte ore di seguito, applicandosi con attenzione a quel che stava facendo, probabilmente era pignolo, attento, e abile. Amava il lavoro di squadra e cercava di sollecitare in tutti i modi la collaborazione tra gli studiosi; quel che chiedeva in cambio erano manoscritti da poter stampare.
Non c’è dubbio che avesse il bernoccolo degli affari e che utilizzasse tribunali e amicizie per far valere i propri diritti, ma mai in modo violento e prevaricatore, in un’epoca che violenta e prevaricatrice lo era parecchio. Non manifesta mai l’aggressività tipica dei suoi contemporanei, anzi appare schivo e talvolta imbarazzato per la celebrità. Ci sono tuttavia da registrare alcuni litigi per questioni di denaro con collaboratori che a causa di tali liti lo abbandoneranno. Viene quindi da domandarsi se Aldo condividesse almeno in parte l’estrema taccagneria del suocero.
Andare oltre queste deduzioni, però, appare difficile. Com’era il suo rapporto con la moglie, così tanto più giovane di lui? E con i figli? Nell’ultimo testamento lascerà alle due figlie la facoltà di scegliere se maritarsi o monacarsi, ed era una concessione molto avanzata in quei tempi, ma, al di là di questo, altro non sappiamo.
Durante gli anni di Carpi Aldo Manuzio con ogni probabilità ancora non pensa alla stampa e si dedica al mestiere di precettore, che si presume gli riesca piuttosto bene: Alberto e Lionello Pio non saranno gli unici allievi con cui conserverà rapporti di affetto. Dev’essere comunque un’attività molto impegnativa, infatti si lamenta che, oppresso da incombenze di ogni genere, gli restano soltanto quattro ore al giorno per scrivere un trattato grammaticale a beneficio dei suoi allievi. Non specifica però quali siano gli altri suoi compiti, oltre all’insegnamento vero e proprio.
Uno dei pochi punti certi del soggiorno di Aldo a Carpi è che trascorre il suo tempo quasi sempre assieme ai principini e li accompagna prima a Ferrara (1481) e poi a Mirandola dallo zio Pico (1482), dopo che Venezia dichiara guerra agli Este. Conosciamo questo soggiorno, durato qualche mese, grazie a una lettera del Poliziano: Angelo Ambrogini – questo il suo nome – era il più importante grecista dell’epoca e diventerà molto amico di Manuzio; i due si scambiano una fitta corrispondenza, ma si incontreranno di persona soltanto una volta, a Venezia. È a Mirandola che Aldo rimane colpito dal greco raffinatissimo del fiorentino Poliziano, in una sua lettera che legge in compagnia dell’umanista cretese Manuel Adramitteno.
Giovanni Pico in quegli anni sta cercando di trasformare Mirandola in un centro culturale di prima grandezza e potrebbe essere che Aldo si imbatta proprio qui nell’idea di un’accademia che possa diventare luogo di scambio e discussione tra dotti conoscitori della cultura greca.
Si può presumere che Aldo abbia approfondito la propria abilità a esprimersi in greco antico nei ritrovi che i grecisti tenevano nella villa di Pico. Il tono delle sue lettere del periodo è tuttavia quello di un giovane che si sforza di ben figurare nel mondo intellettuale che lo circonda. È sopravvissuta un’unica lettera di Pico ad Aldo, in cui il signore di Mirandola esorta l’umanista a proseguire nell’indagine filosofica. Evidentemente Manuzio era anche un suo compagno di studi, oltre che un protetto.
Incerto, invece, è un possibile viaggio a Venezia di Aldo assieme ai giovani Pio (nel 1487), che potrebbe essere stato il primo contatto del futuro editore con la Serenissima. Tre anni prima Caterina si era risposata con Rodolfo Gonzaga e si ritiene che il ruolo di Aldo a corte fosse diventato con il tempo più influente rispetto a quello di semplice maestro e precettore dei figli di primo letto. Caterina avrà altri sei figli da Rodolfo. Questi rimarrà ucciso nel luglio 1495 nella battaglia di Fornovo, mentre la donna morirà nel dicembre 1501, avvelenata da una damigella che sembra si fosse innamorata di lei senza esserne corrisposta. Amore e morte in una corte del rinascimento.
Il soggiorno di Manuzio a Carpi termina tra l’autunno e l’inverno del 1489: un rogito notarile di ottobre dove Aldo di Sermoneta è indicato come precettore del principe Alberto costituisce l’ultimo atto ufficiale che ne registri la presenza.
Il rapporto con i Pio, come detto, continuerà: Aldo entra a far parte della famiglia, dal 1503 adotta il cognome Pio e dal 1506 lo userà per firmarsi. Delle dodici dediche ad Alberto abbiamo già detto, e si presume che da Carpi gli siano anche regolarmente arrivati finanziamenti. Atti ufficiali e lettere registrano le relazioni tra l’editore e Alberto III fino al 1509, ovvero fino a quando il principe si schiera con i nemici di Venezia, mentre i legami con Lionello II proseguono fino alla morte di Aldo.
Il tenore della corrispondenza dei fratelli Pio con Manuzio diverge già dal 1498: Alberto gli scrive in tono affettuoso e intimo riguardo a libri, a comuni frequentazioni culturali, a questioni che Aldo intrattiene a Carpi. Lionello, che talvolta si firma filius, si occupa invece del lato pratico dei rapporti, e risponde alle richieste di Aldo di gestire gli interessi nelle terre emiliane, come, per esempio, nel luglio 1508, quando informa l’editore di «aver avuto cura del raccolto delle sue terre e di averglielo fatto accreditare». D’altra parte Lionello ha sposato una nobile veneziana, Maria Martinengo, e quindi le connessioni tra il castello di Novi, dove la coppia risiede, e la Dominante rimangono intense. Un atto notarile del marzo 1508 registra il mandato di Lionello Pio a Manuzio per ottenere una condotta militare dalla Serenissima (condotta che però non verrà concessa).
Aldo è legalmente un membro a tutti gli effetti della famiglia Pio e ha intestate a sé numerose terre che, almeno in parte, risulteranno proprietà degli eredi ancora nel 1556. Lionello nel settembre 1498 scrive a Manuzio affermando che manterrà fede alla promessa del fratello Alberto di donargli altre terre e un castello dove installare una stamperia e l’accademia. Non è quindi casuale che Aldo scriva che userà il «bel castello» per «insediarvi un’accademia nella quale, posta fine alla barbarie, si coltivino con impegno le belle lettere e le belle arti».
La donazione del castello, tuttavia, non diventerà mai effettiva, mentre Aldo nei momenti di difficoltà, nel 1506 e nel 1510, lo reclama per potersi trasferire con famiglia e stamperia. Sono entrambi anni nei quali Manuzio è assente da Venezia; i motivi li vedremo meglio più avanti.
Il castello è stato identificato con quello di Novi dove, come detto, risiedono Lionello e la moglie e dove effettivamente viene installata una tipografia che stampa una sola edizione. Secondo una fonte settecentesca e non verificabile, Alberto III avrebbe invitato Manuzio ad allestire una tipografia, ma questi ormai si era trasferito a Venezia e avrebbe quindi declinato la richiesta del principe. Quel che è certo, invece, è che il carpigiano Benedetto Dolcibelli (o Dolcibello) del Manzo – il soprannome viene dal fatto che proveniva da una famiglia di macellai – impianta una stamperia a Carpi prima in città (1506) e poi nel castello di Novi (1508), dove stampa la suddetta unica edizione, e quindi si trasferisce a Ferrara.
Dolcibelli aveva lavorato – assieme a Giovanni Bissolo, pure lui di Carpi, e a Gabriele Braccio, di Brisighella – a Venezia nell’officina di Aldo, dove aveva imparato il mestiere. Si era però ritrovato coinvolto in una brutta storia di contraffazione dei caratteri greci aldini, che vedremo meglio nel capitolo sui falsi, e se n’era andato da Venezia assieme ai due complici continuando a stampare, dapprima a Milano e poi altrove. I documenti sopravvissuti riguardo a questa vicenda sono molto pochi e quindi la conosciamo solo a tratti. Di conseguenza non possiamo neanche sapere se nel 1506, quando Aldo va a Milano e a Mantova, ci siano stati o meno contatti tra lui e il suo ex lavorante, che in quel momento faceva il tipografo nella città dei Pio. Questo fatto comunque dimostra che Aldo si avvale della collaborazione di alcuni carpigiani al momento di aprire la sua tipografia a Venezia.
La presenza di Aldo a Carpi è eternata da un affresco nella cappella di Palazzo Pio. Molto ben conservato, opera del pittore Bernardino Loschi, sulla parete di destra raffigura una specie di gruppo di famiglia dei Pio: in primo piano il trentenne Alberto III, dalle fluenti chiome bionde, con un copricapo nero; alle spalle il padre Lionello I, che quando l’affresco viene dipinto (inizio Cinquecento) è ormai defunto da una ventina d’anni. In secondo piano il fratello più giovane, Lionello II. Davanti al principe Alberto stanno due figure vestite con un lungo abito nero e berretto dello stesso colore. Una delle due, quella più arretrata, è identificata con Aldo Manuzio, poiché si tratta di un uomo di una cinquantina d’anni, che era proprio l’età di Aldo quando l’opera è stata eseguita.
Il personaggio che è ritratto davanti, più giovane, potrebbe essere o il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi o l’umanista cretese Marco Musuro; entrambi si trovavano a Carpi assieme a Manuzio ed erano più giovani di lui, il primo di una decina d’anni, il secondo di una ventina. Musuro, colto filologo, lo ritroveremo perché diventerà uno dei più stretti collaboratori di Aldo. L’affresco si è conservato perché dopo l’esautorazione dei Pio e il passaggio di Carpi agli Este è stato semplicemente coperto con una tenda e non distrutto, come spesso accadeva quando si voleva rimuovere la memoria dei signori spodestati.
Adesso lasciamo l’emiliana Carpi e seguiamo finalmente Aldo nella città dove cambierà la storia del libro: Venezia.
3.
Come si diventa editore
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia tra il 1489 e il 1490. Con ogni probabilità la sua intenzione era di continuare a insegnare, e nulla di quel che sappiamo (poco) del suo primissimo periodo nella Dominante lascia presagire che stesse già pensando di mettersi a stampare. Di conseguenza non abbiamo idea se e quanto abbia contato sulla sua scelta di spostarsi il fatto che la città all’epoca fosse l’indiscussa capitale dell’editoria. Forse quel che davvero lo attirava di Venezia era la presenza di tanti dotti umanisti, in particolar modo greci: «Venezia, città che possiamo definire la nuova Atene del nostro tempo per la presenza di moltissimi uomini dotati di eccezionale cultura», scriverà Aldo anni più tardi.
Comunque non amerà mai a fondo la città che lo ospitava, non si sentirà mai veneziano, non sarà mai animato da particolare trasporto per il luogo dove era forse arrivato perché non poteva farne a meno, e dove si è fermato perché soltanto lì poteva mettere in pratica il suo progetto editoriale. I suoi primi tempi veneziani sono contrassegnati dalla continuità dei legami con Carpi, sia per quel che fa, sia per i collaboratori che si sceglie (abbiamo già detto, e vedremo ancora, che nell’appena aperta tipografia lavorano alcuni carpigiani).
Poco dopo l’arrivo nella Serenissima signoria Aldo pubblica la sua prima opera, il Panegirico delle muse (Musarum Panegyris), un lavoro in latino che costituisce un po’ il manifesto del suo metodo di insegnamento. Per farlo si rivolge allo stampatore Battista Torti, un calabrese di Nicastro, che nel 1489 imprime il testo – più un opuscolo che un libro – formato da due componimenti in rima dedicati ad Alberto Pio nonché da una parte centrale costituita da una lettera a sua madre Caterina. Ce ne sono giunte soltanto sette copie, in Italia se ne trovano due: a Bologna e a Napoli.
Aldo osserva che latino e greco vanno insegnati assieme e non separatamente, prima il latino e poi il greco, come si usava al tempo, e insiste nel sottolineare il valore educativo della lettura dei classici in originale. Fino a quel momento era stato possibile conoscere l’antichità ellenica soltanto attraverso le traduzioni latine. Certamente si era in tal modo potuto entrare in contatto con un mondo che sarebbe stato altrimenti destinato a rimanere sconosciuto, ma nel contempo le traduzioni lo avevano alterato, distorcendolo attraverso le lenti del latino. Aldo quindi ritiene che sia necessario tornare alla fonte e leggere le opere greche direttamente in greco (pure questa una concezione sorprendentemente moderna, come si vede).
Manuzio porta con sé a Venezia il manoscritto del Panegirico: con ogni probabilità gli serviva per promuoversi e farsi conoscere come insegnante. Se era stato precettore dei principini di Carpi poteva ben diventarlo dei figli di qualche patrizio della città di San Marco. E infatti viene assunto da Pierfrancesco Barbarigo con il compito di far da maestro a Santo, suo figlio naturale. Difficilmente sarebbe potuta andargli meglio: il doge in carica, Agostino Barbarigo, è zio di Pierfrancesco, il precedente, Marco, era suo padre, e per di più il patrizio entrerà in società con Manuzio quando deciderà di aprire la stamperia.
Non dobbiamo commettere l’errore di ritenere che Aldo, maestro prima ed editore poi, pensasse a un’istruzione allargata al popolo, che immaginasse i suoi libri in mano a schiere di giovani animati dalla voglia d’imparare. Proprio no: si rivolge ai figli dei ricchi e dei molto ricchi – cioè a una fascia di popolazione che al massimo arriva al 5 per cento – e la sua idea è quella di istruire la futura classe dirigente attraverso lo studio di una lingua morta: il greco antico. Una lingua che non è possibile imparare da soli per la semplice ragione che nessuno la parla, quindi la si può apprendere soltanto a scuola. Il tutto ha poco a che fare con il valore intrinseco della letteratura classica, quanto piuttosto con un metodo: i ragazzini che crescono studiando sui medesimi libri, da adulti si capiranno meglio. Ai nostri giorni si direbbe networking, assomiglia un po’ alla «rete dei vecchi compagni di scuola» che ancora oggi unisce in Gran Bretagna la classe dirigente che ha frequentato Eton e poche altre public schools.
Franco Leggeri Fotoreportage–ROMA-chiesa di Santa Passera, la chiesa che ispirò “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini-Santa Passera, chiesetta graziosa ma in cattivo stato – fra il Tevere e via della Magliana. Costruita nel V secolo nel luogo in cui le spoglie i santi alessandrini Giovanni e Ciro, in basso a destra, approdarono a Roma, la chiesa fu in seguito intitolata a Santa Passera, santa che non è mai esistita.
– ROMA-Santa Passera
La chiesa di Santa Passera è una chiesa romana risalente agli inizi del V secolo, ristrutturata e ampliata nel XIV secolo, edificata sui resti di un mausoleo romano e di una cripta risalenti alla seconda metà del II secolo.
L’origine del nome della chiesa, ubicata nel quartiere Portuense di Roma, è incerta poiché non è mai esistita una santa di nome “Passera”.
Storia
Secondo la tradizione, essa fu costruita sulle rive del Tevere nel luogo in cui, agli inizi del V secolo, i resti di due santi alessandrini, Ciro e Giovanni, furono sbarcati, provenienti dall’Egitto, per essere trasferiti nella città di Roma. Dal secolo XI in poi appartenne al monastero di Santa Maria in Via Lata, e, nei documenti dell’XI–XIII secolo è chiamata Sancti Abbacyri oppure Sancti Cyri et Iohannis, in ricordo dei due santi per i quali fu costruita la chiesa. Nel XIV secolo al nome di Abbaciro si sostituì quello di Santa Pacera o Passera: così in un documento del 1317 si parla di un appezzamento posita extra portam Portuensem in loco qui dicitur S. Pacera.[1] Questo appellativo sarà poi prevalente nei secoli successivi.[2]
Sull’origine del nome “Passera”, santa che non è mai esistita nella storia del cristianesimo, l’ipotesi è che esso derivi dal titolo Abbàs Cyrus (“padre Ciro”), da cui il nome Abbaciro: dalla storpiatura popolare di questo termine sarebbero derivati Appaciro, Appàcero, Pàcero, Pàcera e infine Passera.[3]
A confondere ulteriormente l’onomastica della chiesa si aggiunge inoltre l’errore popolare che volle arbitrariamente assimilare la fantomatica “santa Passera” con santa Prassede e festeggiarne in tal luogo la ricorrenza il 21 di luglio[3] in concomitanza con le celebrazioni di quest’ultima martire.[4][5]
Nel XIV secolo l’antica chiesa fu completamente ristrutturata e sopraelevata.
Descrizione
Esterno dell’abside
Il complesso di Santa Passera è composto di tre piani sovrapposti.
La chiesa
La chiesa superiore del XIV secolo è a pianta rettangolare ad un’unica navata, con abside e soffitto ligneo, edificata su di un edificio preesistente, un mausoleo romano, le cui caratteristiche architettoniche ancora si distinguono esternamente sul lato sinistro della chiesa; l’edificio presenta tratti molto simili al cenotafio di Annia Regilla, quest’ultimo risalente alla seconda metà del II secolo d.C..[2] La facciata della chiesa si trova in una posizione elevata, preceduta da una terrazza a cui si accede tramite una doppia rampa di scale. All’interno un presbiterio semicircolare che custodisce l’immagine del Cristo in compagnia di uno stuolo di santi. Un’altra pittura raffigura sempre il Cristo con i santi Ciro e Giovanni.[6]
L’oratorio
Al piano inferiore i resti sotterranei dell’oratorio medievale del V secolo cui si accede da una porta esterna sotto elevata rispetto al terreno. L’oratorio si compone di quattro locali costruiti con mattoni e intercomunicanti. Sulla porta campeggia l’iscrizione che testimonia l’antico utilizzo della struttura quale sepolcro dei santi Ciro e Giovanni:[2]
(LA)«CORPORA SANCTI CYRI RENITENT HIC ATQVEE IOANNIS
QVOÆ QUONDAM ROMÆ DEDIT ALEXANDRIA MAGNA.»
(IT)«Qui risplendono i santi corpi di Ciro e Giovanni
che un giorno la grande Alessandria dette a Roma.»
(Iscrizione sulla porta d’ingresso della cripta[5])
La cripta
Dall’oratorio una scaletta consente di scendere nella stretta criptaipogea a pianta rettangolare che originariamente custodiva i resti dei due santi martirizzati. L’ambiente, interrato dopo il 1706, riscoperto nel 1904, è databile tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo. La poca illuminazione proviene da un’apertura nella volta e dalle scale. Difficilmente visibili sulle pareti tracce di decorazioni pittoriche, in parte ammalorate dalle innumerevoli piene del vicino Tevere, e in parte vandalizzate. Si intravedono ancora tracce di decorazioni a carattere funerario: sulla volta alcuni glifi e stelle. Sulla parete nord era rappresentata, con in mano la bilancia, la dea Dike, quindi un uccello e un pugile. Sulla parete sud si intravede una pecora e alcuni tratti in pigmento rosso. Verso la fine XIII secolo fu dipinta una Madonna col Bambino, asportata e trafugata nel 1968.[2]
Nella cultura di massa
La corrispondenza del nome dell’ipotetica santa con quello dell’organo sessuale femminile, così come noto nel dialetto romanesco e citato dal poeta Giuseppe Gioachino Belli, ha spesso dato origine a doppi sensi e giochi di parole diffusi popolarmente.[6][7][8]
^Santa Prassede di Roma, in Santi, beati e testimoni – Enciclopedia dei santi, santiebeati.it.
Antonio Bosio, Roma sotterranea opera postuma di Antonio Bosio romano antiquario ecclesiastico singolare de’ suoi tempi, a cura di Giovanni Severani da S. Severino, Roma, Lodovico Grignani, 1650.
Lilia Berruti, Santa Passera: una chiesa per una Santa che non c’è, in Capitolium. Rassegna di attività municipali, anno XL, n. 5, Roma, Arti Grafiche Vecchioni & Guadagno, 1965.
Claudio Rendina, Le Chiese di Roma, Roma, Newton & Compton, 2007, p. 290, ISBN978-88-541-0931-5.
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