Mario Luzi-Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi-
A cura di: Baioni Paola, Savio Davide-Edizioni di Storia e Letteratura – Roma
A cent’anni dalla nascita di Mario Luzi, il volume curato da Paola Baioni e Davide Savio ricorda la figura del grande poeta raccogliendo una serie di interventi che ne indagano l’eredità, tuttora viva e operante sulla letteratura italiana. È soprattutto l’ultima stagione dell’opera luziana, quella “paradisiaca”, a porsi come centro dell’attenzione: sotto l’insegna di Frasi nella luce nascente, Luzi ha sviluppato un coerente percorso di ricerca, che mirava ad approssimare i «fondamenti invisibili» dell’esistenza, secondo i modi dell’interrogazione e della lode a Dio. Pur consapevole della finitudine del linguaggio, Luzi ha intessuto un discorso frammentario ma aperto alle manifestazioni dell’essere, tale da trasformare la poesia in epifania, l’enigma in kerigma. Oltre a ospitare i contributi dei maggiori studiosi di Luzi, il volume è impreziosito da sette scritti dispersi, taluni inediti, reperiti da Stefano Verdino, e dalla riproduzione di alcune carte del taccuino che ospita i lacerti embrionali di un’opera epocale, Nel magma, esaminati da Daniele Piccini. È presente inoltre una sezione di Testimonianze, dove i poeti stessi raccontano Luzi: Milo De Angelis, Franco Loi, Guido Oldani, Silvio Ramat, Davide Rondoni e Cesare Viviani recano un tributo di amicizia e di riconoscenza all’uomo e al maestro, faro insostituibile nelle acque agitate del Novecento.
Edizioni di Storia e Letteratura
via delle Fornaci, 38
00165 Roma
tel. 06.39.67.03.07
Edizioni di Storia e Letteratura
Fondate da don Giuseppe De Luca, le Edizioni di Storia e Letteratura diedero alle stampe il loro primo volume nel 1943. In un periodo tragico della storia italiana, durante il quale era però anche giunta a maturazione l’esigenza di un profondo rinnovamento culturale, De Luca intendeva tener «alta l’indagine storica e letteraria, e risollevare erudizione e filologia», convinto che solo l’attenta ricognizione di tutte le testimonianze e il rigoroso accertamento dei fatti avrebbero potuto promuovere una corretta valutazione del patrimonio sia di ambito civile sia di ambito religioso. Da qui il carattere distintivo delle Edizioni, con un catalogo imperniato sulle scienze umanistiche dove da sempre convive con la voce e la scrittura dei ‘maestri’ la ricerca dei giovani studiosi, a cominciare da Lo scrittoio del Petrarca di Giuseppe Billanovich.
Rilevate negli anni Novanta del secolo scorso da Federico Codignola, le Edizioni di Storia e Letteratura hanno tenuta fissa la prua sulla rotta di un’editoria che si sostanzia di ricerche di valore e rigorosa attenzione al libro, portando la barca con i dolia – il simbolo della casa editrice – a navigare sicura nelle acque per certi versi ignote del nuovo millennio. Il catalogo mantenuto sempre vivo, ben oltre i termini usuali nello scenario editoriale odierno, spazia dalla filologia classica e umanistica alla storia medievale, moderna e contemporanea, dalle scienze documentarie alla filosofia, dalla storia delle religioni alle letterature europee; si distingue per l’attenzione alla memorialistica, per le nutrite collane di carteggi – da Croce e Palazzeschi a Prezzolini, Sturzo e Ungaretti – e per le edizioni nazionali di pregio – Svevo, Tozzi, Verri, Vico, Marino.
La tradizione esemplificata nei nomi degli autori presenti nella collana maggiore – Billanovich, Campana, De Sanctis, Dionisotti, Kristeller, Momigliano tra gli altri – e dalle collane di ampio respiro create da De Luca – Letture di Pensiero e d’Arte, Sussidi eruditi, Temi e testi – si rinnova nei progetti degli ultimi anni avviati con la collaborazione di prestigiose istituzioni culturali, ma anche come contributo indipendente ad un’auspicabilmente viva editoria di cultura. Così, a completare un percorso, sono nate la collana di filologia e letteratura greca Pleiadi e la riproposizione della celebre serie dei Papiri Greci e Latini; a colmare una lacuna è sorta Biblioteca del XVIII secolo. Alle tradizionali collane in anastatica della casa editrice si sono affiancate le Edizioni Gobettiane che ripropongono al lettore contemporaneo l’intero ‘catalogo’ dell’intellettuale-editore torinese. Per un pubblico più ampio, invece, Civitas raccoglie testi brevi e pregnanti corredati da nuove introduzioni. Bites inaugura un nuovo percorso che ambisce a portare rigore filologico ed edizioni critiche nel campo dell’open access e dell’editoria digitale.
Infine, in anni recentissimi argomenti ha aperto la casa editrice alla ‘varia’ con una collana orientata in primis alla storia del pensiero e alla memorialistica, mentre Ricerca filosofica si propone come il contenitore che mancava per la filosofia contemporanea.
Nasce nel 2023, in concomitanza con l’ottantesimo anniversario delle Edizioni di Storia e Letteratura (1943-2023), Il tempo ritrovato. Destinata ad un pubblico ampio e non specialista, per la prima volta dalla fondazione, la collana apre le porte ad opere di narrativa mai pubblicate in Italia. Accoglie anche saggistica e recuperi dal catalogo storico, in una nuova veste grafica. Non si configura come una serie tematica, ma come un cantiere aperto che restituisce al lettore un nuovo tempo, autentico e non misurabile: il tempo della coscienza e della riflessione. Le Edizioni di Storia e Letteratura continuano così la loro navigazione spinte dallo stesso spirito di libertà, alieno ad ogni preclusione ideologica e culturale.
Aaron Edward Hotchner -Papà Hemingway. Racconti personali
– Pgreco editore-
Sinossi-“Aaron Edward Hotchner non è solo autore di Papà Hemingway, la più accreditata biografia dell’autore americano, ma è stato anche tra i suoi più cari amici.” Susanna Nirenstein, “la Repubblica”
Nel 1948 Aaron Edward Hotchner va all’Avana per chiedere a Ernest Hemingway di scrivere un articolo per la rivista “Cosmopolitan”. L’articolo non si materializza, ma da quel primo incontro fino alla morte di Hemingway, nel 1961, Hotchner e l’autore vincitore del premio Nobel sviluppano una profonda e duratura amicizia. Fanno baldoria a New York e a Roma, corrono con i tori a Pamplona, cacciano in Idaho e pescano nelle acque di Cuba. Ogni volta che si incontrano, Hemingway parla di una sorprendente varietà di argomenti, dall’arte del daiquiri perfetto alla Parigi degli anni ’20 fino alla sua infanzia a Oak Park, Illinois. E, fortunatamente, Hotchner prende nota di tutto. In questo libro, dunque, egli ci racconta dettagli affascinanti sulla vita quotidiana di Hemingway e documenta i suoi ricordi di Gertrude Stein, Francis Scott Fitzgerald, Martha Gellhorn, Marlene Dietrich e molti dei più importanti artisti e delle celebrità del Ventesimo secolo. Negli ultimi anni, quando la cattiva salute dello scrittore comincia a influenzare il suo lavoro, Hotchner ritrae teneramente e onestamente i valorosi tentativi di Hemingway di sconfiggere la depressione che lo porterà a togliersi la vita. Profondamente compassionevole e molto divertente, questa biografia “fa vivere Hemingway come nessun’altra”.
Aaron Edward Hotchner (1917-2020) è stato un editore, romanziere, drammaturgo e biografo statunitense. Ha scritto molte sceneggiature televisive, oltre alle note biografie di Doris Day ed Ernest Hemingway.
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Breve biografia di Ernest Hemingway ,Scrittore statunitense (n. Oak Park, Illinois, 1899 – m. Sun Valley, Idaho, 1961). Romanziere tra i più celebri del Novecento, tema ricorrente di tutta la sua opera è la sfida alla morte, carattere distintivo anche di un percorso di vita singolare, conclusosi con il suicidio. In posizione polemica contro ogni abbandono emotivo, con i suoi laconici dialoghi e il tono verbale sempre un po’ al disotto della situazione, volontariamente implicante più di quanto dice (understatement), H. inaugurò quella narrativa sconcertante (hard–boiled) che ha avuto tanti seguaci e imitatori. Autore del più importante romanzo sulla prima guerra mondiale, A farewell to arms (1929), tra le sue opere principali occorre citare anche For whom the bell tolls (1940) e The old man and the sea (1952), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1954.
Vita e opere
Figlio di un medico, iniziò, non ancora ventenne, a collaborare con un giornale di Kansas City. Durante la prima guerra mondiale combatté sul fronte italiano e rimase ferito, guadagnandosi la medaglia d’argento al valor militare. Fu a Parigi (1921-26) col gruppo degli espatriati americani e subì l’influenza dello stile di G. Stein (Three stories and ten poems, 1923; In our time, 1925); i ricordi del soggiorno francese sono stati pubblicati postumi in A moveable feast (1964). I primi libri che inaugurarono quel dialogo laconico e quel tono verbale sempre un poco al di sotto della situazione, implicante più di quanto dice (understatement), e quel conseguente carattere sconcertante della narrativa (cosiddetta hard- boiled), che in lui nascevano da una polemica contro ogni abbandono emotivo, furono The sun also rises (1926) e A farewell to arms (1929). Con Death in the afternoon (1932), e Green hills of Africa (1935) diede incremento a tutta la contemporanea narrativa anglosassone di reportage. Al centro del suo mondo interiore sta l’esigenza di una norma individuale, di un personale codice d’azione come unico valore riconosciuto. Così anche nelle sue novelle, raccolte insieme con una commedia (The fifth column and the first forty-nine stories, 1938). Al principio di monotonia che tale situazione interiore sembra determinare non si sottraggono neanche, nonostante maggiori contatti umani, i personaggi delle opere successive: To have and have not (1937), For whom the bell tolls (1940). Sono anche da ricordare: The torrents of spring (1926), Across the river and into the trees (1950), e uno dei suoi più felici racconti: The old man and the sea (1952).
Descrizione del libro di Michela Monferrini-Dalla parte di Alba-Un’anziana scrittrice riceve nel suo appartamento parigino una studentessa di Lettere e nel dialogo con lei riaccende le stanze dell’infanzia, le avventure della giovinezza, le pagine della maturità. Figlia di un diplomatico cubano e di un’ammirata donna della borghesia romana, Alba de Céspedes ha trascorso una vita in bilico tra continenti e rivoluzioni, all’inseguimento dei suoi genitori, alla ricerca dei suoi personaggi, alla conquista di una stanza tutta per sé per dedicarsi a ciò a cui si sentiva destinata fin da bambina: scrivere, scrivere, scrivere. Carica di storia ― il nonno, poeta e combattente, è stato il primo presidente in armi di Cuba ― ha attraversato il Novecento in prima persona, prestando la voce alla Resistenza e il cuore a uomini che non potevano capirla fino in fondo. Intrecciati a zie e maggiordomi, amanti e conoscenti, amici e cartomanti, fanno la loro comparsa tra le righe Natalia Ginzburg e Simone de Beauvoir, Thomas Mann e Fidel Castro, Benedetto Croce e Italo Calvino, ma soprattutto le ombre letterarie dei suoi personaggi femminili. Alba de Céspedes diventa qui a sua volta protagonista di un romanzo che è anche una riflessione sul senso della scrittura come eredità di una vita.
Michela Monferrini (Roma, 1986)è autrice di due guide letterarie dedicate alla Napoli di Raffaele La Capria (Conosco un altro mare, Perrone 2012) e al Portogallo di Antonio Tabucchi (Cercando Tabucchi, Postcart 2016), e del ritratto Grazia Cherchi (Ali&No, 2015). Ha pubblicato il romanzo Chiamami anche se è notte (Mondadori 2014, finalista Calvino 2012 e Zocca 2015) e, per ragazzi: L’altra notte ha tremato Google Maps (Rrose Sélavy 2016, Premio Simpatia per l’impegno nel sociale 2017 e finalista Gigante delle Langhe 2018) e Charlotte Brontë, tre di sei (rueBallu, 2018). Il suo ultimo libro è Muri maestri (La nave di Teseo, 2018). È stata finalista al Premio Subway Poesia 2005 e Campiello Giovani 2008. Ha curato la biografia del critico Walter Mauro, La letteratura è un cortile (Perrone, 2011) e la miscellanea di scritti su Antonio Debenedetti Quasi un racconto (Edilet, 2009). Autrice della guida letteraria Conosco un altro mare. La Napoli e il Golfo di Raffaele La Capria (Perrone 2012), il suo romanzo d’esordio è uscito per Mondadori nel 2014: Chiamami anche se è notte, finalista Premio Calvino 2012 e finalista Premio Zocca Giovani 2015.
Descrizione -Prefazione-Quando incontrai per la prima volta Zygmunt Bauman a casa sua, la cosa che mi colpì soprattutto fu lo stridente contrasto fra la persona che mi trovai davanti e la sua opera. Il più autorevole sociologo d’Europa, che in ogni riga dei suoi scritti lascia trasparire l’irritazione per le situazioni di vita e le società esistenti, incantava col suo spirito arguto, col suo charme disarmante e con la sua contagiosa gioia di vivere.
Dopo aver lasciato per raggiunti limiti di età la cattedra all’Università di Leeds nel 1990, Zygmunt Bauman pubblicò in successione un libro dopo l’altro, a una velocità davvero prodigiosa, su un ampio ventaglio di argomenti che andavano dalla vita intima alla globalizzazione, dalla tv dei reality all’Olocausto, dal consumismo al cyberspazio. Letto in tutti i continenti, lo studioso indicato come «capo dei nemici della globalizzazione», «guida del movimento Occupy» e «profeta del postmoderno», ha rappresentato un fenomeno straordinario nel mondo delle scienze dello spirito. Animato dalla curiosità insaziabile di un uomo del Rinascimento, egli ignorò la frammentazione del sapere in specializzazioni nettamente definite e accanitamente difese. Nelle sue riflessioni, il politico e il personale non sono separati; i motivi per cui stiamo disimparando ad amare o per cui non ce la caviamo agevolmente con i giudizi morali, sono questioni che Zygmunt Bauman scandaglia con pari profondità tanto nei loro aspetti sociali quanto in quelli individuali. I suoi risultati non sono affatto tranquillizzanti come non lo è l’ammonimento che lo sterminio di massa attuato con metodo industriale non è una barbarie relegata in un passato che non può tornare.
Fu la visione epica del mondo che mi affascinò, quando cominciai a leggere i suoi libri. Quello che Zygmunt Bauman scrive non lascia mai indifferenti, anche se il lettore non concorda con lui su questo o quel punto o addirittura dissente del tutto con la sua visione. Chi si confronta con la sua opera, è indotto a vedere il mondo e sé stesso in maniera diversa da prima. Per lui, questo appunto era il suo compito: di rendere non familiare ciò che è familiare, e familiare ciò che è non familiare; che è poi, secondo Bauman, il compito della sociologia in generale.
E questo lo può fare solo chi si preoccupa di avere davanti agli occhi tutto l’uomo, di guardare al di là della propria specializzazione, ha conoscenza di filosofia e psicologia, di antropologia e storia, di arte e letteratura. Zygmunt Bauman non è uomo dei dettagli minuti, delle analisi e inchieste statistiche, delle cifre, dei nudi dati e dei sondaggi. Egli dipinge con pennellate larghe su ampia tela, propone asserzioni, lancia tesi nel dibattito e provoca discussioni. Nella famosa distinzione stabilita da Isaiah Berlin ispirata a un antico detto del poeta greco Archiloco tra due categorie di pensatori e scrittori – «La volpe sa molte cose, ma il riccio sa una grande cosa» –, Zygmunt Bauman è insieme riccio e volpe. Egli ha coniato l’espressione «modernità liquida», che con una rapidità finora sconosciuta muta tutti i rapporti di vita – amore, amicizia, lavoro, libertà, famiglia, comunità, società, religione, politica e potere. «La mia vita», dichiarò una volta, «consiste nel riciclare l’informazione». È una dichiarazione che suona modesta, non appena ci si rende conto di quale portata siano le trasformazioni in gioco.
In un tempo di paura e incertezza, in cui tanti si lasciano abbagliare dalla panacea del populismo, l’analisi critica dei problemi e delle contraddizioni della nostra società e del mondo è più che mai necessaria. È il presupposto perché si possa pensare ad alternative, anche se magari al momento sono fuori della nostra portata. Nonostante tutte le speranze deluse, Zygmunt Bauman, da buon comunista, non ha mai rinunciato a credere nella possibilità di una società migliore. Il suo interesse era concentrato non sui vincitori ma sui perdenti, sugli sradicati e su quelli spogliati di diritti, sul numero crescente di sottoprivilegiati, di cui fanno parte ormai non più solo povere persone di colore di terre lontane, ma anche molti lavoratori occidentali. La paura di vedersi sfuggire da sotto i piedi il terreno, che nei prosperi anni del dopoguerra appariva di solida roccia, è oggi un fenomeno di massa a raggio mondiale: nemmeno il ceto medio ne è risparmiato. In un clima che richiede di fare i conti con la realtà e di accettare questo mondo come il migliore dei mondi possibili nel senso di Leibniz, Bauman difende l’utopia. Non come manuale per la costruzione di un castello in aria del futuro, ma come stimolo al miglioramento delle condizioni in cui viviamo qui e ora.
Zygmunt Bauman mi ricevette per quattro lunghe conversazioni sull’opera complessiva della sua vita nella casa di Leeds, in Inghilterra. Un piccolo giardino incantato davanti all’edificio, con sedili sovrastati dal muschio e il tavolo ingoiato dagli arbusti, separa l’abitazione da una strada molto trafficata, quasi a indicare plasticamente che solo il contrasto mette nel giusto risalto le cose. Fisico asciutto, alto, coi suoi novant’anni Bauman era vivacissimo e lucidissimo; con ampi movimenti delle mani disegnava nell’aria le sue considerazioni, come se dirigesse un’orchestra, o picchiava col pugno sul bracciolo della poltrona, per dare forza a una affermazione. Quando ogni tanto parlava della morte vicina, lo faceva con la serenità di uno che, soldato nella Seconda guerra mondiale, ebreo polacco profugo in Unione Sovietica e vittima della «pulizia etnica» antisemitica della Polonia nel 1968, ha sperimentato sulla propria carne il lato oscuro della «modernità liquida», di cui è diventato il teorico.
Il tavolino era sempre ingombro di vassoi con croissant e fette biscottate, pasticcini e dolcetti alla frutta, tartine e crema di scampi, accompagnati da bevande calde e fredde e succhi di frutta come il «kompot» polacco, e il padrone di casa conduceva il suo ospite lungo il percorso dei suoi pensieri, senza dimenticare di sollecitarlo ripetutamente a servirsi e assaggiare un po’ di tutte quelle prelibatezze che aveva preparato.
Bauman parlò della vita, dei tentativi di costruirla continuamente frustrati dal destino, e dello sforzo di rimanere ciononostante un uomo che può guardarsi negli occhi. Alla fine delle nostre conversazioni, a mo’ di congedo, tenendo strette le mie mani nelle sue, mi disse che mi augurava di vivere a lungo come lui, ma che comunque ogni età, pur con tutte le difficoltà, ha i suoi lati belli.
Zygmunt Bauman è morto il 9 gennaio di quest’anno nella sua casa di Leeds.
Questi ultimi colloqui che io ho avuto con lui vogliono essere un invito alle lettrici e ai lettori, a proseguirli dove e con chi meglio credono.
gennaio 2017
Peter Haffner
Amore e sesso
Scelta del partner: perché stiamo disimparando ad amare
Peter Haffner Cominciamo con la cosa più importante: l’amore. Lei afferma che stiamo disimparando ad amare. Come è arrivato a questa conclusione?
Zygmunt Bauman Dopo la tendenza a fare shopping su internet, è venuta subito la tendenza a cercarvi un partner. Anche io personalmente non amo girare per negozi, e compro la maggior parte delle cose online – libri, film, vestiti. Se vuoi una giacca nuova, ecco il sito del commercio online che ti propone un catalogo. Se cerchi un partner, ecco ugualmente il sito di incontri online che ti offre un catalogo. Il modello dei rapporti fra clienti e merci diventa il modello delle relazioni fra gli uomini.
P.H. Che differenza c’è rispetto a prima, quando uno conosceva la propria futura compagna di vita a una festa del villaggio o a un ballo in città? Non si facevano anche in quel caso delle scelte secondo le proprie preferenze?
Z.B. Per le persone timide, internet può essere di certo un aiuto. Qui infatti non sono costrette a doversi fare forza per trovare il coraggio di rivolgere la parola a una ragazza, non hanno timore di arrossire. Sono agevolate nell’allacciare un legame, non si sentono troppo bloccate. Certo, nei siti di incontri c’è da fare lo sforzo di indicare le qualità del partner che corrispondono ai propri desideri e alle proprie aspettative. Lo si sceglie per colore dei capelli e della pelle, per statura, aspetto, dimensioni del seno, età, interessi e hobby, propensioni e avversioni. Dietro tutto questo c’è l’idea che si possa comporre l’oggetto d’amore come un puzzle con un certo numero di qualità fisiche e sociali misurabili. Così si perde di vista l’elemento essenziale: la persona umana.
P.H. Ma anche quando uno si costruisce a questa maniera il tipo corrispondente alle proprie fantasie, le cose cambiano non appena incontra la persona in carne e ossa. Che è sempre molto più della somma di quei tratti esteriori.
Z.B. Il pericolo è che in questo modo il modello dei rapporti assuma i connotati della relazione con un oggetto d’uso. A una sedia non si giura fedeltà. Perché mai dovrei giurare che siederò su questa sedia fino alla morte? Quando non mi piace più, ne compro un’altra nuova. Non si tratta di un processo cosciente, ma diventa la modalità in cui impariamo a vedere il mondo e gli uomini. Che succede quando incontriamo qualcuno che ci colpisce e attrae? È come con la bambola Barbie. Arriva sul mercato una nuova versione, e cambiamo la vecchia con la nuova.
P.H. Intende dire che ci si separa in maniera precipitosa?
Z.B. Intraprendiamo una relazione perché ci ripromettiamo una soddisfazione. Se ho l’impressione che un altro partner può darmi di più, tronco la relazione in corso e ne avvio una nuova. Per far nascere una relazione, serve l’accordo di due persone. Per spezzarla, basta una sola. Il che significa che i due partner vivono nella paura costante di essere lasciati. Di essere buttati via come una giacca passata di moda.
P.H. Ma questo è nella natura di ogni accordo.
Z.B. Certo, ma in passato era difficile spezzare un legame, anche quando non dava più soddisfazione. La separazione era complicata, era l’alternativa a un matrimonio – diciamo così – inesistente. Si soffriva, ma si rimaneva insieme.
P.H. E allora la libertà di potersi lasciare è peggio della costrizione a vivere insieme in uno stato di infelicità?
Z.B. Si guadagna qualcosa, ma si perde anche qualcosa. Uno è più libero, ma purtroppo deve subire il fatto che anche il partner è più libero. E questo porta a una vita in cui le relazioni e le unioni vengono formate secondo il modello del leasing. Chi può sciogliersi dai legami, lo farà subito senza fare alcuno sforzo per mantenerli. Le persone contano solo fin tanto che producono soddisfazione. Dietro di questo c’è la convinzione che i legami duraturi siano in contrasto con la ricerca della felicità.
P.H. E sarebbe un errore, come Lei scrive in Amore liquido, il Suo libro sull’amicizia e i legami affettivi.
Z.B. È il problema dell’amore liquido. In tempi turbolenti ognuno ha bisogno di amici e partner che non lo abbandonino. Che siano presenti nel momento del bisogno. I 16 miliardi di dollari nelle casse di Facebook non fanno che capitalizzare questa esigenza di non essere soli. D’altronde, tutti sentiamo l’urgenza di affidarci a qualcuno e di legarci. Temiamo di perdere qualcosa. Cerchiamo un porto sicuro, ma allo stesso tempo vogliamo avere le mani libere.
P.H. Lei è stato sposato con Janina Lewinson, deceduta nel 2009, per 61 anni. Dal momento del vostro primo incontro – scrive Sua moglie nelle sue memorie Un sogno di appartenenza – Lei non si staccò mai dal suo fianco. Ogni volta che la chiamava al telefono, «guarda caso!», Lei aveva un impegno che La portava proprio là dove Sua moglie voleva andare. E quando Janina Le comunicò che era incinta, Lei si mise a ballare per strada e la baciò, nonostante fosse in uniforme da capitano dell’esercito polacco, cosa che fece scalpore. Ancora decenni dopo il matrimonio, scrive Janina, Lei continuava a mandarle lettere d’amore. In che consiste il vero amore?
Z.B. Quando incontrai Janina, capii subito che non avevo bisogno di cercare ancora. Fu amore a prima vista. Nel giro di nove giorni le feci la proposta di matrimonio. Il vero amore è quel piacere – difficile da capire, ma travolgente – dell’«io e tu», dell’esserci l’uno-per-l’altro, del diventare uno. Il godimento che trovo in qualcosa che non è importante solo per me. Essere usato o diventare addirittura insostituibile è un sentimento che dà felicità! Arrivarci non è facile. Diventa irraggiungibile se uno continua a rimanere nella solitudine dell’egoista, interessato solo a sé stesso.
P.H. L’amore, dunque, impone un sacrificio.
Z.B. Se l’essenza dell’amore sta nell’attitudine a prendersi cura dell’oggetto d’amore in tutto e per tutto, vuol dire che colui che ama deve essere pronto a mettere in secondo piano la preoccupazione per sé stesso rispetto a quella per la persona amata. Dev’essere disposto a trattare la propria felicità come secondaria, come un effetto collaterale della felicità della persona amata. Per essa, colui che ama – per dirla col poeta greco Luciano – «ipoteca il suo destino». In una relazione d’amore, altruismo ed egoismo non sono, come si pensa di solito, in antinomia inconciliabile. Si legano, invece, si mescolano tanto che alla fine non si possono più distinguere fra loro o essere separati.
P.H. L’americana Colette Dowling ha chiamato la paura delle donne davanti all’indipendenza «complesso di Cenerentola». La voglia di sicurezza, di calore e di sentirsi accudita è un’«emozione pericolosa», afferma Dowling e ammonisce le donne a non rubarsi da sole la loro libertà. Che cosa non la convince in questo ammonimento?
Z.B. Dowling metteva in guardia dalla spinta a preoccuparsi degli altri col rischio di perdere la possibilità di balzare a piacimento su un nuovo carro. È tipico delle utopie private di ragazzi e ragazze dell’età consumistica rivendicare per sé enormi spazi di libertà. Si ritengono l’ombelico del mondo e pensano di poter giocare sempre da solisti. E non ne hanno mai abbastanza.
P.H. La Svizzera, in cui sono cresciuto, non era una democrazia. Fino al 1971 le donne, cioè la metà della popolazione, non avevano il diritto di voto. A tutt’oggi continua a non esserci uguaglianza retributiva a parità di lavoro, e ai livelli dirigenziali delle imprese le donne sono sottorappresentate. Non hanno dunque le donne tutti i motivi per affrancarsi dalle dipendenze?
Z.B. La parità negli ambiti citati è importante. Ma nel femminismo vanno distinte due correnti. Una, è quella che vuole rendere le donne indistinguibili dagli uomini. E così le donne vogliono essere arruolate nell’esercito e partecipare alle guerre, e si domandano: perché non ci è permesso di uccidere persone, come è consentito fare agli uomini? L’altra corrente mira a rendere il mondo più femminile. La vita militare, la politica, tutti gli organismi istituzionali che sono stati creati, sono stati fatti da uomini per uomini. Se molte cose oggi vanno male, è conseguenza di questo fatto. Uguali diritti, certo. Ma è proprio necessario che le donne seguano anche valori che sono stati creati da uomini?
P.H. In una democrazia, non si dovrebbe forse lasciare questa decisione alle stesse donne?
Z.B. In ogni caso, non credo proprio di potermi aspettare che il mondo migliori di molto, se le donne ricalcano pari pari quello che hanno fatto e fanno tuttora gli uomini.
P.H. Nei primi anni del Suo matrimonio Lei fu un casalingo ante litteram. Cucinava, accudiva i due figli piccoli, mentre Sua moglie lavorava in ufficio. Era piuttosto insolito per la Polonia di allora, non è vero?
Z.B. Non era tanto insolito, anche se la Polonia era di stampo conservatore. Sotto questo aspetto i comunisti erano rivoluzionari, nel senso che consideravano uomini e donne come lavoratori senza distinzione. La novità nella Polonia comunista fu che erano moltissime le donne che andavano in fabbrica o in ufficio. Per portare avanti una famiglia c’era bisogno all’epoca di due salari.
P.H. Ciò ebbe come conseguenza un cambiamento della posizione della donna e quindi un cambiamento nel rapporto fra i sessi.
Z.B. Fu un fenomeno interessante. Le donne cominciarono a guardare a sé stesse come fattore economico. Nella vecchia Polonia il marito era l’unico ad assicurare il sostentamento, responsabile dell’intera famiglia. Ma in realtà il contributo delle donne all’economia era enorme. Le donne svolgevano tutta una serie di lavori, che però non venivano considerati e non erano valutati in termini economici di mercato. Un esempio: quando in Polonia fu aperta la prima lavanderia pubblica, divenne possibile portarvi la propria biancheria sporca per farla lavare, cosa che ovviamente significava un enorme risparmio di tempo. Mi ricordo che mia madre passava due giorni a settimana per lavare, asciugare e stirare la biancheria per la famiglia. Ma le donne erano restie a fare uso della nuova possibilità. I giornalisti si chiedevano perché, e dicevano alle donne che far lavare la biancheria costava loro molto meno che lavarla personalmente. «Non è possibile!?», gridavano le donne, e facevano i conti davanti ai giornalisti: i costi dei detersivi, del sapone e del combustibile per la stufa per far bollire l’acqua sommati insieme erano inferiori a quanto pagavano per far lavare la biancheria dalla lavatrice della lavanderia. Non mettevano minimamente in conto il loro lavoro. Non veniva loro in mente che esso pure ha un prezzo.
P.H. In Occidente le cose non andavano diversamente.
Z.B. Ci vollero parecchi anni perché la società si abituasse al dato di realtà che anche le prestazioni delle donne nelle attività casalinghe hanno l’etichetta con un prezzo. Ma dal momento in cui questo fatto entrò nella coscienza, ben presto in Polonia diventarono pochissime le famiglie con donne casalinghe tradizionali.
P.H. Nelle sue memorie Janina scrive che Lei si occupò di tutto quando, dopo la nascita delle due gemelline, lei fu colpita da febbre puerperale. Si alzava di notte, quando le due bambine Lydia e Irena strillavano, dava loro le poppate, cambiava le fasce, che poi lavava al mattino nella vasca da bagno e appendeva ad asciugare dietro la stufa. Portava Anna, la primogenita, all’asilo, andava a riprenderla e faceva la fila pazientemente davanti ai negozi per fare le compere. Tutto ciò, mentre al contempo svolgeva tutti i Suoi compiti di docente, seguiva i Suoi studenti, scriveva la Sua tesi di dottorato, e partecipava agli incontri politici. Come è riuscito a star dietro a tutti questi impegni?
Z.B. Com’era consuetudine nella vita accademica dell’epoca, avevo ampia possibilità di organizzarmi da solo il mio tempo. Andavo all’università, quando dovevo tenere un seminario o una lezione. A parte questo, ero totalmente libero. Potevo rimanere nella mia stanza, andarmene a casa, a passeggiare, a ballare o a fare quel che volevo. Janina invece lavorava in un ufficio. Doveva valutare copioni, fare traduzioni e redazioni presso la società cinematografica statale polacca. Era tenuta a timbrare il cartellino, ed era quindi necessario che io rimanessi a badare ai bambini e a fare le faccende domestiche, quando lei era in ufficio o ammalata. Era una cosa ovvia… Non ci furono conflitti di sorta.
P.H. Janina e Lei siete cresciuti in contesti differenti. Janina proveniva dalla famiglia benestante di un medico, mentre in quella che era la Sua famiglia, quella in cui è nato, il denaro era sempre scarso. Probabilmente Janina non era preparata a fare la donna di casa, a cucinare, fare le pulizie, sbrigare tutte le faccende alle quali nella casa dei genitori provvedevano dei collaboratori familiari.
Z.B. Io sono cresciuto in cucina: cucinare per me era una attività normale. Janina pure cucinava, ma solo quando era necessario. Lei cucinava secondo le ricette, tenendo un libro di cucina davanti agli occhi, una cosa terribilmente noiosa. Per questo non le piaceva nemmeno, farlo. Io invece avevo osservato giorno dopo giorno mia madre, in che modo faceva miracoli ai fornelli, creava manicaretti con niente. Non avevamo molto denaro, ma lei, partendo da prodotti alimentari molto scadenti, riusciva a preparare piatti gustosi. Così ho assorbito l’abilità in cucina in modo naturale. Non è un talento, e non mi è stato nemmeno insegnato. Semplicemente avevo osservato come si facevano le cose.
P.H. Janina diceva di Lei che era una perfetta «madre ebrea». Ancor oggi Lei ama cucinare, anche se non dovrebbe più mettersi ai fornelli.
Z.B. Mi piace farlo, perché la cucina è creatività. Mi sono reso conto che quello che si fa in cucina assomiglia molto a quello che si fa davanti al computer, quando si scrive: si crea qualcosa. È un lavoro creativo, interessante, nient’affatto noioso. D’altronde: una buona coppia non è la combinazione di due persone identiche. Una buona coppia è quella in cui i due partner si completano a vicenda. Quello che manca a uno, ce l’ha l’altro. Janina e io eravamo così. Lei non amava cucinare, io sì, e così ci completavamo reciprocamente.
Esperienza e memoria
Destino: come facciamo la storia, da cui siamo fatti
Peter Haffner Lei aderì al Partito del Lavoro polacco PPK, il partito comunista della Polonia, nel 1946, un anno prima di Leszek Koakowski, il filosofo deceduto nel 2009, che una volta espatriato si era dedicato alla ricerca presso l’All Souls College di Oxford. Lei uscì dal partito nel 1968, lui ne era stato espulso due anni prima. A differenza di Lei, Koakowski fu in seguito un dichiarato antimarxista.
Zygmunt Bauman Koakowski e io non abbiamo concordato fra noi la nostra adesione al partito comunista. All’epoca, non sapevamo nulla l’uno dell’altro, non ci conoscevamo. Quando, in seguito, cercammo di richiamare alla memoria retrospettivamente i nostri sentimenti di allora, prima in Polonia poi in esilio e infine dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, ci trovammo d’accordo su un punto: entrambi avevamo creduto che il programma dei comunisti polacchi del 1944-45 fosse l’unico in grado di tenere viva la speranza di far uscire il nostro paese dall’arretratezza d’anteguerra e dalla devastazione della guerra. L’unico programma che potesse portare la nazione fuori dalla distruzione morale, dall’analfabetismo, dalla povertà e dall’ingiustizia sociale. I comunisti volevano distribuire la terra ai contadini impoveriti, volevano migliorare le condizioni di vita dei lavoratori nelle fabbriche, nazionalizzare le industrie. Volevano occuparsi di assicurare l’istruzione per il più ampio numero di persone possibile, e questa promessa in effetti l’hanno mantenuta. Ci fu una rivoluzione nel campo della formazione, la cultura fiorì, nonostante i favoritismi; il cinema polacco, il teatro, la letteratura raggiunsero vette altissime. Tutto questo oggi non c’è più in Polonia. Nel mio volumetto L’arte della vita…
P.H. …un libro stupendo, il mio preferito fra quelli da Lei scritti…
Z.B. …in questo libro, dunque, discutevo l’idea che il cammino della vita umana poggia su due fattori che interagiscono fra loro. Uno è il destino. Il destino è l’etichetta sintetica con la quale indichiamo tutto ciò che è al di là del nostro controllo. L’altro fattore è costituito dalle opzioni realistiche, che il destino consente. Una ragazza di New York nata a Harlem ha un destino diverso da quello di una ragazza nata a Central Park. Perché il set di opzioni disponibili per ciascuna di esse è diverso.
P.H. Entrambe, comunque, hanno un set di opzioni, hanno da scegliere. Che cosa decide, dunque, quale delle loro possibilità ciascuna di esse cercherà di realizzare?
Z.B. Il carattere. Il fascio delle opzioni realistiche, offerte a ognuno dal destino, non può essere superato. Ma persone diverse opereranno una scelta diversa, e questa è questione di carattere. C’è quindi motivo allo stesso tempo per il pessimismo e per l’ottimismo. Per il pessimismo, perché ci sono limiti insuperabili alle possibilità che ci vengono offerte, e questo è ciò che chiamiamo destino. Per l’ottimismo, perché ciascuno può lavorare sul proprio carattere, cosa che non può fare sul destino. Per il mio destino io non porto alcuna responsabilità, è decisione di Dio, se vogliamo. Porto invece la responsabilità per il mio carattere, perché questo è qualcosa che può essere formato, purificato e migliorato.
P.H. Come questi due elementi hanno giocato nella Sua vita personale?
Z.B. Anche il mio cammino, come quello di chiunque altro, è stato una combinazione di destino e carattere. Contro il destino non potevo fare nulla. Quanto a quello che chiamiamo carattere: non pretendo che sia perfetto, ma io mi assumo la responsabilità di ogni decisione che ho preso. Tutto questo è irreversibile. Ho fatto quello che ho fatto, e il destino da solo non può spiegarlo.
P.H. Guardando indietro alla Sua vita, che cosa avrebbe fatto diversamente?
Z.B. Che cosa avrei fatto di diverso? Oh no, a questo tipo di domande non rispondo.
P.H. D’accordo.
Z.B. Che cosa avrei fatto di diverso? Da giovanissimo, anzi ancora ragazzo, scrissi un romanzo, una biografia dell’imperatore romano Adriano. Nel corso della ricerca preparatoria mi imbattei in una frase che non ho più dimenticato. Parlava di quanto fosse insensato riflettere su interrogativi come questo, che cosa avresti fatto in maniera diversa. La frase è questa: «Se il cavallo di Troia avesse figliato, il sostentamento dei cavalli sarebbe costato pochissimo».
P.H. Potenza e impotenza della parolina «se».
Z.B. Il punto, naturalmente, è che il cavallo di Troia non poteva avere figli, perché era fatto di legno. Questa è la risposta alla domanda, che cosa avrei fatto di diverso. Come si sarebbe sviluppata la storia successiva, se avessi fatto scelte differenti? Non attribuisco alle mie decisioni una particolare importanza. Seguirono la logica del momento. Svolte molto importanti nella mia vita si verificarono senza che io avessi fatto nulla, non furono frutto della mia iniziativa. Che io fuggissi da Pozna, che fossi costretto ad abbandonare la Polonia quando arrivarono i nazisti, non fu mio desiderio né mia volontà. Da solo ho deciso, dopo la guerra, di aderire al partito comunista. Nelle circostanze date e dopo l’esperienza che avevo fatto questa era la cosa migliore che potessi immaginare e fare. In questa convinzione non ero solo: molti di quelli che più tardi sarebbero diventati accesi anticomunisti, fecero la mia stessa scelta, ad esempio Leszek Koakowski.
P.H. Janina, che sotto la Sua influenza aderì al partito comunista, descrive l’orrore da cui Lei fu colto quando si rese conto che le informazioni su una collega che aveva dato a un compagno, avevano portato alla destituzione di quella collega. A Janina Lei spiegò in quella occasione che il partito era purtroppo «ancora pieno di individui che non meritavano fiducia, di carrieristi senza scrupoli e gente immatura», ma che esso era tuttavia «la più potente forza motrice della giustizia sociale». In seguito, Koakowski e Lei non avete voluto mai più trincerarvi dietro giustificazioni del genere.
Z.B. I nostri processi individuali di disinganno, di presa di coscienza – lenta, e tuttavia inarrestabile – dell’abisso che separa la teoria dalla prassi, di conoscenza dei deleteri effetti morali dell’ipocrisia che vi era connessa, andarono avanti più o meno in parallelo. Fino a un punto: l’illusione che il partito potesse pur sempre essere riportato sulla retta via, da cui si era allontanato, che i suoi grandi errori potessero essere corretti dall’interno, durò in me uno o due anni più a lungo che in Leszek, e di ciò continuo a vergognarmi. In seguito, in esilio, i nostri percorsi si divaricarono ampiamente. A differenza di Leszek, io non feci mai nessun passo verso la controparte politica, e ancor meno mostrai mai alcun entusiasmo per essa. Io rimango ancor oggi un socialista.
P.H. Lei militò come soldato nella divisione polacca dell’Armata Rossa e, dopo la guerra, come ufficiale nel Korpus Bezpieczestwa Wewntrznego (KBW), il corpo della Sicurezza interna. Vi erano previsti, accanto all’addestramento militare, anche corsi di formazione politica o, come sarebbe meglio dire, di indottrinamento?
Z.B. Finché la nostra guerra fu contro gli occupanti tedeschi, non ci fu molto di tutto ciò. L’unico obiettivo era mettere fine all’occupazione, mentre il pensiero di come la Polonia dovesse essere organizzata dopo la guerra, rimaneva in secondo piano. Le cose cambiarono quando le operazioni militari finirono. I soldati del KBW rappresentavano una sezione trasversale della popolazione. I modi di vedere e le preferenze erano quindi diversi, uno specchio delle tensioni esistenti all’interno della società polacca. L’argomento principale dell’istruzione politica affiancata alle consuete virtù militari era la questione sempre aperta: «di quale Polonia i polacchi hanno bisogno con la massima urgenza?». Il «marxismo-leninismo» contro la «filosofia borghese» era forse il tema principale nel mondo accademico. Ma coi soldati io discutevo di interrogativi come: «A chi appartengono le fabbriche?», «A chi appartiene la terra coltivabile?».
P.H. Nel 2007 lo storico tedesco-polacco Bogdan Musia La attaccò per il fatto che Lei aveva lavorato per il KBW. Ma Musia non trovò alcuna prova che Lei avesse avuto a che fare con gli assassinii, le torture e lo spionaggio di partigiani anticomunisti, che vengono rimproverati al KBW.
Z.B. Quel che è vero nell’articolo di Musia pubblicato dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» non era nuovo. Tutti sapevano che ero stato comunista, e precisamente dal 1946 al 1967, e anche che avevo prestato servizio per diversi anni nella cosiddetta «Armata Interna». Quel che c’era di nuovo in quell’articolo era semplicemente che avevo lavorato anche per il servizio di spionaggio militare. All’epoca avevo 19 anni, e vi rimasi solo tre anni. Non ho mai reso pubblico questo fatto perché avevo sottoscritto un impegno a tenere il segreto.
P.H. E qual era il compito che vi svolgeva?
Z.B. Niente di particolare, banale lavoro d’ufficio. Facevo parte della sezione per la propaganda e l’agitazione. Dovevo preparare il materiale per la formazione teorica e politica degli arruolati al servizio militare di leva, compilare pamphlet ideologici. Per mia fortuna, finì presto.
P.H. In un documento, citato da Musia, si parla dell’«informatore Semjon», che era il Suo nome di copertura: «Le sue informazioni sono preziose. Data la sua origine semitica, non può essere impiegato in ruoli operativi». Il Suo compito era di raccogliere informazioni sui nemici del regime?
Z.B. Era, con ogni probabilità, quello che si aspettavano da me, ma non ricordo assolutamente di aver mai fornito materiale del genere. Io stavo nell’ufficio e scrivevo, non proprio il luogo più adatto per raccogliere simili informazioni. Quello che Musia non dice è che ho lavorato è vero per tre anni nei servizi segreti militari, ma io stesso sono stato perseguitato per quindici anni dai servizi segreti. Fui spiato, furono compilati rapporti su di me, fu intercettato il mio telefono, furono installate cimici nella mia abitazione ecc. Poiché ero un critico del regime, fui prima espulso dall’esercito e poi dall’università e quindi dalla Polonia.
P.H. Dal tempo della rivoluzione ungherese del 1956 Lei fu inserito nella categoria dei ribelli del partito. Janina racconta al riguardo come Lei e la Sua famiglia foste incalzati con varie molestie. Per sposarsi, doveva avere l’autorizzazione del Suo superiore militare, il colonnello Zdzisaw Bibrowski. Che era come Lei comunista, ma anche lui chiaramente non troppo fedele alla linea del partito.
Z.B. Da Bibrowski imparai a distinguere le parti sane della società dalle formazioni cancerose. Mi aprì gli occhi davanti all’abisso che si apriva fra l’idea socialista, cui aderivo con tutto il cuore, e il «socialismo reale», che facevo non poca fatica ad accettare, già molto prima che il dissidente tedesco-orientale Rudolf Bahro nel 1977 coniasse l’espressione. E molto prima che fossi costretto ad abbandonare la Polonia. Bibrowski mi mostrò che la fedeltà all’idea del socialismo richiede che si lotti con le mani e con i piedi contro il suo annacquamento e la sua corruzione. Una volta imparata questa lezione, non l’ho più dimenticata.
P.H. Janina scrive che Bibrowski nel 1952 fu allontanato dal suo incarico perché ebreo.
Z.B. Credo che, considerate le sue opinioni, prima o poi se ne sarebbe andato via comunque. Era un intellettuale di altissimo livello, un uomo di spirito aperto e critico, che aveva raccolto intorno a sé ufficiali con analoghe qualità e li aveva protetti dalle «epurazioni». Fu giudicato inadattto a realizzare la rapida professionalizzazione della Sicurezza dello Stato. Bibrowski non era anticomunista, al contrario. In nome della propria fede, in nome del comunismo, si ribellava al cattivo uso che di esso si faceva, al suo screditamento e alla sua perversione. Era un uomo che voleva servire il regime ma insieme conservare la sua umanità, per proteggere l’umanità degli altri. Ma per l’appunto: Amicus Plato, sed magis amica veritas, come recita il detto attribuito ad Aristotele. Amo Platone, ma ancora di più amo la verità. Bibrowski ritornò alla sua professione di ingegnere. Di lì a poco il piccolo gruppo, che aveva sotto le sue ali, ne seguì l’esempio, e con esso anch’io che ne facevo parte.
P.H. Lei pure non lo fece spontaneamente. Nel gennaio 1953 fu congedato dall’esercito come politicamente inaffidabile. Due mesi dopo morì Josif Stalin, allora ammirato anche in Occidente come «grand’uomo», il quale, come Janina ricorda, «con pugno di ferro [aveva] sfracellato la mostruosità del fascismo». Come visse Lei la morte di Stalin?
Z.B. Lo choc fu forte. In fondo, per 13 anni avevo vissuto, e con me molti altri ben più intelligenti di me avevano vissuto, all’ombra gigantesca di quest’uomo, totalmente fiduciosi nella sua saggezza e abbandonati al suo giudizio. Ancor oggi faccio fatica a comprendere appieno come sia stato possibile accettare quel vero e proprio soffocamento spirituale, nonostante tutte le conoscenze che nel frattempo ho acquisito sulla psicologia del totalitarismo. Sono stati scritti volumi sul culto di Stalin e di Hitler. Il fenomeno è stato descritto con acume, ma continua ad essere riconosciuto come disperatamente inafferrabile. Chi voglia farsi una chiara idea dell’esperienza di questo culto della personalità, non può far di meglio che leggere il libro Tempo di seconda mano, di Svetlana Aleksievi, premio Nobel per la letteratura. Anche se non è in grado di spiegarlo, l’autrice si avvicina il più possibile al fenomeno. Illumina il mistero e consente a chi non ha vissuto personalmente quell’esperienza di percepirne la complessità. Al momento presente, peraltro, mi perseguita l’incubo che un simile culto possa tornare in auge in un futuro forse non troppo lontano.
P.H. Quanto La attirava il marxismo come teoria, come edificio concettuale intellettualmente impegnativo?
Z.B. Non credo che una qualsiasi riflessione sui rapporti di produzione e le forze produttive, sulla legge del valore o sulla emancipazione della classe operaia e cose simili abbia avuto un’importanza decisiva nell’orientarmi verso il comunismo. Non vi entrai attraverso le porte della filosofia o dell’economia politica. Fu piuttosto il frutto di un esame della situazione esistente, unito a una concezione romantica, ribellistica, della storia, e del ruolo che noi giovani dovevamo giocare nella realizzazione di quella concezione. Come scrisse splendidamente nel 1956 Leszek nel suo saggio La morte degli dei, ci affascinava il «mito di un mondo migliore», il sogno di un «regno di uguaglianza e libertà», il sentimento di essere «fratelli dei comunardi parigini, dei lavoratori della Rivoluzione russa, dei soldati della guerra civile spagnola».
P.H. Dopo che fu congedato dall’esercito, ci risulta dalle memorie di Janina che la contraddizione fra le parole e i fatti del «socialismo reale» La portò a concepire l’idea che anche la teoria marxista avesse bisogno di essere reinterpretata, a cent’anni di distanza della sua formulazione. Come la pensa oggi, che cosa rimane valido di Marx?
Z.B. La sua analisi dei meccanismi economici, naturalmente, è superata. Marx scriveva nella metà del XIX secolo, in una situazione del tutto diversa. E tuttavia ci sono osservazioni molto importanti da lui enunciate, che mi guidano ancora oggi nel mio lavoro. Una di esse, quella che è la mia preferita, è la giustificazione che egli dava della sociologia, l’individuazione di quel che era la sua vera ragion d’essere. Marx afferma: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». In questa considerazione trova il suo fondamento l’esistenza della sociologia come scienza. Uno può passare tutta una vita ad approfondire questo fondamento. Le situazioni sono date, non le abbiamo scelte noi. La domanda è: come sono nate e a che cosa ci costringono, come ci confrontiamo con esse e come possiamo cambiarle. Come possiamo noi, sotto la pressione delle condizioni esistenti e con la conoscenza che ne abbiamo, fare storia in maniera consapevole? Qui è il segreto della nostra esistenza.
P.H. Che cosa significa questo per la Sua sociologia in particolare?
Z.B. Mi ha ispirato soprattutto il modo in cui Antonio Gramsci, filosofo, marxista e fondatore del Partito comunista italiano, ha utilizzato questo pensiero di Marx. Lo seguo nella forma che io chiamo «ermeneutica sociologica», da non confondere con la sociologia ermeneutica, che è una scuola della sociologia. Si tratta di ragionare sulle idee di fondo che le persone adottano, le linee guida che seguono. L’ermeneutica sociologica riflette su quelle che sono le condizioni, le circostanze e la concezione della società. Noi siamo una specie all’interno della Natura, quella di Homo sapiens, condannata a pensare, noi facciamo esperienza di qualcosa (erfahren) e la viviamo (erleben) non soltanto a livello fisico. Le esperienze (Erfahrungen) sono pezzettini di informazione e disinformazione, da cui noi cerchiamo di ricavare un senso, di concepire idee, di elaborare piani. L’ermeneutica classica invece fa derivare le idee attuali da idee precedenti, le interpreta sulla base del loro passato, mette in luce come si moltiplicano, producono nuovi germogli, si prostituiscono. Ma secondo me le cose non funzionano così. Dalle idee che dominano lo spirito umano, che vanno a impattare sul corpo della società, dobbiamo cercare di capire come si legano il primo con la seconda. È qui il problema: perché ci dividiamo in campi politici, partiti, appartenenze e lealtà differenti? Per la semplice ragione che interpretiamo in maniera diversa la medesima esperienza. La concezione di Gramsci era quella della filosofia egemonica, comunemente chiamata buon senso. La filosofia egemonica non è filosofia nel senso della critica filosofica: nessuna discussione su Kant, Leibniz ……
Autore-Zygmunt Bauman è stato uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida». Ha insegnato Sociologia presso l’Università di Leeds. Laterza ha pubblicato quasi tutti i suoi libri, tra cui: Voglia di comunità; Modernità liquida; Amore liquido; Vita liquida; Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido; Paura liquida; Capitalismo parassitario; “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti”. Falso!; Danni collaterali; Babel (con E. Mauro); Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi; Stranieri alle porte; Retrotopia; L’ultima lezione (con W. Goldkorn); Il disagio della postmodernità; Cecità morale (con L. Donskis); A tutto campo. L’amore, il destino, la memoria e altre umanità (con P. Haffner); Male liquido (con L. Donskis); Un mondo fuori asse.
L’ultima intervista a uno dei più grandi intellettuali del Novecento.
Un estratto da “A tutto campo”, l’ultima intervista a Zygmunt Bauman
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Modernità: della costrizione a non essere nessuno, o a diventare un altro
Peter Haffner Fra gli autori che L’hanno influenzata in maniera significativa, ce ne sono due che non provengono dal recinto della Sua specializzazione, cioè dalla sociologia: lo scrittore Franz Kafka e lo psicologo Sigmund Freud. Che cosa hanno da dirci sulla conditio humana del presente, sulla nostra vita?
Zygmunt Bauman È difficile rispondere a questa domanda. Come si può indicare a dito quello che ci insegnano oggi? Il pensiero del presente è un prodotto collettivo di autori come loro. Una volta che un’idea diventa di dominio comune, è morta, perché nessuno si ricorda più da dove viene. Appartiene ormai alla classe delle cose autoevidenti. Kafka fu assolutamente rivoluzionario, e Freud fu assolutamente rivoluzionario. Ma quando noi oggi riflettiamo su di loro, ci appaiono semplicemente ortodossi. Le idee cominciano la loro vita come eresie, la proseguono fino a diventare ortodossia, e la finiscono come superstizioni. Questo è il destino di ogni idea nella storia. Kafka e Freud sono già uniti nella «doxa», nel senso della filosofia greca, cioè come opinione universalmente riconosciuta.
P.H. Che cosa c’era, dunque, di rivoluzionario in Kafka?
Z.B. La sua analisi del potere e della colpa. Il processo e Il castello sono due documenti fondamentali della modernità. A mio avviso, nessuno dopo Kafka è riuscito a migliorare l’analisi del potere. Prendiamo Il processo. Un tale viene accusato. Egli vorrebbe sapere di che cosa è accusato, ma non ha modo di scoprirlo. Vorrebbe giustificarsi, ma non sa per che cosa. È pieno di buona volontà e deciso a pellegrinare presso tutte le istituzioni che possano dargli informazioni al riguardo. Cerca inutilmente di arrivare al processo. Alla fine, viene giustiziato senza sapere in che cosa consista la sua colpa. La sua colpa consiste nel fatto di essere stato accusato.
P.H. Il principio base della procedura penale di uno Stato di diritto è la presunzione di innocenza: fin tanto che la colpa non è provata, chiunque va considerato innocente.
Z.B. Kafka mostra che le cose vanno in maniera diversa. Poiché gli innocenti non sono accusati, chi è accusato dev’essere colpevole. Il fatto di essere ritenuto colpevole rende Josef K., il protagonista del romanzo, criminale. È lui che deve dimostrare la sua innocenza. Ma per poterlo fare, deve sapere di che cosa viene incolpato. Ma non lo sa, e nessuno glielo dice. È una situazione tragica.
P.H. E nel Castello?
Z.B. L’eroe del romanzo, un certo K., presume che delle persone molto in alto nel castello siano esseri razionali. Certo, non ha confidenza con loro né loro ne hanno con lui; tutto è misterioso, non trasparente e inavvicinabile. Egli lotta inutilmente per ottenere il riconoscimento della propria esistenza professionale e privata. Ma K. crede comunque che i funzionari del castello si comporteranno in maniera razionale, e che lui potrà parlare con loro del motivo, della causa della sua sconfitta. Kafka ci dice poco su questo K., ma dal testo si capisce che è presumibilmente una persona colta. È un uomo razionale, uno che, come dice Max Weber, sceglie i mezzi giusti per i suoi obiettivi dando per presupposto che gli altri pure operino in maniera razionale. Ma le cose non stanno così, e questo è il suo errore peggiore. Poiché il potere degli abitanti del castello consiste proprio nel fatto che si comportano in modo irrazionale. Se si comportassero in maniera razionale, si potrebbe trattare con loro, li si potrebbe probabilmente convincere o si potrebbe combattere contro di loro e forse vincere. Ma se sono irrazionali, se il loro potere consiste nella irrazionalità, è impossibile farlo.
[…]
P.H. Che cosa significa Sigmund Freud per Lei?
Z.B. Freud, come Kafka, è diventato parte del nostro pensiero. Un bene comune, per così dire. Per noi, oggi, concetti come inconscio, «Es» e «Io» e «Super-io», sono familiari. Il filosofo, sociologo e psicologo americano George Herbert Mead, che ha fornito un contributo essenziale alla questione della identità, non usa questi termini, ma intende sostanzialmente la stessa cosa quando parla di I e Me, di «Io» e «Me». «Io» sono quello che viene dal mio pensiero, quello che sono veramente, quello che è autentico. Ma io sono diviso in due, perché a questo «Io» che viene dall’interno si aggiunge dall’esterno il «Me», quello che le persone intorno a me pensano di me, come mi vedono, come credono che io sia in realtà. La nostra vita è una lotta per la coesistenza amichevole fra l’«Io» e il «Me». Questo è un altro modo di raccontare la storia raccontata da Sigmund Freud.
P.H. Mead diceva che l’individuo riceve la sua identità tramite l’interazione con altri individui. Ci sono più «Me» diversi, e compito dell’«Io» è di sintetizzarli in una immagine unitaria di sé. L’identità nella modernità «liquida» o «fuggevole» di oggi ha qualcosa a che fare con questa interazione, ma è molto più complessa. Ognuno ha ora non più solo tanti «Me» ma anche tanti «Io». Di questo Lei si è occupato soprattutto.
Z.B.L’identità è oggi una questione di negoziazione. È, in effetti, liquida: noi non siamo nati con una identità data una volta per tutte, che non cambia mai. Di più: possiamo avere diverse identità contemporaneamente. In una conversazione su Facebook Lei può scegliere una identità, nella successiva conversazione un’altra. Può cambiare di volta in volta la Sua identità, ci sono identità che vanno di moda. Questo gioco combinato di «Io» e «Super-io» o di «I» e «Me» è parte del nostro compito quotidiano. Freud preparò il terreno per questo gioco.
[…]
P.H. L’identità, oggi – dice il sociologo francese François de Singly –, non ha più radici. Alla metafora delle radici, egli preferisce quella dell’àncora. Diversamente dall’abbandono delle proprie radici, che è rinuncia alle tutele sociali, il levar l’àncora non ha niente di irrevocabile o definitivo. Che cosa non La convince in questa impostazione?
Z.B. Può diventare un altro solo chi cessa di essere chi era. Egli deve rigettare continuamente quello che è stato il suo Io fino ad allora. Di fronte alle continue nuove possibilità quel suo Io gli appare ben presto come non moderno, inappropriato e insoddisfacente.
P.H. Non ha qualcosa di liberatorio, il fatto che uno possa cambiare? In America, nel Nuovo Mondo, il mantra era ed è: scopriti di nuovo!
Z.B. Per la verità, non è una strategia nuova quella di darsela a gambe quando la situazione diventa scabrosa. È quello che sempre hanno cercato di fare gli uomini. Ma è nuovo il desiderio di sottrarsi assegnandosi un nuovo Sé scelto dal catalogo. E quello che all’inizio poteva essere stato l’approdo consapevole su nuove sponde, si trasforma rapidamente in una ossessiva routine. Il liberatorio «puoi diventare un altro» diventa il costrittivo «devi diventare un altro». Questo «devi» ha poco a che fare con l’agognata libertà, e molti vi si ribellano proprio per questo motivo.
P.H. Che significa, allora, essere libero?
Z.B. Essere liberi vuol dire poter perseguire i propri desideri e obiettivi. L’arte di vivere orientata al consumo, che è tipica della modernità liquida, promette certo questa libertà, ma non realizza quel che promette.
[…]
P.H. Quali altri autori oltre a Kafka, Freud e Simmel citerebbe, fra quelli che L’hanno influenzata in maniera particolare?
Z.B. Molti hanno avuto un ruolo nel mio pensiero, ognuno col suo stile, la sua peculiarità. Antonio Gramsci l’ho già ricordato: non potrò mai sottolineare abbastanza quanto io gli sia debitore. Egli mi ha permesso una onorevole presa di distanza dal marxismo. Solo grazie a lui riuscii a cessare di essere un marxista ortodosso senza diventare un antimarxista. Il mio amico Leszek Kołakowski non poté farlo. Egli riuscì a prendere congedo dal marxismo solo diventando antimarxista. Probabilmente non aveva letto Gramsci, non so. Antonio Gramsci è uno dei filosofi più brillanti, umani, che io conosca.
P.H. E fra i pensatori più recenti?
Z.B. Fra questi ultimi, mi è particolarmente vicino Claude Lévi-Strauss, che va considerato come il fondatore dello strutturalismo etnologico. C’è stato un tempo della mia vita, alla fine degli anni Sessanta, in cui ero completamente preso, incantato da Lévi-Strauss. Che cosa ho preso da lui? Devo precisare che io sono molto eclettico, attingo dovunque trovi qualcosa di eccitante, che si innesta bene nel mio pensiero, ma non mi sento obbligato ad accettare il pensatore in sé. Da Lévi-Strauss ho preso l’abolizione dell’idea di cultura come corpo unitario. Anziché riflettere sulle culture, sulla loro diversità, egli parlava di modalità di approccio universali. Non usava la parola «cultura», ma la parola «struttura». È entrato nella storia come strutturalista. Ma in realtà egli ha rinunciato all’idea di una struttura, di un’organizzazione data, di un assetto fisso delle cose. Insisteva sulla universalità dello strutturarsi. La struttura è per lui un’attività. Non un corpo, ma un’attività in un certo senso incerta, che non finisce mai. Nulla è costituito una volta per tutte, le strutture non sono fossilizzate, pietrificate, immutabili. E proprio così io cerco di descrivere la realtà, le realtà sociali, la loro dinamica. La cultura sta al centro delle mie ricerche come un processo dinamico, che non è mai compiuto.
Il Castello di Boccea- Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri-Roma Municipio XIV-Il Castello sorge sul “fundus Bucciea” che domina la valle del fiume Arrone e il fondo denominato anticamente “Ad Nimphas Catabasi”, sito al decimo miglio dell’antica via Cornelia,(domina il ristorante i SALICI sito sulla via Boccea). Si accede da una via sterrata all’interno della campagna e, come d’incanto, si vedono i resti del vecchio castello, luogo dove albergano le fiabe e ciò che rimane di una architettura delle allucinazioni per chi ha voglia di emozioni, le grandi emozioni, con un percorso iniziatico alla fantasia. Della vecchia costruzione , oltre ai cunicoli e gallerie, è visibile il Torrione, costruito in pietra selce e mattoni con rinforzi di possenti barbacani, necessari per contenere ed arginare il progressivo cedimento del banco tufaceo che costituisce la base naturale del fabbricato. Il Castello domina i boschi dove, nel 260 d.C. furono martirizzate S.s. Rufina e Seconda, mentre nelle vicinanze, al XIII miglio della stessa via Cornelia, nel 270 d.C. sotto l’Imperatore Claudio il Gotico, subirono il martirio Mario e Marta con i figli Audiface ed Abachum, famiglia nobile di origine persiana, come si legge nel Martirologio Romano”Via Cornelia melario terbio decimo ad urbe Roma in coementerio ad Nimphas, sanctorum Marii, Marthae, Audifacis et Abaci, martyrum”. Le prime tracce cartacee documentali del Castello si trovano nella bolla di Papa Leone IV, conservata negli archivi vaticani,tomo I pag. 16, con la quale si conferma la donazione al monastero di San Martino del “fundus Buccia” e delle chiese dei Santi Martiri Mario e Marta. Il Papa Adriano IV nel 1158 confermò alla basilica vaticana il Castello e i fondi di Atticiano, Colle e Paolo. In un antico atto conservato in Vaticano, al fascicolo 142,si legge che nel 1166 Stefano, Cencio e Pietro, fratelli germani e figli del fu Pietro di Cencio, cedettero a Tebaldo, altro fratello, la loro porzione del Castello di “Buccega”. Sempre dal medesimo archivio si apprende che Giacomo, Oddo, Francesco e Giovanni di Obicione, Senatori di Roma nell’anno 58 ( 1201), stabilivano che la basilica di San Pietro possedesse e godesse tutti i beni e gli abitanti del Castello di Buccia fossero sotto la protezione del Senato. Si stabilì che anche i canonici del Castello usufruissero dei privilegi e consuetudini accordati ai loro vicini, cioè come l’esercitavano nei loro castelli i figli di Stefano Normanno, Guido di Galeria e Giacomo di Tragliata (Vitale, “Storia diplomatica dei Senatori di Roma”, pag. 74 ). Da una bolla di Gregorio IX del 1240 si ha notizia di un incendio che distrusse il Castello e che il Pontefice ordinò di prelevare il denaro necessario alla ricostruzione direttamente dal tesoro della Basilica Vaticana (Bolla vaticana Tomo I, pag.124).In un lodo del 1270,che tratta di una lite di confini della tenuta,si menziona tra i testimoni Carbone,Visconte del Castello di Boccea. Il Castello subì nel 1341 l’attacco di Giacomo de’ Savelli, figlio di Pandolfo che, dopo averlo preso, scacciò gli abitanti e lo incendiò. Papa Benedetto XII, che era ad Avignone, scrisse al Rettore del patrimonio di San Pietro di”costringere quel prepotente a risarcire il danno”. Dopo il saccheggio da parte del Savelli il luogo rimase deserto secondo il Nibby mentre il Tomassetti, nella sua opera (pag.153) ci descrive il castello e la tenuta ancora abitato da una popolazione di 600 anime, cifra ricavata dalle quote sulla tassa del sale dell’anno 1480/81, durante il papato di Sisto IV. Della trasformazione da Castello a Casale di Boccea, moderna denominazione, si trova traccia nel Catasto Alessandrino del 1661,dove la costruzione viene indicata come “Casale con Torre”. Va ricordato che da 20 ettari di uliveto di Boccea si produceva l’olio destinato ai lumi della Basilica Vaticana, come si può desumere dalla cartografia seicentesca di G.B.Cingolani dove si legge”seguita a destra il procoio pure detto delle Vacche Rosse del Venerabile Capitolo di San Pietro, chiamato Buccea, olium Buxetum”. Attualmente il Casale di Boccea è in ristrutturazione con destinazione turistico-alberghiera, con un grande ristorante nel quale troneggia un imponente camino seicentesco in pietra. Altre tracce del passato sono i vari stemmi papali inseriti nei muri ed un frantoio manuale di recente ritrovamento, del tutto simile a quelli del Castello della Porcareccia e di Santa Maria di Galeria.
Nazionale e internazionale nei Quaderni del carcere
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe giungere all’internazionalismo solo passando attraversando la tappa intermedia del nazionalismo; in presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe, in effetti, anacronistico, antistorico e persino contrario alla cultura nazionale.
Articolo di Renato Caputo -Come fa notare Antonio Gramsci, gli Stati subalterni non sono in grado di portare avanti una politica autonoma sul piano internazionale e finiscono, così, per divenire pedine delle grandi potenze [1]. Più in generale, ogni analisi della politica di un paese non potrà, dunque, prescindere dai rapporti delle forze internazionali, ovvero dalla posizione occupata in un sistema egemonico che rende più o meno effettuale l’indipendenza e la sovranità nazionale. Sebbene la struttura sociale di un paese determini la sua posizione nel contesto internazionale, quest’ultima reagirà a sua volta “sulla vita economica immediata di una nazione” (13, 2: 1562). Perciò, come osserva Gramsci, la “differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali” (19, 24: 2033).
Nei paesi internazionalmente subordinati la classe dominante tenderà a sfruttare tale situazione dando a credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale. Dunque, come osserva Gramsci, al contrario di quanto l’ideologia dominante vuol dare a intendere, non è il partito internazionalista a subordinare le esigenze nazionali alla politica sovranazionale, ma piuttosto “il partito più nazionalistico, che, in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche” (ivi, 1562-563).
Del resto, uno sviluppo determinato da direttive internazionali, che non muova dalla soluzione dei bisogni nazionali, costituisce un ostacolo allo sviluppo del paese poiché è funzionale “a creare l’equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale” (3, 118: 386), ma di un mercato internazionale subordinato agli interessi delle potenze dominanti. La condizione di subalternità di uno Stato non fa che accentuarne la condizione “di arretratezza e di stagnazione” (13, 13: 1574). Persino un grande fenomeno culturale sviluppato sul terreno nazionale, come per esempio il Rinascimento, finisce per essere in tale caso fonte di progresso all’estero dove “è vivo [nelle coscienze] dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità”, piuttosto che in patria “dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca” (3, 144: 401).
La debolezza sul piano internazionale può divenire uno strumento di egemonia della classe dominante che la utilizza per frenare ogni intervento attivo sul piano politico delle forze nazional-popolari (cfr. 19, 24: 2034) [2]. L’ideologia dei ceti dominanti nei paesi subalterni tenderà a giustificare come “«originalità nazionale»” tale condizione di sovranità limitata e di arretratezza “semifeudale” (13, 13: 1575), facendo credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale.
Al contrario le forze progressiste, secondo Gramsci, dovranno favorire l’assunzione delle più avanzate forme di governo sviluppate a livello internazionale [3], quale unica strada, come via maestra per condurre un paese subalterno a una effettiva indipendenza nazionale. Del resto, a parere di Gramsci, il consolidarsi del processo rivoluzionario in un paese può contribuire a creare condizioni internazionali favorevoli che possono contribuire all’espansione della Rivoluzione in paesi in cui le forze progressive sono “scarse e insufficienti di per sé (tuttavia ad altissimo potenziale perché rappresentano l’avvenire del loro paese)” (14, 68: 1730).
D’altra parte la stessa possibilità di un profondo mutamento delle condizioni storico-politiche nazionali è strettamente dipendente dall’“equilibrio delle forze internazionali” (6, 78: 746). A seconda delle fasi storiche esse possono essere di freno o di decisivo supporto alle forze progressive nazionali. È, dunque, indispensabile disporre d’una “forza permanentemente organizzata” in grado di “inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli” (13, 17: 1589). Per esempio, mentre l’arretratezza italiana era in parte dovuta all’essere divenuta terra di conflitto di potenze internazionali, la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche hanno un ruolo decisivo per il nascere della nazione, consentendo il sorgere dell’“interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali” (ibidem). In altri termini, il Risorgimento italiano sarebbe impensabile senza “i fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese” che, logorando le forze regressive, “potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti” (19, 3: 1972). È la trasformazione del contesto internazionale che è al fondamento e permette di comprendere il “processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione” (19, 2: 1963). Tuttavia, se nella realizzazione di un evento storico come il Risorgimento “tra l’elemento nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che ha contato di più” (3, 38: 316) il nuovo Stato sarà privo di autonomia politica sul piano internazionale. La mancata partecipazione popolare al Risorgimento rende “meschina” la vita politica italiana sino al novecento e indebolisce “la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse” (19, 28: 2054).
Così mentre nelle nazioni in cui vi è stato uno sviluppo organico delle energie nazionali, si proiettano all’esterno in “funzione di irradiazione internazionale e cosmopolita”, ossia in funzione dell’espansione dell’egemonia e del proprio dominio imperialistico, i paesi privi di un tale sviluppo si proiettano all’esterno attraverso un’emigrazione “che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla” (12, 1, 1524-525), ma concorre a render impossibile il costituirsi d’una coscienza nazionale e di una salda base nazionale.
Il ruolo subordinato a livello internazionale produrrà l’emigrazione della forza lavoro manuale e degli intellettuali verso le nazioni dominanti, il che rappresenta secondo Gramsci “una critica reale” (2, 137: 272) alla debolezza nazionale della classe alla classe dominante, incapace di adempiere alla propria funzione di direzione nazionale. Ciò ha fatto sì che tanto gli intellettuali, “rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva”, siano andati ad arricchire nazioni straniere col loro contributo, sia che la forza-lavoro nazionale sia andata “ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri”, in modo che “questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna” (3, 117: 385).
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe passare all’internazionalismo solo attraversando la tappa intermedia del nazionalismo. In presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe infatti “anacronistico e antistorico” (9, 127, 1190) e persino contrario alla cultura nazionale [4]. Tanto che Gramsci considera il nazionalismo, in un paese come l’Italia, un’“escrescenza anacronistica” nella sua storia, “di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante” (ibidem). Al contrario la missione di civiltà del popolo italiano “è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata” (ibidem).
Note:
[1] Come avviene spesso, Gramsci si serve di esempi tratti dalla storia nazionale e dal principale pensatore politico italiano: “bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non più politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 658. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Interessante quanto osserva Gramsci sull’importanza del piano internazionale nel risorgimento italiano: “i rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria” (19, 24: 2034).
[3] Come osserva Gramsci: “una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni” (13, 17: 1585).
[4] Come osserva Gramsci a tal proposito: “che il moto nazionale dovesse reagire contro le tradizioni e dare luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non è una reazione organico-popolare. Del resto, anche nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolita, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già esistenti o in processo di sviluppo. Perché un fatto si è prodotto nel passato non significa che si produca nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione italiana nel presente e per l’avvenire non esistono e non appare che siano in processo di formazione. L’espansione moderna è di origine capitalistico-finanziaria. L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato” (9, 127: 1190-191).
Fonte -Ass. La Città Futura-Articolo di Renato Caputo
Fu insegnante di lettere e collaborò a diverse riviste, tra cui La Voce. Le sue prime poesie rivelavano un profondo interesse per problematiche morali, portandolo a una crisi spirituale. Ordinato sacerdote nel 1936, continuò a scrivere poesie che riflettono il suo costante colloquio con Dio. Fu anche traduttore di autori russi tra cui Tolstoj e Gogol’.
Intraprende nel 1903 gli studi di Medicina a Pavia, interrompendoli per seguire i corsi universitari di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano (non ancora Università Statale). Nel ’10 si laurea con una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi, relatore Gioacchino Volpe. Dopo la laurea inizia a insegnare in diversi istituti tecnici (prima a Milano, Treviglio, Novara, poi a Como e ancora a Milano) e collabora a «La Voce», alla «Rivista d’Italia», alla «Riviera Ligure», anche per l’amicizia con Giovanni Boine. Nel ’13 vengono pubblicati i Frammenti lirici per le Edizioni della Voce dirette da Giuseppe Prezzolini, con la dedica «ai primi dieci anni del secolo ventesimo». Nel ’14 conosce Lidia Natus, pianista russa, e vive con lei a Milano. Allo scoppio della Prima guerra è richiamato alle armi col grado di sottotenente del 159° reggimento fanteria; il 17 giugno sul Podgora subisce un forte trauma cranico a causa di un’esplosione; tra il ’16 e il ’19 passa da un ospedale militare all’altro finché, nel ’19, viene riformato. Riprende il suo lavoro d’insegnante in vari istituti privati, dirige la collezione “Maestri di Vita” per l’editore Pavia e tiene conferenze. Nel ’22 pubblica i Canti anonimi raccolti da C. Rebora nelle edizioni de Il Convegno di Milano, una poesia severa, percorsa da un’ansia di verità, di serietà, di fastidio per gli illusori miti contemporanei, espressa in un linguaggio dissonante, privo di concessioni e di abbandoni; una «poesia che non consola», dunque. Nel ’28 s’evidenzia la profonda crisi religiosa (in conflitto con l’educazione morale, mazziniana e laica, ricevuta in famiglia) che lo porta, nel ’31, a entrare come novizio all’Istituto della Carità al Monte Calvario di Domodossola. Nel ’36 è ordinato sacerdote. Negli anni seguenti esercita varie funzioni negli istituti rosminiani di Domodossola, Torino, Rovereto e Stresa, dove infine rimane. In questa nuova vita il silenzio della poesia è quasi totale fin quando non riprende con un’esplicita vocazione di celebrazione liturgica( Via crucis, 1955; Gesù il fedele, 1956) sentita con intensità e passione dolorosa o legata all’esperienza esistenziale attraversata, in Poesie religiose (1936-1947) e specialmente nei Canti dell’infermità (1947-1956), nati in anni in cui è via via ridotto dalla malattia a una progressiva e assoluta immobilità. Nell’estate del ’55 Rebora compone un Curriculum vitae, significativa e sommaria autobiografia, nella quale menziona anche la volontà di distruzione dei libri e dei manoscritti (poi impedita dal nipote , Roberto Rebora, che sottrae le carte allo strascée ). Nel 1985 escono Le poesie (1913-1957), a cura di Lucilio G. Mussini e Vanni Scheiwiller ,pp.585, Coedizione Garzanti-Scheiwiller, Milano.
Bibliografia:
Novati Laura, Giovanni e Vanni Scheiwiller editori. Catalogo storico 1925-1999, Milano, Unicopli, 2013, p.55-56
Mentre lavoro nei miei giorni scarsi,
Mi pare deva echeggiar imminente
Una gran voce chiamando: Clemente!
Per un’umana impresa ch’è da farsi…
E perché temo che risuoni quella
Quando dai miei fratelli io fossi assente,
Monto, senza sostar, di sentinella
Nel cuor disposto a servire la gente. (1926) 1
ELEVAZIONE SPIRITUALE
Come bello, Signor, nel tuo creato!
Ma sol nel cuore sei bellezza amante!
E doni amor onde chi ama è nato
a quella vita che in morir s’espande.
(8 ottobre 1955) 2
CURRICULUM VITAE
Per Te, con Te, in Te, Gesù, ch’io veda
il Padre: e coi fratelli: un cuore solo;
sii Tu, Spirito, l’ultimo respiro.3
POESIA E SANTITÀ
Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
nell’arcana sorte
tutto è doglia del parto:
quanto morir perché la vita nasca!
pur da una Madre sola, che è divina,
alla luce si vien felicemente:
vita che l’amor produce in pianto,
e, se anela, quaggiù è poesia;
ma santità soltanto compie il canto.4
1 C. Rebora, Le poesie, Garzanti, Milano 1994, p. 251.
2 Ibidem, p. 278.
3 Ibidem, p. 307.
4 Ibidem, p. 320.
RENDIMENTO DI GRAZIE
Io benedico il giorno che fui nato;
io benedico il prete e il sacro Fonte,
il giorno e l’ora che fui battezzato.
Io benedico quel casto mattino
quando, gravato già di nove lustri,
mi cibai di Gesù come bambino.
Io benedico il dì che nel mio Duomo
lo Spirito discese a fare tempio
della Sua gloria anche me, pover’uomo.
Benedico quell’invito giocondo
a lasciar tutto per amor di Cristo,
scegliendo l’Ognibene sopra il mondo.
Benedico l’Amore Crocifisso
quando mi elesse a ministrare il Sangue
che al Ciel ci salva dal mortale abisso.
Bene sia sempre a chi quaggiù la voce
del Signor a seguir mi fu d’aiuto,
l’universal carità della Croce.
Per tante grazie e patimenti tanti
l’Amante Trinità sia benedetta:
con Maria, e Giuseppe, e tutti i Santi.5
Sitivit anima mea ad Deum
fortem vivum (Ps. 41, 3)
Inaridita la terra,
protende la bocca:
implacabile il cielo di sopra.
Signore, scenda la pioggia,
che aiuti nei beni del tempo
ad ambir con fiducia gli eterni. –
Ecco cade, nel silenzio, una goccia:
qua, là, crepita l’acqua:
ora scroscia sonora,
su alberi in fiore, patiti,
e zolle in malati germogli:
5 Ibidem, p. 321.
ovunque giunge, s’intende: si estende
la fecondazione gioiosa.
In poco volgere d’ora
l’arido aspetto d’ogni cosa,
il grigio no della morte si sperde
nel sovrano sì della vita
fra trilli d’uccelli e fremiti e fruscii:
fresca appare la quiete del verde:
al Creatore amante tutto s’intona.
O Gesù, aver sete,
anelarti così!
O anima, alla grazia
del Suo amor che si dona,
così, anima, indiata, ringrazia.
(Aprile 1953) 6
Nello Spirito andiam del Precursore
Che prepara le vie del Signore,
E dice: non guardate chi sono io,
Ma guardate a Chi viene, al nostro Dio.
(24 giugno 1930) 7
J.M.J.
– Et iterum venturus est cum gloria…
La Fede, in Agostino, prende piede:
La Speranza, in Tommaso, prende corpo:
La Carità, in Rosmini, prende fuoco:
La Chiesa in essi ascende: e a poco a poco
La Verità – che è Cristo – aggiunge al Corpo
Mistico il cuore di ciascun che crede,
Vincendo il mondo col fraterno affetto,
Nel Sangue di Gesù. Poi sarà detto:
Sia or tutto in tutti Dio benedetto…
(Nel Mese di Maria [maggio], 1947)8
6 Ibidem, p. 418.
7 Ibidem, p. 440.
8 Ibidem, p. 456.
Di Gianluca Giorgio
Tra i poeti del Novecento letterario spicca la figura di Clemente Rebora. Il letterato dopo la conversione, avvenuta nel 1929, scelse di diventare sacerdote e membro dell’Istituto della Carità.
Il suo canzoniere, comprendente più raccolte poetiche, tratta della condizione umana con vibrante partecipazione e calore.
Vissuto sul finire del Mille ed Ottocento ed i primi del Novecento, fu tra i giovani che parteciparono alla Grande Guerra.
Quest’esperienza segnò la vita ed il percorso umano dell’autore nel suo cammino verso Dio. Contrario alla politica interventista, fu chiamato a offrire il proprio contributo, richiamato dalla leva militare.
Il suo ruolo lo spinse ad immolarsi per i suoi soldati ed a viverne le ansie e le tristezze della condizione di vita in trincea. Di questo periodo è la lirica Viatico nella quale fotografa, con immediatezza e penetrazione, il senso di quel dramma, caratterizzato dalla condizione di guerra.
Questa è contenuta fra le poesie sparse e le prose liriche, che raccolgono i contributi del poeta dal 1913 al 1927.
Già il titolo è emblematico indicando il conforto e le cose necessarie all’esistere che, con il dramma della Guerra, sembrano perdersi.
Il ritorno alla vita ed alla speranza nel domani, rappresentano quasi il senso sacro di un sacramento che fa da sfondo ai versi, per il futuro dell’umanità.
La lontananza dalla famiglia, la vita di trincea ed il pericolo che da un momento ad un altro si potesse perdere l’esistere, segnarono quell’esperienza nella vita di molti, come uno dei momenti più bui del secolo scorso.
La poesia, scritta dal poeta, ancora non sacerdote, richiamato alle armi, rievoca l’esperienza del campo di battaglia ed al tempo stesso del dolore che in esso si vive. La bellezza dell’esistere diventa sacra, se spesa per i fratelli e per quell’ideale che prese il cuore di Rebora, tanto ad immedesimarsi nel Cristo sofferente,vivendo il dolore della vita di tanti fratelli, dopo la maturata conversione religiosa.
Ecco la lirica:
O ferito laggiù nel valloncello tanto invocasti se tre compagni interi cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue tronco senza gambe e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti a rantolarci e non ha fine l’ora, affretta l’agonia, tu puoi finire,
e conforto ti sia nella demenza che non sa impazzire, mentre sosta il momento il sonno sul cervello, lasciaci in silenzio
Leggendo l’itinerario poetico di Clemente Rebora (Milano1885-Stresa 1957) si resta ammirati dalla forza di volontà nel seguire Dio.
Nel corso dell’esistenza, il poeta ha sempre cercato nell’Assoluto la risposta ai molti interrogativi sulla propria vita. Vita nascosta ed alle volte incrinata sui binari della sofferenza e del dolore.
Da reduce della Prima Guerra mondiale, alla precarietà del lavoro di professore financo alla sofferenza fisica, il suo cammino non gli ha risparmiato nulla.
Ma accanto a tutto questo brilla chiaro, nel suo animo, il desidero profondo della rinascita e della consacrazione a Qualcuno di più grande ,che può esser solo Dio.
Religioso presso l’Istituto della Carità, nel quale spenderà il proprio quotidiano e sacerdote dal 1936, ha interpretato le parole del vangelo, come segno di speranza, per il mondo, sconvolto da due Guerre mondiali e tanta tristezza.
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Animo delicato e profondamente sensibile alle sofferenze altrui, il Padre celeste e gli ultimi furono il suo mondo, per il quale spese i propri giorni.
In occasione della solennità del Santo Natale, che celebra la nascita del Cristo nel grembo della Vergine Maria, il poeta compose una breve lirica, dedicata a tale evento così importante per la fede.
I versi sono del 1 dicembre 1955 ed appartengono alla raccolta dei Canti dell’infermità, composti tra l’ottobre 1955 ed il dicembre del 1956.
La poesia si intitola “Avvicinandosi il Natale”.
Si noti, nella lettura, il senso del divenire e la potenza di quel fuoco che disgela le coscienze, addormentate, dal trambusto del mondo, che nell’animo del sacerdote lascia il posto alla venuta del Santo di Betlemme, tanto amato e desiderato.
Oh Comunion vera e sol beata,
se con te, Cristo, sono crocifisso
quando nell’Ostia Santa m’inabisso!
Intollerabil vivere del mondo
a bene stare senza l’Ognibene!
Penitenza scansar, che penitenza!
Se ancor quaggiù mi vuoi, un giorno e un giorno,
con la tua Passion che vince il male,
Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo,
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
O Croce o Croce o Croce tutta intera,
nel tuo abbraccio a trionfar di Circe,
solo sei buona e bella, e come vera!
Abbraccio della Madre, ove già vince
nel suo Figlio lo strazio che l’avvince.
Di Gianluca Giorgio
Padre Clemente Maria Rebora spirò al mondo il 1 novembre 1957. La sua esistenza di poeta trascorse, feconda ed attraversata da moltissime istanze, che lo portarono dall’ideale laico della bontà a quello divino della santità.
Proveniente da una buona famiglia di tradizioni mazziniane, fin da giovane, sente il richiamo della partecipazione e del farsi fratello fra i fratelli, frutto di un solidarismo laico.
Nel 1910 si laurea in Lettere, discutendo una tesi avente ad oggetto: “Gian Domenico Romagnosi ed il pensiero del Risorgimento”. Relatore è il professor Gioacchino Volpe.
Fu autore di diverse raccolte, tra cui i Frammenti lirici (1913) per le edizioni de la Voce di Giuseppe Prezzolini, i Canti anonimi (1922) ed infine i Canti dell’infermità (1956).
La poesia è stata sempre la sua realtà, nelle pieghe dell’esistere I suo versi sentono il richiamo alla poetica del Leopardi.
Parte degli studiosi sono concordi nel ritenere che i Frammenti lirici abbiano influenzato, anche, autori come Eugenio Montale, per i suoi Ossi di seppia (1925).
Fu professore di italianistica, in diversi Istituti ed amò il mondo dell’insegnamento, con la volontà di donarsi, ai ragazzi, per portarli al desiderio di un mondo migliore.
Ufficiale, durante la Prima guerra mondiale, una non nota “mania dell’eterno”, gli fu diagnosticata, come pensiero dominante, da un medico di Reggio Emilia, dopo aver riportato una ferita da obice, alla tempia, durante il conflitto.
In quei mesi di trincea, il poeta è ricordato per esser stato vicino ai soldati e dedito all’ascolto di ogni sofferenza.
Del periodo successivo è la traduzione di diverse opere della letteratura russa, tutt’ora, ripubblicate. Convertito al Cristo, dal 1929, ascese i sentieri della religione, per varcare quelli della gioia dell’incontro con il Padre.
La sensibilità maturata, tramite un percorso fra la ricerca personale e la cultura furono la base per scendere nel cuore dell’uomo e portarvi la felicità dell’incontro con quella fede, che trasfigura ogni cosa.
Chi conobbe padre Clemente Maria Rebora lo ricorda, dopo la sua entrata nell’Istituto della Carità, come un uomo nuovo, completamente, rinnovato dalla parola del vangelo.
Seguendo il beato Antonio Rosmini, nella nuova famiglia religiosa, scelse di vivere la Carità come anelito e la Provvidenza, come mezzo del suo essere.
“Dalla perfetta Regola ordinato-scrive nel Curriculum vitae– l’ossa slogate trovaron lor posto: scoprì l’intelligenza il primo dono: come luce per l’occhio operò il Verbo, quasi aria al respiro il Suo perdono”.
Fu un religioso devoto e pio: solo la bontà, sempre pronta alle esigenze di coloro che incontrava sul suo cammino.
Il sorriso e l’accoglienza erano il modo di porsi nell’incontro con l’altro.
Fu un autentico padre, donando quanto possedeva, ai tanti, che ne chiedevano l’intercessione o la carità. Si privava di tutto pur di assecondare le molte richieste.
Visse, con altissima partecipazione, la fede, leggendo nei segni del quotidiano, la mano di Dio che guida il cammino, alle volte, difficile dell’esistere.
Condivise un sacerdozio, esemplare e generosissimo, reso vivo dall’esser parte della Passione del Cristo e della Madonna addolorata, venerata nella spiritualità rosminina.
Seguì i giovani, amministrò i Sacramenti, predicò ritiri ed insegnò nelle scuole dell’Istituto della Carità, pur di far regnare il vangelo nella società.
Poche parole, dense di molta interiorità, filtrano dai suoi consigli spirituali, ai fedeli. La conversione gli fece abbandonare il mondo culturale, la musica e la poesia, seppur ripresa poco tempo prima di morire, con diverse liriche religiose, pur di trovare la verità della croce.
Fu un vero apostolo e con la parole e l’esempio, riportò molti cuori alla fede ed alla bontà.
Visse di Dio e per Dio lasciando la terra per il cielo, nella contemplazione dell’Assoluto, cercato ed amato nel corso dei propri giorni.
La vita
Clemente Rebora – il grande poeta innamoratosi di Cristo crocifisso – nasce a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese: il padre, che era stato con Garibaldi a Mentana, tiene il ragazzo lontano dall’esperienza religiosa e lo educa agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo.
Dopo il liceo, il giovane frequenta medicina per un anno a Pavia, ma non è questa la sua strada. Passa a Lettere: l’accademia scientifico letteraria di Milano – presso la quale si laurea – era un ambiente pieno di fervore creativo. Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali intrattiene appassionanti conversazioni.
Intraprende poi l’attività d’insegnante. La scuola è per lui luogo d’educazione integrale, per formare uomini pronti a cambiare la società; e proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a collaborare a “La Voce”, la prestigiosa rivista fiorentina.
Come quaderno de “La Voce” esce nel 1913 la sua opera prima: i Frammenti lirici. Il successo è immediato.
Alla fine di quello stesso anno conosce Lidya Natus, un’artista ebrea russa: nasce fra loro un affetto che li lega fino al 1919.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Rebora è sul fronte del Carso: sergente, poi ufficiale. Ferito alla tempia dallo scoppio di un granata, ne rimane segnato soprattutto a livello psicologico (i biografi parlano di «nevrosi da trauma»).
Nell’immediato dopoguerra torna all’insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da operai: da quel popolo semplice che egli, con slancio umanitario, ama.
Si autoimpone un regime di vita molto austero, devolvendo gran parte dello stipendio ai poveri e spesso ospitandoli in casa. Appare a molti come una specie di santo laico, ma in realtà, «l’ignorato Battesimo operando», egli è sempre più affascinato dalla religione. Lo si evince anche dai Canti anonimi: il suo secondo libro di poesia, del 1922.
Nella stessa direzione va la sua iniziativa editoriale: Isedici Libretti di vita attraverso cui divulga opere di mistica occidentale e orientale (e su tali argomenti è anche apprezzato conferenziere).
Sono questi, diversi segnali che preludono all’approdo: la conversione al cattolicesimo, nel 1929. Decisiva è per lui la figura dei cardinal Schuster, da cui riceve il sacramento della Cresima. Rebora adesso capisce che la via alla totalità passa attraverso la sequela di un carisma particolare: nel suo caso è quello rosminiano, con il «voto di annullamento» – perdersi per ritrovarsi -, con la mistica prospettiva di «patire e morire oscuramente scomparendo polverizzato nell’amore di Dio».
Nel Curriculum vitae il poeta, ormai anziano, ricorderà Rosmini come il maestro cui filialmente si era affidato, forma attraverso la quale la novità di Cristo aveva investito e cambiato la sua persona:
E fui dal ciel fidato a quel sapiente
che sommo genio s’annientò nel Cristo
onde Sua virtù tutto innovasse.
Dalla perfetta Regola ordinato,
l’ossa slogate trovaron lor posto:
scoprì l’intelligenza il primo dono:
come luce per l’occhio operò il Verbo,
quasi aria al respiro il Suo perdono.
La vita di Rebora può procedere ormai con passo sicuro: nel 1931 entra come novizio nell’Istituto rosminiano di Domodossola, nel ’33 emette la professione religiosa, nel ’36 è’ ordinato sacerdote. Per un ventennio don Clemente spende le proprie energie in mezzo a poveri, malati, prostitute. Colui che camminando tra le tante parole (magari poetiche) si era imbattuto nel Verbo che si è fatto carne, ora non ha più bisogno di scrivere: la parola fa spazio all’azione di carità. Solo negli ultimi anni di vita, malato nella carne, tornerà alla parola poetica: Curriculum vitae, autobiografia in versi, del 1955; Canti dell’infermità, del 1957, l’anno della morte di Rebora.
L’itinerario poetico
La palestra in cui il giovane Rebora affina il proprio stile poetico è la rivista “La Voce”: egli, assieme a Sbarbaro e Jahier, e a narratori quali Boine e Slataper («gente che – avverte Gianfranco Contini – era abbonata al Cahier de la quinzaine, che sentiva l’esigenza religiosa … »), pensa un’arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale.
Tra questi autori che «testimoniano in versi il tormento profondo dell’uomo alienato ed esposto all’angoscia delle estreme domande esistenziali, Rebora è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca» (Elio Gioanola).
li suo stile espressionistico consiste nel deformare il segno linguistico, renderlo aggressivo, incandescente, non temendo di mescolare termini aulici e dialettali per ottenere accordi stridenti e disarmonici. «La carica di violenza deformante con cui egli aggredisce il linguaggio – scrive il Mengaldo – mima il caos peccaminoso della realtà rugosa». Gli fa eco il Gioanola: «La poesia di Rebora appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».
A Mario Apollonio che si chiede se non sia tutta religiosa la poesia di Rebora (anche quella che precede la conversione), si può decisamente rispondere in maniera affermativa: nei frammenti lirici e ancor più nei Canti anonimi il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia. Nitidamente il poeta lo ricorderà nel Curriculum vitae:
un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico e nel chiasso, un dire furbo:
Quando c’è la salute c’è tutto,
e intendevan le guance paffute,
nel girotondo di questo mondo.
Al cuore, strutturalmente fatto per l’infinito, non basta il buon senso, la salute – epidermico colorito sulle guance -; gli è piuttosto necessario il Senso ultimo, la Salvezza.
Al giovane Rebora proprio questo mancava: «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno :scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».
Questo gemito, questa grande tristezza è il carattere fondamentale della vita consapevole di sé, che è – come diceva san Tommaso «desiderio di un bene assente». Quel bene, quell’unico oggetto veramente cercato, sfugge all’umana capacità di «presa». Un individuo è allora tentato di aggrapparsi agli idoli, che però dapprima si offrono a un possesso precario, poi scivolano via – beffardi – tra le dita. La creatura resta sola con il suo “grido”, con «una segreta domanda».
E’ il tema della splendida lirica Sacchi a terra per gli occhi:
Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!
La ragione è esigenza di spiegazione adeguata e totale dell’esistenza. La risposta c’è: l’intima domanda che urge nel cuore ne è la prova; c’è, ma dimora al di là dell’orizzonte da noi misurabile. La ragione al suo vertice si sporge sul «mistero».
E’ ladinamica de Il pioppodi Rebora (come già de Il libro di Pascoli, dal quale il poeta rnilanese riprende la tripletta di rime: «pensiero-mistero-vero”):
Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo;
spasima l’aria in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s’inabissa ov’è più vero.
Tutto il reale è segno che rimanda ad altro, oltre sé, più in là; tutto è “analogia” che chiede di “tendere a”, ovvero di “ad-tendere”. Se l’allodola era, in Claudel come in Pascoli, aereo simbolo dell’uomo che ha riconosciuto Dio e spende la vita per lodarlo, nel giovane Rebora è invece l’emblema del poeta: teso al cielo per il quale è fatto, ma legato alla terra, egli canta l’elegia dello schiavo consapevole, inchiodato alla missione di richiamare i fratelli (apparentemente) liberi a prender coscienza della propria condizione. Ogni slancio verso il cielo della felicità pare destinato a ricadere dolorosamente al suolo:
O allodola, a un tenue filoavvinta,
schiavo richiamo delle libere in volo,
come in un trillo fai per incielarti
strappata al suolo agiti invano l’ali.
Egli resta “spatriato quaggiù, Lassù escluso».
Eloquente questa confessione, nell’ultimo dei Frammenti lirici:
Il mio canto è un sentimento
che dal giorno affaticato
le ore notturne stanca:
e domandava la vita.
Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità.
In Dall’intensa nuvolaglia il poeta proietta in un evento esterno – il ternporale – l’incombenza minacciosa che intimamente lo pervade. Coscienza del male e domanda di Bene: in 0 pioggia dei cieli distrutti «un’ansia continua di superamento, una richiesta di assoluto muove anche dai più comuni spettacoli, come quello della pioggia» (G. Bàrberi Squarotti). In 0 carro vuoto sul binario morto il dato realistico viene «trasformato in inquietante simbolo di un condizionamento senza scampo – il binario che costringe ad una rotta vincolata – e di ansia per il libero spazio»: è il contrasto esistenziale «tra prigionia dell’hic et nunc e volontà di assoluto» (E. Gioanola).
Nel secondo libro di Rebora, i Canti anonimi, «si accentua la sua tendenza – come dice ancora l’ottimo Gioanola – a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto».
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
Universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, Dall’immagine tesasta sulla soglia della conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, questa lirica sigilla la produzione “laica” del Nostro. Poesia dell’attesa, o meglio dell”‘Atteso”, è reputata da Margherita Marchione «la lirica italiana più religiosa e vibrante del nostro tempo»; e Stefano Jacomuzzi la definisce «uno dei più alti canti religiosi dell’arte contemporanea».
Strutturalmente è divisa in due parti di tredici versi ciascuna. Nella prima, costruita su una fitta serie di affermazioni e negazioni, il corpo è teso a vigilare l’istante, all’erta come sentinella (o come le vergini prudenti: imminente è l’arrivo dello Sposo). «Nell’ornbra accesa» (ardito ossimoro), nel buio dell’incertezza in cui scintilla l’attesa, il poeta spia quel silenzio gremito d’impercettibili suoni, profumati e leggeri come polline (splendida la sinestesia: «polline di suono»!). Lo spazio, nell’immobilità sospesa e colma di stupore, pare dilatarsi all’infinito. In esso il poeta, che tre volte ribadisce «non aspetto nessuno», pre-sente di essere sull’orlo di una rivelazione. L’«immagine tesa» dell’incipit – spiegherà Rebora ormai vecchio – è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae».
La seconda parte della lirica, aperta dall’avversativa «Ma», afferma perentoriamente che l’Ospite atteso «verrà» (sei volte ricorre l’anafora). Fragile è la mia capacità di vigilanza, sempre minacciata dalla distrazione – dice il poeta – ma, «se resisto» nell’attesa, non potrò non assistere al Suo impercettibile «sbocciare» (dunque era Lui – l’Ospite – a spandere «un polline di suono»). La Sua venuta sarà un avvenimento «improvviso», imprevisto (qui come già in Péguy); e porterà il “per-dono”, il grande dono della vittoria sul peccato e sulla morte (qui la concezione è già pienamente cristiana, sebbene la conversione accadrà solo nove anni dopo). Verrà come certezza che c’è un «tesoro», per acquistare il quale vale la pena vendere tutto; dolori e pene permarranno, ma abbracciati da un «ristoro» umanamente impensabile. «Verrà, forse già viene»: «La Presenza è alle soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto “bisbiglio”» (Jacomuzzi). Testirnoniando la propria fede a Eugenio Montale, Rebora – negli ultimi anni di vita – tornerà su quel bisbiglio: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».
Curriculum vitae
In quest’opera il poeta, ormai vecchio e malato, ripercorre la propria vicenda esistenziale, a partire dagli anni della giovinezza, quando «sola, raminga e povera /un’anima vagava». Ogni “idolo” illudeva e puntualmente deludeva. «Immaginando m’esaltavo in fama /di musico e poeta e grande saggio: /e quale scoramento seguitava!». La cultura cresceva in quantità, non in profondità: «Saggezza da ogni stirpe affastellavo /a eluder la sapienza». Un’esistenza mondana era «civil asfissia». Finché si piegò alla Grazia.
Come nella mistica classica, l’incontro con l’Agnus Dei accade al culmine di una lunga salita, dopo aver attraversato la notte oscura dello smarrimento, quando egli si era visto schiacciato da nebbia e caligine, quando aveva provato terrore, disperazione e angoscia. A salvarlo dallo smarrimento era stato dapprima un richiamo, un indizio: un fievole belato. Poi tutto si fa chiaro, e la strada è finalmente in discesa: gli è dato di baciare la tenerezza di Dio, di sostare nella «dimora buona», di camminare lieto, «ri-cordando» – portando nel cuore – Colui che è venuto attraverso Maria.
Alla critica laicista non è piaciuto questo Rebora novissimo, questa poesia che si fa inno, officiatura, parola paraliturgica. Giovanni Getto trova inveceche proprio adesso questa lirica «si insapora d’un gusto pungente»: il senso e il gusto riconosciuto in «Gesù il Fedele, /il solo punto fermo nel moto dei tempi». Centro del cosmo e della storia.
Da Roberto Filippetti _ IL PER-CORSO E I PERCORSI – Schede di revisione di letteratura italiana ed europea volume terzo “Da metà Ottocento al 2000” – Ed. ITACA
Descrizione del libro di Elli Stern -IL SUONO ROSSO-Ambientato tra Praga e la campagna toscana, Il suono rosso racconta l’incontro denso di conseguenze tra Daniel Wien, un giovane violoncellista in crisi, e il celebre maestro Aron Feuerlicht, sparito dai palcoscenici internazionali dopo essere sopravvissuto alla Shoah suonando nell’orchestra di Auschwitz. Sullo sfondo un’avvincente storia d’amore, alcune memorabili lezioni di musica, l’irresistibile mondo dell’opera e il sorprendente potere del passaggio della memoria tra le generazioni.
Un racconto sconvolgente: la memoria, la riscoperta del passato. Elli Stern, scrittrice e traduttrice, unisce la verve narrativa all’ambientazione musicale: il suo romanzo Il suono rosso offre uno spaccato sul mondo musicale passato e presente, fra drammi storici e vicende personali, culminando in una rievocazione del destino dei musicisti nei campi di concentramento nazisti che non può lasciare indifferenti.
Elli Stern.Nata in Israele nel 1973, alla tenera età di tre mesi mi sono trasferita a Milano, crescendo felicemente all’ombra del Teatro alla Scala.Dopo gli studi di filosofia alla Statale, dove mi sono laureata in filosofia teoretica con una tesi sul Demoniaco nei Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, sono andata a Berlino per imparare il tedesco, la lingua segreta che i miei genitori parlavano quando non volevano che li capissi.A Berlino ho trascorso un lungo periodo di formazione alla Staatsoper, scrivendo testi per i programmi di sala e collaborando alle produzioni come coach di italiano e volenterosa assistente degli assistenti alla regia.Ho poi diretto per dieci anni l’ufficio stampa ed edizioni di Ferrara Musica avendo spesso occasione di collaborare con Claudio Abbado, sotto la cui supervisione ho creato, insieme ad Alberica Archinto, un video per Euroarts dedicato al Pelleas und Melisande di Schönberg.Da molti anni lavoro come traduttrice dall’inglese, dal francese e dal tedesco, collaborando in particolare con il Saggiatore alla traduzione di testi di argomento musicale, tra cui l’epistolario della famiglia Mozart.Nel 2021 le edizioni Zecchini hanno pubblicato il mio primo romanzo, Il suono rosso.Vivo a Londra insieme al compositore Nimrod Borenstein e a nostra figlia Alma.
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Post scritto da Mario Grasso:”Scrittrice raffinata e intensa, Rosetta Loy nasce a Roma il 15 maggio 1931. Scoperta da Natalia Ginzburg, il suo esordio letterario si registra nel 1974 con ‘La bicicletta’. Ha fatto parte della cosiddetta “generazione degli anni Trenta”, un nutrito gruppo di autori italiani comprendente anche Umberto Eco, Gesualdo Bufalino, Carmelo Samonà, Gina Lagorio e molte altre penne. Tra le sue opere più importanti si ricorda “Le strade di polvere” del 1987 – con il quale vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello – un romanzo a sfondo storico e memorialistico tradotto in numerose lingue. Negli anni successivi scrive “Cioccolata da Hanselmann”, “Le strade della polvere, “Sogni d’inverno”, “La prima mano” e “Gli anni tra cane e lupo”. Alle pagine di “La parola ebreo” affida nel 1997 la sua dolorosa riflessione sulle radici ebraiche e sul segno delle leggi razziali nella sua infanzia. I temi preferiti delle sue opere sono l’amore, la morte, la guerra, i bambini. Il suo ultimo romanzo, “Cesare”, scritto nel 2018 all’età di 87 anni, è dedicato alla figura del critico letterario Cesare Garboli, con il quale ebbe una lunga e, a tratti, travagliata storia d’amore fino alla morte di lui, avvenuta nel 2004. Nel 2017 è stata insignita del premio Campiello alla carriera. A causa di un infarto, si spegne a Roma il 2 ottobre 2022.Di sé diceva: “Nella mia vita ho amato due uomini e la letteratura”.
Biografia di Rosetta Loy-Scrittrice italiana (Roma 1931 – ivi 2022); ha esordito con il romanzo La bicicletta (1974), vincitore del premio Viareggio. Nelle opere successive Le strade della polvere (1987), Sogni d’inverno (1992), Cioccolata da Hanselmann (1995), Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria (2004), La prima mano (2009), una scrittura limpida, essenziale, concreta le consente di riscoprire ogni volta i temi preferiti: l’amore, la morte, la guerra, i bambini. Ne La parola ebreo (1997) racconta la storia della sua famiglia, cattolica, e di una certa borghesia italiana che, anche se non apertamente schierate con il fascismo, accettarono le leggi razziali senza avere coscienza della tragedia che si stava compiendo: memoria individuale e memoria collettiva si sovrappongono, sottolineando il peso di una responsabilità storica e morale. In Cuori infranti (2010), nelle due favole nere che compongono il volume, la scrittrice racconta gli omicidi di Novi Ligure e di Erba. Nel 2013 ha pubblicato Gli anni fra cane e lupo, racconto che ripercorre la storia d’Italia dal 1969 al 1994, mentre è stato edito nel 2016 il testo autobiografico Forse, e nel 2018 Cesare, biografia del critico letterario C. Garboli. Nel 2017 la scrittrice è stata insignita del premio Campiello alla carriera.
-Claribel Alegrìa poetessa e scrittrice nicaraguense-
Claribel Isabel Alegría Vides, nota semplicemente come Claribel Alegría (12 maggio 1924 – 25 gennaio 2018), era una poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense autrice anche di alcuni saggi, considerata con la connazionale Gioconda Belli la maggiore esponente della letteratura del Centro America. Nata a Estelí, una piccola città del Nicaragua, crebbe tuttavia a Santa Ana, nel Salvador. Nel 1943 si trasferì negli Stati Uniti per studiare e nel 1948 ricevette il B.A. (Bachelor of Arts), cioè la laurea, in Filosofia e Letteratura alla prestigiosa George Washington University di Washington.Tornata in patria, legandosi al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, d’ispirazione marxista, fu coinvolta nelle proteste nonviolente contro la dittatura del Presidente Anastasio Somoza Debayle. Nel 1979 Somoza cadde e il Fronte prese il potere in Nicaragua, ma Alegría, che nel frattempo aveva iniziato la propria carriera di poetessa, scrittrice, giornalista e saggista, decise di tornarvi solo nel 1985. Attualmente viveva nella capitale Managua. Scrittrice popolare in tutta l’America Latina, riflette uno stile che, a differenza di molti autori americani o europei, non è ripiegato su una lunga tradizione letteraria. Identificata come un’autrice della generación comprometida, poetessa severa e critica, a volte pessimista, in un classico umore mutevole come mutevole è la situazione politica del Centro America, Claribel Alegría usava nelle sue poesie il linguaggio comune, del popolo, e spesso una sua composizione non supera la decina di versi. Ha scritto anche romanzi, racconti e storie per bambini. Nel 1978 ha ricevuto a Cuba il Premio “Casa de las Américas”, il più prestigioso riconoscimento letterario del Centro America, e il “Neustadt International”.
Cuando me mates / muerte / tu te habiás evaporado / para siempre / yo / saltaré sobre mi cuerpo / y seguiré viviendo” (Quando mi ucciderai / morte / tu evaporerai / per sempre / io /
salterò sul mio corpo / e continuerò a vivere“
Quel bacio
Quel bacio di ieri mi ha
aperto la porta
e tutti i ricordi
che credevo fossero fantasmi
si sono ostinati
a mordermi.
La voce del ruscello
Torno verso il mare
è lì che nacqui
mi accolse una roccia
quando saltai sulla terra.
Scendo piano
mi trattengo nel muschio
tra i fiori selvatici
scendo a cercare il fiume
che mi riporti al mare.
Il mio vicino
il torrente
non sa che io esisto
brama
salta
riempie canali
scoppia
anche lui cerca il fiume
dissolversi nel fiume
che mi riporti al mare
perché il mare ci aspetta
perché il mare è la culla
perché siamo il mare.
Io sono un gabbiano
Sono un gabbiano
solitario
con l’ala spezzata
faccio un solco nella sabbia.
Inconfondibile
è la voce
che mi insegue
che non si scolla da me
che tesse insonnie.
Come la pioggia
cade
come il vento
solo questa voce ascolto
mi possiede
lascia cadere avanzi di pane
e fugge via.
(da ‘Voci‘, Samuele Editore, 2015 – Traduzione di Zingonia Zingone)
Claribel Alegría
Cos’è poesia?Ce lo ricorda Claribel Alegría
Di: Mattia Cavadini
Capita a volte, invero raramente, di imbattersi in una successione di frasi o versi di una bellezza e potenza inaudite. Penso ad alcune poesie di Rilke, qualche verso del Montale di Xenia, alcune figurazioni dantesche, brevi illuminazioni rimbaudiane, l’incanto di Wordsworth o i sassolini naif che Walser lascia cadere nel suo camminare in prosa.
Questo catalogo è inviolabile, emana una luce abbacinante, e non sopporta volgarizzazioni. In esso entrano pochi nomi, per cui quando capita di imbattersi in nuovi cristalli verbali che possano essere annoverati nel catalogo, ecco che si sobbalza sulla sedia, si freme, si sorride e si piange di commozione. È quanto mi è successo ultimamente, leggendo la prima parte del poema Amore senza fine (edizioni Fili d’Aquilone) di Claribel Alegría, poetessa nicarguense di cui ignoravo l’esistenza.
E allora mi sono domandato: come è possibile che determinati autori riescano a generare cristalli verbali così potenti? La sensazione è che questi momenti poetici non appartengano a colui o colei che li ha generati. Essi sembrano piuttosto superare non solo l’autore ma anche la realtà in cui sono nati. Sono, questi cristalli, l’indizio di ciò che può essere fatto senza che l’autore possa rivendicarne il dominio o la paternità. Ma allora, se non è l’autore che parla in questi momenti ieratici, chi sta parlando? Leggendo la sezione La soglia del poema di Claribel Alegría ho avuto la sensazione (come per gli altri cristalli verbali) che i suoi versi custodissero il fiato di una bocca ignota, fossero il riflesso immateriale in cui si specchiano i segreti del mondo.
n questi cristalli verbali si ha la sensazione che lo scrittore non scriva, ma che sia scritto. O meglio, che scriva parole ricevute, parole che provengono da un altro. Non a caso Rimbaud diceva: C’est faux de dire: Je pense; on devrait dire: On me pense. Stessa cosa ribadiva Jung a proposito del pensiero primitivo: La mentalità primitiva si distingue da quella civilizzata soprattutto per il fatto che non si pensa “coscientemente”, ma i pensieri semplicemente “affiorano”. Il primitivo non può dire che pensa, bensì che “in lui si pensa”.
Purtroppo nel mondo odierno questo tipo di scrittura non esiste più. Gli scrittori oggi sembrano poco disposti a farsi da parte e a lasciare che sia l’altro a scrivere al proprio posto. Eppure, come suggeriva Barthes, scrivereimplica necessariamente tacere: scrivere è in un certo modo “farsi muto come un morto”, diventare uno cui non è consentita l’ultima replica; scrivere è dal primo momento offrire all’altro quest’ultima replica. In altre parole: solo facendo olocausto di sé e delle cose stabilite, lo scrittore può servire una realtà sconosciuta ed invisibile (rovina di ciò che egli conosce e meraviglia di ciò che ignora). Solo cercando ciò che si perde, ciò che è al di là dei propri confini, è possibile essere messaggeri dell’infinito.
Perdendosi, il poeta si scopre radunatore di miti, eco dello spirto. Dante lo sapeva bene, quando invocava: entra nel petto mio, e spira tue o quando ribadiva: Amor che ditta dentro. Stessa cosa diceva Platone, allorché affermava che per bocca dei poeti, privati del senno e della volontà, parlava la divintà. Peccato che tale scrittura sia andata scomparendo e grazie a Claribel Alegría per avermi ricordato ciò che è Poesia: la trascrizione di cristalli verbali ricevuti dal cielo, e, in assenza di questi messaggi, il silenzio.
Claribel Alegría- La poesia è puro amore
Di: Gianni Beretta
Resisterà la poesia in un mondo caotico, sempre più razionale e virtuale, piegato al dio denaro? Per Claribel Alegría, tra i magigiori poeti latinoamericani, assolutamente sì. Per lei, che ci ha lasciti il 25 gennaio 2018, la poesia era qualcosa di antecedente il linguaggio: da quando esiste l’homo sapiens, quando una mamma coccola e canta per il suo bambino, fa poesia; la poesia è nel profondo dell’essere umano, che scriva o no. Il 14 novembre 2017 Claribel ha ricevuto dalle mani della regina emerita Sofia di Spagna la massima onorificenza per la Poesia Iberoamericana 2017 (l’equivalente del Miguel de Cervantes per la letteratura), onorificenza attribuitale dalla prestigiosa Università di Salamanca (che in passato aveva insignito poeti del calibro di Álvaro Mutis, Juan Gelman e María Victoria Atencia).
Nata il 12 maggio 1924 in Nicaragua, da madre salvadoregna e padre nicaraguense, Claribel Alegría trascorre la sua infanzia e adolescenza in El Salvador. Per poi andare a studiare lettere e filosofia alla George Washington University.
Claribel Alegría incomincia a scrivere poesie molto presto, a 14 anni, ispirata dalla lettura di un grande vate: il ceco Rainer Maria Rilke. E il suo primo maestro (severo e rigoroso, dice di lui con gratitudine) è il poeta spagnolo e nobel per la letteratura Juan Ramon Jimenez.
La sua è una poetica eminentemente lirica, in un istmo centroamericano fecondo in quanto a narrativa e poesia, avendo dato i natali a grandi letterati come Rubén Darío (in Nicaragua), Miguel Ángel Asturias (in Guatemala) e Roque Dalton (in El Salvador).
Claribel fin dall’inizio pone al centro della sua opera l’amore, nelle sue diverse manifestazioni, a immagine del suo profondo amore verso la vita intera. La sua poesia non si arresta, infatti, di fronte al negativo ma si dispone con lo stesso amore e con la stessa partecipazione sia alla gioia che al dolore, sia alla nascita che al tramonto, sia alla presenza che all’assenza.
La Rivoluzione Cubana del 1959 le apre gli occhi sulla realtà sociale dei paesi centroamericani, allora oppressi sotto il giogo di dittature oligarchico-militari. La forza della rivoluzione le dimostra che la cogenza storica e sociale (che a prima vista potrebbe sembrare ineluttabile e priva di futuro) può essere cambiata. Cominciai a scrivere oltre il mio ombelico, afferma Claribel, che ciononostante preferisce tenersi alla larga dal poema politico e di denuncia (e, più in generale, dalla letteratura impegnata): la poesiaè scrivere e riscrivere al meglio un poema;non deve fare compromessi né essere al servizio di nessuno. E, a coloro che ritengono che i suoi sarebbero talvolta versi politici, risponde: la mia poesia è puro amore verso la mia gente.
Claribel ha scritto pure diverse novelle insieme al suo compagno di vita: Darwin Flakoll, detto Bud, suo coetaneo, determinante nella sua opera e ispirazione poetica. Insieme hanno vissuto a Città del Messico, Santiago del Cile, Buenos Aires, Montevideo e Parigi. Per poi ritirarsi a Mayorca, a fianco dell’abitazione dello scrittore Robert Graves.
Julio Cortázar, Mario Benedetti, Eduardo Galeano, Vargas Llosa, Carlos Fuentes fra gli altri, erano di casa da loro nell’isola. Così come erano altrettanto di casa a Managua quando Claribel e Bud si trasferirono definitivamente in Nicaragua nel 1982, in piena Rivoluzione Popolare Sandinista.
Con Bud (scomparso nel 1995) aveva un rapporto che, se possibile, veniva prima dei sentimenti che nutrivano verso i loro quattro figli. Mi chiedono spesso, afferma Claribel, quale sia il segreto per un amore duraturo. Rispondo che oltre all’amore ci deve essere una grande amicizia. Senza amicizia l’amore appassisce. Per Claribel Alegría dunque l’amore “eterno” esiste, e lei ha avuto il privilegio di viverlo.
La parola è un’ossessione per Claribel, che considera la poesia un esercizio ben più arduo della prosa: ho passato notti insonni per trovare la parola giusta di un verso. Claribel Alegría ha pubblicato una ventina di libri di poesie, fra cui: Variaciones en clave de mí, Sobrevivo, Umbrales, Saudade, Soltando amarras… In italiano sono stati tradotti Alterità (Incontri Editrice 2012) e Voci (Samuele Editore 2015), oltre alla novella Ceneri d’Izalco (Incontri Editrice 2011) scritta nel 1966 con il marito Darwin Flakoll. E il poemaAmore senza finededicato al suo Bud: sessantuno pagine fitte di versi dove Claribel compie un dolce e misterioso viaggio nell’aldilà, un viaggio che supera il tempo e la morte.
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