Descrizione del libro di Ann-Helén Laestadius-A nord del circolo polare artico, nella Lapponia svedese, è inverno. Poche ore di luce pallida sono tutto ciò che il sole ha da offrire prima che il paesaggio sia nuovamente avvolto da un buio compatto. In quelle terre estreme la piccola Elsa, nove anni, si allontana sugli sci dal villaggio sami in cui vive per raggiungere la zona di pascolo delle renne di famiglia. Quel giorno segna profondamente la sua infanzia: davanti ai suoi occhi spalancati, un uomo uccide brutalmente un piccolo di renna, il suo Nástegallu, quello che lei ha scelto nel branco e a cui le è stato permesso di incidere l’orecchio, secondo l’usanza della sua comunità. L’uomo e la bambina si guardano, si riconoscono. Poi l’uomo la minaccia, e la bambina decide di tacere. Porterà a lungo con sé quel segreto come un peso oscuro sul cuore. Dieci anni dopo, un tempo costellato di rischi e ulteriori massacri di animali, quando Elsa si ritrova a essere lei stessa il bersaglio di chi, mosso dall’odio, si è macchiato del sangue di Nástegallu, qualcosa si spezza. E il senso di colpa, la paura e la rabbia che ha dentro da allora le piombano addosso come una valanga, portandola a un ultimo, tragico confronto. Romanzo di formazione e canto d’amore per un mondo che sta scomparendo, basato su una storia vera, La ragazza delle renne mette a nudo le tensioni che sorgono quando la modernità si scontra con una cultura tradizionale e con strutture patriarcali profondamente radicate, mentre la xenofobia è in aumento e i cambiamenti climatici mettono a repentaglio la sopravvivenza di un popolo che custodisce una sempre più fragile eredità indigena. E nello splendido scenario di favolosi paesaggi invernali, dove le renne corrono libere su distese infinite e sotto cieli immensi, l’orecchio di un cucciolo segretamente preservato in una scatola diventa il simbolo di tutto ciò che potrebbe andare perduto. Di tutto ciò che, forse, è già andato perduto.
L’Autrice
Ann-Helén Laestadius (1971), scrittrice e giornalista di origine sami, vive con la famiglia a Stoccolma. Dopo una serie di libri per bambini e ragazzi, per i quali ha ricevuto anche il prestigioso Augustpriset, La ragazza delle renne è il suo primo romanzo per adulti. Venduto in ventitré paesi, è diventato un film di successo per Netflix.
Monika Ulrika Ann-Helén Laestadius (born 1971) is a Swedish Sámi journalist and bestselling writer. In 2016, her novelTio över ett (Ten Past One) won the Swedish August Prize as the best submission in the children and young adult category.[1][2] She wrote her first adult novel in 2021 titled Stolen,[3] translated to English in 2023 by Rachel Willson-Broyles and became a number 1 paperback bestseller.[4]Netflix released a film adaptation, Stolen, in 2024.[5]
Biography
Born on 3 December 1971 in Jukkasjärvi in the far north of Sweden, Monika Ulrika Ann-Helén Laestadius is the daughter of the municipal employee Ivar Jan-Erik Laestadius (born 1951) and his wife Ellen Sara Kristina née Marainen (born 1948), a shop assistant.[6] Now living in Solna near Stockholm, she has worked as a journalist since 1990.[7] The About the Author section of her novel Stolen[3] says “she is an author and journalist from Kiruna, Sweden. She is Sámi and of Tornedalian descent, two of Sweden’s national minorities.”[citation needed]
In 2007, she published her first children’s novel, Sms från Soppero (Sms from Soppero). It was followed by five others. Her Tio över ett (Ten Past One) won the August Prize for Swedish children’s literature in 2016.[7][1] The jury commented: “It is about the collective grief of a changing community, about civil society and local politics, and about love and friendship. In energetic prose, Laestadius intertwines place, politics and psychology.”[8] She was also awarded the Norrland Literature Prize (Norrlands litteraturpris) for the same work in 2017.[9]
-Poetessa-Deportata ad Auschwitz sopravvissuta alla Shoah :”Testimonierò finché avrò fiato “
Roma- Intervista ad Edith Bruck, scrittrice, poetessa e sopravvissuta alla Shoah. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia-Il 29 ottobre, presso il Centro bibliografico dell’ebraismo italiano “Tullia Zevi” a Roma, si è svolto l’evento di avvio della seconda edizione del progetto didattico «Tra Resistenza e Resa. Per sopravvivere Liberi! 80 voglia di libertà!», promosso dalla Commissione storica dell’Ucebi e dalla Fondazione Cdec. A quell’evento è intervenuta la scrittrice, poetessa, testimone della Shoah, Edith Bruck a cui abbiamo rivolto alcune domande.
– Nella sua scrittura convivono due lingue: quella dell’infanzia, l’ungherese, e quella dell’età adulta, l’italiano. Per raccontare la sua vita, ha scelto l’italiano. Che cosa l’ha spinta a fare questa scelta?
«Voglio dire subito che non ho mai scelto nulla nella vita, non avevo la possibilità di scegliere. Sono arrivata in Italia nel 1954, dopo tantissimi pellegrinaggi, passando per i campi di concentramento, e vagabondando per l’Europa distrutta. Sono arrivata per puro caso a Napoli e lì ho avuto una sensazione molto strana. La gente mi guardava, mi sorrideva, e mi sembrava che mi stessero dicendo: “Rimani qui!”. È stata una sensazione che non posso spiegare bene, ma sentivo che in quel paese avrei potuto vivere. Così sono rimasta. Mi sono trasferita a Roma, ho fatto vari lavori, e ho preso lezioni di grammatica italiana. Lentamente ho imparato la lingua. Devo precisare che prima di scrivere il mio primo libro in italiano, avevo scritto in ungherese nel 1946 Chi ti ama così. Quando sono uscita dall’Ungheria, l’ho fatto clandestinamente. Dopo la guerra, al ritorno dai campi, ho trovato un paese che viveva sotto il comunismo, che non era certo migliore del fascismo. Così ho lasciato l’Ungheria e ho dovuto abbandonare le poche cose che avevo scritto in ungherese, tra cui anche quel mio primo scritto. Dopo essere arrivata in Italia, ho pubblicato il mio primo libro in italiano nel 1959, un’autobiografia. Scrivere è stato un atto necessario per me: scoppiavo di parole, avevo bisogno di liberarmi da quell’inferno che rischiava di rimanere dentro di me per sempre».
– Quale significato attribuisce alla lingua italiana?
«Innanzitutto, per me essa rappresenta una salvezza, una barriera protettiva. Nella lingua materna sono stata offesa, umiliata, insultata. Nel ’42, non potevamo nemmeno uscire per strada senza rischiare di essere aggrediti o insultati. Nel 1944, non furono i tedeschi ma i fascisti ungheresi, le croci frecciate, a bussare alla nostra porta e a deportarci. Avevo solo 13 anni quando un ragazzino in divisa da gendarme, che non arrivava ai 20 anni, schiaffeggiò mio padre, che non aveva nemmeno 50 anni. In quel momento capii che qualcosa era finito per sempre. Sono stata prima ad Auschwitz, poi ci trasferirono a Bergen-Belsen, attraverso le famose marce della morte. Partimmo in mille, ma arrivammo vive in meno di 50. Ci portarono in un campo degli uomini, una “tenda della morte”, dove il pavimento era coperto di cadaveri. Lì alcuni uomini morenti mi dissero: “Se sopravvivi, racconta. Non ci crederanno, racconta anche per noi”. Promisi che l’avrei fatto. La mia sopravvivenza è stata anche una testimonianza per quelli che non hanno potuto raccontare. Per me testimoniare è un dovere morale, e continuerò a farlo finché avrò fiato».
– In Ungheria, le leggi razziali precedettero quelle italiane di due anni. Come vede la situazione attuale in Ungheria e in Europa?
«È triste constatare che l’antisemitismo è ancora presente, anche in Ungheria, dove il governo di Orbán alimenta una politica di chiusura. In tutta Europa, vediamo risorgere i partiti di destra e i movimenti che rievocano ideologie pericolose. La situazione mi preoccupa molto, ma continuerò a testimoniare la mia esperienza, a raccontare, perché credo che ogni vita sia preziosa e che nessuno debba mai dimenticare quello che è accaduto».
– Lei è anche traduttrice, grazie al suo lavoro molti italiani hanno conosciuto i poeti ungheresi Miklós Radnóti e Attila József…
«Tradurre è un lavoro difficile, perché bisogna entrare nello spirito della poesia. Miklós Radnóti è stato una grande fonte di ispirazione per me. Quando ho tradotto la sua poesia, ho sentito che, pur nel dolore e nella morte, c’era una ricerca di speranza. Tradurre queste voci è stato un modo per farle vivere ancora, per farle arrivare anche agli italiani».
– Quali sono le sue prossime pubblicazioni?
«È uscito da pochi giorni libro Oltre il male, scritto con Andrea Riccardi, edito da Laterza. Poi, nel 2025, pubblicherò una nuova raccolta di poesie dal titolo Le dissonanze. Si tratta di una raccolta suddivisa in due parti. La prima è sempre legata alla memoria di mia madre, di mio padre, e di mio fratello, che non ha mai scritto e ha parlato della tragica esperienza dei campi di concentramento solo una volta. Dopo la guerra, gli chiesi perché non riuscisse a raccontare. Alla fine, con molta difficoltà e una voce flebile, trovò il coraggio di dire che una volta, al suo ritorno da una giornata di lavoro forzato, vide che il giaciglio di mio padre era vuoto. Chiese al medico: “Dov’è mio padre?”, ed egli rispose che quel giorno erano morti tanti prigionieri, e che poteva andare fuori a cercarlo. Mio fratello ritrovò mio padre tra i cadaveri: l’aveva abbracciato, gli aveva chiuso gli occhi e aveva cercato uno straccio per coprirlo, perché era nudo. Poi lo lasciò lì, tra centinaia di corpi. Mio fratello raccontò questa storia una sola volta, e non abbiamo saputo mai nulla della sua esperienza nei campi: né cosa pensava né come sopportava le sofferenze di quei giorni. Aggiunse solo: “Non chiedetemi mai più niente”.
Nella seconda parte della raccolta, invece, parlo delle molestie sessuali che ho subito in passato, senza fare riferimenti espliciti ai nomi, ma evocando personaggi noti tra cui uno scrittore, un regista, un giornalista, uomini molto noti in Italia, che si sono comportati in modo indegno. Continuerò a testimoniare per tutta la vita che mi resta, dando voce a chi ha vissuto ciò che ho vissuto io: non solo mio fratello ma i tanti milioni di persone uccise dalla furia nazifascista. Credo che ogni vita sia preziosa e che sia importante raccontare, affinché non si dimentichi».
Articolo e intervista di Deborah D’Auria-
Fonte –Riforma .it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
La rassegna , Teatro e Guerre , vuole stimolare una riflessione profonda sulle guerre e sui conflitti “Tutte le Guerre si Somigliano” è il nome della rassegna che tra novembre e dicembre sarà ospitata in tre comuni della Valle di Susa(To), con l’obiettivo di stimolare una riflessione profonda sulle guerre e sui conflitti.
Venerdì 15 novembre a San Didero, presso la Sala Polifunzionale, la compagnia Abaco Teatro porta in scena “L’ultima risata”, spettacolo che ricorda la storia dei comici ebrei che hanno fatto la grandezza del cabaret a Berlino negli anni ’30 del ‘900.
Alle 20.30 di venerdì 22 novembre al Salone Polivalente di Venaus sale sul palco la compagnia teatrale “Prometeo” che presenta una lettura delle testimonianze dirette dei deportati nel lager di Bolzano.
“Marta e Olmo, tutte le guerre si somigliano” va in scena venerdì 6 dicembre alla Sala Polifunzionale di San Didero, alle 20.30 con la storia delle “portatrici” carniche.
La rassegna si conclude sabato 7 dicembre a Chianocco con la proiezione del documentario “Crossing The Wall”, della regista Grazia Dentoni, che racconta le vicende della prima scuola di circo in terra Palestinese.
L’evento è organizzato dall’associazione Il Mutamento Zona Castalia di Torino in collaborazione con Terre di Nad a Chianocco (To) e la Pro Loco di San Didero(To).
Articolo di Susanna Ricci-
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
-Un racconto che ci invita a confrontarci su tematiche importanti-
Roma- al Teatro 7 va in scena 24 ore dl 12 novembre all’8dicembre 2024 – Sintesi e trama-Una valigetta di piccole dimensioni, pratica, non pesante, che potremmo riempire di ricordi, da recuperare con facilità all’occorrenza …24 ore è anche il nome di una competizione sportiva “di durata”, una corsa contro il tempo, che inesorabilmente scorre, senza tornare indietro…24 ore è la durata di una giornata, che spesso e volentieri se ne scappa via, nella convinzione che tanto ci sarà un dopo, un domani nel quale recupereremo le cose non fatte e, soprattutto, non dette…24 ore è l’arco temporale di questo racconto: sei storie intrecciate l’una con l’altra da legami affettivi; un racconto, anche molto divertente, che, nello stile degli autori, ci invita a confrontarci attraverso un sorriso, su tematiche importanti…
E sulle quali riflettere, almeno, per le successive 24 ore!
in scena dal 12 Novembre – all’8 Dicembre
COMPAGNIA TEATRO 7con Sergio Zecca – Tiko Rossi Vairo -Francesca Baragli – Maria Teresa Pascale – Cristina Odasso- Alessio Chiodini
di Michele La Ginestra e Adriano Bennicelli-regia Michele La Ginestra
orario spettacoli: dal martedì al sabato ore 21.00; domenica ore 18.00
sabato 7 dicembre h18 e h21
biglietti: intero € 25,00/€ 28,00; ridotto € 20,00/€ 22,00 (prev. compresa)
Poesie di Massimo Ferretti “Allergia” (1952-1962)-
Giometti & Antonello Editori-Macerata
Una volta ancora, la casa editrice Giometti e Antonello di Macerata ha fatto insorgere con le Poesie di Massimo Ferretti un’opera fondamentale da quella cupa fangaia dove vengono gettati gli autori di cui non si è potuto fare un calco preciso. In questo caso si tratta di Allergia, breviario dell’inappartenenza composto dal poeta Massimo Ferretti e stampato per Garzanti nel 1963: «Nella mia vita il viaggio resta il segno / di ciò che doveva essere la vita / se l’avessi capita troppo tardi. / Ma ho capito tutto troppo presto / e ogni viaggio è uno spostamento / da una solitudine a un silenzio». Lette oggi, queste sue parole imbevute di torto mi appaiono come lividi in rilievo, e in ogni nicchia gelata vi spio una lotta per riportarvi calore.
Nato a Chiaravalle il 13 febbraio del 1935, Ferretti morirà a 39 anni a causa di un problema cardiaco, quell’endocardite reumatica che contribuì a fare della sua esistenza il resoconto di chi del mondo ha visto soprattutto le secche, le stretture, e che nonostante ciò ha sparso un rigo d’inchiostro per ogni fitta: «Il suo sperimentare» scriverà Pasolini «non è altro che il suo attaccarsi alla vita: un solo gesto, cioè, che per valere deve essere sempre diverso.». Certo: Ferretti si tormenta, prende congedo, e sembra tramare uno sciopero ogni volta che va a capo. Eppure è proprio questo tenace adoprarsi per fare del libro un perenne scuotimento che bisogna insistere a chiamare poesia.
Così il verso di Ferretti, proprio quando sembra ripararsi nella soffitta della decadenza, ci esorta piuttosto a stravolgere la rovina, a guastare festosamente qualsiasi sentore di prosciugamento, di siccità. Soprattutto, a reclamare la vita: «[…] Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi […] Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare».
Di seguito, pubblico una selezione di poesie dal volume, per gentile concessione degli editori, che ringrazio.
Da Ad un giradischi
(Il Donchisciotte della Rabbia)
[…]
Volevo andare a scuola d’ottimismo
quando mi accorsi d’essere felice.
Come chi dice di fotografie lasciate
allo stato negativo
per confortare di contorni bianchi
il buio delle parti addette all’anima
e un alfabeto d’onomatopee:
rutto / pernacchia / fischio / gargarismo /
e un finale a sorpresa di
risate.
È aperto – vi prego – non bussate.
***
Da I versi urbani
Tra il pollice e l’indice è tesa
un’arpa di nichel o d’argento…
… colore incontrollabile!:
con il lampione lontano
e l’interruttore sul muro
alle spalle della finestra
da cui ti contemplo dormire.
Ma in questa minuscola rete
è presa «tutta la storia»:
i tetti del centro
gli alberi del rione
la Cupola e l’Antenna
Eliogabalo e Accattone
Catullo e Sandro Penna
i preti i preti i preti
le stelle i culi le mammelle
il muschio dei governanti
i vespasiani i ruderi i fascisti
la libertà del meccanismo
i direttori i redattori i professori
i feti gli aborti i figli –
i sette colli della tua leggenda
e i sette giorni della mia settimana…
Città-capitale,
io ti guardo dal filtro della sostanza
che ho estratto dai buchi del naso
con l’unghia del dito minore.
***
Da Deoso
[…]
Già sento malfidi tremiti,
ecco che il falbo sole s’assiepa!
Il fluire di rabidi fermenti diviene costante… Ecco strabocca!
Ti s’è svegliato il cuore! Sobbuglia!
Più forte ansima su di me con le tue creste,
squassa, divelgi, sfacela questo corpo
che avvelena l’aria che respira
che agita la sabbia dei deserti
che toglie luce al sole.
Il tuo rabbuffoso fermento,
credimi, non è un tormento.
Arremba su di me una sola minaccia:
che tu ti stenda in quieta bonaccia.
E già grandeggia il rumore del silenzio,
seviziatore e tiranno dei suoni…
Lontani si protendono i monti,
dai bivacchi dei pastori s’alzano sopiti fumi –
qui i fari pascolano con i loro lumi.
O voce, questa notte di cinigia
m’è più dolce d’un’alba bigia.
Vi fu, sempre, una intransigenza. A Carlo Antognini, interessato alla sua opera, il 3 maggio 1967, scrive, recisamente, “Vorrei, in breve, che fosse evitato ogni riferimento a padrini (reali o presunti) a premi letterari (vinti o perduti) all’appartenenza a gruppi letterari (presente o passata), ecc.”. Già allora, a 32 anni – era nato a metà febbraio, nel 1935, a Chiaravalle – Massimo Ferretti tornava sulle sue tracce, cancellandole. Benedetto da una allucinata precocità, Ferretti scrive uno dei libri emblematici – e perciò remoti fino al pungolo dell’oblio – del secondo Novecento, Allergia. L’aveva scritto meno che ventenne, questo Dino Campana marchigiano, con una lampeggiante – e tutt’altro che ingenua – giovinezza, con un gesto d’ustione sul corpo della poesia – montaliana, ungarettiana, luziana – italica. Leggete questa, dal titolo emblematico, Polemica per un’epopea tascabile:
Sono un animale ferito.
Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato.
Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati.
Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato.
Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi organizzati nelle palestre, educati nelle caserme, ammaestrati nelle scuole: per la morte veloce delle bombe, per la morte lenta degli orologi delle seggiole dei telefoni.
Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare.
*
Vanno fatte giocare insieme, gemelli contrari, secondo me, le parole “polemica” ed “epopea”, “tascabile” e “ferito”. Ogni epos ha il gergo di polemos. C’era un ragazzo, insomma, che aveva fiducia lirica e coscienza storica, che si sentiva espulso e sputato, “con un bigino di Marx nella tasca della blusa e pillole di Leopardi nell’altra”, sintetizzavo – giovanilista pure io – inserendolo tra i Maledetti italiani (il Saggiatore, 2007), per merito di due maledetti lettori, Flavio Santi e Massimo Raffaeli.
*
Prima di voltare le spalle al mondo, gettando sale sul fatto letterario, per occuparsi, a Jesi, nei tardi Sessanta, dell’azienda del padre, d’ambito edilizio, Massimo Ferretti fu il prodigio della poesia italiana. A promuoverlo e a esortarlo al verso fu Pier Paolo Pasolini, privatamente (“sei un mistero davvero appassionante”), poi al pubblico, su “Officina”, nel 1956, dicendo del “caso di questo ragazzo ventenne, traumatizzato e quindi prematuramente rivelato a se stesso da un’endocardite reumatica” che “è veramente unico, preistorico meglio che pregrammaticale, malgrado la sua straordinaria maturità”. Ferretti, per sempre incluso in una battagliera giovinezza, aspra, rigettò il vezzo tragico di Pasolini – come testimonia la lettera che si pubblica – soprattutto quando si confronta con la tragedia vera, nel 1959, il suicidio del cugino venticinquenne. Tuttavia, a Roma frequenta, tiepidamente, Bertolucci e Siciliano, passeggia lungo i convegni del Gruppo 63 e nel 1963, per Garzanti, pubblica Allergia, ricavandone un Viareggio per l’opera prima. Il libro, vigoroso, anomalo, poi dimenticato, fu recuperato da Raffaeli per Marcos y Marcos nel 1994 e risorge oggi per Giometti & Antonello insieme ad altri documenti (le lettere, ad esempio) che dicono l’indole del poeta.
La parabola letteraria di Ferretti si dice presto. All’onda del successo poetico s’aggiungono due romanzi, Rodrigo (ancora Garzanti, 1963) e Il gazzarra (Feltrinelli, 1965); qualche incarico nel mondo editoriale – un passaggio in Longanesi, la traduzione, per Astrolabio, di testi di antropologia, e, per Feltrinelli, di Tra, romanzo sperimentale di una scrittrice da riscoprire, Christine Brooke-Rose – e niente. Segue, per disposizione d’indole, il rifiuto d’un mondo che si avverte già marcato dal mercato, prono all’abuso estetico, inutile e inerte, insomma (a Gianfranco Canestrari, nel 1970, “Lo snobismo di sinistra – la politica come afrodisiaco – è una cosa che m’ha fatto sempre schifo, ma Feltrinelli e C. hanno proprio rotto gli argini del disgusto. E intanto sto ad aspettare traduzioni che nessuno mi manda”). La morte precoce – nel 1974 – i carati del carattere (che non le mandava a dire), ne hanno garantito, da un lato, la palude dell’oblio, dall’altro il culto, per intimi.
*
Di questo Donchisciotte della Rabbia (così una sezione del libro) vanno amate le poesie inquiete, l’imperfezione, le provvidenziali sbavature, gli sbalzi lirici. Come questo, che ha nome Anch’io sono il mare.
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo
ruberanno la fiamma al fuoco
e violeranno l’aria fin dove sospira,
ma il mare resterà il mare:
l’eterna emozione
l’elemento senza futuro.
Si sanno le piaghe aperte dalle navi
i delitti delle reti
e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle,
ma il mare non cambia colore.
Non dico questo
perché ho segreti di conchiglie ribelli,
e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte
ma la mia stella incrociava altre acque
e nel libro del buio stava scritto
che il volto delle meduse
lo avrei trovato nella gente di terra:
e gli sono cresciuto lontano
con la misera invidia per i suoi sereni peccati
fatti di sole e di carne spogliata,
e ho accettato la sua potenza,
i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso,
e l’onda del nord senza sogni.
Ma non ho avuto pazienza:
e l’acqua è rimasta col sale;
non ho avuto pazienza
perché anch’io sono il mare.
*
L’austera innocenza di Ferretti è un dono – d’altronde, quasi mai l’epoca riconosce i suoi. (d.b.)
***
A Pier Paolo Pasolini, Roma Jesi, 1 luglio 1959
Caro Pier Paolo,
«Molte volte un poeta si accusa e calunnia… »
mi hanno dirottato da Perugia la tua lettera che disgraziatamente non s’è perduta per la strada. Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente.
1) Il «desiderio di morire» appartiene alla tua psicologia, alla mia è del tutto estraneo. A 16 anni quando con la bicicletta mi sono buttato sotto un’auto (e s’è rovinata solo la bicicletta) l’ho fatto per disperazione «fisica»: da due anni una nevralgia reumatica nella zona del mediastino mi tormentava giorno e notte, e solo la morfina o gli ingorghi di stanchezza mi procuravano un dormiveglia di due ore una volta al mese: questa è «realtà» non auto-tenerezza, come è «realtà» – e non auto-esaltazione – il fatto che io non sono mai stato il malatino che fa pena; ma un «che peccato!», un’«incongruenza della natura», un «atleta fallito»: ho sorbettato queste qualifiche per tutta l’adolescenza: dal più scalcinato medico di campagna, al grande clinico, al colonnello-medico della visita di leva. Se ho registrato il «sentimento della morte» l’ho fatto per celebrare la vita. Io ho sempre desiderato vivere: e più stavo male, più volevo guarire.
2) Né l’Italia né io siamo in pericolo per il mio presunto e potenziale fascismo: l’Italia – come sempre – è minacciata dalla sua sacra ed eterna Natura, io dall’Indifferenza. Se scrivo di voler diventare un reazionario nello stesso momento so di aver semplicemente bestemmiato. A 17 anni, al tempo di Allergia, (quando ero «unico», «eccezionale», «straordinario») cercavo l’«immunità»: e tu sai che questo giovanotto «sufficientemente poeta» è sempre stato sufficientemente imprudente nel mondo dominato dalla «brutalità della prudenza». E tieni presente che ciò che io ho subito come si subiscono gli irrazionali fenomeni della natura, tu hai avuto modo di vederlo e capirlo: nel ’40 tu avevi 18 anni, io 5 (cfr. La Croce Copiativa).
3) Quanto al narcisismo schematizzi troppo. Io ho 24 anni. E se mi rimproveri di scrivere in prima persona (Leonetti direbbe in persona prima), mi costringi a guardarti con sospetto: «Se la nuova poesia si limita a denunciare in falsetto le ovvie miserie dei pastori e dei contadini a che cosa serve? Denunci, invece, quel proprio interno vizio conformistico…» scrivevi sul «Punto» del 25 maggio 1957 a proposito dei poeti meridionali, ma era un avvertimento che valeva per tutti. Allora: sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi? Non offre altre alternative la tua lettera acida in cui hai approfittato del mio dolore per fare il moralista a buon mercato. Lo saprò quest’inverno. Per ora ti prego soltanto di sopportare la noia della mia amicizia di cui tu non sai che fartene: io ho bisogno della tua: ti ho incontrato in un’età difficile e per me sei rimasto una presenza quotidiana. Che ti costa una lettera di otto righe, una volta all’anno? In bocca al lupo e rallegramenti anticipati per i premi; spero poi che avrai superato il trauma del trasloco e che i libri e i mobili siano in perfetto ordine. E i soliti abbracci sempre molto affettuosi, tuo
Massimo Ferretti
P.S. Mio cugino ha bisogno di molto silenzio: ora che appartiene ai commenti dei paesani.
Biografia di Massimo Ferretti nasce a Chiaravalle nel 1935.Sin da piccolo l’endocardite reumatica lo costringe a ripetuti ricoveri ospedalieri. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale si trasferisce con la sua famiglia nei pressi di Belvedere Ostrense. La sua passione verso lo studio del pensiero di poeti come Rimbaud, Eliot e Montale lo spinge a scrivere i suoi primi versi. Ha con il padre un rapporto conflittuale, dettato dal suo scarso interesse per lo studio. Pier Paolo Pasolini pubblica su “Officina” alcuni estratti dalle sue prime prove in versi. Dietro pressioni paterne si iscrive a giurisprudenza a Perugia. La morte suicida di un suo cugino lo sconvolge determinando l’avvio di un lungo periodo introspettivo. Collabora con “Paese Sera”e “Il Giorno”. Partecipa anche ad un concorso come programmista indetto dalla Rai, ma le sue cagionevoli condizioni di salute non gli danno la possibilità di superare la selezione. Successivamente, i rapporti con Pasolini si incrinano a causa del suo interesse riposto per il Gruppo 63. A seguito della morte del padre è costretto ad immergersi nell’attività lavorativa. Studia e perfeziona a Londra la lingua inglese. Nel 1968 riprende a scrivere svolgendo anche l’attività di traduttore. Nel 1974 la morte lo coglie nel sonno. Riposa nel cimitero di Jesi.
In versi pubblica:
Allergia. Prefazione ad una giovinezza(Jesi, Tipografia Civerchia, 1955);
Allergia (1952-1962)(Milano, Garzanti, 1963; Premio Viareggio “Poesia, opera prima“ 1963). L’opera viene ristampata da Marcos y Marcos nel 1994 e da Giometti & Antonello nel 2019.
In narrativa pubblica i romanzi:
Rodrigo (Milano, Garzanti, 1963);
Il gazzarra (Milano, Feltrinelli, 1965).
Premessa dell’autore a Deoso. Rappresentazione poetica (1954)
Questo nuovo mito è dedicato a tutti coloro che credono – anche se non con troppa fiducia – in un mondo interminato fatto a strati che ogni età, con la sua civiltà, colma, ma non completa; e che il tempo rende sempre più difficile a riempire la parte nuova, perché il progresso si scrolla di dosso anche delle scorie, inevitabili eredità per chi resta. Come ai figli generati dagli uomini e dalle donne che vissero in una ipotetica età dell’argento – se la vogliamo lontana da noi – o dell’uranio – se la preferiamo più vicina – in cui la paura pesava tutta sulle spalle di un capro espiatorio: Deoso, un infelice bastardo, figlio non riconosciuto della Paura e del Genere Umano.
di Massimo Ferretti
[Massimo Ferretti (1935-1974) è un poeta da riscoprire. Nato nella provincia marchigiana (a Chiaravalle) e morto a Roma, Ferretti ha vissuto sempre ai margini della letteratura ufficiale, pur conquistandosi con le sue opere diversi riconoscimenti importanti, come il Premio Viareggio Opera Prima per la raccolta Allergia (Garzanti, 1963), e pur avendo interlocutori e consiglieri d’eccezione come Pier Paolo Pasolini (cui è dedicata Lode d’un amico poeta, leggibile di seguito) e Antonio Porta. Affetto da una malattia cardiaca che, secondo la sua stessa interpretazione, lo costrinse a sperimentare una forma di «alienazione particolare» che si tradusse poi in quella «professionale» della scrittura, Ferretti nasce come poeta con un libro notevole che oggi finalmente la casa editrice Giometti & Antonello ci permette di rileggere: Allergia, per l’appunto, che nella sua prima edizione autoprodotta del 1955 reca il sottotitolo Prefazione ad una giovanezza e una nota in cui l’autore spiega ciò che l’ironica deformazione del titolo ungarettiano per eccellenza dovrebbe suggerire istantaneamente ai lettori: «Questa “allergia”», scrive Ferretti, «va intesa come immunità possibile e necessaria d’una malattia ben diagnosticata: la storia, insomma, d’una presenza delusa ma non sconfitta». Un’autodiagnosi perfetta, verrebbe da dire, e quasi, a posteriori, un commento del destino letterario di questo marchigiano irregolare e quasi crepuscolare (perlomeno come poeta e prima dell’adesione al Gruppo 63), che del grande archetipo leopardiano eredita per esempio il rapporto di amore-odio con una provincia che sentiva meschina, arida o, meglio, agghiacciante, come una delle più belle poesie di Allergia, I colori del gelo (riprodotta qui sotto), dichiara nei suoi versi finali: «La mia provincia verde di colline / la mia valle torbida di nebbia / il paese dove sono nato / la casa che mi ha cresciuto – / tornarono nel buio del paesaggio / che il treno divorava nella corsa: / venivo da loro e a loro ritornavo, / ma loro non mi offrivano la vita: / m’offrivano il teatro di me stesso / per monologare all’infinito / lucidando l’archivio degli errori, / vitali colori del mio gelo».
*
Polemica per un’epopea tascabile
Sono un animale ferito.
Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato.
Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati.
Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato. Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi
organizzati nelle palestre, educati nelle caserme, ammaestrati nelle scuole: per la morte veloce delle bombe, per la morte lenta degli orologi delle seggiole dei telefoni.
Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare.
*
Ballata interrotta
Gioia infinita di sentirsi
nel coro; di dire: anch’io canto
con loro. Non sono belle le loro
canzoni, ed essi hanno
la voce stonata. Eppure ora tace
la capra stranita legata
all’albero magro. Non è il frastuono
che strozza i belati: anch’essa ha visto
quelle ironiche bocche far saltare
l’allegria lungo i campi. – Non m’ammazzare, bionda, sono giovane! – Coraggio! Pedala: scopri i ginocchi! – Hei bionda, svicola: e avrai cento amanti!
Ma passa la bionda ciclista
e viene una siepe di filo
di ferro che senza sfiorarmi
mi squarcia la carne e il cuore mi sfibra:
rammenta una sorte. E non sono
nel coro. Io sono solo.
*
Anch’io sono il mare
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo
ruberanno la fiamma al fuoco
e violeranno l’aria fin dove sospira,
ma il mare resterà il mare:
l’eterna emozione
l’elemento senza futuro.
Si sanno le piaghe aperte dalle navi
i delitti delle reti
e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle,
ma il mare non cambia colore.
Non dico questo
perché ho segreti di conchiglie ribelli,
e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte
ma la mia stella incrociava altre acque
e nel libro del buio stava scritto
che il volto delle meduse
lo avrei trovato nella gente di terra:
e gli sono cresciuto lontano
con la misera invidia per i suoi sereni peccati
fatti di sole e di carne spogliata,
e ho accettato la sua potenza,
i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso,
e l’onda del nord senza sogni.
Ma non ho avuto pazienza:
e l’acqua è rimasta col sale;
non ho avuto pazienza
perché anch’io sono il mare.
*
Lode d’un amico poeta
Tu sei della stirpe di chi vince:
il male che scalfisci non ti tocca,
la tua maturità non ha timori –
ma non ripetermi che qui è la foresta,
che l’uomo è sempre una rivolta in atto,
che il verbo del poeta è la pietà:
una rondine sottratta alla corrente.
E un giorno non mi capirai.
Entrerò nella turba dei Falliti
con l’umiltà che sempre mi ha distinto;
brucerò tanta rabbia dentro il cuore
che l’inferno tremerà nel riscaldarmi:
e avrò anch’io un duro contrappasso:
sarò il bullone d’un ponte americano.
La tribù degli eroi delle parole,
ripiegata sui freddi tavolini
dove la carta brucia nella penna,
si presta a certi sbagli disumani:
ed ecco i fumatori di matite,
i coppieri dei calamai ammuffiti,
gli alfieri delle «leggi» del partito,
i sacrestani delle muse benedette:
una folla assurda e senza volto
che nuota nell’inchiostro
con la scienza della carta-calcante.
E la marea li mescola agli onesti:
ai profeti della giustizia anchilosata,
alle trombe medievali della Croce,
agli amanti delle immagini rapite.
Ma il tuo sangue non vive in questi lacci:
e io brucio stelle pel tuo canto vergine
turbato solamente dalla vita!
Io brucio stelle pel tuo verso barbaro
fermato nelle canzoni verdi
dell’uomo vivo, immerso nella terra.
Il vento di Provenza che lo scuote
è il rifiuto della pace degli antichi,
l’insulto alla vergogna del ricatto sociale,
l’urlo per la misura della morte.
Ma l’ansia di toccare il cuore al mondo
t’ha piegato al torpore della Lingua
che hai destato in difficili rime.
E l’Italia salvata nelle origini
rivive nel profumo della luce:
ed ecco i fiumi inquieti dell’infanzia,
la cupa adolescenza delle ombre,
gli ardori consumati nel silenzio,
i passi svuotati nelle strade,
la costante follia della Chiarezza,
la nostalgia invincibile dell’alba,
la solitudine accettata come un pegno
da risolvere in numeri di vita.
La tua origine è un’onda mostruosa
che ha radici negli abissi della luna,
il tuo pianto è una luce senza limiti
che libera dal buio esseri veri,
e il tuo furore critico
che incendia foreste filologiche
e scava negli angoli dell’anima
in fondo non conosce che una meta:
il tropico del canto corrisposto
dove il cuore è il calore della terra
e il popolo il palpito del mondo.
*
La coltivatrice diretta
Sono salito su un colle sottovento
perché la voce risultasse chiara
e ho gridato critiche gelate
alla mira del fratello adolescente:
ma lui non m’ascoltava affatto
e continuò a sparare
senza sbagliare un bersaglio
con i suoi polsi di roccia
guidati da l’occhio sereno.
E anch’io ho preso a sparare
pel gusto di esplodere colpi:
ho sparato su lampadine fulminate
su barattoli vuoti di conserva
su una lady delle pellicole «ferrania»,
scollatissima e a formato naturale,
su coperchi di scatole di scarpe
su defunte bottiglie di spumante –
e su tutta l’angoscia del mondo.
E per ogni bersaglio centrato
ho ballato nel verde del grano:
e la fresca rugiada del grano
m’ha invaso e passato i calzoni
dai piedi fino alle cosce.
E sono corso fino a un casolare
per portarvi la festa del fuoco
che hanno acceso per farmi asciugare:
e ho bagnato la gola asciugata
dal fuoco di troppe parole sconvolte
nel secchio ramato del latte
munto all’istante dalla ragazza più giovane
stordita dal fuoco e dal latte
bevuto nel secchio ramato
per bagnare la gola asciugata
dalle risate scavate da troppe parole sconvolte –
e lei m’ha pulito le scarpe
e lei m’ha asciugato i calzini
provando il secco calore
sulla sua guancia di perla.
Che importa salire,
che vale varcare la porta del mondo? –
se la vita è in fondo alle scale.
*
I colori del gelo
Nella mia vita il viaggio resta il segno
di ciò che doveva essere la vita
se l’avessi capita troppo tardi.
Ma ho capito tutto troppo presto
e ogni viaggio è uno spostamento
da una solitudine a un silenzio:
da un’attesa a un tacito possesso.
Non posso non fermarmi al corridoio
d’un rapido treno della notte,
pieno di tedeschi d’ogni sesso
e di reclute del nostro nuovo esercito.
– Dal congedo delle insegne luminose
dal patetico gergo dei consigli
salva, frau, questo provinciale!:
la tenerezza che sale da un abisso
è una luce che mi fa tremare,
la rivolta d’un reietto è una canzone,
il sole è il calore d’un relitto.
Sì, questa notte non sono entrato
perché sono un maschio in borghese
e non sono più un ragazzo
(«militari e ragazzi metà prezzo»):
sarò un alpino e avrò una penna nera,
non starò più attaccato a un finestrino
a decifrare teoremi neutrali
su estetiche statali e militari.
L’esercito amava alle mie spalle,
ma io non sono un soldato dell’esercito:
io sono un soldato della vita
e stanotte ho giocato una partita
molto più dura di quelle che faranno
i soldati che stanotte ti hanno avuta
e quelli che dormivano beati
nelle scomode amache improvvisate
con le retine dei portabagagli
e quelli incastrati nei sedili
tra tedeschi saturi di birra
e l’incenso dei piedi senza scarpe.
Davanti al vetro in cui ti specchi
per pettinare in pace i tuoi capelli
e mi chiedi perché non sono entrato
e mi dici che sarò un alpino,
stanotte ho guardato il mio destino.
La mia provincia verde di colline
la mia valle torbida di nebbia
il paese dove sono nato
la casa che mi ha cresciuto –
tornarono nel buio del paesaggio
che il treno divorava nella corsa:
venivo da loro e a loro ritornavo,
ma loro non mi offrivano la vita:
m’offrivano il teatro di me stesso
per monologare all’infinito
lucidando l’archivio degli errori,
vitali colori del mio gelo.
È inutile, ragazzo, pensare di correre se il cuore ha le valvole bruciate;
è inutile moltiplicare un metro di bosco e chiamarlo jungla, o voltare le spalle al mare e chiamare la sabbia deserto;
è inutile prendere la tessera al partito per sentirti comunista, o girare un disco di negri per sentirti negro:
e avere un motivo per protestare.
Il mondo non si accomoda, ma questo non è un male.
Il male è che il sabato continua a fare il padrone e la domenica la serva avvilita:
perché la carezza sognata può essere un miracolo azzurro e quella avuta è solo un vento di mano.
Ragazzo, tu sarai l’uomo che leggerà nel giornale come va avanti il mondo –
non darti pensiero di lasciare il posto pulito
e non picchiare tua moglie quando si vergognerà d’invecchiare:
la giostra girerà lo stesso e il tuo sangue non saprà di sale.
Nota degli editori
Allergia è un libro fondamentale per ridiscutere il canone obsoleto della poesia italiana del Novecento a partire dai senza patria, dagli scrittori irregolari e dalle individualità non facilmente catalogabili in una suddivisione per correnti. E l’autore ne era ben consapevole, se ancora ventenne scriveva in una lettera: «Dal ’52 in poi ho letto con passione e disordine diversi libri di poesia – buoni e cattivi –; tutti mi hanno dato qualcosa ma nessuno mi ha offerto un mondo da continuare.» E dodici anni dopo, nel comunicare una sua nota biografica: «Vorrei, in breve, che fosse evitato ogni riferimento a padrini (reali o presunti) a premi letterari (vinti o perduti) all’appartenenza a gruppi letterari (presente o passata), ecc.» Questa sua vocazione all’inappartenenza lo colloca naturalmente a fianco di autori già presenti nella nostra collana, come Armand Robin con il volume L’indesiderabile, o Marcello Barlocco, di cui a breve riproporremo i racconti. La notorietà in vita di Massimo Ferretti (Chiaravalle 1935 – Roma 1974) è legata alla pubblicazione della sua unica raccolta poetica, Allergia, la cui versione definitiva vede la luce nel 1963 per l’editore Garzanti e arriva a vincere il Premio Viareggio «Opera prima». Pubblicherà anche due romanzi, Rodrigo per Garzanti nel 1963 e Il gazzarra per Feltrinelli nel 1965, prima di abbandonare deluso la scena letteraria e rilevare l’attività commerciale del padre. Canzoniere crepuscolare e irrequieto di piccole vicende marginali di vita privata – dalle tragicomiche cronistorie familiari, sempre al limine tra parodia del poemetto storico e vocazione alla ballata, ai tableaux di ilare disperazione di una vita universitaria cui si sente fisiologicamente ostile, dall’isolamento marchigiano ai deserti delle relazioni culturali a Roma cui partecipa da estraneo – Bildungsroman auto-ironico e sentimentale «di un adolescente che diventa uomo» e infine scrittore, Allergia è la storia di una irriducibilità assoluta e irredimibile della vita poetica a qualsiasi norma umana o letteraria. Anche per questo, nonostante qualche meritorio tentativo, il libro è rimasto fino ad oggi in ombra, fra gli oggetti sommersi e inconoscibili della letteratura italiana per cui non si riusciva a trovare una via di recupero. Confidiamo che conquisti grazie a questa riedizione il suo spazio adeguato.
«La notorietà in vita di Massimo Ferretti (Chiaravalle 1935 – Roma 1974) è legata alla pubblicazione della sua unica raccolta poetica, Allergia, la cui versione definitiva vede la luce nel 1963 per l’editore Garzanti e arriva a vincere il Premio Viareggio “Opera prima„. Pubblicherà anche due romanzi, Rodrigo per Garzanti nel 1963 e Il gazzarra per Feltrinelli nel 1965, prima di abbandonare deluso la scena letteraria e rilevare l’attività commerciale del padre.
Canzoniere crepuscolare e irrequieto di piccole vicende marginali di vita privata – dalle tragicomiche cronistorie familiari, sempre al limine tra parodia del poemetto storico e vocazione alla ballata, ai tableaux di ilare disperazione di una vita universitaria cui si sente fisiologicamente ostile, dall’isolamento marchigiano ai deserti delle relazioni culturali a Roma cui partecipa da estraneo – Bildungsroman auto-ironico e sentimentale “di un adolescente che diventa uomo„ e infine scrittore, Allergia è la storia di una irriducibilità assoluta e irredimibile della vita poetica a qualsiasi norma umana o letteraria.»
Roma al Teatro Manzoni -“Donne in pericolo”-Una commedia frizzante e irresistibilmente divertente-
Roma –Teatro Manzoni-Quando una donna di mezza età, reduce da un divorzio difficile, si fidanza e ritrova la passione, è sempre una gran bella notizia!
“La vita è in grado di riservare delle sorprese!“, “Non è mai troppo tardi!“, “A cinquant’anni ho ritrovato la mia femminilità!“, sono tutte frasi iconiche, stampate nell’immaginario collettivo, simbolo di speranza di un’esistenza piena, ricca e soddisfacente. Tutto bellissimo. Ma come la mettiamo con le amiche?
L’arrivo di un uomo rende tutte felici, anche solo per spirito di solidarietà femminile ma, diciamoci la verità, va anche a compromettere certe abitudini: c’è meno tempo a disposizione, ci si isola un po’ e questo può scatenare qualche forma di invidia o, peggio ancora, di gelosia.
È proprio quello che succede in DONNE IN PERICOLO, una commedia frizzante e irresistibilmente divertente, in cui Mary e Jo sono determinate a recuperare la loro amica, caduta nelle grinfie di un nuovo amore che la sta pericolosamente allontanando da loro. Tra inquietanti serial killer, strambi poliziotti e ragazzi un po’ troppo spregiudicati, si snoda una vera propria avventura fatta di tranelli, sospetti, frecciatine e colpi bassi, in cui la determinazione delle donne e la loro capacità di fare squadra, la fa da padrona.
Il messaggio agli uomini è molto chiaro: prima ancora di sedurre la donna che vi piace, conviene conquistare le sue amiche!
Tournée 2024-25
dal 7 al 24 novembre TEATRO MANZONI – ROMA
29 novembre TEATRO BORGATTI – FERRARA
30 novembre BELLUNO
1° dicembre TEATRO SAN DOMENICO – CREMA
13 dicembre AURORA CINEMA E TEATRO – CAMPODARSEGO (PD)
14-15 dicembre TEATRO VILLORESI- MONZA
28-29 dicembre TEATRO TEAM – BARI
9 gennaio TEATRO POLIETAMA- BRA (CN)
10 gennaio TEATRO COMUNALE – CASALMAGGIORE (CR)
11 gennaio TEATRO BELLINI – CASALBUTTANO (CR)
12 gennaio TEATRO GONZAGA ILVA – BAGNOLO IN PIANO (RE)
16 gennaio AUDITORIUM BENEDETTO XII – CAMERINO (MC)
17 gennaio CINE TEATRO LA PERLA -MONTEGRANARO (FM)
DONNE IN PERICOLO
DI WENDY MACLEOD
Con (in ordine alfabetico)
VITTORIA BELVEDERE – BENEDICTA BOCCOLI – DEBORA CAPRIOGLIO
Con ERMENEGILDO MARCIANTE
BEATRICE COPPOLINO e CLAUDIO CAMMISA
Regia di
ENRICO MARIA LAMANNA
Traduzione e adattamento
MARIOLETTA BIDERI – ENRICO MARIA LAMANNA
Roma Capitale- Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia-
Roma- Le origini del Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia risalgono al 727 d.C., quando il re dei Sassoni Ina istituì la “Schola Saxonum” per dare ospitalità ai pellegrini diretti alla Tomba dell’Apostolo Pietro. Fu eretto sull’area anticamente occupata dagli “Horti” di Agrippina Maior (14 a.C. – 33 d.C.), costruzioni imperiali, ampi e sontuosi giardini che dal Gianicolo si estendevano lungo la riva destra del Tevere. In alcuni ambienti sottostanti l’antico Ospedale sono ancora visibili resti di pareti di opusreticulatum, pavimenti a mosaico, sculture e affreschi.
Considerato uno dei più antichi ospedali d’Europa, il Santo Spirito in Sassia sorse a sostegno dei poveri, dei malati e degli infanti abbandonati, come testimonia ancor oggi la Ruota degli Esposti posta all’esterno dell’edificio.
Restaurato e ampliato nel corso dei secoli, il Complesso è composto dalle Corsie Sistine, dai Chiostri dei Frati, delle Monache e delle Zitelle (o “chiostro del Pozzo”) e infine dal Palazzo del Commendatore (che ne è un ampliamento cinquecentesco), a opera dell’architetto Giovanni Lippi.
Il Palazzo, costruito attorno a un elegante cortile quadrangolare, è ornato da una fontana del XVII secolo e da un orologio ottocentesco a sei ore e ospita l’antica Spezieria, in cui furono condotte numerose ricerche farmaceutiche e dove vennero triturate le erbe medicamentose, di cui oggi sono testimoni le collezioni di antichi vasi e mortai.
Oggetto di un attento restauro terminato nel luglio 2022, le Corsie Sistine furono realizzate su incarico di papa Sisto IV della Rovere nella seconda metà del Quindicesimo secolo. La struttura, costituita dalla Corsia Lancisi e dalla Corsia Baglivi, è lunga 120 metri e larga 13. Le Corsie furono utilizzate dapprima come luogo di degenza e, dal ‘600, come lazzaretto. Un ciclo di affreschi di scuola umbro-laziale, che si sviluppa una superficie di oltre 1200 mq e la cui estensione è seconda solo a quella della Cappella Sistina, ne orna il perimetro superiore. Le Corsie sono collegate da un tiburio ottagonale sotto il quale potete ammirare l’unica opera romana di Andrea Palladio, un raffinato ciborio sormontato da due putti attribuiti ad Andrea Bregno, autore anche dei due maestosi portali d’ingresso.
Nei secoli successivi, il Complesso ospedaliero si sviluppò ulteriormente, con l’edificazione della Sala ospedaliera Alessandrina, oggi adibita a sede del Museo di Storia dell’Arte Sanitaria.
Al suo interno, sono conservate diverse importanti collezioni: quasi 400 pezzi tra ceramiche e vetri farmaceutici, arazzi, sculture e rilievi; circa 300 tra opere pittoriche, disegni e stampe, numerosi affreschi, grottesche e altre decorazioni pittoriche parietali; 20.000 volumi a stampa di cui circa 60 incunaboli, 2.000 cinquecentine e 374 preziosi manoscritti di epoche diverse, 2 codici pergamenacei degli scritti di Avicenna e il più conosciuto Liber Fraternitatis Sancti Spiritus; due globi di Vincenzo Coronelli (un globo terrestre ed uno celeste del 1600); duesfere armillari in ottone e una diottra utilizzata nel rilevamento topografico per determinare e tracciare le visuali, testimonianze uniche della cultura scientifica romana in età moderna.
Informazioni
Indirizzo
Borgo Santo Spirito, 1-2
Orari
Per le modalità di accesso e gli orari della visita rivolegersi ai contatti soprandicati
Fonte-Roma Turismo-Dipartimento Grandi Eventi, Sport, Turismo e Moda.
Via di San Basilio, 51
00187 Roma
La struttura costituisce il più rilevante complesso di edifici quattrocenteschi romani ed occupa l’isolato adiacente al Vaticano tra via di Borgo Santo Spirito, via dei Penitenzieri, via di Porta Santo Spirito e il Lungotevere Vaticano. Fa parte del quattordicesimo rione di Roma, Borgo, divenuto un quartiere della città tra il 1585 e il 1590 e zona cimiteriale in età romana. L’ampia zona comprende anche Castel Sant’Angelo, l’antico Mausoleo di Adriano, divenuto archivio dei Tesori Vaticani, museo e storico rifugio dei Papi raggiungibile attraverso il camminamento coperto del Passetto. Fino al 1929 anche il vicinissimo Stato della Città del Vaticano apparteneva a Borgo ma, con la stipula dei Patti Lateranensi, il governo di Mussolini lo donò alla Chiesa di Roma di Papa Pio XI.
Borgo deve il suo nome al termine sassone Burg, cioè villaggio fuori dalla città di Roma. Era così anticamente chiamato dai pellegrini a maggioranza Sassoni del Wessex, a sud della Gran Bretagna, che qui arrivavano per venerare la tomba dell’apostolo Pietro. Il seguace di Cristo morì da martire sul colle Vaticano nel 64 o 67 d.C. a seguito delle persecuzioni dei cristiani da parte degli imperatori Claudio e Nerone e divenne il primo Papa della Chiesa Cattolica. L’imperatore Costantino edificò una basilica sulla tomba di San Pietro dopo aver emanato l’editto di Milano nel 313 d.C. con cui sanciva la libertà del culto cristiano e di tutte le altre religioni nell’Impero Romano.
La sede del Complesso sorge sulle rovine della villa di Agrippina Major, nobildonna romana e madre di Caligola. Ancora oggi sono visibili i numerosi resti dell’antica dimora nel sottosuolo delle antiche corsie ospedaliere. Il primo nucleo di Santo Spirito venne fatto erigere dal Papa Simmaco nel V secolo e consisteva in un Hospitium, un luogo di ospitalità con facoltà di dimora, per i pellegrini stranieri. Nel 726, il re del Wessex, Ine, anch’esso pellegrino a Roma per pregare sulla tomba di S.Pietro, fece costruire sopra questo antico luogo di accoglienza, una Schola Saxorum, cioè una corporazione per la comunità dei suoi conterranei inglesi che vivevano accanto alla sacra tomba di S. Pietro. La Schola era formata da un complesso di edifici comprendenti uno xenodochio (dal gr. Xenodochêion: xénos ‘straniero’ e déchesthai ‘accogliere’) o ospizio gratuito per forestieri, pellegrini e malati, oltre ad una chiesa titolata a S. Maria con un cimitero.
Nei secoli successivi la struttura venne abbandonata per limitazione dei flussi di pellegrini e conseguente calo delle donazioni e fu danneggiata da diversi incendi.
Nel 1198, Papa Innocenzo III, ristrutturò il complesso e lo cedette all’ fondato dal frate provenzale e cavaliere templare Guido da Montpellier. L’Ordine lo trasformò in un importante nosocomio con gli interventi dell’architetto Marchionne d’Arezzo e prese il nome di Arcispedale di Santo Spirito in Sassia o Saxia a ricordo della comunità sassone che dimorava in loco. Il più antico regolamento ospedaliero che si conosca, il Liber Regulae ne fissava le regole. Operò per tantissimi anni sia come ospedaletto per l’assistenza agli infermi e la cura delle malattie infettive come la malaria, sia come baliatico per la nutrizione dei trovatelli poveri e malati
con le balie, ma anche come brefotrofio per l’accoglienza degli esposti o proietti, cioè i neonati illegittimi e abbandonati. Papa Innocenzo III volle far qui costruire la rota proiecti (dal lat. proiectare ‘esporre’) o ruota degli esposti su esempio della prima istituita a Marsiglia in Francia nel 1188 che permetteva all’Ordine Religioso di accogliere i numerosi neonati indesiderati che
venivano lasciati, anonimamente, sulla parete esterna dell’ospizio, in un cilindro girevole dotato di una fessura coperta da una grata. È probabile che questa fosse la ruota più antica d’Italia e l’uso è stato abolito per legge solo nel 1923. I bambini venivano qui accolti dalle suore dell’ordine di S. Tecla e marchiati sul piede sinistro col simbolo dell’Ordine di S. Spirito, la croce lorenese a doppia traversa, e registrati in latino come filius m. ignotae ‘figlio di madre ignota’ da cui deriva l’espressione romanesca “fijo de na mignotta”.
Considerato l’ospedale Apostolico e il più antico di Roma godette sempre di sostegno, privilegi, esenzioni e indulgenze tanto che, nel periodo di massima prosperità, poté ospitare fino a 300 infermi e 1000 malati.
Nel XIV s. la struttura conobbe un breve declino sia per il trasferimento del papato ad Avignone (1309-1377) che per la peste del 1348 e il terremoto del
1349 e quasi cadde in rovina totale per mancanza di donazioni e supporti economici dal Vaticano. Verso la fine del 1400, la benefica Istituzione ebbe una rinascita architettonica, artistica e patrimoniale grazie a Papa Sisto IV della Rovere (1471-84) dell’ordine Francescano dei frati minori conventuali, artefice della costruzione della Cappella Sistina. Con lui il Complesso divenne tanto ricco da rivelarsi l’Istituzione con maggiori proprietà terriere in tutta Europa.
Dopo l’incendio del 1471, Sisto IV fece ristrutturare il complesso tra il 1474 e il 1477 dall’arch. fiorentino Baccio Pontelli (famoso per il progetto della Cappella Sistina e lì ritratto dal Perugino nell’affresco La consegna delle chiavi a S. Pietro) dandogli la forma attuale.
Ovunque si nota ancora il blasone del Papa col casato dei Della Rovere, a memoria del suo intervento, insieme al sigillo dell’Ordine Ospedaliero che gestiva la struttura, la croce lorenese a doppia traversa sovrastata dalla colomba dello Spirito Santo.
Nei secoli XVII e XVIII seguirono altre due ristrutturazioni e l’ultima si annovera al 1926 in cui venne ricostruita la facciata quattrocentesca con le bifore marmoree.
Dal 2000 il complesso monumentale è sede di un importante centro congressi mentre l’ospedale di S. Spirito in Sassia continua la sua secolare tradizione di assistenza ai malati nella nuova struttura in via Lungotevere in Sassia 1, adiacente all’antico nosocomio. Disegnato dagli architetti Gaspare e Luigi Lenzi negli anni 1920-33, oggi fa parte dell’ ASL E di Roma. Offre le prestazioni di pronto soccorso, ricovero ospedaliero con 200 letti e varie attività specialistiche ambulatoriali.
LA CORSIA SISTINA
È la parte più antica del Pio istituto ed oggi adibita a polo congressuale ma adibita ancora ad ospedale sino ai recenti anni 80. E’ lunga 120 m, larga 12 m e alta 13 m, suddivisa in un maestoso tiburio e due sezioni dette Braccio di Sopra e Braccio di Sotto ribattezzate sala
Lancisi e sala Baglivi nella seconda metà dell’800 in onore di due famosi medici ed anatomisti qui operanti e vissuti tra il XVII e XVIII secolo. Nella corsia venivano allora alloggiate le file dei letti a baldacchino dei degenti allietati dal suono di un organo in fondo alla sala. Quando il numero dei ricoverati aumentava per le epidemie venivano aggiunti letti al centro delle corsie chiamati carriole e da qui deriva il detto dialettale romano “li mortacci tua e de tu nonno in cariola”, con cui si enfatizza l’ingiuria anche con la morte dell’avo in cariola, cioè in soprannumero.
Le pareti appaiono finemente decorate con un ciclo di quasi cinquanta affreschi del XV secolo che rievocano la storia dell’antico ospedale, le benemerenze del fondatore Papa Innocenzo III e episodi della vita di Papa Sisto IV della Rovere, artefice del rinascimento dell’Ospedale.
Il tiburio a forma di torre ottagonale era l’originale ingresso dell’ospedale la cui cupola venne decorata con nicchie contenenti statue degli apostoli e con due ordini di finestre bifore e trifore con l’onnipresente stemma del Papa Sisto IV della Rovere. Il soffitto è costituito da eleganti pannelli lignei dipinti. Al centro conserva l’unica opera romana dell’architetto veneto Andrea Palladio, un altare in marmo con un dipinto seicentesco di Carlo Maratta. Gli ingressi laterali sono arricchiti da due portali di marmo quattrocenteschi, opere dell’architetto e scultore lombardo Andrea Bregno. Quello sotto il portico della facciata orientale è di modeste dimensioni mentre l’altro è ben conosciuto col nome di Portale del Paradiso, alto 10 m, largo 5 m e recentemente restaurato.
Nella lunetta conchigliata superiore è decorato l’emblema di Sisto IV tra due putti alati e nelle colonne laterali compaiono numerosi simboli associati alla religione cristiana, alla medicina e alle arti curative.
IL MUSEO STORICO DI ARTE SANITARIA
È ospitato nella Sala Alessandrina e venne inaugurato nel 1933 grazie al prezioso contributo di un generale e 2 professori di medicina: il Generale Mariano Borgatti, il Prof.
Giovanni Carbonelli e il Prof. Pietro Capparoni che raccolsero in questa sede del precedente Museo Anatomico, l’immenso materiale storico medico prima depositato in Castel Sant’Angelo. È un mausoleo della medicina con la biblioteca ed un archivio storico e nacque con lo scopo di promuovere e disciplinare gli studi storici dell’Arte Sanitaria in Italia. È alloggiato in nove stanze e conserva preziosi cimeli tra cui mortai, modelli anatomici, cere, antichi strumenti di ostetricia, la macina della China per macinare la corteccia dell’albero di China e produrre il chinino per curare la malaria. Inoltre conserva ferri chirurgici, microscopi, apparecchi per l’anestesia, la prima lettiga della Croce Rossa per il trasporto dei malati e moltissima documentazione su malattie e preparazioni farmaceutiche del passato. È altresì presente la ricostruzione di una farmacia del passato e di un laboratorio alchemico.
L’ANTICA SPEZIERIA
Si trova adiacente alla sala Lancisi e qui i frati un tempo preparavano i farmaci. Numerose ricerche farmaceutiche vennero qui condotte come quella sull’impiego della polvere della corteccia di China per la cura della malaria, allora molto diffusa e senza rimedio. Conserva inoltre una rara collezione di preziosi vasi per le spezie.
LA BIBLIOTECA LANCISIANA
Fu fondata nel 1711 dal medico Giovanni Maria Lancisi, docente di anatomia e medico personale del Papa e venne dotata di una rendita. Nacque all’interno dell’ospedale per favorire la formazione e l’aggiornamento dei medici e chirurghi e con l’intento di promuovere il confronto tra medici e lo svolgimento di sperimentazioni. È considerata la più importante biblioteca medica d’Italia e conserva 20.000 volumi e 375 manoscritti. Tra questi vi sono antichi libri di grammatica, retorica, politica, filosofia, teologia, matematica, storia naturale, chimica, farmacia, anatomia, chirurgia, medicina legale e alcuni strumenti scientifici originari come i globi del monaco cartografo Vincenzo Coronelli, due sfere armillari e una diottra.
IL PALAZZO DEL COMMENDATORE
Vi abitava l’amministratore capo del Complesso. Il palazzo venne edificato durante il papato di Pio V tra il 1566 e il 1572 ad opera degli architetti Nanni
di Baccio Bigio e Ottaviano Nonni detto Mascarino e per volere del Commendatore Bernardino Cirillo e per questo chiamato anche Palazzo di Cirillo. È arricchito con un sontuoso cortile decorato con arcate e colonne di marmo e un orologio barocco diviso in sei ore alla romana, tipica misurazione del tempo durante il periodo medievale. In questo modo la giornata veniva scandita dal ripetersi quattro volte del ciclo di sei ore l’una. Ha la forma di copricapo cardinalizio ed è incorniciato da un serpente che si morde la coda simbolo di eternità. Come lancetta ha un ramarro in bronzo e a lato l’antico emblema dell’ospedale con la croce a doppia traversa e la colomba dello Spirito Santo.
LA CHIESA DI SANTO SPIRITO IN SAXIA
Originalmente la chiesa del dodicesimo secolo era dedicata a Maria Vergine di cui rimane ancora il campanile romanico di Baccio Pontelli. Fu ricostruita varie volte e, dopo il Sacco di Roma nel 1527, Papa Leone IV chiamò l’architetto fiorentino Antonio da Sangallo il Giovane per la ristrutturazione eseguita tra il 1538 e 1545.
Il completamento della facciata tardo rinascimentale su due ordini e della grandiosa scalinata vennero terminati nel 1590 da Ottaviano Mascherino su commissione del Papa verso la fine del Papa Sisto V.
Al suo interno si conserva ancora un’icona mariana donata da re Ina, una serie di opere d’arte tardo-manieriste, numerosi pregiati affreschi e stucchi e un soffitto ligneo policromo ad opera di Antonio da Sangallo con gli stemmi di Papa Paolo III.
La Chiesa è oggi il Centro di Spiritualità della Divina Misericordia ufficialmente istituito dal Cardinale Camillo Ruini con decreto del 1994. Conserva le reliquie del Santo Papa Giovanni Paolo II in un ostensorio in argento a copia di quello rappresentato da Raffaello nell’affresco La disputa del Sacramento nella stanza della Segnatura al Vaticano.
AUTORE-Alessandra Raffin è psicologa esperta in neuropsicologia clinica e terapia autogena. Vive e lavora tra Italia e UK. La poesia è parte integrante della sua vita da sempre. Solitude è la sua prima pubblicazione.
DESCRIZIONE-Solitudine e solitudini, simboli vuoti dentro le braccia, come mali di pancia e ricerche d’aria. La solitudine prende fiato, nella sua stasi la calma. La solitudine prende il fiato, nella sua morsa lo spago. Come si va noi di qua e di là dal ponte, a volte soli per necessità, a volte nella pena dell’abbandono, a volte in fuga dalle prese strette, e forse alla ricerca di tiepide pozze. Siamo soli. Siamo soli? Oppure circondati, come le mosche, in un cielo di saline.
Nota di Michele Paladino
Se guardiamo all’entopico panorama poetico italiano, all’alluvionale e straripante conceria di poetesse mellifluamente noiose, falsamente avvitate alla sprezzatura, statiche nella loro melodia kitsch-misticheggiante, non possiamo non guardare al passato dei bardi o ritirarci nei culti snob della diffidenza. Opzioni inutili quanto deleterie. Ma prima di abbandonarci alla moneta poetica di vecchio corso, potremmo imbattertici in opere che del sentimentalismo abusato, e tanto dissodato, ne fanno, invece, una disarmante quanto misurata diagnosi di quella rara, ineffabile, esperienza poetica del quotidiano. L’esordio di Alessandra Raffin, Solitude, si presenta già nella dedica in epigrafe ad Alejandra Pizarnik come una suite di attraversamento, di dolorosa ricerca della grazia, compostamente orfica e confessional nel suo verso nominale ed empiricamente performativo dal dettato rapido, esile, concreto, per certi invasivo di una spettroscopia al nero di un sentimento amoroso in fase terminale o disfatto, osservato in decomposizione. Ciò che colpisce nella prima parte della raccolta è la netta cesura che la Raffin muove dal conformistico senso comune di fallimento: “[…] Icona di consolazione / Sotto cui giaccio ritorta / Come una cagna addormentata.” Da qui parrebbe muoversi la dimensione di una poesia non-rituale, infallibilmente simbolica, viscerale, alimentata da una trenodia perentoria che spinge sul pedale dei tessuti connettivi – le catabasi dei templi-ossari lirici pizarnkiani – del silenzio, supplice all’assoluto fatalismo di un rapporto paracadutato negli universi algidi, introversi, dalle venature domestiche inquietanti: “Uccidimi ti prego / Ho fatto la guerra / Con pentole / Mestolo e coperchi […] Uccidimi ti prego / Non ne ho colpa / O tienimi nell’ombra.” La scrittura della Raffin sfiora la dimensione terribilmente ironica delle lallazioni di un Io fatto dirozzare dal pensiero autoindotto alla solitudine. Ne conviene nella parte centrale della raccolta una liricità frammentata, abissale, dimidiata. Quel duplice poetico fattosi interlocutore privilegiato cade negli stagni narcisistici. Gli specchi si frangono e ogni tema e oggetto diventa universale nel suo rovesciamento al negativo. Tutto è condotto ad un grigio reductio ad absurdum. La seconda parte della raccolta sconta una larga, a tratti dozzinale, concessione divergente di toni e registri – si passa da elargizioni kitsch a impennate penniane affettuose e generiche, ritmi prosaici che in alcuni casi non rendono verosimile quel duplice interlocutore faustiano – che in sostanza non fanno cadere le atmosfere miracolosamente tetre di una fenomenologia di totale autonegazione adombrata dallo stupore. Come in questo caso, in uno dei passaggi più felici di Solitude:
[…]
Se ogni luogo crea confusione
Sapere che il posto non è mio
Quando la cremazione
Cenere su cenere
Come polvere d’amianto
La prende il vento
Il vento la porta
Perle dentro nuvole di ferro
Ho aperto una finestra su un giardino
Ho visto l’erba verde
E la primula gialla
Si apriva alla luce
Ciò che in qualche modo Solitude mostra è essenzialmente il referto psichico, nel suo stato più educatamente nobile, di una poesia che non teme le effusioni indocili di una Patrizia Cavalli atrabiliare, di una Sexton de-erotizzata, di un Larkin lasciato sbrigliare nei territori del pathos dissociativo. Insomma, Solitude di Alessandra Raffin inaugura con le sue mistioni estatiche, e le sue livide zone venate d’ombra, una aggiunta deformante e larvatamente inquieta alla statica e irritante poesia italiana di oggi.
Michele Paladino
Fonte -La rivista «Atelier»-
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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La modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson: “Tra di noi l’oceano” di Mattia Morretta-
Descrizione-Emily Brontë ed Emily Dickinson–Vite parallele delle due Emily più note e ineffabili del panorama letterario, una narrazione biografica arricchita dall’approfondimento tematico dell’opera e da traduzioni più aderenti al testo originario, ricostruendo i collegamenti esistenziali e artistici, le consonanze dei profili di personalità e dell’ispirazione. Una singolare rilettura che svela perché la loro scelta di votarsi alla scrittura, rimanendo latenti e dietro le quinte del mondo, si sia tradotta in libertà morale e solida eredità culturale. Si scopre infatti che per i contenuti e gli accenti sono nostre contemporanee e che ci rianimano con un vocabolario dotato di eccezionale energia. Maestre di consapevolezza con domande sul dolore, la malattia e la morte, l’identità personale e sessuale, le prove dell’amore e della solitudine, la conoscenza dei fenomeni mentali e il rapporto con la natura. Storie esemplari, fondate sulla qualità della vita interiore e sulla distanza critica indispensabile per dialogare con sé stessi e gli altri. Un viaggio nel passato e nel futuro con tre parole chiave: poesia, memoria, eternità.
Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00)
Articolo di di Simone Bachechi-Fra le due sponde dell’oceano del nostro atlante occidentale si staglia da pochi mesi (il volume è uscito lo scorso maggio per i tipi di Viator) il sorprendente e affascinante studio di Mattia Morretta sulle due Emily più celebri della letteratura moderna: Emily Brontë ed Emily Dickinson sono le protagoniste di questo bel saggio dello psichiatra e sessuologo milanese, il quale ha già all’attivo altri titoli che spaziano dalla biografia d’artista all’analisi sociologica con attinenza alle tematiche più vicine alla nostra contemporaneità.
In Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00) le due donne e poetesse, la Dickinson è universalmente conosciuta come tale, mentre la Emily di Haworth è meno nota per la sua opera poetica (sono circa duecento le poesie pervenuteci, svettando nella sua produzione il capolavoro della letteratura vittoriana Cime tempestose), sono tratteggiate nella comunanza della loro debordante e allo stesso tempo schiva e al limite del monacale personalità, del loro temperamento tormentato, del loro apparente disadattamento sociale e disagio psichico, tutte caratteristiche che non impediscono di riconoscere in loro il ruolo di «integre amazzoni antesignane del femminismo», non fosse altro per l’epoca storica nella quale si è svolta la loro parabola umana e artistica, per «la maestosa sacerdotessa di Amherst», come è stata definita la Dickinson, il New England puritano delle seconda metà dell’Ottocento, per l’altra, la seconda delle sorelle in lettere Brontë, il contesto rurale e isolato di un villaggio perduto nelle lande dello Yorkshire ai piedi dei Monti Pennini, all’interno del presbiterio di campagna di una famiglia povera e numerosa in cui il padre era curato perpetuo. Per loro vale quanto citato nel volume dal Don Giovanni di Byron:
Molti alberi solitari crescono in altezza/maggiormente quelli pigiati nel labirinto della foresta (Canto XVII, 1, 1823).
A dispetto dell’isolamento la loro vocazione artistica diviene strumento di inclusione sociale e allo stesso tempo rivendicazione del ruolo della donna fuori dallo stereotipo e ruolo obbligato imposto dalla società ottocentesca che la vorrebbe relegata alle domestiche occupazioni, magari svenevole, pudica, docile, oggetto della narrazione maschile e non soggetto attivo dedito a “pericolose” attività intellettuali che avrebbero potuto minare la supremazia dell’uomo disposto a un riconoscimento della femminilità basato solo sull’esteriorità.
La Dickinson, la quale ci dice Morretta con la sua «vista telescopica, snobbando esami di abilitazione e quote rosa, aveva già concluso di nascosto la scalata della metafisica», la Brontë decisa a non prendere in considerazione il copione del gentil sesso e che anche con la sua celebre prova romanzesca riesce a scardinare i classici stereotipi femminili. La confusione e compenetrazione dei sessi è un dato costante nelle due Emily senza che questo conflitto arrivi a una sintesi in un ipotetico terzo sesso ma trovando espressione nella corporeità dilaniata che si fa parola poetica nella Dickinson come nei vari personaggi e “tipi” psicologici di Cime tempestose.
Il relativo provincialismo delle due autrici non impedisce di lasciar affiorare nei loro scritti «esempi di sorprendente modernità per l’esercizio di lucida introspezione e osservazione minuziosa del funzionamento mentale, metà protestantesimo e metà insegnamento dei classici, una pagina della Bibbia e una di Shakespeare, filosofia remota e piscoanalisi a venire».
Troppo spesso studiate (soprattutto la Dickinson) a partire dal dato clinico, mettendole così a distanza di sicurezza, accettando il genio solo se inquadrabile in una sindrome, le due Emily sono anche accomunate dall’«astrattezza e strumentalizzazione tipica dell’industria culturale», «ingessate in letture riduttive e abbozzate» dice Morretta, e quindi vittime dell’omologazione. Il successo per molti versi tardivo della Dickinson, il pubblico riconoscimento relativamente recente, frutto di letture spesso superficiali ne è la testimonianza.
Le due Emily sono osservate dall’autore sotto diversi punti di vista: bibliografico, non mancando un’attenta analisi filologica sulle loro opere partendo da estratti delle loro poesie tradotte dallo stesso per una maggiore aderenza al testo originario e nel caso della Brontë facendo riferimento oltre alle liriche anche al celebre romanzo, biografico, scandagliando le loro vicende private (ma cosa c’è di privato nella poesia che vuole farsi voce dell’assoluto?) e allo stesso tempo offrendoci un quadro sociologico delle epoche e degli spazi geografici che le due si sono trovate ad attraversare, focalizzando l’attenzione (forse per deformazione professionale dell’autore?) su una loro caratterizzazione di tipo psicologico che quanto mai come nel caso della Dickinson risente del linguaggio provocatorio del filtro psicanalitico. Non mancano accurate riflessioni sul sentimento che “move il sole e l’altre stelle”. Le due Emily sono fra le grandi cantrici dell’amore che in poche come loro è dimensione ideale, immagine stessa del distacco, ferita, distanza ben espressa in alcuni versi della sacerdotessa di Amherst:
Così dobbiamo incontrarci separati/tu là – io qui/con la porta appena socchiusa/ che Oceani sono – e Preghiera – /e bianco sostentamento – /Disperazione – (n. 640, 1862).
Un costante processo di smaterializzazione, spiritualizzazione dell’eros: «La loro eccitazione è nella calotta cranica», «Emily and Emily sono interamente psichiche». È questo il grande messaggio lasciatoci, l’attenzione, il credo e fedeltà nella forza taumaturgica della parola e dell’influenza divina della poesia come già espresso nell’esergo al volume costituito da alcuni versi di Kavafis:
A te mi volgo/Arte della Poesia, che un poco sai di farmachi,/e del dolore una narcosi tenti/nella parola e nella Fantasia.
Un richiamo alla potenza dell’interiorità, alle “voci di dentro” che ha del religioso, quel sentimento così vivo soprattutto nella Emily di Amherst, perché vivere è sentire, amare, sperare e tanto meno questi beni si trovano nel mondo reale quanto maggiore è la capacità di sentire; un elogio della ricchezza della vita interiore a dispetto della morte che incombe e sulla quale la poesia di Emily Elizabeth è una grande meditazione. Scrive la Dickinson in una lettera a Thomas Higginson, il critico con il quale avrà una pluriennale corrispondenza: «Trovo estasi nell’atto di vivere – il semplice senso di vivere è gioia sufficiente» e ancora «Vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stessi e non qualcun altro». Un percorso di indagine e autoanalisi che trova espressione nella forma letteraria; scendere dentro se stessi per far maturare lentamente la propria anima, solennemente, in modo nascosto, distillato, in maniera che passi in lei solo il meglio:
Non conosciamo la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci
(n. 1176, 1870)
È la meraviglia nel constatare la grandezza nella piccola misura, l’immensità nella finitezza, tutte cose rese dalla Dickinson con mirabili metafore che rimandano all’incanto della natura, «la casa stregata» alla quale è dedicata così ampio spazio nelle sue poesie, a partire dai fiori, coltivati con amorevole cura da Emily Elizabeth nel suo giardino, i «nostri piccoli parenti» che svettano in verticale, simbolo spirituale, emblema della bellezza e allo stesso tempo della caducità, la stessa natura osservata dalla Emily di Haworth sia in Cime tempestose che nelle sue liriche, il cui spettacolo di armonia e sacralità ci fa dimenticare (almeno per un po’) la sua crudeltà.
Una lettura quella di Morretta che va ben oltre la semplice biografia d’artista, quasi un piccolo trattato di psicologia o psicanalisi per tramite del medium letterario. Ne nascono vere e proprie tipizzazioni delle due Emily, tanto da arrivare a parlare di processo di ermafroditizzazione in Emily Brontë e facendo ricorso parlando della Dickinson tramite altrui studi doverosamente citati sulla sacerdotessa di Amherst di « voyueurismo, vampirismo, necrofilia, lesbismo, sadomasochismo».
Quale che sia l’apporto della malattia o del semplice disagio psichico all’opera delle due Emily, ben rappresentato in una delle brevi e fulminanti espressioni per sentenze dickinsoniane: «Da un grande male un grande bene» o volendo accreditare in tal senso la somma aritmetica di Roberto Bolaño «Letteratura+malattia=malattia», è innegabile lo svettare della personalità (e Morretta lo mette bene in evidenza) di due «dissenzienti e dissidenti poco decifrabili», refrattarie ai tentacoli della moltitudine, felici interpreti del motto ovidiano Bene qui latuit, bene vixit o del Lathe biosas epicureo, tanto da divenire celebri per la ritrosia a pubblicare i propri scritti, le quali con il loro atteggiamento, non una posa o un vezzo ma una scelta artistica e esistenziale, riescono ancora oggi a parlare «a coloro che insistono nel forgiare la pietra filosofale in un laboratorio sotterraneo nell’era della visibilità e delle creature digitali».
Due autrici nascoste e stanziali, che non si sono mai mosse dalle rispettive dimore e che hanno fatto della staticità fisica e del sostare nel luogo natio l’occasione per la loro crescita mentale e morale, due zitelle solitarie, monacali, quasi ascetiche, votate anima e corpo all’arte, alla poesia, che dalla loro prospettiva a suo modo selvaggia sono riuscite a parlarci dalle stanze di alabastro delle loro dimore del mistero della morte, della natura, dell’amore, di trascendenza, di religione o del suo sentimento. Una, la monaca ribelle del New England osservando il mondo dalla finestra della sua camera, l’altra da un villaggio nel piovoso Yorkshire, entrambe chiamate a dialogare tra di loro nel volume di Morretta e a riconoscersi in un percorso dell’anima avanti e indietro sull’Oceano in un ping pong continuo che è la più forte rivendicazione delle ragioni più esose della letteratura.
Fonte – minima&moralia-
Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00)
Roma-A venti anni dalla sua morte di Giacinto Cerone, EDDart è orgogliosa di presentare, dal 14 Novembre al 28 Febbraio2025, in collaborazione con l’Archivio che lo rappresenta, una selezione di opere che consentono di guardare in prospettiva al lavoro di uno dei più grandi scultori italiani: Giacinto Cerone (Melfi, 1957 – Roma, 2004).
Negli spazi di Palazzo Taverna saranno esposte 13 opere realizzate in anni e materiali differenti come la ceramica, il gesso, il legno e il moplen che evidenziano la sperimentazione continua di un’artista, il cui tratto distintivo è proprio un rapporto forte e diretto con la materia. Cerone infatti, indipendentemente dal materiale prescelto, e spesso affidandosi ad esso, riesce ad esprimere un confronto sempre teso, plasmando, creando fessure, interstizi e germogli fino a creare una forma nuova.
Sarà realizzato un catalogo con documentazione fotografica e un’intervista diElena del Drago a Elena Cerone Cavallo.
La mostra è realizzata in collaborazione con l’Archivio Giacinto Cerone, Roma.
EDDart Rome | Palazzo Taverna Via di Monte Giordano 36, 00186, Roma
Biografia di GIACINTO CERONE-A cura dell’ “ARCHIVIO GIACINTO CERONE”
Giacinto Cerone,Nasce a Melfi (PZ) il 18 aprile 1957.Nel 1971 frequenta il Liceo artistico di Melfi sezione architettura. Durante i primi anni trascorre la maggior parte delle giornate ad esercitarsi con il disegno dal vero. Nel 1975 consegue il diploma di maturità artistica.
Nell’ottobre dello stesso anno si iscrive all’Accademia di belle arti di Roma e segue il corso di scultura, prima con Umberto Mastroianni, poi con Pericle Fazzini.
Nel 1976 partecipa alle ricerche e all’allestimento della mostra “L’Accademia di Belle Arti e l’istruzione artistica” presso Palazzo Braschi di Roma.
Negli anni dell’Accademia segue i corsi speciali di Fonderia, Fotografia, Teoria della forma, Varie tecniche della scultura e Teoria della percezione visiva quest’ultimo tenuto da Nato Frascà.
Nel 1979 termina gli studi all’Accademia con una tesi su Vincent Van Gogh per il corso di Storia dell’arte tenuto da Cesare Vivaldi.
Ritorna in Lucania dove inizia a sperimentare tutto quello che l’Accademia gli aveva fornito a livello teorico come performance, fotografia e installazioni ambientali (gabbie e cubi). Insiste sulla sperimentazione ispirandosi a maestri della storia dell’arte come Duchamp, Malevic e Mondrian. Riproduce “Quadrato nero su fondo bianco”, “Broadway boogie-woogie”, “Percezione prospettica di un cubo nero dipinto su fondo bianco”.
Nel 1980, in occasione dell’estate melfitana, prepara tre giornate di performance: “Contrazione (Corpo su carta)” ispirato a Jackson Pollock, “Help dedicato a J. Dine” e “Z.I.N.C.O.”.
Nel 1981 è a Roma, con Nato Frascà si reca presso lo Studio internazionale d’arte grafica “L’Arco” in via Mario dei Fiori, crocevia di artisti, critici e poeti, per conoscere Giuseppe Appella.
Nel marzo 1983 viene richiamato a Roma da Pietro Perrone per la mostra “Scacco matto a Casaidea” alla Fiera di Roma.
Nell’estate dello stesso anno, Giuseppe Appella lo porta a Castronuovo Sant’Andrea (PZ) e tra le mura dell’antico Castello tiene la sua prima personale: “Dieci sculture e dieci motivi jazz di Giacinto Cerone”. In quest’occasione espone le sue prime sculture in rame. La serata inaugurale è filmata da RAI3 Basilicata.
Nel 1984 si stabilisce definitivamente a Roma e nell’ottobre del 1985 si sposa con Elena Cavallo.
Dal 1986 inizia a lavorare nello studio in vicolo del Bologna, 32 a Trastevere. Collabora alla rivista “Altrimmagine”, partecipando a Bari alla collettiva curata e organizzata dalla rivista.
Nello stesso anno riceve l’incarico per l’insegnamento di Arte dell’ebanisteria, dell’intaglio e dell’intarsio presso l’Istituto d’arte di via del Frantoio.
Nel 1987, l’Associazione Culturale Hobelix di Messina ospita la sua personale; nello stesso anno nascono le prime due ceramiche (Marsupio e Martini) in una piccola fornace in vicolo del Moro.
Entra in contatto con Maurizio Corraini e tramite l’editore-gallerista conosce Giosetta Fioroni con la quale avrà continuativi scambi intellettuali.
Nella primavera del 1987 conosce Mauro Zammataro e Corrado Bosi: nella sperimentazione di nuovi materiali, il loro appoggio sarà totale.
L’attività grafica si intensifica e diviene sempre più autonoma dalla scultura.
Nel febbraio del 1988, con la visita al suo studio di Ennio Borzi (direttore della Galleria “Break Club” di Roma) vende le prime opere in legno (Bassorilievo, Inclinata, Lupo, Monaco, Utranquilla, Piccola inclinata, Spezzacatene) e le ceramiche Marsupio e Martini. In questa occasione conosce Barbara Tosi che scriverà un testo critico per il libro “Roma Arte Oggi”.
Iniziano i primi rapporti con la critica d’arte: Paolo Balmas, Martina Corgnati, Vito Apuleo, Flaminio Gualdoni.
In occasione della mostra presso “Graffiti now atelier” di Verona, nel 1989, entrano nel suo lavoro due materiali nuovi: l’alluminio e la ghisa.
Nel marzo 1990 nasce il primogenito Michele, per questa occasione inaugura la sua prima mostra a Milano (Galleria Valeria Belvedere) dal titolo “San Michele”.
Nel 1991 prepara la partenza con la famiglia per Albisola dove rimarrà quasi tutta l’estate, lavorando presso le Ceramiche San Giorgio con Salino e Poggi. Alcune opere prodotte ad Albisola saranno esposte in autunno a Verona in una mostra intitolata “Doppi Fiumi”, altre a Modena, nel 1992, presso la Galleria Roberto Monti in una mostra dedicata a Hölderlin dal titolo “Der Adler” (L’Aquila).
In questo stesso periodo visita il suo studio Raffaele Gavarro con il quale instaura da subito un’intesa professionale.
L’8 gennaio 1993, Maurizio Corraini gli propone una produzione di ceramiche da realizzare presso la Bottega Gatti di Faenza (RA) di Davide Servadei.
Nel marzo dello stesso anno, inizia un lungo rapporto di lavoro con Valentina Bonomo che comincerà a seguirlo in maniera assidua tanto da presentarlo nella sua prima grande personale romana dal titolo “Aiaram” presso la galleria di piazza Santa Apollonia: conosce lo scrittore e storico dell’arte Mario Quesada, il collezionista Andrea Franchi e la poetessa Patrizia Cavalli.
Per un breve periodo lavora in uno studio in via dei Marrucini, nel quartiere di San Lorenzo, dove prepara le opere per la Galleria Bonomo. Al suo fianco l’allievo e assistente Valerio Ricci.
Nell’aprile del 1993 nasce Lorenzo, secondogenito.
Nell’atelier di Luciano Trina, nel dicembre dello stesso anno, stampa delle incisioni monotipo; con Giosetta Fioroni un’acquaforte per “Incerti frammenti” di Andrea Zanzotto.
Nel gennaio del 1994 lascia definitivamente lo studio di vicolo del Bologna per trasferirsi in via Sebastiano Grandis, 1 in Santa Croce in Gerusalemme.
Nascono la serie di opere in gesso e moplen (Il mare, prima scultura orizzontale, Disco con gigli, Sposa infelice, Calle appoggiate, Stele bucolica, Piazza Sonnino, Paesaggio tettonico).
Il tema di Ofelia, già inaugurato con la scultura “Vita di Ofelia” (1993) comincia ad essere una costante nella sua poetica. Da qui la mostra “Ofelia in traum” del 1995 a Verona.
In questo stesso anno interrompe definitivamente l’attività di insegnante.
Per Valentina Bonomo realizza i primi gioielli di ceramica, esemplari unici: il tema è la rosa. I gioielli sono il pretesto per approfondire e sfidare la ceramica come materiale da utilizzare per oggetti decorativi come il tavolo con carciofi, le tazze da tè di Mozart, le cornici come decorazione di camini, ecc.
Nel 1996 si allargano i contatti con le gallerie (Oddi Baglioni, Roma; Bottai, Bologna; Fioretto, Padova).
Il suo lavoro diventa più complesso: inizia ad usare i merletti sulla ceramica, le opere in gesso sono eseguite senza la necessità di costruire uno stampo. A volte le sculture sono “popolate” da icone provenienti dagli stampi di oggetti (giocattoli, verza, acanto, carciofo, ecc.), evocando il ready-made duchampiano.
Espone la seconda opera orizzontale in Via degli Artisti, Associazione culturale circolo di Palazzo Giovine di Torino. L’opera è dedicata a Pino Pascali: occupa la superficie della stanza con una grande lastra in gesso costruita su misura, costringendo in tal modo il visitatore a guardarla solo dall’esterno. Per preparare l’installazione si trasferisce con la famiglia per 10 giorni ospitato dallo scultore Salvatore Astore.
Con “San Savino”, esposta all’Attico di Sargentini (in “Giro d’Italia”) e le lastre in ceramica alla Galleria Oddi Baglioni (in “Paginette Faentine” con dedica a Domenico Baccarini), del 1997, si definisce l’idea per una scultura orizzontale.
Romolo Bulla visita il suo studio. Si instaura un rapporto che successivamente lo porta ad una collaborazione: nel 1998 esegue le prime litografie raccolte nella cartella “Ofelia im Traum” presso la Bottega Bulla.
Contemporaneamente Daniela Lancioni lo porta, con Marisa Albanese e Gianni Dessì, a Napoli alla Casina Pompeiana nella villa comunale e nello stesso periodo gli parla del progetto “Tor Bella in opera” presso lo Spazio per l’arte contemporanea Tor Bella Monaca di Roma. La possibilità di realizzare una grande installazione scultorea lo entusiasma a tal punto da eseguire una piccola litografia intitolata “Tor Bella Cosa”.
Pensando a Tor Bella Monaca, compone un libro d’artista ispirato alle rose che sottopone a Corraini: il libro sarà pubblicato postumo nel 2005.
Nel novembre del 1999 inizia la realizzazione della scultura in gesso nello Spazio per l’arte contemporanea a Tor Bella Monaca. L’opera è il monumento all’orizzontalità (cm. 300x3300x360). Ritorna sui temi e sulla politica della scultura greca: Fidia e il Partenone. Graziano Paiella ne racconta le giornate e i momenti di prosecuzione sino ad opera ultimata con la telecamera. Il giorno dell’inaugurazione in una intervista ad Antonella Reda per Rai3 Notte dice: “[…] Non ho mai visto un’opera d’arte figurativa davanti la quale la gente applaude. Commuove la musica, commuove la poesia […] un quadro commuove in modo silente. Non ho mai visto qualcuno applaudire davanti la Gioconda […] Vorrei che la gente applaudisse davanti ad un’opera non di certo davanti alla mia”.
Tra i presenti Graziella Lonardi Buontempo, che da subito lo accoglie tra i suoi artisti preferiti. Nel settembre 2003 esporrà nella collettiva “Incontri…dalla collezione di Graziella Lonardi Buontempo” all’Académie de France Villa Medici di Roma.
Lavora per una mostra a Casa Musumeci Greco dal titolo “I soffincielo” (2000): per la prima volta la ceramica viene indurita e resa altro togliendole qualsiasi accezione pittorica. I soffincielo sono le prime dodici opere platinate più simili all’acciaio che alla ceramica.
Si prepara anche per la sua prima personale all’estero presso la David Gill Galleries di Londra, mostra curata e organizzata da Valentina Bonomo.
In questo periodo nascono opere in ceramica che riportano iscrizioni ispirate alla Poesia. Quotidiane le riletture e le citazioni delle poesie di Hölderlin, Sandro Penna, Patrizia Cavalli, Eugenio Montale, Rainer Maria Rilke, Vincenzo Cardarelli e Isabella Morra.
Dedica a suo padre la mostra a Mantova del 2001 “Tripoli. Delle croci e delle delizie” e pubblica, con lo stesso titolo, un libretto d’artista per le Edizioni Corraini, Mantova.
A settembre è nella bottega Nicoli di Carrara dove esegue la sua prima ed unica produzione di marmi su commissione di Emilio Mazzoli.
Il tema delle icone della mitologia (gli Argonauti) ritorna nel gruppo di opere “Donne per la storia”, personale presso Gasparelli Arte Contemporanea di Fano e nella mostra “Sant’Agnese” presso la galleria romana “Autori Cambi” di Matteo Boetti, entrambe del 2002.
Ritrova il poeta Domenico Brancale col quale instaura una costante frequentazione e un fitto carteggio.
Nell’ottobre-dicembre del 2003 prepara le cere per dei gioielli realizzati in argento presso l’orafo Paolo Mangano.
A febbraio del 2004 Alberto Zanmatti e Giuseppe Gallo lo invitano a realizzare un intervento scultoreo alla facoltà di Architettura “Valle Giulia”: “Una sposa infelice a Valle Giulia”, grande scultura in gesso, ultima opera di Giacinto Cerone.
Muore a Roma il 4 ottobre 2004..
MOSTRE
Collettive selezionate
1983 Scacco Matto a Casaidea, Palazzo dei Convegni alla Fiera di Roma, Roma, 19-27 marzo, testo di Elena Cavallo.
1986 Il movimento artistico Altrimmagine, Galleria N. Piccinni-Altrimmagine, Bari, 11 ottobre-4 novembre.
1987 Antipatia. Giacinto Cerone – Pietro Perrone, Graffiti Now Atelier, Verona, 2-24 maggio. XXX Biennale nazionale d’arte città di Milano, Palazzo della Permanente, Milano, 5 giugno-12 luglio.
1988 Under 35. I giovani artisti dalla giovane critica, Arte Fiera, Bologna, 19-22 febbraio. Roma, Arte Oggi, Galleria Break Club, Roma, 10-27 giugno, a cura di Ennio Borzi, Mirella Chiesa, testi di Filiberto Menna, Paolo Balmas, Barbara Tosi. 7 + 7 ovvero sette scultori proposti da sette gallerie, salone del Chiostro di S. Fermo Maggiore, Verona, 9 luglio-14 agosto, testo di Barbara Tosi.
Oasi nello spazio, Sale dell’Esedra, Palazzo Ducale, Mantova, 23 ottobre-27 novembre, a cura di Martina Corgnati, Maurizio Corraini, testo di Martina Corgnati. Dodicimenotrentacinquesecondo. Giovani Artisti a Roma, Ex Borsa in Foro Boario, Roma, 28 ottobre-11 dicembre, testi di Vito Apuleo, Giacinto Cerone.
1989 Arte a Roma 1980-89: Nuove situazioni ed emergenze, Palazzo Rondanini alla Rotonda, Roma, 6 luglio‑7 ottobre, a cura di Ludovico Pratesi, testo di Ludovico Pratesi.
1990 Paesaggio Occidentale, Maurizio Corraini Arte Contemporanea, Mantova, dal 21 aprile, testi di Martina Corganti, Flaminio Gualdoni. La Madonna nell’arte italiana del Novecento, Chiesa di S. Giuliano, Castrovillari (CS), 1 maggio-23 giugno, Centro d’Arte e Cultura Villa dei Papi, Benevento, 2 luglio-22 settembre, a cura di Giuseppe Appella, testo di Giuseppe Appella. Opera nuova. XXX Mostra nazionale d’arte contemporanea, Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Termoli (CB), 25 luglio-7 settembre, a cura di Francesco Gallo, testo di Patrizia Ferri.
1992 Grand Tour, Romberg Arte Contemporanea, Latina, 6 giugno-31 luglio, a cura di Raffaele Gavarro, Viviana Gravano, testi di Raffele Gavarro, Viviana Gravano. XXI Biennale di scultura di Gubbio, Sala Consiliare Palazzo del Comune, Gubbio (PG), 12 settembre-8 novembre, a cura di Giorgio Bonomi, Marisa Vescovo.
1994 Deposito straordinario. 1° Fondo del museo della scultura in peperino, Ex Convento di Sant’Agnese, Vitorchiano (VT), dal 16 luglio, a cura di Raffaele Gavarro, Viviana Gravano, testi di Raffaele Gavarro, Viviana Gravano. Le più recenti acquisizioni della Galleria d’Arte Moderna Aroldo Bonzagni, Pinacoteca Civica,
Cento (FE), 11 dicembre 1994-15 gennaio 1995. Arroccamenti. Natura morta, paesaggio, figura, Rocca, Cento (FE), a cura di Valeria Tassinari.
1995 49° Concorso internazionale della ceramica d’arte, Museo internazionale delle ceramiche, Faenza (RA), 16 settembre- 22 ottobre 1995.
1996 Luigi Carboni. Dipinti-Giacinto Cerone. Sculture, Spazia Galleria d’Arte, Bologna, 21 gennaio-29 febbraio. Premio Marche. Biennale d’arte contemporanea, Mole Vanvitelliana, Ancona, 19 maggio-14 luglio. Come sospesa. Per un’idea della scultura italiana contemporanea, Ex Arsenale Austriaco, Verona, 29 giugno-28 luglio, a cura di Corrado Bosi, Mauro Zammataro, testo di Giacinto Cerone. Ultime Generazioni. XII Esposizione Nazionale Quadriennale d’Arte di Roma. Italia 1950-1990, Palazzo delle Esposizioni e Ala Mazzoniana della Stazione Termini, Roma, 25 settembre-25 novembre, a cura di Lorenza Trucchi, testo di Laura Cherubini. ARTissima. Fiera d’arte moderna e contemporanea, Lingotto Fiere, Torino, 26-29 settembre. Seminario, Chiesa S. Pietro alla Carità, Tivoli (RM), 3 ottobre-10 novembre, a cura di Roberto Gramiccia, testo di Roberto Gramiccia. Tra peso e leggerezza. Figure della scultura astratta in Italia, Parco e Sala Comunale, Cantù (CO), 13 ottobre-30 novembre.
1997 Giro d’Italia dell’arte in nove tappe. Roma, Associazione Culturale L’Attico, Roma, dal 14 marzo, a cura di Raffaele Gavarro.
Il diavolo e l’acquasanta. Giacinto Cerone. Sculture-Vincenzo Satta. Dipinti, Galleria Spazia, Bologna, 10 maggio-30 giugno. L’Arte a Roma. Iª edizione della Rassegna di arte contemporanea a Roma, 1997, Ex Mattatoio, Roma, 15 luglio-14 settembre, a cura di Patrizia Lazoi.
La fabbrica del vento, Ex Stabilimento Calissano, Alba (CN), 4 ottobre-2 novembre.
1998 Misura Dismisura. Due scultori a Palazzo Rospigliosi. Lucilla Catania – Giacinto Cerone, Palazzo Rospigliosi, Zagarolo (RM), 14 giugno‑10 agosto, a cura di Roberto Gramiccia, testi di Roberto Gramiccia, Simonetta Lux. Pompeiorama. 200 giorni per l’arte contemporanea. Marisa Albanese, Giacinto Cerone, Gianni Dessì, Casina Pompeiana Villa Comunale, Napoli, 13 dicembre 1998-31 gennaio 1999, a cura di Daniela Lancioni.
1999 Art & Maggio. Arena Puglia. “Felici coincidenze”. Seconda rassegna d’arte contemporanea, Stadio della Vittoria, Bari, 23 maggio-20 giugno, a cura di Marilena Bonomo, intervista di Tommaso Trini. La vita oltre. La visione della morte nell’arte contemporanea, Cimitero Acattolico inglese, Roma, 9-21 luglio, a cura di Carmine Sorrentino, Paolo de’Medici Ottajano.
2000 Gallerie in Galleria, Palazzo Pretorio, Sansepolcro (AR), 15 aprile-7 maggio, testo di Daniela Lancioni. Le Ali di Dio. Messaggeri e Guerrieri alati fra Oriente e Occidente. Mostra sugli Angeli per il Giubileo del Duemila, Castello Normanno Svevo, Bari, 6 maggio-31 agosto, prorogata fino al 15 settembre; Abbaye-aux-Dames, Caen, 5 ottobre-31 dicembre; a cura di Marco Bussagli, Mario D’Onofrio. Arte in Giro 2000, Ex Mattatoio, Roma, 12 maggio-4 giugno, a cura di Alberto Fiz. Periplo della scultura italiana contemporanea delle chiese rupestri, Madonna delle Virtù, S. Nicola dei Greci, Matera, 24 giugno-30 settembre, a cura di Giuseppe Appella, Pier Giovanni Castagnoli, Fabrizio D’Amico, testi di Giuseppe Appella, Pier Giovanni Castagnoli, Fabrizio D’Amico, Raffaele Gavarro. BNL, una Banca per l’arte: oltre il mecenatismo, Chiostro del Bramante, Roma, 15 settembre-15 ottobre, a cura di Enzo Bilardello, Guido Strazza.
2001 Odissee dell’arte, Sala Auditorium, Museo Revoltella, Trieste, 24 marzo-28 maggio, a cura di Achille Bonito Oliva. La scultura italiana del XX secolo, Yokoama Museum of Art, Yokoama, 21 aprile-10 giugno 2001; Kagoshima City Museum of Art, Kagoshima, 19 luglio-26 agosto 2001; The Museum of Modern Art Ibaraki, Mito, 4 settembre-28 ottobre 2001; Museum of Contemporary Art, Sapporo, 3 novembre-24 dicembre 2001; Shimane Art Museum, Matsue, 2 gennaio-24 febbraio 2002; Spazio Oberdan e Chiostri di Palazzo Isimbardi, Milano, 20 marzo-12 maggio 2002, a cura di Anna Imponente, testi in italiano e giapponese di Anna Imponente, Caterina Niccolini.
2002 La seduzione della materia, Spazio Oberdan, Palazzo Isimbardi, Milano, 23 marzo-12 maggio, a cura di Anna Imponente, testo di Anna Imponente, Caterina Niccolini. Entr’acte, Palazzo Albiroli, Bologna, 26 ottobre-17 novembre, a cura di Piercarlo Borgogno, Gino Gianuizzi, testo di Anna Piacentini. Κεραμος. Ceramica nell’arte italiana 1910-2002, Museo del Corso, Roma, 17 dicembre 2002-23 febbraio 2003, a cura di Francesca Romana Morelli, testi di Ludovico Pratesi, Francesca Romana Morelli, Maria Paola Maino, Tatiana Giovannetti.
2003 Incontri…dalla collezione di Graziella Lonardi Buontempo, Académie de France Villa Medici, Roma, 26 settembre-2 novembre.
2004
Roma Punto Uno, PICI Gallery, Seoul, 1-20 settembre; Tokyo Design Center, Gotanda, 6-14 ottobre; Kuchu Teien Tenbodai Sky Gallery, Osaka, 9-24 novembre, a cura di Mara Coccia, Mario de Candia.
2005 XIV Quadriennale di Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma, 9 marzo-31 maggio, a cura di Luciano Caramel, Valerio Dehò, Giacinto Di Pietrantonio, Marco Tonelli, Giorgio Verzotti. Entr’acte 2. Arte contemporanea in casa Gallizio, Casa Gallizio, Alba (CN), 8 ottobre-13 novembre.
2006 Keramicos. Un percorso sulla ceramica da Arturo Martini a Luigi Ontani, Claudia Gian Ferrari Studio di consulenza per il ‘900 italiano e arte contemporanea, Milano, 28 marzo-31 maggio, a cura di Claudia Gian Ferrari. Mario Quesada. Lo storico dell’arte e il poeta, Museo Boncompagni Ludovisi-Archivio Mario Quesada, Roma, 28 giugno-10 settembre, a cura di Irene De Guttry, Andrea Franchi, Maria Paola Maino.
2008 Faïence. Cento anni del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza, Camera dei Deputati,
Palazzo del Seminario, Roma, 2 aprile-30 maggio; Castello Sforzesco, Sale Viscontee, Milano, 5
luglio-2 settembre, a cura di Jadranka Bentini, testo di Carmen Ravanelli Guidotti. Nient’altro che scultura XIII Biennale internazionale di Carrara, Museo della Scultura ex Convento di San Francesco, Carrara (MS), 27 luglio-28 settembre, a cura di Francesco Poli. Italidea, Istituto Cultural Cabañas, Guadalajara, 28 novembre 2008-28 febbraio 2009; Museo Sant’Ildefonso, Città del Messico, 22 marzo-15 maggio, a cura di Renato Miracco, Carlo Lococo.
2009 Mitografie, Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese, Roma, 17 maggio-14 giugno, a cura di Andrea Fogli, Peter Weiermair, testo di Peter Weiermair.
2011 Lo scultore, la terra. Artisti e ricerche 1920-2011, Archivio della Scuola Romana, Roma; Emmeotto, Roma, 16 dicembre 2011-31 gennaio 2012.
2013 Storie italiane, Artefiera, Bologna, 25-28 gennaio, a cura di Laura Cherubini e Lea Mattarella. Ceramica italiana contemporanea, Museo d’arte, Mendrisio, 24 marzo-26 giugno.
2014 Cento + 1 Libri d’artista. Compagni di viaggio. I libri d’artista dalla collezione di Davide Servadei, Palazzo Trinci, Foligno, 3-18 maggio, a cura di Dino Silvestroni e Marco Carminati. La ceramica che cambia. La scultura ceramica in Italia dal secondo dopoguerra. Da Fontana a Leoncillo da Melotti a Ontani, Museo internazionale delle Ceramiche, Faenza, 28 giugno 2014-1 febbraio 2015, a cura di Claudia Casali. Trust (Vita vel regula), galleria Fluxia, Milano, 17 settembre-11 novembre, a cura di Michele D’Aurizio. Festival Internazionale di Fotografia. Portrait, MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, Roma, 26 settembre 2014-11 ottobre 2015.
2015 It’s all about paper, A100 Gallery, Galatina (LE), 2 maggio-30 settembre, a cura di Lorenzo Madaro. SCULPT!, Guidi&Schoen Arte Contemporanea, Genova, 1-24 ottobre, a cura di Luca Beatrice. EGOSUPEREGOALTEREGO. Volto e Corpo Contemporaneo dell’Arte, MACRO-Museo d’Arte Contemporanea Roma, Roma, 27 novembre 2015-8 maggio 2016, a cura di Claudio Crescentini.
2016 Fragili eroi. Storia di una collezione. La collezione di Roberto Gramiccia, Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese, Roma, 11 febbraio-10 aprile, a cura di Alberto Dambruoso. Ferro e Fuoco, Galleria Spazia, Bologna, 19 marzo-30 aprile. Materia prima. La ceramica dell’arte contemporanea, Palazzo Podestarile, Montelupo Fiorentino (FI), 19 marzo-30 giugno, a cura di Marco Tonelli.
2017
Animalia, Pio Monti Arte Contemporanea, Roma, 28 febbraio-30 marzo.
Leggere come gli uccelli e non come le piume. Carte e Ceramiche di Canevari, Cerone, Fontana, Pizzi Cannella, Bibo’s place, Todi, 9 aprile-8 luglio, a cura di Matteo Boetti e Andrea Bizzarro.
In the Earth Time: Italian Guest Pavillion, Gyeonggi Ceramic Biennale, Yeoju Dojasesang (World Ceramic Livingware Gallery) 7, Silleuksa-gil, Yeoju-si, Gyeonggi-do Province, 22 aprile-28 maggio, a cura di Irene Biolchini.
Il cammino delle Certose. I percorsi dell’anima, Certosa di San Martino, Napoli, 21 luglio-21 ottobre.
2018
L’azzardo della terra. Leoncillo, Nanni Valentini, Giacinto Cerone, Galleria Spazia, Bologna, dal 6 ottobre, a cura di Enrico Mascelloni.
2019
Giacinto Cerone, Ewa Juszkiewicz, Studio Cabinet, Milano, 21 marzo-30 giugno.
London Art Week Summer 2019, Galleria Carlo Virgilio, 28 giugno-5 luglio.
Il “valore” dell’arte, Banca Profilo, Roma, 11 novembre 2019-30 aprile 2020, a cura della Fondazione per l’Arte.
2020
Italian ceramics. Online show, Repetto Gallery, Londra, [maggio-settembre].
2021
Nelle tue mani. Sculture da Cambellotti a Nunzio, La Nuova Pesa, Roma, 2 marzo-13 aprile.
Quirinale Contemporaneo, Palazzo del Quirinale, Roma, 29 settembre 2021-luglio 2024.
Omaggio a Valeria Belvedere, Palazzo Ferrero, Biella, 16 ottobre 2021-9 gennaio 2022.
2022
Apocrypha. Il segreto del sacro nell’arte contemporanea, MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Università La Sapienza, Roma, 14 dicembre 2022-28 febbraio 2023, a cura di Gaetano Lettieri e Ilaria Schiaffini.
2023
Terra animata. Visioni tra arte e natura in Italia (1964-2023), Mattatoio, Padiglione 9°, Roma, 30 marzo-27 agosto, a cura di Paola Bonani e Francesca Rachele Oppedisano.
Personali selezionate
1983 Dieci sculture e dieci motivi jazz di Giacinto Cerone, Piazza Castello, Castronuovo S. Andrea (PZ), 14 agosto, a cura di Giuseppe Appella.
1987 Giacinto Cerone. Sculture, Associazione Culturale Hobelix, Messina, 17 gennaio-5 febbraio, testo di Elena Cavallo.
1988 Maara, Graffiti Now Atelier, Verona, 3 giugno-2 luglio, testo di Barbara Tosi.
1989 Malatesta, Graffiti Now Atelier, Verona, 14 ottobre-18 novembre, testo di Elena Cavallo.
1990 Fucilieri, Galleria Maurizio Corraini, Mantova, dal 20 gennaio, testo di Martina Corgnati. Giacinto Cerone. San Michele, Galleria Valeria Belvedere, Milano, 29 novembre 1990-26 gennaio 1991, testo di Francesco Poli.
1991 Disegni e sculture di Giacinto Cerone, La Scaletta, Matera, 16-31 marzo, testo di Giuseppe Appella. Doppi fiumi. Giacinto Cerone. Sculture in ceramica, Graffiti Now Atelier, Verona, dal 26 ottobre.
1992 L’Aquila, Galleria Roberto Monti, Modena, dal 9 maggio, testo di Vittoria Coen.
1993 Molle di vetro, Galleria Maurizio Corraini, Mantova, 27 febbraio-28 marzo, testo di Giosetta Fioroni. Omaggio a Roma, Galleria Valeria Belvedere, Milano, 4 marzo-24 aprile, testo di Meyer Raphael Rubinstein. Aiaram, Galleria Valentina Bonomo, Roma, 11 novembre-15 dicembre.
1995 Ofelia in traum, Colpo di Fulmine Associazione Culturale per l’arte attuale, Verona, dal 18 marzo, testo di Maurizio Gracceva. Alpi Apuane, Galleria Maurizio Corraini, Mantova, dal 3 giugno.
1996 Giacinto Cerone, Via degli Artisti, Associazione Culturale Circolo di Palazzo Giovine,Torino, 7 novembre-30 dicembre. Le tentazioni di S. Antonio, Fioretto Arte Contemporanea, Padova, 30 novembre 1996‑ 30 gennaio 1997, testo di Giacinto Cerone. Il Presepe drammatico di Cerone, Chiesa S. Maria della Stella, Castronuovo S. Andrea (PZ), dicembre, a cura di Giuseppe Appella, preghiera di Giacinto Cerone.
1997 Paginette faentine, Galleria Oddi Baglioni, Roma, 10 dicembre 1997-30 gennaio 1998, testo di Raffaele Gavarro.
1998
Grossetti Arte Contemporanea, Milano, 21 maggio-31 luglio.
1999 Giacinto Cerone. Ofelia in Traum. Litografie, Associazione Culturale Colpo di Fulmine, Verona, dal 14 febbraio. Giacinto Cerone, Spazio per l’arte contemporanea Tor Bella Monaca, Roma, 21 dicembre 1999-29 febbraio 2000, a cura di Daniela Lancioni, testi di Daniela Lancioni, Cristina Agostini, Chiara Capodici, Antonia Giusino, Laura Iafolla, Clarissa Ricci, Manuela Pallotto, Federico Boccaccini, Giuliano Sergio, testo poetico di Maria Grazia Pontorno.
2000 I soffincielo, Casa Musumeci Greco, Roma, dal 24 maggio. Giacinto Cerone, David Gill Galleries, Londra, 25 maggio-17 giugno.
2001 Tripoli. Delle croci e delle delizie, Galleria Maurizio Corraini, Mantova, 28 aprile-30 maggio, testi di Giacinto Cerone. Calici piangenti, Palazzo delle Esposizioni, Faenza (RA), 12 maggio-24 giugno, a cura di Raffaele Gavarro, testi poetici di Patrizia Cavalli, Isabella Morra, Friedrich Hölderlin, Gian Ruggero Manzoni, testi critici di Raffaele Gavarro, Daniela Lancioni, Elena Volpato, testimonianze di Giosetta Fioroni, Luigi Ontani.
2002 Donne per la storia, Gasparelli Arte Contemporanea, Fano (PU), 4 maggio-2 giugno, a cura di Rodolfo Gasparelli, testo di Gian Ruggero Manzoni. Sant’Agnese, Autori Cambi, Roma, 6 giugno-6 luglio, testo di Raffaele Gavarro.
2003 Giacinto Cerone. 10 opere su carta. Omaggio a Carol Rama, Galleria Maurizio Corraini, Mantova, 7 giugno-30 luglio. Storie di vita morte e miracoli. Domenico Baccarini, Giacinto Cerone, Gasparelli arte contemporanea, Fano (PU), 18 luglio-20 agosto, a cura di Gian Ruggero Manzoni. Rush, David Gill Galleries, Londra, 22 ottobre-6 dicembre, testo Elena Cavallo.
2004 Arte a Valle Giulia. Giacinto Cerone, Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, Roma, marzo-aprile.
2005 Il presepe drammatico di Giacinto Cerone, Circolo La Scaletta, Matera, 22 dicembre 2005-15 gennaio 2006, a cura di Giuseppe Appella, preghiera di Giacinto Cerone.
2006 Sui sentieri di Ho Chi Minh, Gasparelli Arte Contemporanea, Arte Fiera, Bologna, 27-29 gennaio 2006, testi di Domenico Brancale, Gian Ruggero Manzoni. Omaggio a Giacinto Cerone, Galleria De’ Foscherari, Bologna, 18 febbraio-30 marzo, testo di Giosetta Fioroni.
2007 Tracce di Dublino, Opere su carta 1987/1991, Galleria Maurizio Corraini, Mantova, 4 maggio-7 giugno, Mantova, testi di Giacinto Cerone.
Giacinto Cerone. Il presepe drammatico e altre opere dal 1975 al 2004, Museo Pericle Fazzini, Assisi (PG), 18 dicembre 2007-10 febbraio 2008, a cura di Giuseppe Appella, testo di Giuseppe Appella.
2008 Il presepe drammatico di Giacinto Cerone e una selezione di opere dal 1985 al 2004, ex Chiesa Madonna di Loreto, Castello Malatestiano, Longiano (FC), 10 dicembre 2008-15 gennaio 2009, a cura di Giuseppe Appella, testo di Giuseppe Appella.
2010 Il presepe drammatico di Giacinto Cerone, Santuario della Scala Santa, Roma, 18 dicembre 2010-6 gennaio 2011, a cura di Giuseppe Appella.
2011 Giacinto Cerone 1957- 2004, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma, 24 giugno-25 ottobre, a cura di Angelandreina Rorro, testi di Angelandreina Rorro, Giuseppe Appella, Raffaele Gavarro, Daniela Lancioni, Mario Codognato. Giacinto Cerone, Galleria Edieuropa Qui Arte Contemporanea, Roma, 4 dicembre 2011-18 febbraio 2012. Giacinto Cerone, Galleria Valentina Bonomo, Roma, 4 dicembre 2011-29 marzo 2012. Giacinto Cerone e la Lucania, MUSMA Museo della Scultura Contemporanea, Matera, 8 dicembre 2011-28 gennaio 2012, a cura di Giuseppe Appella. Il presepe drammatico di Giacinto Cerone, Chiesa del Carmine, Palazzo Lanfranchi, Matera, 8 dicembre 2011-28 gennaio 2012, a cura di Marta Ragozzino.
2014 Opere su carta dal 900 italiano con un omaggio a Giacinto Cerone, Bibo’s place, Todi, 1 marzo-28 maggio, a cura di Matteo Boetti e Andrea Bizzarro. Giacinto Cerone. Il massimo dell’orizzontale. Opere su carta, MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, Project Room 1, Roma, 7 maggio 2014-14 settembre, a cura di Benedetta Carpi De Resmini.
2016 Giacinto Cerone. Santo e Contrario, Galleria Gruppo Credito Valtellinese, Milano, 30 novembre 2016-21 gennaio 2017, a cura di Raffaele Gavarro.
2017
Giacinto Cerone. Una nota che non c’è, Montrasio Arte, Milano, 28 marzo–12 maggio; Km0, Innsbruck, 6 giugno-28 luglio; Montrasio Arte, Monza, 12 settembre-21 ottobre, a cura di Marco Tonelli.
2019
Giacinto Cerone, Galleria Corraini Arte Contemporanea, ArteFiera 2019, Bologna, 1-4 febbraio.
Giacinto Cerone. Una nota che non c’è, De Crescenzo & Viesti, Roma, 16 ottobre-29 novembre.
2021
Giacinto Cerone, Litografia Bulla, Roma, 13 febbraio-13 marzo.
Giacinto Cerone. Scultore, Galleria Corraini Arte Contemporanea, Mantova, 19 novembre 2021-8 gennaio 2022.
OPERE IN COLLEZIONI E MUSEI
Galleria d’Arte Moderna Aroldo Bonzagni, Cento.
Banca Nazionale del Lavoro, Roma.
MACRO, Museo d’Arte Contemporanea, Roma.
Galleria d’Arte Moderna, Torino.
Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza
Inpdap-Istituto Nazionale di Previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica, sede di
Bruxelles.
Unicredit, Torino.
MUSMA. Museo della Scultura Contemporanea Matera.
MIG. Museo Internazionale della Grafica, Castronuovo Sant’Andrea,
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.
MIC Museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza
Tel/Fax: 06/5565514 (i giorni martedì e giovedì 16.00-19.00) e-mail: info@archiviogiacintocerone.com Sito: www.archiviogiacintocerone.com Indirizzo: via Luigi Magrini, 18 – 00146, Roma Si riceve solo per appuntamento
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