Sergio Vitale–L’arco, il telaio e la tempesta-Giometti & Antonello-Editori-Macerata
Quarta del libro di Sergio Vitale–L’arco, il telaio e la tempesta-Ma se esiste un potere del corpo, i suoi movimenti possono scrollarsi di dosso il peso di automatismi inveterati, sottomessi a sintassi prescritte, e confrontarsi con gli eventi in modo da trasformarli in occasioni (insisteremo su questo termine), attraverso astuzie e trovate ingegnose, capacità di manovra, tiri mancini, estro dell’intelligenza, un vasto insieme di tattiche che gli antichi Greci raggruppavano sotto il termine μῆτις. Detto in termini diversi, è necessario allentare il giogo dei gesti finalizzati allo scopo, perché è tra di essi che s’infiltrano e si nascondono facilmente le strategie del potere funzionali alla sua riproduzione; bisogna cioè sottrarre spazio ai gesti del fare, per donarlo ai gesti dell’agire.
Risvolto
Vi sono parole antiche, enigmatiche e dall’incerta etimologia, che risultano difficilmente traducibili. Una di queste è καιρός, parola greca che nel corso della sua lunga storia ha attraversato svariati campi del sapere e della conoscenza, caricandosi di valori sempre diversi e talora anche opposti. In molti ne hanno tessuto l’elogio: per Esiodo «il καιρός è in tutto la qualità suprema»; Sofocle lo considera «la migliore delle guide in ogni impresa umana»; Polibio riconosce che esso «comanda tutte le opere dell’uomo», e Callistrato, alla fine del basso impero, ci ricorda che «non vi è altro artigiano della bellezza che il καιρός». Ma quali sono i suoi significati, tali da meritargli il riconoscimento di tanta importanza? Per rispondere a questo interrogativo, il libro si propone di ordinare la pluralità di gesti che caratterizzano il fare e l’agire dell’uomo in base a una triplice partizione, corrispondente a tre dimensioni fondamentali del καιρός: tempestività, temporeggiamento e temperie. Queste dimensioni trovano la loro rappresentazione paradigmatica in altrettante scene che il poema omerico dell’Odissea ha reso eterne. La freccia scoccata da Odisseo, capace di trapassare con assoluta precisione gli anelli di dodici scuri; il lenzuolo che Penelope tesse all’infinito, in attesa di ricongiungersi allo sposo; la tempesta, nata dalla mescolanza di condizioni climatiche e atmosferiche diverse, che impedisce il ritorno dell’eroe. In forme, modi e contesti anche molto distanti, i tre modelli del καιρός si ripetono nel tempo, e fanno ad esempio la loro apparizione nel lavoro di Fernand Deligny, nel pensiero di Aby Warburg, nella fotografia di Cartier-Bresson, nel cinema di Andy Warhol o nella musica di Iannis Xenakis, come pure nell’incessante pioggia di atomi epicurea dalla quale è nato e si evolve di continuo il mondo che abitiamo.
Louis GILLET-Gli Artisti francesi in Italia-Copia anastatica della Rivista PAN n°8 del 1934
Louis GILLET– Storico e critico d’arte francese, nato a Parigi l’11 dicembre 1876; ivi morto nel luglio 1943. Il suo primo saggio, intorno alla cattedrale di Chartres, orientò il suo gusto verso il Medioevo. I volumi giovanili su Nos Maîtres d’autrefois e Les primitifs français (1904) chiariscono la natura di una mentalità che si vale della erudizione positivistica ma sa trasfigurarla nell’emozione del bello e nelle relazioni della sensibilità. Gli studî successivi lo interessarono alla conoscenza dell’arte rinascimentale. Il Raphael, scritto durante un viaggio in Italia, è del 1907. Appena uscito dalla Normale fu lettore a Greifswald, poi docente alla Université Laval di Montréal. Altri viaggi in Italia gli consentirono di ammirare la pittura giottesca e fu spinto a scrivere l’Histoire artistique des Ordres Mendiants (1912), dove tracciò il quadro dell’influenza della spiritualità francescana dal Due al Seicento. Dell’anno appresso è l’Histoire de la Peinture Française du XVIIéme et XVIIIéme siècle, di grande perspicuità espositiva. Partecipò alla prima Guerra mondiale e la sua mente acuta di osservatore e di storico ne ricavò vivaci considerazioni raccolte in L’assaut repoussé (1919) e in La bataille de Verdun (1920). Gli studî su L’art flamand et la France erano apparsi mentre durava la guerra. La sua attività continuò intensamente con il libro su Watteau (1921), la redazione del vasto quadro di sintesi su l’Histoire des arts en France (1922) e La Peinture dans les Pays-Bas au XVIéme; XVIIéme et XVIIéme siècle e delle arti in America. Riprese gli studî francescani di cui sono frutto i due volumi su Saint-François d’Assise (1925) e Sur les pas de Saint-François d’Assise (1926); ampliò la precedente trattazione manualistica in La peinture française: Moyen-Age; Renaissance (1928); diede forma definitiva al saggio su La Cathédrale de Chartres (1929). In Cathédrales (1935) studiò le cattedrali di Reims, di San Giacomo di Compostella e ancora quelle di Chartres e di Assisi. La Cathédrale vivante (1936) è un’analisi che cerca di cogliere il senso intimo delle grandi chiese francesi. È stato redattore dal 1917, di letterature straniere alla Revue des deux mondes, e dal 1934 critico letterario all’Écho de Paris. Nel 1929 pubblicò la corrispondenza inedita tra Sainte-Beuve e de Vigny. Libri di viaggio e reportages politici sono Le tapis enchanté, Rome et Naples e Londres et Rome (1936). Collaborò anche, per la storia dell’arte francese, all’Enciclopedia Italiana. Accademico di Francia dal 25 novembre 1935.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Inizia una collaborazione con Trabalza, dedicandosi soprattutto al reperimento di immagini fotografiche[2] e all’impostazione redazionale della rivista che però, a causa degli alti costi, uscirà per soli tre anni[3].
Nel 1909 fonda una propria rivista dal titolo Rassegna d’arte umbra; si avvale del contributo di Dante Viviani, in qualità di garante scientifico, e del sostegno di intellettuali stranieri come Bernard Berenson, di politici come Cesare Fani e di molti esponenti della nobiltà perugina come Vittoria Aganoor (che sostiene economicamente la rivista), Rodolfo Pucci Boncambi, Vincenzo Ansidei e la contessa Margherita Hummel. Anche Rassegna d’arte umbra sarà pubblicata per soli tre anni, con un’interruzione di dieci anni fra la prima serie (1909-1911) e la seconda (1921). Nei primi numeri vengono trattate e valorizzate opere di Niccolò di Liberatore, detto l'”Alunno”, Pietro Vannucci, detto il “Perugino”, e Pietro Lorenzetti. Nel frattempo collabora ripetutamente con la rivista ufficiale del Ministero della pubblica istruzione, il Bollettino d’Arte.
Incarichi e collaborazioni
Sempre nel 1909 viene nominato Ispettore storico dell’arte presso la Soprintendenza ai Monumenti dell’Umbria. Nel 1921 è direttore della Regia Galleria dell’Umbria e soprintendente alle Gallerie, ai musei medievali e moderni e agli oggetti d’arte[4]. Redige un nuovo inventario della Galleria e si adopera per una nuova sistemazione espositiva, ampliando la sede museale ai piani superiori del Palazzo dei Priori. Promuove l’incremento del patrimonio con nuove acquisizioni, acquisti o donazioni. Entrano al museo opere di Arnolfo di Cambio, alcune tele settecentesche, una raccolta di tessuti umbri donata da Mariano Rocchi, un’opera di Francesco di Gentile da Fabriano. Si impegna nel 1923 per la valorizzazione di importanti collezioni ecclesiastiche favorendo l’istituzione del Museo dell’Opera del Duomo di Perugia. Durante l’incarico, durato venti anni (interrotti per partecipare alla prima guerra come tenente di artiglieria), pubblica numerose opere e favorisce la conoscenza in ambito nazionale e internazionale dell’arte umbra, intento condiviso con alcuni colleghi stranieri come Raimond van Marle, Frederick Mason Perkins e Walter Bombe, anche loro residenti a Perugia[5]. Insieme incentivano l’attività di recupero e restauro delle numerose testimonianze artistiche del territorio, contenendone la dispersione.
Si impegna anche per la salvaguardia dell’immenso patrimonio artistico dello Stato italiano, spesso trascurato e dimenticato, lasciato in rovina. Suo principale obiettivo è:
«…render conto di quanto si fa dagli enti e dai privati per la protezione del patrimonio artistico e riassumere quanto in Italia e all’estero si scrive sull’Arte umbra… e illustrare la regione ne’ suoi monumenti, far conoscere le opere inedite o mal note e pubblicare nuovi documenti»
(Umberto Gnoli. Introduzione al primo numero di Rassegna d’arte umbra[6])
Nel 1923 dà alle stampe Pittori e miniatori nell’Umbria con introduzione di Federico Zeri, testo che ancora oggi costituisce un importante strumento di informazione storico-artistica.
Viaggia molto in Italia e in Europa al fine di studiare chiese, musei e monumenti e fare ricerche nelle biblioteche e archivi. Si reca spesso anche negli Stati Uniti perché nominato nel 1927 rappresentante Europeo del Metropolitan Museum di New York, con l’incarico di acquistare opere d’arte in Europa[7]. Inoltre collabora alla rivista Art in America, bimestrale edito a New York da Frederic Fairchild Sherman.
Tra il 1926 e il 1929 per motivi di salute sospende l’attività lavorativa e da Perugia si trasferisce a Roma. Qui riprende gli studi iniziati dal padre circa la toponomastica della città, studi che nel 1939 saranno pubblicati in Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna. Il Ministero dell’Educazione Nazionale non rinnoverà il suo rapporto di lavoro, probabilmente per crescenti incomprensioni con il regime che non vedeva di buon occhio l’attività di consulente da lui svolta negli Stati Uniti anche per antiquari privati[8].
Nel 1908 sposa la contessa Margherita Hummel (1884-1922) con cui ha quattro figli tra il 1909 e il 1921; tre di loro muoiono in tenera età, sopravvive solo Claudine, nata nel 1917. Nel 1922 muore prematuramente anche la moglie[10]. Nel 1927 sposa in seconde nozze la giovane ceramista Annie de Garrou (1900-1994) con cui ha due figli: Domenico, artista di fama internazionale, e Marzia (1934). La famiglia De Garrou possiede una villa a Monteluco di Spoleto, alternano quindi la residenza fra Roma e l’Umbria. Il secondo matrimonio finisce nel 1940; Gnoli si ritira a Campello sul Clitunno restando molto presente nella vita e nell’educazione dei figli.
Muore a Campello sul Clitunno il 15 gennaio 1947.
Pubblicazioni
(Elenco parziale)
Le origini dell’architettura lombarda, Roma, Tip. dell’Unione Cooperativa Editrice, 1908.
I documenti su Pietro Perugino, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1923.
La Pinacoteca di Perugia, Firenze, F.lli Alinari, Soc. An. Idea, 1927.
Giulio Urbini, Disegno storico dell’arte italiana preceduto da un trattatello sulla tecnica delle arti figurative, a cura di Umberto Gnoli, Torino, Paravia, 1931.
Alberghi e osterie di Roma nella rinascenza, Spoleto, C. Moneta, 1935.
Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna, Roma, Staderini, 1939.
Cortigiane romane: note e bibliografia, Arezzo, Edizioni della Rivista Il Vasari, 1941.
Piante di Roma inedite, Istituto di studi romani, 1941.
Raffaello e la Incoronazione di Monteluce, in Bollettino d’Arte, 1917.
Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna: Supplement, ristampa, Foligno, Edizioni dell’Arquata, 1984 [1939].
Note
^ Umberto Gnoli, L’arte romanica nell’Umbria, in Augusta Perusia. Rivista di topografia, arte e costume dell’Umbria, I, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1906, pp. 22-25, 41-43. URL consultato il 7 marzo 2020.
^Una corposa raccolta fotografica di Gnoli è confluita nella fototeca di Federico Zeri. Cfr.: Giulia Alberti, Il fondo fotografico di Umberto Gnoli, su fondazionezeri.unibo.it. URL consultato il 6 marzo 2020.
^ Maria Raffaella Trabalza, Regionalismo nella cultura del primo Novecento: storia di una rivista umbra: Augusta Perusia (1906-1908), Le Monnier, 1981.
-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Franco Leggeri Fotoreportage-Roma Gianicolo-La quercia del Tasso –
Articolo di Marco Fulvio Barozzi –Fotoreportage di di Franco Leggeri per REDREPORT-Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri.
Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “E’ il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”.
Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?”
“Della quercia del Tasso.”
E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”.
Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”.
Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”.
Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”.
Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.
Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.
Articolo Pubblicato da Marco Fulvio Barozzi sul sito web Popinga –
venerdì 3 maggio 2013-Scienza e letteratura: terribilis est locus iste-
ROMA-Mausoleo di Augusto-Nuovo importante ritrovamento a Piazza Augusto Imperatore
Roma, 06 luglio 2023 – “Riqualificazione del Mausoleo di Augusto e piazza Augusto Imperatore”-Dichiarazione del Sovrintendente Capitolino Claudio Parisi Presicce“Grazie al lavoro attento degli archeologi e delle archeologhe della Sovrintendenza, siamo in grado di approfondire la conoscenza di un quadrante della città che stupisce per la ricchezza della sua storia millenaria.
La testa appena ritrovata, di elegante fattura, scolpita in marmo greco, appartiene probabilmente a una statua di divinità femminile, forse Afrodite, di dimensioni naturali. Mostra una raffinata acconciatura di capelli raccolti sul retro grazie ad una “tenia”, un nastro annodato sulla sommità del capo.
Il reperto è stato rinvenuto nella fondazione di un muro tardoantico ma si conserva integro; riutilizzato come materiale da costruzione giaceva con il viso rivolto verso il basso, protetto da un banco d’argilla sul quale poggia la fondazione del muro. Il riuso di opere scultoree, anche di importante valore, era una pratica molto comune in epoca tardo medioevale, che ha consentito, come in questo caso, la fortunata preservazione di importanti opere d’arte.
La testa è al momento affidata ai restauratori per la pulizia, e agli archeologi per una corretta identificazione e una prima proposta di datazione, che appare ancorata all’epoca augustea.”
La scoperta è avvenuta nel corso dei lavori per la “Riqualificazione del Mausoleo di Augusto e piazza Augusto Imperatore”, sul lato orientale dell’area in corso di intervento.
Mausoleo di Augusto
Di ritorno dalla campagna militare in Egitto, conclusasi con la vittoria di Azio del 31 a.C. e la sottomissione di Cleopatra e Marco Antonio, nel 28 a.C. Ottaviano Augusto diede inizio alla costruzione del Mausoleo nell’area settentrionale del Campo Marzio all’epoca non ancora urbanizzato.
Già in precedenza occupato dai sepolcri di alcuni uomini illustri, lo storico greco Strabone descrisse il monumento come “un grande tumulo presso il fiume su alta base di pietra bianca, coperto sino alla sommità di alberi sempreverdi; sul vertice è il simulacro bronzeo di Augusto e sotto il tumulo sono le sepolture di lui, dei parenti, dietro vi è un grande bosco con mirabili passeggi”.
Il Mausoleo con il suo diametro di 300 piedi romani (circa m 87) è il più grande sepolcro circolare che si conosca. Il monumento si componeva di un corpo cilindrico rivestito in blocchi di travertino, al centro del quale si apriva a sud una porta preceduta da una breve scalinata; in prossimità dell’ingresso, forse su pilastri, erano collocate le tavole bronzee con incise le Res Gestae, ovvero l’autobiografia dell’imperatore, il cui testo è trascritto sul muro del vicino Museo dell’Ara Pacis.
Nell’area antistante erano collocati due obelischi di granito, poi riutilizzati uno in piazza dell’Esquilino, alle spalle di S. Maria Maggiore (1587), l’altro nella fontana dei Dioscuri in piazza del Quirinale (1783).
Varie ipotesi di ricostruzione del monumento sono state proposte sulla base dei resti conservati e dei disegni realizzati nel XVI secolo da Baldassarre Peruzzi. Su di un basamento alto circa m 12 si elevava, impostato su una delle murature anulari più interne, un secondo ordine architettonico coronato da una trabeazione dorica, di cui vari elementi sono stati rinvenuti nell’area del monumento. Su questa altissima struttura svettava, a 100 piedi romani di altezza (circa 30 metri), la statua di Augusto in bronzo dorato, probabilmente l’originale bronzeo della statua in marmo rinvenuta nella villa di Livia a Prima Porta.
Attraverso un lungo corridoio d’accesso, il dromos, si giungeva alla cella sepolcrale, di forma circolare, con tre nicchie rettangolari ove erano collocate le urne. La nicchia di sinistra, ospitava le ceneri di Ottavia, sorella dell’imperatore e di suo figlio Marcello, successore designato di Augusto prematuramente morto nel 23 a.C. Augusto fu forse sepolto nell’ambiente ricavato all’interno del nucleo cilindrico centrale. All’interno del sepolcro vennero deposte le ceneri dei membri della famiglia imperiale: il generale Marco Agrippa, secondo marito di Giulia figlia di Augusto, Druso Maggiore, i due bimbi Lucio e Gaio Cesare figli di Giulia, Druso Minore, Germanico, Livia, seconda moglie di Augusto, Tiberio, Agrippina, Caligola, Britannico, Claudio, e Poppea, moglie di Nerone; quest’ultimo fu invece escluso dal Mausoleo per indegnità, come già Giulia, la figlia di Augusto. Per breve tempo il Mausoleo ospitò le ceneri di Vespasiano e infine di Nerva e dopo oltre un secolo dall’ultima deposizione si riaprì per ospitare le ceneri di Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo.
Roma- Galleria Borghese apertura straordinaria per la Mostra: “La Favola di Atalanta. Guido Reni e i poeti”
Roma-Lunedi 13 gennaio la Galleria Borghese propone un’apertura straordinaria dalle 16 alle 19.00 (ultimo ingresso alle ore 17.00) per visitare la mostra attualmente in corso: Poesia e pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione. In questa occasione sarà possibile per il pubblico partecipare all’incontro dal titolo “La Favola di Atalanta. Guido Reni e i poeti”, in cui verrà presentata la mostra in corso presso la Pinacoteca di Bologna fino al 16 febbraio 2025, dall’omonimo titolo.
La mostra, a cura di Giulia Iseppi, Raffaella Morselli e Maria Luisa Pacelli, indaga i rapporti tra artisti e letterati nel ricco contesto culturale della Bologna di primo Seicento, dove pittori come Guido Reni, Artemisia Gentileschi, Ludovico e Agostino Carracci intessono relazioni con molti poeti fra cui Giovan Battista Marino, a cui la Galleria Borghese sta dedicando la mostra in corso. Le poesie, alcune delle quali oggetto di ritrovamenti documentari inediti, diventano la chiave di lettura delle opere d’arte esposte, a partire da una delle coppie memorabili di Reni, le due Atalanta e Ippomene, celebri eppure poco documentate, per le quali si avanza una nuova proposta di genesi in seno alle accademie romane e bolognesi frequentate dal pittore.
Intervengono Costantino D’Orazio, Dirigente delegato ai Musei Nazionali di Bologna e le curatrici della mostra.
L’incontro si svolge presso la terrazza della sala Egizia, a cui si accede dalla sala VII del museo.
La partecipazione all’incontro è gratuita e la disponibilità dei posti limitata, fino ad esaurimento.
La prenotazione del biglietto è obbligatoria su questa pagina oppure chiamando lo 06 32810.
Informazioni
Galleria Borghese
Piazzale Scipione Borghese 5,
00197 Roma, Italia
Tel. +39 068413979
mail. ga-bor@cultura.gov.it
pec. ga-bor@pec.cultura.gov.it
Per acquisto biglietti: +39 06 32810
Museo di Roma in Trastevere, torna la rassegna “Libri al Museo”-
Roma-Sabato 11 gennaio alle ore 17.30, al Museo di Roma in Trastevere (Piazza Sant’Egidio 1/b), torna la rassegna “Libri al Museo”,si terrà la presentazione dei volumi di Bruno Casini Tondelli e la musica. Colonne sonore per gli anni ’80 e Frequenze fiorentine. Firenze anni ’80. Il periodo storico protagonista dei due testi di Casini si lega a doppio filo con la mostra in corso Dino Ignani. 80’s Dark Rome. Il racconto della musica e delle culture giovanili negli anni Ottanta del secolo scorso a Firenze dialoga virtualmente, e non solo, con il ritratto fotografico della Roma ombrosa e scintillante, sotterranea e plateale della stessa epoca.
Alla presenza dell’autore ne parleranno Ilaria Miarelli Mariani (Direttrice della Direzione Musei Civici della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali), Stefano Pistolini (giornalista), Alberto Piccinini, (giornalista), Dino Ignani (fotografo), Ilaria Grasso (attivista e poeta). Servizi museali: Zètema Progetto Cultura. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.
Tondelli e la musica. Colonne sonore per gli anni ’80 (Ed. Interno 4) è un libro a più voci che indaga il rapporto tra Pier Vittorio Tondelli e la musica, tra la parola scritta e il ritmo musicale che la sostiene, un tema tanto caro allo scrittore emiliano. Tanti i contributi nel libro: dai testi inediti scritti da Pier Vittorio per gli Skiantos, e qui presentati da Freak Antoni, ai ricordi di Luciano Ligabue, che abitava nello stesso palazzo a Correggio; dalle amicizie di Giovanni Lindo Ferretti alle passeggiate fiorentine con Sandro Lombardi, e poi ancora Massimo Zamboni, Federico Fiumani, giornalisti come Alberto Piccinini, Stefano Pistolini, Luca Scarlini, PierFrancesco Pacoda, Gabriele Romagnoli, Ernesto De Pascale, Paolo De Bernardin, Giampiero Bigazzi, Roberto Incerti, Giuseppe Videtti. E ancora il geniale fotografo Derno Ricci, gli scrittori Mario Fortunato, Filippo Betto, il regista Mario Martone, la dolcissima Nicoletta Magalotti e il fondamentale supporto letterario di Fulvio Panzeri che ha seguito con passione e amore il viaggio di Tondelli per decenni e che qui scrive del rapporto tra Tondelli e la musica.
A diciannove anni dalla prima edizione ritornano le Frequenze Fiorentine Firenze anni ’80 (Ed. GoodFellas) il libro illustrato sulle culture giovanili negli anni ’80 a Firenze. Interviste, contributi, memorabilia, racconti, flash rock’n’roll, playlist, feedback letterari, poesie postmoderne, dai Giovanotti Mondani Meccanici ai Litfiba, dai Krypton ai Neon, dai Diaframma alle etichette indipendenti, dal Pitti Trend ai Magazzini Criminali, dalle T.O.K.Y.O. Productions al BananaMoon, dal Tenax all’Independent Music Meeting, dal Manila al Gay Clubbing, da Westuff Magazine a Video Music, da Controradio a Radio Cento Fiori, da Pier Vittorio Tondelli a Piero Pelù, dagli Orient Express a Nicoletta Magalotti, dalla fotografia di Derno Ricci ad Alberto Petra, dai jazz club alle cantine New Wave. Dalla nuova editoria al design underground, dalle Graffiti Night alle feste di Rockstar, da Mixo a Stefano Pistolini, dalla Rokkoteca Brighton ai Cafè Caracas, da Ghigo Renzulli ad Alexander Robotnick, da Antonio Aiazzi a Francesco Magnelli, da Ringo De Palma ad Andrea Chimenti, da Ernesto De Pascale a Gianni Maroccolo.
BIOGRAFIA
Bruno Casini si è sempre occupato di musica, scrittura, culture giovanili e clubbing. È stato il primo manager dei Litfiba negli anni Ottanta. Ha diretto la mostra Independent Music Meeting per quindici anni. È stato tra i fondatori della rivista Westuff Magazine. Ha programmato spazi della notte come Casablanca, Manila News, Tenax e del mitico Banana Moon, dove è partita la scintilla della New Wave fiorentina. Laureato in Storia del Cinema con Pio Baldelli, da molti anni si occupa di comunicazione. Ha pubblicato numerosi libri sugli anni ‘70 e ‘80 a Firenze, tra cui “Frequenze Fiorentine” (Ed. Goodfellas). Ha frequentato Pier Vittorio Tondelli nel periodo del “Rinascimento Rock” nel capoluogo toscano.
L’Orfeo (SV 318) è un’opera di Claudio Monteverdi (la prima in ordine di tempo) su libretto di Alessandro Striggio. Si compone di un prologo («Prosopopea della musica») e cinque atti.
È ascrivibile al tardo Rinascimento o all’inizio del Barocco musicale, ed è considerata il primo vero capolavoro della storia del melodramma, poiché impiega tutte le risorse fino ad allora concepite nell’arte musicale, con un uso particolarmente audace della polifonia. Basata sul mito greco di Orfeo, parla della sua discesa all’Ade, e del suo tentativo infruttuoso di riportare la sua defunta sposa Euridice alla vita terrena.
Composta nel 1607 per essere eseguita alla corte di Mantova nel periodo carnevalesco, L’Orfeo è uno dei più antichi Drammi per musica a essere tuttora rappresentati regolarmente.
Dopo l’anteprima, avvenuta all’Accademia degli Invaghiti di Mantova il 22 febbraio 1607 (con il tenore Francesco Rasi nel ruolo del titolo), la prima è stata il 24 febbraio al Palazzo Ducale di Mantova. In seguito il lavoro fu eseguito nuovamente, anche in altre città italiane, negli anni immediatamente successivi. Lo spartito venne pubblicato da Monteverdi nel 1609 e, nuovamente, nel 1615.
In seguito alla morte del compositore (1643), dopo la prima del 1647 al Palazzo del Louvre di Parigi il lavoro non venne più interpretato, e cadde nell’oblio.
Dopo la seconda guerra mondiale, le nuove versioni dell’opera iniziarono a presentare l’uso di strumenti d’epoca, per perseguire l’obiettivo di una maggiore autenticità. Vennero quindi pubblicate molte nuove registrazioni e L’Orfeo divenne via via sempre più popolare. Nel 2007 il quarto centenario della prima venne celebrato con numerose rappresentazioni in tutto il mondo. Nel 2009 va in scena alla Scala diretta da Rinaldo Alessandrini con Roberta Invernizzi, Sara Mingardo e Robert Wilson, di cui esiste un video trasmesso da Rai 5.
Nella partitura pubblicata Monteverdi elenca circa 41 strumenti da impiegare nell’esecuzione. Lo spartito include (oltre a monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, cori a cinque voci con basso non cifrato, ecc.) pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti da utilizzare sono a volte citati (ad esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini piccoli alla francese»).
Tuttavia, nonostante le indicazioni sulla partitura, ai musicisti dell’epoca era concessa una notevole libertà di improvvisare (questa permissività non si riscontra nei lavori più maturi di Monteverdi). Pertanto ogni rappresentazione dell’Orfeo è differente dalle altre, oltre che unica e irripetibile.
La passione di Vincenzo Gonzaga per il teatro musicale crebbe grazie ai suoi legami familiari con la corte di Firenze. Verso la fine del XVI secolo, infatti, i musicisti fiorentini più innovativi stavano sviluppando l’intermedio—una forma musicale stabilita da tempo come un interludio inserito tra gli atti dei drammi parlati— reideandolo in forme più innovative.[2] Guidati da Jacopo Corsi, questi successori della celebre Camerata Fiorentina[n 1] diedero vita al primo lavoro appartenente al genere melodrammatico: Dafne, composta da Corsi e Jacopo Peri, eseguita per la prima volta a Firenze nel 1598. Questo lavoro unisce in sé elementi canori madrigalistici e monodici, oltre a passi strumentali e coreografici, col fine di stabilire un unicum drammatico. Di quest’opera ci restano solo dei frammenti. Tuttavia, altri lavori fiorentini dello stesso periodo (tra cui la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, L’Euridice di Peri e quella di Giulio Caccini) sono giunti interamente fino a noi. In particolare, queste ultime due opere furono le prime dedicate al mito di Orfeo (tratto dalLe metamorfosi di Ovidio), tema che ispirerà i compositori di epoche successive fino al giorno d’oggi. In questo, furono diretti precursori de L’Orfeo di Monteverdi.[5][6]
La corte dei Gonzaga era da tempo celebre per il mecenatismo nei confronti dell’arte teatrale. Un secolo prima dell’epoca di Vincenzo Gonzaga, si rappresentò a corte il dramma lirico di Angelo PolizianoLa favola di Orfeo. Circa la metà di questo lavoro era cantata invece che parlata. In seguito, nel 1598, Monteverdi aiutò la compagnia musicale di corte a mettere in scena il dramma Il pastor fido di Giovanni Battista Guarini. Mark Ringer, storico del teatro, descrive questo come un “lavoro teatrale spartiacque” che ispirò la moda italiana del dramma pastorale.[7] Il 6 ottobre 1600, durante una visita a Firenze per il matrimonio tra Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, il duca Vincenzo assistette a una rappresentazione dell’Euridice di Peri.[6] È probabile che allo spettacolo fossero presenti anche i musicisti più importanti del duca, tra cui Monteverdi. Il duca si rese subito conto dell’originalità di questa nuova forma di intrattenimento drammatico, e del prestigio che avrebbe conferito a chi l’avesse patrocinata.[8]
Anche il giovane Striggio era un abile musicista. Nel 1589 (a 16 anni), aveva suonato la viola alla cerimonia nuziale di Ferdinando di Toscana. Assieme ai due figli più giovani del duca Vincenzo (Francesco e Fernandino), era membro dell’esclusivo circolo intellettuale mantovano: l’Accademia degli Invaghiti, che rappresentava un importante trampolino di lancio per le opere teatrali della città.[10][11]
Non si sa esattamente quando Striggio abbia iniziato la stesura del libretto, ma il lavoro era evidentemente già avviato nel gennaio del 1607.
In una lettera scritta il 5 gennaio, Francesco Gonzaga chiede a suo fratello (all’epoca vicino agli ambienti della corte fiorentina) di fargli ottenere i servigi di un abile cantante castrato (quest’ultimo impiegato nella compagnia musicale del granduca), per la rappresentazione di un dramma per musica da eseguirsi durante il carnevale mantovano.[12]
Le fonti principali impiegate da Striggio per la scrittura del libretto furono il decimo e l’undicesimo libro dalle Metamorfosi di Ovidio, e il quarto libro dalle Georgiche di Virgilio. Questi documenti gli fornirono il materiale di partenza, ma non suggerivano già la forma di un dramma completo (per esempio: i fatti narrati negli atti 1 e 2 de l’Orfeo occupano appena tredici righe nelle Metamorfosi).[13]
Il musicologo Gary Tomlinson sottolinea le numerose similarità tra i testi di Striggio e Rinuccini, evidenziando che alcuni dei discorsi contenuti ne L’Orfeo rassomigliano, come contenuto e come stile letterario, ad alcuni corrispettivi ne l’Euridice.[15]
La critica Barbara Russano Hanning fa notare come i versi di Striggio siano meno raffinati di quelli di Rinuccini, nonostante la struttura del libretto scritto da Striggio sia più interessante.[10]
Nel suo lavoro Rinuccini fu obbligato a inserire un lieto fine (il melodramma era stato pensato per le festività legate alle nozze di Maria de’ Medici). Striggio, invece, che non scriveva per una cerimonia di corte ufficiale, poté attenersi di più alla conclusione originale del mito, in cui Orfeo è ucciso e smembrato dalle Menadi (dette anche Baccanti) iraconde.[14] Scelse infatti di scrivere una versione mitigata di questo finale cruento: le Menadi minacciano di distruggere Orfeo, ma il suo vero destino, alla fine, non viene mostrato.[16]
Il libretto edito a Mantova nel 1607 (in concomitanza con la prima) presenta la conclusione ambigua ideata da Striggio. Tuttavia lo spartito monteverdiano, pubblicato a Venezia nel 1609 da Ricciardo Amadino, termina in maniera del tutto diversa, con Orfeo che ascende al cielo grazie all’intercessione di Apollo.[10]
Secondo Ringer, il finale originale di Striggio fu quasi di sicuro impiegato alla prima de l’Orfeo, ma indubbiamente (a dire del critico) Monteverdi ritenne che la nuova conclusione (quella dell’edizione dello spartito) fosse esteticamente corretta.[16]
Il musicologo Nino Pirrotta, invece, sostiene che il finale con Apollo facesse già parte della pianificazione originale della messa in scena, ma che alla prima non fosse stato messo in atto. Ciò sarebbe avvenuto, secondo la spiegazione di Pirrotta, poiché la piccola stanza che ospitò l’evento non era in grado di contenere gli ingombranti macchinari teatrali richiesti da questa conclusione. Quella delle Menadi, secondo questa teoria, non sarebbe altro che una scena sostitutiva. Le intenzioni del compositore vennero ristabilite al momento della pubblicazione dello spartito.[17] Recentemente la spiegazione di Pirrotta è stata messa in discussione: l’espressione «sopra angusta scena» che si legge nella lettera di dedica di Claudio Monteverdi non indicherebbe uno spazio piccolo per la rappresentazione, ma sarebbe da opporre al «gran teatro dell’universo», cioè al più vasto pubblico raggiungibile dal compositore dopo la pubblicazione a stampa della partitura.[18]
Quando Monteverdi scrisse la musica per L’Orfeo, possedeva già un’approfondita preparazione nell’ambito della musica per teatro. Aveva infatti lavorato alla corte dei Gonzaga per sedici anni, nel corso dei quali si era occupato di varie musiche di scena (in qualità sia di interprete sia di arrangiatore). Nel 1604, per giunta, aveva scritto il ballo Gli amori di Diana ed Endimone (per il carnevale mantovano del 1604–05).[19] Gli elementi da cui egli attinse per comporre la sua prima opera di stampo melodrammatico — l’Aria, l’Aria strofica, il recitativo, i cori, le danze, gli interludi musicali— non furono, come sottolineato dal direttore d’orchestra Nikolaus Harnoncourt, creati ex-novo da Monteverdi, ma fu lui che “amalgamò l’insieme delle vecchie e nuove possibilità, creando un unicum veramente moderno”.[20] Il musicologo Robert Donington scrive al riguardo: “Lo spartito non contiene elementi che non siano basati su altri già ideati in precedenza, ma raggiunge la completa maturità in questa forma artistica appena sviluppata… Vi si trovano parole espresse in musica come [i pionieri dell’opera] volevano fossero espresse; vi è musica che le esprime… con l’ispirazione totale del Genio”[21]
Monteverdi pone i requisiti orchestrali all’inizio della partitura pubblicata ma, in conformità con la pratica del tempo, non ne specifica l’utilizzo esatto.[20] A quell’epoca, infatti, era normale consentire a ogni interprete di fare scelte proprie, basate sulla manodopera orchestrale di cui disponeva. Quest’ultimo parametro poteva variare considerevolmente da un luogo a un altro. Inoltre, come fa notare Harnoncourt, gli strumentisti sarebbero stati tutti compositori e si sarebbero aspettati di collaborare creativamente a ogni esecuzione, piuttosto che eseguire alla lettera ciò che era scritto sullo spartito.[20] Un’altra pratica in voga era quella di permettere ai cantanti di abbellire le proprie arie. Monteverdi, di alcune arie (come “Possente spirito” da l’Orfeo), scrisse sia la versione semplice sia quella abbellita,[22] ma secondo Harnoncourt “è ovvio che dove non scrisse abbellimenti non voleva che essi venissero eseguiti”.[23]
Ogni atto dell’opera è collegato a un singolo elemento della storia, e si conclude con un coro. Nonostante la struttura in cinque atti, con due cambi di scenografia richiesti, è probabile che la rappresentazione de l’Orfeo abbia seguito la prassi in uso per gli spettacoli d’intrattenimento a corte, ovvero fu eseguito come un continuum, senza intervalli o calate di sipario tra i vari atti. Erano difatti in uso, all’epoca, i cambi di scenografia visibili agli occhi degli spettatori, e quest’abitudine si riflette nelle modifiche dell’organico strumentale, della tonalità e dello stile che si riscontrano nella partitura dell’Orfeo.[24]
Trama
La recitazione ha luogo in due posti contrastanti: i campi della Tracia (negli Atti 1, 2 e 5) e nell’Oltretomba (negli Atti 3 e 4). Una Toccata strumentale (una fioritura di trombe) precede l’entrata della Musica, rappresentante lo “spirito della musica”, che canta un prologo di cinque stanze di versi. Dopo un caloroso invito all’ascolto, La Musica dà prova delle sue abilità e talenti, dichiarando:
Detto ciò, canta un inno di lode al potere della musica, prima di introdurre il protagonista dell’opera, Orfeo, capace di incantare le belve selvatiche con la sua musica.
Atto Primo
Dopo la richiesta di silenzio dell’allegoria della Musica, il sipario si apre sul Primo Atto per rivelare una scena bucolica. Orfeo ed Euridice entrano insieme con un coro di ninfe e pastori, che recitano alla maniera del Coro greco antico, entrambi cantando a gruppi e individualmente. Un pastore annuncia che è il giorno di matrimonio della coppia; il coro risponde inizialmente con una maestosa invocazione (“Vieni, Imeneo, deh vieni”) e successivamente con una gioiosa danza (“Lasciate i monti, lasciate i fonti”). Orfeo ed Euridice cantano del loro reciproco amore prima di lasciarsi con tutto il gruppo della cerimonia matrimoniale nel tempio. Quelli rimasti sulla scena cantano un breve coro, commentando su Orfeo:
«Orfeo, di cui pur dianzi furon cibo i sospir, bevanda il pianto, oggi felice è tanto che nulla è più che da bramar gli avanzi.»
Orfeo ritorna in scena con il coro principale, elogiando le bellezze della natura. Orfeo medita poi sul suo precedente stato di infelicità, proclamando:
«Dopo ’l duol vi è più contento, Dopo ’l mal vi è più felice.»
Questa atmosfera di gioia ha termine con l’ingresso della Messaggera, che comunica che Euridice è stata colpita dal fatale morso di un serpente nell’atto di raccogliere dei fiori. Mentre la Messaggera si punisce, definendosi come colei che genera cattive situazioni, il coro esprime la sua angoscia. Orfeo, dopo avere espresso il proprio dolore e l’incredulità per quanto accaduto, comunica l’intenzione di scendere nell’Aldilà e persuadere Plutone a fare resuscitare Euridice.
Atto Terzo
Orfeo viene guidato da Speranza alle porte dell’Inferno. Dopo avere letto le iscrizioni sul cancello (“Lasciate ogni speranza, ò voi ch’entrate.”), Speranza esce di scena. Orfeo deve ora confrontarsi con il traghettatore Caronte, che si rifiuta ingiustamente di portarlo attraverso il fiume Stige. Orfeo prova dunque a convincere Caronte cantandogli invano un motivo lusinghiero. In seguito, Orfeo prende la sua lira, incantando il traghettatore Caronte, che piomba in uno stato di sonno profondo. Orfeo prende poi il controllo della barca, entrando nell’Aldilà, mentre un coro di spiriti riflette sul fatto che la natura non può difendersi dall’uomo.
Atto Quarto
Nell’Aldilà, Proserpina regina degli Inferi, viene incantata dalla voce di Orfeo, supplicando Plutone di riportare Euridice in vita. Il re dell’Ade viene convinto dalle suppliche della moglie, a condizione che Orfeo non guardi mai indietro Euridice nel ritorno sulla terraferma, cosa che la farebbe scomparire nuovamente per l’eternità. Euridice entra in scena al seguito di Orfeo, che promette che in quello stesso giorno egli giacerà sul bianco petto della moglie. Tuttavia, un dubbio comincia a sorgergli nella mente, convincendosi che Plutone, mosso dall’invidia, lo abbia ingannato. Orfeo, spinto dalla commozione, si gira distrattamente, mentre l’immagine di Euridice comincia lentamente a scomparire. Orfeo prova dunque a seguirla, ma viene attratto da una forza sconosciuta. In seguito, Orfeo spinto dalle proprie passioni a infrangere il patto con Plutone.
Atto Quinto
Tornato nei campi della Tracia, Orfeo tiene un lungo monologo in cui lamenta la sua perdita, celebra la bellezza di Euridice e decide che il suo cuore non sarà mai più trafitto dalla freccia di Cupido. Un’eco fuori scena ripete le sue frasi finali. Improvvisamente, in una nuvola, Apollo scende dal cielo e lo castiga: “Perch’a lo sdegno ed al dolor in preda così ti doni, o figlio?”. Invita Orfeo a lasciare il mondo e a unirsi a lui nei cieli, dove riconoscerà la somiglianza di Euridice nelle stelle. Orfeo risponde che sarebbe indegno non seguire il consiglio di un padre così saggio, e insieme salgono. Un coro di pastori conclude che “chi semina fra doglie, d’ogni grazia il frutto coglie”, prima che l’opera si concluda con una vigorosa moresca.
Venduta all’asta la più antica Bibbia ebraica ad oggi conosciuta
Acquistata per oltre 38 milioni di dollari la più antica Bibbia, entrerà a far parte della collezione permanente del museo di Tel Aviv-Il Codex Sassoon, un libro della fine del IX o dell’inizio del X secolo che Sotheby’s ha definito «la prima e più completa copia della Bibbia ebraica», è stato venduto per 38,1 milioni di dollari all’associazione American Friends of the ANU, Museum of the Jewish People. Secondo Sotheby’s, il Codice entrerà a far parte della collezione permanente del museo di Tel Aviv, in Israele.
L’acquisto del Codice Sassoon è stato possibile grazie alla donazione di Alfred H. Moses, ex ambasciatore americano in Romania, e della sua famiglia. Si tratta di uno dei documenti storici più costosi mai venduti all’asta, appena inferiore ai 43,2 milioni di dollari della Costituzione degli Stati Uniti venduta nel novembre 2021 al collezionista d’arte Ken Griffin. Una collezione di scritti scientifici di Leonardo da Vinci del valore di 30,8 milioni di dollari (secondo il New York Times vale 62,4 milioni di dollari al giorno d’oggi) è stata acquistata da Bill Gates nel 1994.
«La Bibbia ebraica è il libro più influente della storia e costituisce la base della civiltà occidentale. Mi rallegro nel sapere che appartiene al popolo ebraico. La mia missione, rendendomi conto dell’importanza storica del Codice Sassoon, è stata quella di fare in modo che risiedesse in un luogo accessibile a tutti», ha dichiarato Moses in un comunicato stampa. «Nel mio cuore e nella mia mente quel luogo era la terra d’Israele, la culla dell’ebraismo, dove ha avuto origine la Bibbia ebraica».
Il codice non deriva il suo valore dalle centinaia di pelli di pecora necessarie per la pergamena del libro di 26 libbre, dal lavoro richiesto per scrivere a mano i 24 libri della Bibbia ebraica o anche necessariamente dalla precisione del testo stesso. Invece, come ha detto a Religion News Service Tzvi Novick, titolare della cattedra di pensiero e cultura ebraica all’Università di Notre Dame, in Indiana, «la fama del Codice Sassoon sta nella sua combinazione di precocità e completezza».
Il nome è legato a David Solomon Sassoon (1880-1942), appassionato collezionista di manoscritti giudaici ed ebraici, che lo acquistò nel 1929. Il libro contiene tutti i 24 libri della Bibbia ebraica (mancano solo alcuni fogli) e precede di quasi un secolo la prima Bibbia ebraica interamente completa, il Codice di Leningrado.
“Codice Sassoon, una pietra miliare della storia ebraica e dell’umanità”
È nota come Codice Sassoon la copia più antica e completa del Tanakh mai ritrovata. Un manoscritto risalente alla fine del IX o all’inizio del X secolo, considerato fondamentale per capire l’evoluzione della tradizione ebraica. Il nome deriva da un suo precedente proprietario, che l’acquistò nel 1929: David Solomon Sassoon, appassionato collezionista di Judaica e di manoscritti ebraici. Il Codice Sassoon contiene 24 libri e, spiegano gli esperti della casa d’aste Sotheby’s, “precede di quasi un secolo la prima Bibbia ebraica completa, il Codice di Leningrado”. Rappresenta in questo senso una “pietra miliare della storia umana”. Proprio Sotheby’s metterà all’asta il prezioso volume il prossimo maggio a New York. Una notizia ripresa dai media da tutto il mondo, che evidenziano il valore storico del manoscritto, realizzato da uno scriba su pergamena. “Nel Codice Sassoon viene rivelata una trasformazione monumentale nella storia della Bibbia ebraica, portando alla luce la sua storia completa, che in precedenza non era mai stata presentata in forma di libro” dichiara Sharon Mintz, esperta di Sotheby’s della divisione libri e manoscritti. Segna perciò “una svolta cruciale nel modo in cui percepiamo la storia della parola divina attraverso migliaia di anni, ed è una testimonianza di come la Bibbia ebraica abbia influenzato i pilastri della civiltà – arte, cultura, legge, politica – per secoli”. Parlando con la rivista Barron’s, Mintz ha ricordato come i primi scritti conosciuti della tradizione ebraica siano i frammenti dei Rotoli del Mar Morto, composti tra il III e la fine del I secolo a.e.v. Nei 700 anni successivi non si hanno notizie di una Bibbia scritta, ha spiegato l’esperta. “Nessuno sa perché. Presumibilmente, dovevano esserci dei libri prima. Ma i primi esempi che abbiamo, e certamente i primi codici biblici che abbiamo, risalgono alla fine del IX e all’inizio del X secolo. E sono solo due”. Uno è il Codice Sassoon, l’altro è il più antico Codice di Aleppo, realizzato attorno al 930. Quest’ultimo è però arrivato incompleto ai giorni nostri, mancando quasi del tutto dei cinque libri della Torah (il Pentateuco). Tra i due testi, spiega Mintz, c’è un collegamento. A compilare il Codice di Aleppo, testo masoretico, fu la famiglia di “Aaron ben Moses ben Asher, un importante studioso della Bibbia incaricato di correggere il Codice per adeguarlo alla tradizione che aveva ereditato su come le parole dovevano essere scritte, vocalizzate e accentate”. Il Codice di Aleppo servì in seguito come esemplare per gli scribi per assicurarsi di aver copiato correttamente la Bibbia. “È significativo che il Codice Sassoon contenga note fedeli della Masorah. – l’analisi di Mintz – Una di queste note fa riferimento al ‘grande maestro, Aaron ben Moses ben Asher’ e al suo lavoro su al-taj, l’onorifico tradizionale del Codice di Aleppo, suggerendo che lo scriba masoreta che ha copiato la Masorah del Codice Sassoon potrebbe aver consultato il volume quando risiedeva a Tiberiade o a Gerusalemme nel X o XI secolo”.
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