Silvia Cipolletta-La diocesi di Nomentum- Edizioni Archeoares-
Silvia Cipolletta-La diocesi di Nomentum
Descrizione del libro di Silvia Cipolletta- Edizioni Archeoares -Nella diocesi di Nomentum, estremo lembo della Bassa Sabina, grazie alla vicinanza con Roma, la diffusione del Cristianesimo fu abbastanza precoce, come è provato dalle numerose testimonianze materiali e documentarie, legate all’evangelizzazione della chiesa romana e all’esistenza delle due principali vie di comunicazione (vie Salaria e Nomentana), che ebbero funzione di arterie di irradiazione religiosa. La diocesi non ha avuto, in passato, una sua organica trattazione e, prescindendo dall’opera di Corrado Pala, non esiste alcuno studio complessivo delle evidenze storico-archeologiche presenti. Il presente contributo vuole offrire un quadro critico e una documentazione aggiornata delle emergenze archeologiche del territorio legato, dal punto di vista amministrativo, alla diocesi di Nomentum in un periodo che va dall’età tardo antica all’epoca alto medievale. Partendo da una cartografia moderna, si sono esaminate a ritroso nel tempo le trasformazioni, avvenute nel corso dei secoli, al fine di giungere alle più antiche testimonianze esistenti. Si tratta di uno dei territori più esposti, per la sua posizione nell’hinterland metropolitano, alla speculazione edilizia e ad una notevole tensione antropica. Uno degli obiettivi, che mi sono proposta, è stato effettuare il censimento di tutti gli edifici religiosi e il loro posizionamento in una cartografia adeguata. Questa operazione ha consentito di rilevare la scomparsa totale di interi complessi e, per quanto riguarda le strutture sopravvissute, la frammentarietà dei dati esistenti, che rendono improponibile una sintesi organica di carattere archeologico. Per le poche strutture, rinvenute in alzato, si è proceduto alla classificazione dei paramenti murari, nel tentativo di fornire una chiave cronologica utile alla comprensione del singolo monumento. L’assenza, in molti casi, della documentazione storica non ha consentito l’approfondimento necessario per la ricostruzione delle dinamiche di fondazione degli edifici e per un particolareggiato inquadramento storico.
Il territorio, che comprende le moderne località di Fonte Nuova, Tor Lupara, Mentana e Monterotondo, non offre problemi dal punto di vista dell’individuazione preventiva dei monumenti da tutelare, perché è stato oggetto di studi e ricerche settoriali da parte di Pala, Passigli, Quilici e Quilici Gigli, La Porta e Moscetti, che offrono una cartografia esaustiva.
Questo elevato livello di conoscenza non ha evitato, però, al territorio in questione, la perdita di gran parte delle documentazioni della sua storia e delle sue origini, tanto da rappresentare un modello emblematico del grave deterioramento a cui può essere soggetto un ambiente storico in nome di un progresso meramente quantitativo. Il territorio nomentano, come tutti quelli della cintura metropolitana, sembra inoltre penalizzato da una situazione che contrappone, nel circuito del comune di Roma, da un lato le esigenze di espansione e dall’altro la richiesta di servizi per la tutela dei monumenti e dell’ambiente, esigenze che spesso si riversano in modo non positivo sull’hinterland, destinato ad accogliere quanto di negativo la metropoli rifiuta. Con questo lavoro, revisione degli studi già esistenti, si intende fornire una serie di nuove considerazioni, risultato di una ricerca storico-topografica. Si è tentato di dare, in questa sede, un articolato status quaestionis, con il panorama più completo possibile delle interpretazioni, delle ipotesi e delle opinioni succedutesi in oltre due secoli di studi, prestando particolare attenzione alle novità, che sono emerse negli ultimi anni. Ho elaborato, a tal scopo, i risultati di una ricerca, che ha comportato la lettura e, a volte, la rilettura di quei testi, che hanno preso in esame il territorio, una rivisitazione del patrimonio cartografico e della documentazione esistente presso gli archivi, nonché i dati emersi dall’attività di ricognizione.
Edizioni Archeoares-Viterbo
Edizioni Archeoares è specializzata in saggistica e pubblicazioni accademiche ed è impegnata nella valorizzazione del patrimonio artistico attraverso la realizzazione di guide turistiche e cataloghi d’arte.Opera al servizio della cultura con professionalità. Attenta alle sfide del settore, porta avanti un progetto solido e coerente affidandosi a professionisti ed esperti riconosciuti in diversi ambiti per garantire al pubblico prodotti di alto contenuto.La casa editrice collabora con Associazioni, Istituti, Enti e Società che gravitano nel settore culturale.
I libri di Edizioni Archeoares sono disponibili nei maggiori circuiti librari italiani e on-line. La distribuzione nazionale è affidata a Libro Co.
Lorenzo Iervolino-GIANNI RODARI-Vita, utopie e militanza di un maestro ribelle –
-Red Star Press editore-Roma
Descrizione- Gianni Rodari-Piemontese di nascita, lombardo di adozione, Giovanni Francesco Rodari, detto Gianni, non è “solo” l’autore di un’opera vastissima e variegata, capace di rivoluzionare i parametri della letteratura rivolta ai più piccoli fino a restare impressa nell’immaginario collettivo di intere generazioni. Ma se libri come Favole al telefono o Grammatica della fantasia sono entrate a far parte del patrimonio culturale internazionale, lo scrittore Gianni Rodari fu pur sempre anche studente seminariale, maestro elementare, militante comunista, partigiano e giornalista e, oltre che pedagogo e poeta, anche marito e padre.
GIANNI RODARI
In questa biografia, autentico viaggio nella vita di Gianni Rodari, Lorenzo Iervolino, con l’ausilio delle dichiarazioni di Rodari e le testimonianze di prima mano dei suoi amici e colleghi, compone un racconto corale e appassionante della straordinaria esistenza di un maestro ribelle. Un intellettuale che, piuttosto che scrittore di libri, amava definirsi un fabbricante di giocattoli.
Red Star Press-Editore Viale di Tor Marancia civ 76- Cap -00147 Roma, Italia
Nacque il 23 ottobre 1920 a Omegna, sul lago d’Orta, da Giuseppe Rodari (1890-1929), fornaio che possedeva il negozio in via Mazzini, via principale di Omegna, sposato in seconde nozze con Maddalena Aricocchi (1898-1963), commessa nella bottega paterna. Poiché i genitori stavano in negozio, venne seguito nel corso della sua infanzia da una balia di Pettenasco. A Omegna frequentò le prime quattro classi elementari, ma poi, in seguito alla morte del padre per broncopolmonite avvenuta nel 1929, all’età di nove anni si trasferì a Gavirate (VA), paese natale della madre, insieme con il fratello Cesare (1921-1982).[2]
In seguito, la madre cedette l’attività del marito al fratellastro di Gianni, Mario (1908-1966), nato dalle prime nozze del padre. Nel 1931 la madre lo fece entrare nel seminariocattolico di San Pietro Martire di Seveso (MI), ma comprese ben presto che non era la strada giusta per il figlio, quindi nel 1934 lo iscrisse alle magistrali.
Nel 1937 Rodari si diplomò come maestro presso Gavirate. Nel 1938 fece il precettore a Sesto Calende, presso una famiglia di ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania. Nel 1939 si iscrisse alla facoltà di lingue dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, abbandonando però i corsi dopo pochi esami. Insegnò in seguito a Brusimpiano, Ranco e Cardana di Besozzo. Come egli stesso raccontò, la sua scuola non fu grandiosa a causa della sua giovane età; tuttavia, si rese conto che fu una scuola divertente dove i bambini utilizzavano la fantasia addirittura per aiutarlo a correggere le sue stesse opere: questa, insieme a molte altre, fu una delle caratteristiche basilari di Rodari, che lo faranno sempre riconoscere per la sua originalità.
Dopo il 25 aprile 1945, iniziò la carriera giornalistica in Lombardia, dapprima con il giornaletto ciclostilato Cinque punte, poi dirigendo L’Ordine Nuovo, periodico della Federazione Comunista di Varese. Nel frattempo, pubblicò alcune trascrizioni di leggende popolari e alcuni racconti anche con lo pseudonimo di Francesco Aricocchi. Nel 1947 approdò a l’Unità di Milano, su cui, due anni dopo, iniziò a curare la rubrica La domenica dei piccoli.
In piena guerra fredda, nel 1951, la pubblicazione del suo primo libro pedagogico Il manuale del Pioniere provocò aspre reazioni da parte della stampa cattolica, tanto che le parrocchie arrivavano a bruciare nei cortili il Pioniere e i suoi libri.[4] Il 25 aprile 1953 sposò la modenese Maria Teresa Ferretti, segretaria del Gruppo Parlamentare del Fronte Democratico Popolare, ed ebbe da lei una figlia Paola nel 1957. Il 13 dicembre 1953 fondò Avanguardia, giornale nazionale della FGCI. Chiusa l’esperienza nel 1956, tornò, chiamato da Pietro Ingrao, all’Unità, dal settembre del 1956 al dicembre del 1958.
Dal 1954, per una quindicina d’anni, collaborò anche a numerose altre pubblicazioni: scrisse articoli su quotidiani e periodici e curò libri e rubriche per ragazzi. Tuttavia, entrò nell’Albo dei giornalisti solo nel 1957. Dal 1º dicembre 1958 passò a Paese Sera come inviato speciale e nello stesso periodo iniziò a collaborare con Rai e BBC, come autore del programma televisivo per l’infanzia Giocagiò. Dal 1966 al 1969 Rodari non pubblicò libri, limitandosi ad un’intensa attività di collaborazioni per quanto riguarda il lavoro con i bambini. È questo un periodo molto duro per lui, soprattutto a causa delle non ottimali condizioni fisiche e della gran mole di lavoro.[5]
Gianni Rodari collaborò tra il 1967 e il 1968 con articoli, poesie e filastrocche alla rivista Pioniere Noi Donne.[6]
Bruno Munari e Altan hanno disegnato numerose copertine e illustrazioni per i libri di Gianni Rodari.[7][8][9]
Nel 1973 uscì il suo lavoro pedagogico più celebre: Grammatica della fantasia, saggio indirizzato a insegnanti, genitori e animatori, nonché frutto di anni di lavoro passati a relazionarsi con il campo della “fantastica”. Con il celebre pseudonimo di Benelux, teneva su Paese Sera una rubrica-corsivo quotidiana molto seguita.[11] Si recò più volte in Unione Sovietica, dove i suoi libri erano diffusi in tutte le scuole delle repubbliche. Intraprese viaggi anche in Cina e in Bulgaria.[12]
Fino all’inizio del 1980 continuò le collaborazioni giornalistiche e partecipò a molte conferenze e incontri nelle scuole italiane con insegnanti, genitori, alunni e gruppi teatrali per ragazzi. Suoi testi pacifisti sono stati musicati da Sergio Endrigo e da altri cantautori italiani.
Il 10 aprile 1980 venne ricoverato in una clinica a Roma per potersi sottoporre ad un intervento chirurgico alla gamba sinistra, data l’occlusione di una vena; morì quattro giorni dopo, il 14 aprile, per shock cardiogeno, all’età di 59 anni.
Dal 1980 (anno della sua morte) sono state scritte decine di opere che parlano di Gianni Rodari, ed esistono anche centinaia di parchi, circoli, biblioteche, ludoteche, strade, e scuole materne ed elementari intitolate a lui. Il “Parco Rodari” più importante si trova ad Omegna, suo paese natale, mentre a Roma gli è stata intitolata la biblioteca comunale del Municipio Roma VII a Tor Tre Teste.[16]
Nel 2010, 90º anniversario della nascita, 40º anniversario del ricevimento del Premio Andersen e 30º anniversario della morte, in Italia e all’estero, sono state realizzate numerosissime iniziative per ricordarlo; tra esse le nuove ristampe per l’occasione.
Sebbene molte vie e piazze siano state a lui dedicate, la principale “piazza Gianni Rodari” sorge proprio a Omegna, davanti all’omonimo “Parco della Fantasia” sopraccitato.[17]
La Grammatica della fantasia è, come dice il sottotitolo, un’”introduzione all’arte di inventare storie”. È l’unico volume dello scrittore di Omegna non appartenente al genere narrativo, ma dal contenuto teorico.
Nasce ufficialmente a Reggio Emilia, dalla paziente trascrizione a macchina da parte di una stagista di alcuni appunti rimasti a lungo dimenticati. Gli appunti in questione, scritti intorno agli anni quaranta, facevano parte della raccolta del Quaderno della fantasia. Vennero recuperati in seguito ad un comizio che si terrà proprio nella città emiliana dal 6 al 10 marzo 1972.
L’opera si sviluppa in 45 capitoli e si potrebbe affermare che la stragrande maggioranza dei temi e degli episodi della poliedrica attività di scrittore e di studioso di Gianni Rodari sopra citati nella biografia siano ripresi anche nel corso delle argomentazioni e degli esempi che le accompagnano.
Opere
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–Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIA-23 agosto 1934
ANTONIA POZZI-Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIA
Preghiera alla Poesia-Pasturo, 23 agosto 1934
Oh, tu bene mi pesi l’anima, poesia: tu sai se io manco e mi perdo, tu che allora ti neghi e taci.
Poesia, mi confesso con te che sei la mia voce profonda: tu lo sai, tu lo sai che ho tradito, ho camminato sul prato d’oro che fu mio cuore, ho rotto l’erba, rovinata la terra – poesia – quella terra dove tu mi dicesti il più dolce di tutti i tuoi canti, dove un mattino per la prima volta vidi volar nel sereno l’allodola e con gli occhi cercai di salire – Poesia, poesia che rimani il mio profondo rimorso, oh aiutami tu a ritrovare il mio alto paese abbandonato – Poesia che ti doni soltanto a chi con occhi di pianto si cerca – oh rifammi tu degna di te, poesia che mi guardi.
Pasturo, 23 agosto 1934
Antonia Pozzi
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)- Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
ANTONIA POZZI-Bambina
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita. Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia;
ANTONIA POZZI-Poetessa
vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini.
ANTONIA POZZI-Poetessa
Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica,
a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
-Le Lettere per la pace in Việt Nam di Hồ Chí Minh –
-Anteo Edizioni-
Recensione del volume Lettere per la pace in Việt Nam (Anteo Edizioni, 2021),una raccolta di lettere scritte dal leader vietnamita Hồ Chí Minh tra il 1946 e il 1969, mentre il Việt Nam si trovava a dover fronteggiare le forze coloniali francesi prima e quelle imperialiste statunitensi poi.Articolo di Giulio Chinappi
Le Lettere per la pace in Việt Nam di Hồ Chí Minh – -Anteo Edizioni-
La figura di Hồ Chí Minh ha un enorme significato per la storia contemporanea del Việt Nam, difficilmente paragonabile a quella di un qualsiasi personaggio storico italiano occidentale. Il nome di Hồ Chí Minh ha infatti assunto un’importanza tale da poter essere di fatto identificato con il Việt Nam stesso. In “Lettere per la pace in Việt Nam” (Anteo Edizioni, 2021), una raccolta di ottantacinque lettere selezionate da Nguyễn Anh Minh e tradotte in italiano da Sandra Scagliotti e Trần Doãn Trang, abbiamo l’opportunità di ripercorrere l’incessante lotta di Hồ Chí Minh per la liberazione, la riunificazione e la pacificazione della sua patria, in oltre vent’anni nei quali il Việt Nam si è trovato a dover fronteggiare le forze coloniali francesi prima e quelle imperialiste statunitensi poi.
Tuttavia, la lotta di Hồ Chí Minh non ha riguardato solamente il Việt Nam, ma ha rappresentato un punto di riferimento per tutti i popoli del mondo oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo delle potenze capitalistiche occidentali: “Il Presidente, combinando la forza del popolo con una peculiare contingenza storica, ha incarnato l’integrazione tra il vero patriottismo e il più fedele e trasparente internazionalismo dei lavoratori e della classe operaia; egli ha sempre pensato che la costruzione di una pace autentica a livello mondiale dovesse necessariamente fondarsi sul principio del rispetto dei diritti fondamentali di tutti i popoli e che, in seno alle relazioni internazionali, eguaglianza e democrazia dovessero costituire la necessaria alternativa alla guerra, per garantire a ogni nazione il diritto di decidere il proprio destino in base ai valori culturali nazionali, nel rispetto delle scelte di sviluppo di ogni Stato e senza alcuna interferenza negli affari interni delle altre nazioni” si legge nella prefazione della casa editrice vietnamita.
La rassegna delle lettere indirizzate ai leader, ai governi, alle assemblee nazionali, a presidenti, politici, militari, prigionieri e ai popoli di tutti i paesi del mondo si apre in un contesto nel quale, terminata la seconda guerra mondiale, la Francia stava tentando di rioccupare militarmente le sue ex colonie asiatiche, sebbene il Vietnam avesse dichiarato la propria indipendenza il 2 settembre 1945.
Nonostante i crimini commessi dai colonialisti francesi – poi reiterati in forme ancora più disumane dagli imperialisti statunitensi – Hồ Chí Minh ha sempre mantenuto la chiara distinzione tra l’operato dei governi e i popoli di quei paesi, come si evince già nella lettera indirizzata ai francesi d’Indocina nel 1946: “Noi non detestiamo il popolo francese. Anzi, ammiriamo questo grande popolo perché è stato il primo a divulgare i concetti di libertà, uguaglianza e fraternità, e perché è un popolo dedito alla cultura, alla scienza e alla civiltà. La nostra battaglia non volge contro il popolo francese, né contro i francesi leali e onesti, ma contro la crudele dominazione del colonialismo francese in Indocina”. Da queste parole di evince anche il retaggio culturale di Hồ Chí Minh, che, come molti leader rivoluzionari vietnamiti, aveva paradossalmente formato la propria coscienza politica grazie agli insegnamenti della scuola coloniale francese che esaltava i valori della rivoluzione del 1789. “Sapete bene che tale dominazione non offre alcun vantaggio alla Francia, né, tantomeno ai cittadini francesi. Tale dominazione arricchisce gli avidi colonialisti, ma infama la Francia” (p. 3).
Hồ Chí Minh manterrà sempre stretti contatti con le forze sociali progressiste in Francia, in particolare con il Partito Comunista Francese (PCF), ritenendo l’azione dello stesso un sostegno fondamentale alla causa vietnamita, come si evince dalla breve lettera inviata al segretario del PCF Maurice Thorez (p. 21). Una lettera molto più consistente è invece quella inviata il 22 settembre 1946 all’Unione delle donne francesi: “Voi, care Signore, amate il vostro paese e desiderate che sia indipendente e unito. Sono sicuro che, per difenderlo, sareste disposte a combattere contro chiunque cercasse di violarne l’indipendenza e l’unità” si legge nel testo. “Anche noi siamo così, amiamo il nostro paese e lo desideriamo indipendente e unito. Potete forse biasimarci perché abbiamo lottato contro coloro che hanno tentato di conquistare la nostra patria e dividere il nostro popolo? I francesi hanno subito il dolore dell’occupazione per quattro anni; quattro anni in cui hanno lottato con la resistenza e la guerriglia. I vietnamiti hanno subito il dolore dell’occupazione per oltre 80 anni, e, a loro volta, hanno lottato con la resistenza e combattuto con la guerriglia. Se i francesi che hanno partecipato alla resistenza sono considerati eroi, perché i guerriglieri vietnamiti dovrebbero essere considerati ladri e assassini?” (p. 22).
In un primo momento, Hồ Chí Minh si rivolge in alcune lettere al presidente statunitense Harry Truman per cercare sostegno nella sua lotta anticolonialista, dopo che lo stesso Truman aveva presentato i “12 punti” della politica estera statunitense, nei quali si indicava il diritto dei popoli all’indipendenza e all’autodeterminazione. Tuttavia, la cosiddetta “dottrina Truman” si rivelò ben presto uno strumento volto unicamente a evitare l’espansione del comunismo nel mondo, e le parole “indipendenza” e “autodeterminazione” solamente uno specchietto per le allodole per coprire le mire imperialiste di Washington.
Nonostante le grandi difficoltà e l’ostilità delle forze imperialiste mondiali, Hồ Chí Minh riaffermerà a più riprese la risolutezza del governo e del popolo vietnamita nella lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione: “Il colonialismo francese intende nuovamente occupare il nostro paese; questo è un fatto oramai chiaro e innegabile. Ora il popolo vietnamita si trova a un bivio: potrebbe arrendersi e piegarsi alla schiavitù oppure continuare a lottare fino alla fine, per riacquistare la libertà e l’indipendenza. No, il popolo vietnamita non si arrenderà! Non permetterà mai più ai francesi di tornare a dominarlo. No! Il popolo vietnamita non tornerà più schiavo. Il popolo vietnamita è disposto a morire piuttosto che rinunciare all’indipendenza e alla libertà” (p. 28). E ancora: “Mentre la Francia è forte materialmente, noi siamo mentalmente determinati alla vittoria e risolutamente decisi nel combattere per la nostra libertà” (p. 33).
A partire dal 1951, l’ostilità degli Stati Uniti nei confronti del Vietnam divenne sempre più evidente. La dottrina Truman aveva portato allo scoppio della guerra di Corea, e Washington covava già il piano di sostituirsi alla Francia come potenza egemone nella regione indocinese, qualora Parigi avesse fallito nel suo intento. “Lei, Presidente, erede di grandi leader come Washington, Lincoln e Roosevelt, parla spesso di pace e giustizia, ma nei Suoi atti concreti verso il Việt Nam, si mostra in totale divergenza da rettitudine e concordia” scrive Hồ Chí Minh in una nuova lettera rivolta a Truman, specificando che costui “ha ordito una cospirazione per trasformare il Sud vietnamita in una base militare, colonia degli Stati Uniti” (p. 62).
In una missiva successiva, il presidente vietnamita aggiunge, rivolgendosi al suo omologo statunitense: “Lei ha affermato che gli Stati Uniti non interferiscono negli affari interni degli altri paesi. Ogni anno, gli Stati Uniti spendono centinaia di milioni di dollari per introdurre spie nei paesi stranieri e concorrono con oltre duemila milioni di dollari ad armare i paesi filoamericani per prepararsi alla guerra: gli Stati Uniti posseggono 250 basi militari in diversi paesi. Non è forse questa un’interferenza?” (p. 64).
Il 7 maggio 1954, i vietnamiti sconfissero i francesi nella storica battaglia di Ðiện Biên Phủ, ponendo fine per sempre alle mire coloniali di Parigi in Asia. In quello stesso momento, gli Stati Uniti divennero il nemico numero uno del Vietnam: “Noi vietnamiti abbiamo versato il nostro sangue per rovesciare il regime coloniale francese; ma poi, l’imperialismo americano, con i suoi dollari e i suoi inganni ha plasmato nel Sud del Việt Nam un feroce governo dittatoriale fantoccio” si legge in una lettera rivolta a John F. Kennedy (p. 65).
In una lettera del 30 aprile 1966 rivolta al senatore statunitense Michael Joseph Mansfield, Hồ Chí Minh chiede retoricamente: “Secondo Lei, quando un gruppo di scellerati criminali venuto da lontano, attacca massicciamente un villaggio di contadini, a chi va la colpa dell’invasione? Agli abitanti del villaggio o ai criminali?” (p. 91). E continua affermando: “Che benefici potrà mai apportare al popolo americano una guerra così illogica? Decine di migliaia di giovani americani muoiono in campi di battaglia lontani da casa, lasciando decine e decine di vedove e orfani. Negli Stati Uniti le tasse stanno diventando più pesanti e il costo della vita aumenta sempre più. L’inflazione si aggrava. L’onore degli Stati Uniti è in gioco. Anche con altre migliaia di bombardieri e decine di migliaia di soldati, l’America è destinata a fallire” (p. 92).
Allo stesso tempo, Hồ Chí Minh curò particolarmente le relazioni con i leader e i partiti degli altri paesi socialisti, come si evince da una serie di lettere di questo tipo: “Noi tutti siamo altresì grati all’Unione Sovietica, alla Cina e agli altri paesi socialisti che hanno sostenuto il popolo vietnamita contro l’invasione imperialista americana, che lo hanno aiutato a proteggere l’indipendenza nazionale, a difendere l’avamposto del blocco socialista nel Sudest asiatico e a contribuire alla tutela della pace nel mondo” leggiamo nella missiva inviata al Partito Socialista Operaio Ungherese in occasione del suo IX Congresso (p. 102).
L’ultimo presidente statunitense con il quale Hồ Chí Minh ebbe a che fare fu Lyndon Johnson, al quale rivolse una dura lettera il 15 febbraio 1967: “Il Việt Nam dista migliaia di chilometri dall’America. Il popolo vietnamita non ha mai nemmeno sfiorato l’America. Ma, contrariamente all’impegno assunto nel 1954, dai suoi rappresentanti alla Conferenza di Ginevra, gli Stati Uniti non hanno mai smesso di intervenire in Việt Nam; con ininterrotte provocazioni e un continuo incremento della guerra d’invasione nel Sud, cercano di dividere in modo permanente il paese e trasformare il Sud in una nuova colonia, base militare statunitense. […] Nella Sua lettera, Presidente, Lei si dice addolorato per la situazione di sofferenza e distruzione in Việt Nam Vorrei porLe una domanda: chi ha causato crimini così atroci? L’esercito americano e le forze dei paesi vassalli dell’America! Questa è la riposta” (p. 107).
Chiudiamo questa nostra breve rassegna con la lettera inviata nel marzo del 1967 al popolo italiano, che certamente, soprattutto grazie all’azione del Partito Comunista Italiano, fu sempre tra i maggiori sostenitori della causa vietnamita: “Il popolo italiano, con entusiasmo e con ogni mezzo, ha sostenuto la nostra resistenza contro l’aggressione americana. Vogliamo esprimere i nostri più sinceri ringraziamenti agli amici italiani. Ci auguriamo che il popolo italiano possa ulteriormente rafforzare il suo sostegno alla nostra lotta e, a gran voce, chiedere che gli invasori statunitensi cessino totalmente i bombardamenti e ogni atto di violenza contro la Repubblica Democratica del Việt Nam” (p. 116).
Hồ Chí Minh scomparve il 2 settembre 1969, nello stesso giorno in cui, 24 anni prima, aveva dichiarato l’indipendenza della Repubblica Democratica del Việt Nam. Il fondatore del Việt Nam indipendente non riuscì dunque a vedere la vittoria che sarebbe giunta solamente nel 1975, quando gli imperialisti statunitensi furono definitivamente cacciati e il paese venne riunificato sotto la bandiera della Repubblica Socialista del Việt Nam.
Articolo di Giulio Chinappi
Fonte -Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi
Descrizione del libro di Heather Morris-Nonostante la fame, il freddo e gli orrori del campo di concentramento, Livia, Magda e Cibi sono sopravvissute ai terribili anni trascorsi ad Auschwitz-Birkenau. Le tre sorelle si sono protette a vicenda, condividendo il poco che avevano a disposizione senza lasciarsi piegare dalla brutalità delle SS. Ma la loro vita è ancora in pericolo. Perché, con l’avanzata degli Alleati in Germania, ad attenderle c’è un’altra terribile prova, il piano folle e criminale dei loro aguzzini: la marcia della morte. Per cancellare ogni indizio di ciò che è avvenuto nel Lager, i prigionieri dovranno camminare per giorni, al freddo e sotto la minaccia delle armi, per essere poi giustiziati. Il destino delle tre sorelle sembra segnato, ma un inaspettato colpo di fortuna fornisce loro l’occasione per ribaltare il corso degli eventi.
La loro storia ti spezzerà il cuore-Non dimenticherai mai i loro nomi «È impossibile non emozionarsi con una storia come questa.»
The Mail on Sunday-«Un romanzo sbalorditivo.» People-«Un libro«È impossibile non emozionarsi con una storia come questa.»
Hanno scritto di Heather Morris: The Times -«Un fenomeno. Riesce a trasmettere un messaggio potente: l’amore non si può fermare.» The Sun «Tutti dovrebbero leggerla.» The New York Times «Una lettura straordinaria.»
Heather Morris
Biografia di Heather Morris-È un’autrice di successo, nata in Nuova Zelanda e attualmente residente in Australia, a Brisbane. I suoi libri hanno venduto 12 milioni di copie e sono stati tradotti in 52 Paesi. Ha lavorato per anni come sceneggiatrice, prima di pubblicare il suo romanzo d’esordio, Il tatuatore di Auschwitz, che ha ottenuto uno straordinario successo mondiale, rimanendo per mesi in vetta alle classifiche internazionali dei libri più venduti, e che diventerà presto una serie TV. Anche Una ragazza ad Auschwitz, il suo secondo romanzo, e Le tre sorelle di Auschwitz sono già diventati bestseller.
Biografia di Heather Morris is a native of New Zealand, now resident in Australia. For several years, while working in a large public hospital in Melbourne, she studied and wrote screenplays, one of which was optioned by an Academy Award-winning screenwriter in the US. In 2003, Heather was introduced to an elderly gentleman who ‘might just have a story worth telling’. The day she met Lale Sokolov changed both their lives. Their friendship grew and Lale embarked on a journey of self-scrutiny, entrusting the innermost details of his life during the Holocaust to her. Heather originally wrote Lale’s story as a screenplay – which ranked high in international competitions – before reshaping it into her debut novel, The Tattooist of Auschwitz.
Poesia e ritratto nel Rinascimento di Lina Bolzoni
Descrizione del libro di Lina Bolzoni ,Poesia e ritratto nel Rinascimento–Mito dalle origini antiche e potente topos letterario, il ritratto è celebrato dai poeti del nostro Rinascimento come l’arte ‘divina’ che rende presente e vicino chi è lontano, imago sostitutiva dell’oggetto del desiderio. Tuttavia il connubio tra scrittura e arte figurativa si complica, proprio tra Quattro e Cinquecento: la pratica del ritratto si va diffondendo in modo pervasivo e, mentre cambia lo status dei pittori, si apre per i letterati una partita imprevista, fatta di mutati rapporti di forza e di confronto ravvicinato. Ecco perché «una poesia che parla di un ritratto è sempre una rappresentazione della diversità, spesso anche della competizione fra parola e immagine». Petrarca è il primo a inaugurare il doppio registro, cantando al tempo stesso la forza e lo scacco del ritratto figurativo in due celebri sonetti che dedicò al dipinto di Laura realizzato dall’amico Simone Martini. Il suo dittico stabilisce un modello che sarà ripreso, variato, tradito per secoli. Il volume presenta una ricca selezione di testi poetici sul ritratto, accompagnati dalle immagini cui rinviano o con cui si intrecciano. «Una delle costanti di grande interesse dei testi qui presentati è proprio il mettere in gioco sia la diversa dignità del poeta e del pittore, sia lo statuto stesso dell’immagine. Si tratta di una produzione poetica che per lo più parla dell’immagine pittorica cancellandola dalla nostra vista, e usa il tema del ritratto per variare e celebrare il lavoro della scrittura letteraria, per trarne materiale che permette di declinare in modo nuovo i topoi tradizionali del linguaggio amoroso».
Un’indagine inedita e preziosa sull’incontro-scontro tra parola e immagine nel cuore della produzione artistica rinascimentale.
L’autore è Lina Bolzoni è ordinario di Letteratura italiana alla Scuola Normale Superiore di Pisa, presso la quale ha fondato e dirige il CTL (Centro per l’elaborazione informatica di parole e immagini nella tradizione letteraria). È stata eletta honorary member dell’americana MLA (Modern Language Association). Tra le sue pubblicazioni, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa (Torino 1995) e La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena (Torino 2002), entrambi tradotti in diverse lingue.
Roma-Giubileo 2025, a Palazzo Barberini una grande mostra su Caravaggio, dal 7 marzo al 6 luglio.
Roma-Palazzo Barberini Caravaggio 2025
Roma-Dal 7 marzo al 6 luglio 2025, in occasione delle celebrazioni del Giubileo 2025, le Gallerie Nazionali di Arte Antica, in collaborazione con la Galleria Borghese, presentano a PalazzoBarberini Caravaggio 2025, che intende essere una delle mostre più ambiziose mai dedicate a Caravaggio. Curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, la mostra vuole celebrare il genio rivoluzionario dell’artista, grazie al sostegno della Direzione Generale Musei del Ministero della Cultura, del Main Partner Intesa Sanpaolo, e con il contributo tecnico di Marsilio Arte, Coopculture, e Urban Vision come media partner.
Roma -Palazzo Barberini Caravaggio 2025
Un percorso tra capolavori iconici e nuove scoperte
Roma-Palazzo Barberini Caravaggio 2025
L’esposizione riunisce un numero straordinario di opere autografe di Caravaggio, accostando celebri capolavori a dipinti raramente visibili e nuove scoperte. Obiettivo è offrire una nuova e approfondita riflessione sulla rivoluzione artistica e culturale di Michelangelo Merisi, esplorando per la prima volta in un contesto così ampio l’innovazione che introdusse nel panorama artistico, religioso e sociale del suo tempo. Sarà esposto il Ritratto di Maffeo Barberini, presentato per la prima volta al pubblico a oltre sessant’anni dalla sua riscoperta; quest’ultimo sarà affiancato da altre opere del Merisi, come l’Ecce Homo, attualmente esposto al Museo del Prado di Madrid rientrerà in Italia dopo secoli. Tra i prestiti eccezionali si contano la Santa Caterina del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, già parte delle collezioni Barberini che tornerà per questa occasione nel Palazzo che la custodiva, e Marta e Maddalena del Detroit Institute of Arts per cui Caravaggio utilizzò la stessa modella della Giuditta conservata a Palazzo Barberini, dipinti che ora saranno esposti per la prima volta tutti uno accanto all’altro. Un momento clou sarà vedere di nuovo insieme i tre dipinti commissionati dal banchiere Ottavio Costa: la Giuditta e Oloferne (Palazzo Barberini), il San Giovanni Battista (Nelson-Atkins Museum di Kansas City) e il San Francesco in estasi (Wadsworth Atheneum of Art di Hartford), oltre a opere legate alla storia del collezionismo dei Barberini, come i Bari del Kimbell Art Museum di Fort Worth, che torna nel palazzo romano dove fu a lungo conservato. Arriverà per l’evento espositivo anche l’ultimo capolavoro di Caravaggio, il Martirio di Sant’Orsola, concesso in prestito da Intesa Sanpaolo.
Roma-Palazzo Barberini Caravaggio 2025
La rivoluzione caravaggesca
L’esposizione si svilupperà in sezioni tematiche per esplorare vari aspetti della produzione di Caravaggio, svelando nuove scoperte e riflessioni critiche. Attraverso un allestimento che intende esaltare la potenza e la modernità della pittura di Caravaggio, la mostra si pone l’obiettivo di mettere in luce il suo contributo rivoluzionario nel contesto della produzione e del mercato delle opere d’arte tra Cinquecento e Seicento, a partire dall’impatto dirompente dell’esordio romano. Innovatore del linguaggio artistico, Caravaggio introdusse il suo rivoluzionario uso della luce per squarciare le sue rappresentazioni di tema sacro o profano e un’inedita interpretazione del vero. Tra i capolavori, anche la Cattura di Cristo dalla National Gallery of Ireland di Dublino, esempio straordinario della teatralità caravaggesca, e il Ritratto di Monsignor Maffeo Barberini, di collezione privata, per la prima volta esposto in un confronto diretto con altre opere del Maestro, evidenziando il contributo di Caravaggio alla nascita del ritratto moderno.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio Arte, che include saggi di alcuni dei maggiori esperti internazionali. Il volume esplora gli snodi biografici dell’artisti, l’evoluzione stilistica e il contesto storico-culturale che ha influenzato la sua arte, offrendo nuove chiavi di lettura e riflessioni sulla sua eredità.
Orari: Da domenica a giovedì dalle 9 alle 20; venerdì e sabato dalle 9 alle 22.
Biografia di Mario Luzi è nato a Castello (Firenze) il 20 ottobre 1914 da genitori toscani, trascorse l’infanzia a Firenze. Trasferitosi con la famiglia nel senese, studiò a Siena fino al 1929; poi rientrato a Firenze, vi compì gli studi liceali e universitari. Nel 1936 si laureò in letteratura francese con una tesi si Francois Mauriac.
Esordì con la raccolta di versi, La barca, nel 1935; frequentò il gruppo degli ermetici fiorentini e cominciò a collaborare alle riviste Frontespizio, Letteratura e, più tardi, Campo di Marte. Nel 1938 Luzi iniziò la carriera di insegnante: dapprima a Parma, dove frequentò Attilio Bertolucci; poi, dal 1941, a San Miniati. Successivamente, e fino al 1943, lavorò a Roma presso la Sovrintendenza bibliografica. Nel frattempo si sposò ed ebbe un figlio.
Nel 1945 tornò a Firenze, dove riprese l’insegnamento in un liceo scientifico. Più tardi, nel 1955, passò a insegnare letteratura francese all’università di Firenze. Nel 1960 riunì nel libro Il giusto della vita le precedenti raccolte poetiche:
Avvento notturno (1940), Un brindisi (1946), Quderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957).
All’attività poetica Luzi affiancò quella di critico e traduttore, dando anche vita, con Betocchi, alla rivista La Chimera.
Tra i suoi libri di critica, spiccano Studio su Mallarmé e L’idea simbolista (entrambi pubblicati nel 1959).
Luzi compì numerosi viaggi (in Urss nel 1966, in India nel 1968, negli Stati Uniti nel 1974, in Cina nel 1980) e ottenne premi e riconoscimenti. Nella fase matura della sua ttività poetica compose poemetti drammatici, come Ipazia (1978) e Rosales (1983), e pubblicò versi via via più lontani dall’Ermetismo: Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994). Nominato senatore a vita della Repubblica nel 2004, Luzi si è spento nel 2005.
Da “Avvento Notturno”
Avorio
Parla il cipresso equinoziale, oscuro
e montuoso esulta il capriolo,
dentro le fonti rosse le criniere
dai baci adagio lavan le cavalle.
Giù da foreste vaporose immensi
alle eccelse città battono i fiumi
lungamente, si muovono in un sogno
affettuose vele verso Olimpia.
Correranno le intense vie d’Oriente
ventilate fanciulle e dai mercati
salmastri guarderanno ilari il mondo.
Ma dove attingerò io la mia vita
ora che il tremebondo amore è morto?
Violavano le rose l’orizzonte,
esitanti città stavano in cielo
asperse di giardini tormentosi,
la sua voce nell’aria era una roccia
deserta e incolmabile di fiori.
(Se musica è la donna amata)
Ma tu continua e perditi, mia vita,
per le rosse città dei cani afosi
convessi sopra i fiumi arsi dal vento.
Le danzatrici scuotono l’oriente
appassionato, effondono i metalli
del sole le veementi baiadere.
Un passero profondo si dispiuma
sul golfo ov’io sognai la Georgia:
dal mare (una viola trafelata
nella memoria bianca di vestigia)
un vento desolato s’appoggiava
ai tuoi vetri con una piuma grigia
e se volevi accoglierlo una bruna
solitudine offesa la tua mano
premeva nei suoi limbi odorosi
d’inattuate rose di lontano.
Da “Poesie sparse”
Nulla di ciò che accade e non ha volto
Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.
Il vento ricco oscilla corrugato
sui vetri, finge estatiche presenze
e un oriente bianco s’esala
nei quadrivi di febbre lastricati.
Dalla pioggia alle candide schiarite
si levano allo sguardo variopinto
blocchi d’aria in festevoli distanze.
Apparire e sparire è una chimera.
E’ questa l’ora tua, è l’ora di quei re
sismici il cui trono è il movimento,
insensibili se non al freddo di morte
che lasciano nel sangue all’improvviso.
Loro sede fulminea è qualche specchio
assorto nella sera, ivi s’incontrano,
ivi si riconoscono in un battito.
Sei certa ed ingannevole, è vano ch’io ti cerchi,
ti persegua di là dai fortilizi,
dalle guglie riflesse negli asfalti,
nei luoghi ove l’amore non può giungere
né la dimenticanza di se stessi.
Da “Monologo”
I
Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d’essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte…
Era, donde scendesse, un salto d’acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d’astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l’angoscia d’esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.
Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.
Con lo sgomento d’una porta
che s’apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d’eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest’ora ti edifica e ti schianta.
L’uno ancora implacato, l’altro urgeva –
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n’ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza,
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni
Che speri, che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le burrasche
hanno una voce altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane?
Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n’esci illesa.
Tutto l’altro che deve essere è ancora,
il fiume scorre, la campagna varia,
grandina, spiove, qualche cane latra
esce la luna, niente si riscuote,
niente dal lungo sonno avventuroso.
Da “Onore del vero”
Uccelli
il vento è un’aspra voce che ammonisce
per noi stuolo che a volte trova pace
e asilo sopra questi rami secchi.
E la schiera ripiglia il triste volo,
migra nel cuore dei monti, viola
scavato nel viola inesauribile,
miniera senza fondo dello spazio.
Il volo è lento, penetra a fatica
nell’azzurro che s’apre oltre l’azzurro,
nel tempo ch’è di là dal tempo; alcuni
mandano grida acute che precipitano
e nessuna parete ripercuote.
Che ci somiglia è il moto delle cime
nell’ora – quasi non si può pensare
né dire – quando su steli invisibili
tutt’intorno una primavera strana
fiorisce in nuvole rade che il vento
pasce in un cielo o umido o bruciato
e la sorte della giornata è varia,
la grandine, la pioggia, la schiarita.
Questa felicità
Questa felicità promessa o data
m’è dolore, dolore senza causa
o la causa se esiste è questo brivido
che sommuove il molteplice nell’unico
come il liquido scosso nella sfera
di vetro che interpreta il fachiro.
Eppure dico: salva anche per oggi.
Torno torno le fanno guerra cose
e immagini su cui cala o si leva
o la notte o la neve
uniforme del ricordo.
A mia madre dalla sua casa
M’accoglie la tua vecchia, grigia casa
steso supino sopra un letto angusto,
forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto,
conto le ore lentissime a passare,
più lente per le nuvole che solcano
queste notti d’agosto in terre avare.
Uno che torna a notte alta dai campi
scambia un cenno a fatica con i simili,
infila l’erta, il vicolo, scompare
dietro la porta del tugurio. L’afa
dello scirocco agita i riposi,
fa smaniare gli infermi ed i reclusi.
Non dormo, seguo il passo del nottambulo
sia demente sia giovane tarato
mentre risuona sopra pietre e ciottoli;
lascio e prendo il mio carico servile
e scendo, scendo più che già non sia
profondo in questo tempo, in questo popolo.
La notte lava la mente
La notte lava la mente.
Poco dopo si è qui come sai bene,
file d’anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.
Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.
Il Giudice
“Credi che il tuo sia vero amore? Esamina
a fondo il tuo passato” insiste lui
saettando ben addentro
la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.
E aspetta. Mentre io guardo lontano
ed altro non mi viene in mente
che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani
sfrangiato appena tra gli scogli dell’isola,
dove una terra nuda si fa ombra
con le sue gobbe o un’altra preparata a semina
si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.
“Certo, posso aver molto peccato”
rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,
sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.
“Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso”
riprende la sua voce con un fischio
di raffica sopra quella landa passando alta.
L’ascolto e neppure mi domando
perché sia lui e non io di là da questo banco
occupato a giudicare i mali del mondo.
“Può darsi” replico io mentre già penso ad altro,
mentre la via s’accende scaglia a scaglia
e qui nel bar il giorno ancora pieno
sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio
per le ore di libertà e l’uomo che le ha dato il cambio
indossa la gabbana bianca e viene
verso di noi con due bicchieri colmi,
freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.
L’India
Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,
(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)
mentre mostra a lungo lo schermo
sul selciato una moltitudine
stecchita in una posa tra sonno e morte
levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell’alba.
Né forse la colpisce il primo aspetto
ma un altro più recondito, e vede
una giustizia di diverso stampo
in quella sofferenza di paria
orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso.
“Avere o non avere la sua parte in questa vita”
riemerge in parole il suo pensiero – ma solo un lembo.
E io ne tiro a me quella frangia
ansioso mi confidi tutto l’altro,
attento non mi rubi niente
di lei, neppure l’amarezza, ed attendo.
S’interrompe invece. Seguono altre immagini dell’India
e nel loro riverbero le colgo
un sorriso estremo tra di vittima e di bimba
quasi mi lasci quella grazia in pegno
di lei mentre si eclissa nella sua pena
e l’idea di se stessa le muore dentro.
“Perché porti quel giogo, perché non insorgi”
mi trattengo appena dal gridarle,
soffrendo perché soffre, certo,
ma più ancora perché lascia la presa
della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo;
“Ascoltami” comincio a mormorarle
e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor
e a lei che sul punto di partire
mi guarda da dietro la lampada
della sua solitudine tenuta alzata di fronte.
“Mario” mi previene lei che indovina il resto. “Ancora
levi come una spada, buona a che?,
lo sdegno per le cose che ti resistono.
Uomo chiuso all’intelligenza del diverso,
negato all’amore: del mondo, intendo, di Dio dunque”
e indulge a una smorfia fine di scherno
per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.
“Davvero vorrei tu avessi vinto”
le dico con affetto incontenibile, più tardi,
mentre scorre in un brusio d’api, nel film senza commento, l’India.
Per mare
Nel più alto punto
dove scienza è oblìo d’ogni sapere
e certezza, mi dicono,
certezza irrefutabile venuta incontro
o nel tempo appeso a un filo
d’un riacquisto d’infanzia,
tra sonno e veglia, tra innocenza e colpa,
dove c’è e non c’è opera nostra voluta e scelta.
“La salute della mente
è là” dice una voce
con cui contendo da anni,
una voce che ora è di sirena.
Si naviga tra Sardegna e Corsica.
C’è un po’ di mare
e la barca appruata scarricchia.
L’equipaggio dorme. Ma due
vegliano nella mezzaluce della plancia.
E’ passato agosto; Siamo alla rottura dei tempi.
E’ una notte viva.
Viva più di questa notte,
viva tanto da serrarmi la gola
è la muta confidenza
di quelli che riposano
si curi in mano d’altri
e di questi che non lasciano la manovra e il calcolo
mentre pregano per i loro uomini in mare
da un punto oscuro della costa, mentre arriva
dalla parte del Rodano qualche raffica.
Da “Al fuoco della controversia”
Ridotto a me stesso?
Ridotto a me stesso?
Morto l’interlocutore?
O morto io,
l’altro su di me
padrone del campo, l’altro,
universo, parificatore…
o no,
niente di questo:
il silenzio raggiante
dell’amore pieno,
della piena incarnazione
anticipato da un lampo? –
penso
se è pensare questo
e non opera di sonno
nella pausa solare
del tumulto di adesso…
Natura
La terra e a lei concorde il mare
e sopra ovunque un mare più giocondo
per la veloce fiamma dei passeri
e la via
della riposante luna e del sonno
dei dolci corpi socchiusi alla vita
e alla morte su un campo;
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
sopra le isole originali cantando:
qui si prepara
un giaciglio di porpora e un canto che culla
per chi non ha potuto dormire
sì dura era la pietra,
sì acuminato l’amore.
Mario Luzi
Biografia di Mario Luzi è nato a Castello (Firenze) il 20 ottobre 1914 da genitori toscani, trascorse l’infanzia a Firenze. Trasferitosi con la famiglia nel senese, studiò a Siena fino al 1929; poi rientrato a Firenze, vi compì gli studi liceali e universitari. Nel 1936 si laureò in letteratura francese con una tesi si Francois Mauriac.
Esordì con la raccolta di versi, La barca, nel 1935; frequentò il gruppo degli ermetici fiorentini e cominciò a collaborare alle riviste Frontespizio, Letteratura e, più tardi, Campo di Marte. Nel 1938 Luzi iniziò la carriera di insegnante: dapprima a Parma, dove frequentò Attilio Bertolucci; poi, dal 1941, a San Miniati. Successivamente, e fino al 1943, lavorò a Roma presso la Sovrintendenza bibliografica. Nel frattempo si sposò ed ebbe un figlio.
Nel 1945 tornò a Firenze, dove riprese l’insegnamento in un liceo scientifico. Più tardi, nel 1955, passò a insegnare letteratura francese all’università di Firenze. Nel 1960 riunì nel libro Il giusto della vita le precedenti raccolte poetiche:
Avvento notturno (1940), Un brindisi (1946), Quderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957).
All’attività poetica Luzi affiancò quella di critico e traduttore, dando anche vita, con Betocchi, alla rivista La Chimera.
Tra i suoi libri di critica, spiccano Studio su Mallarmé e L’idea simbolista (entrambi pubblicati nel 1959).
Luzi compì numerosi viaggi (in Urss nel 1966, in India nel 1968, negli Stati Uniti nel 1974, in Cina nel 1980) e ottenne premi e riconoscimenti. Nella fase matura della sua ttività poetica compose poemetti drammatici, come Ipazia (1978) e Rosales (1983), e pubblicò versi via via più lontani dall’Ermetismo: Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994). Nominato senatore a vita della Repubblica nel 2004, Luzi si è spento nel 2005.
Linda Pastan (New York May 27, 1932 – Chevy Chase January 30, 2023).Poeta laureata dello stato del Maryland dal 1991 al 1994, è considerata una delle voci più importanti della poesia americana contemporanea.
NEL GIARDINO DI HAPPO-EN A TOKYO
*
Il modo in cui un neo
sul viso di una donna
definisce piuttosto che guastare
la sua bellezza,
così i grattacieli —
quei fiori della tecnologia —
rivelano la perfezione
del giardino che circondano.
Forse l’Eden è sepolto
qui in Giappone,
dove un’incandescente
carpa koi striscia serpentina
ai margini dello stagno;
dove un’Eva-san
dai capelli neri nelle pieghe
a petalo di un kimono
una volta ha mostrato
il suo corpo di seta al sole,
poi ha raccolto un cachi
e con un piccolo inchino lo ha morso.
Linda Pastan
Affresco
Nella Cacciata
dal Paradiso di Masaccio
che aria indulgente ha quell’angelo.
Sembra un bravo pubblico ufficiale
che fa solo rispettare
le regole. Ricordo
quei volti al corso di Belle Arti 13.
Ero abbastanza giovane allora
da pensare che la perdita dell’innocenza
avesse solo a che fare col sesso.
Ora che vedo Eva coprirsi
i seni con le mani
lo so che non è per nasconderli
ma solo per proteggerli
da quello che immagina le dovrà
capitare con Abele attaccato
da una parte, e Caino dall’altra.
(traduzione di Andrea Sirotti)
Linda Pastan
In lingua originale:
Fresco
In Masaccio’s Expulsion
From the Garden
how benign the angel seems,
like a good civil servant
he is merely enforcing
the rules. I remember
these faces from Fine Arts 13.
I was young enough then
to think that the loss of innocence
was just about Sex.
Now I see Eve covering
her breasts with her hands
and I know it is not to hide them
but only to keep them
from all she must know
is to follow from Abel
on one, Cain on the other.
Linda Pastan
Linda Pastan (New York May 27, 1932 – Chevy Chase January 30, 2023).Poeta laureata dello stato del Maryland dal 1991 al 1994, è considerata una delle voci più importanti della poesia americana contemporanea. Ha pubblicato dieci volumi di poesia: A Perfect Circle of Sun, Aspects of Eve, The Five Stages of Grief, Waiting for My Life, PM/AM: New and Selected Poems, A Fraction of Darkness, The Imperfect Paradise, Heroes in Disguise, An Early Afterlife, e Carnival Evening: New And Selected Poems 1968-1998. The Last Uncle, la sua ultima raccolta, è uscita nel 2002 per l’editore Norton.Tra i suoi numerosi riconoscimenti ricordiamo il Dylan Thomas Award, il Di Castagnola Award, il premio Bess Hokin della rivista Poetry, il Virginia Faulkner Award della rivista Prairie Schooner, e il prestigioso Pushcart Prize. A Fraction of Darkness ha vinto il Maurice English Award; PM/AM: New and Selected Poems ha ottenuto la nomination per il National Book Award; e The Imperfect Paradise è stato incluso tra i finalisti per il Los Angeles Times Book Prize. Alcuni critici hanno indicato Emily Dickinson come prima ascendente dello stile lapidario e del wit metafisico di Linda Pastan, un confronto che, benché ingombrante, appare perfettamente giustificato dalle sue migliori, memorabili poesie. Nella sue liriche più riuscite le parole non sono mai una successione casuale e occasionale di belle immagini, di metafore ispirate. Non sono nemmeno sterili esercizi formali secondo la più recente moda delle ‘creative writing schools’. La sua è una scrittura che ricorda da vicino l’etimologia della parola poesia, legata al concetto di ‘fare’, di creare il nuovo, di rivelare. Nella sua opera c’è il ritorno al ruolo che il poeta ha avuto per secoli: stimolare la riflessione, mostrare il mondo nei suoi aspetti meno consueti, tendere all’universalizzazione dei sentimenti.
Giacomo Puccini-La Tosca,un melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica-
Giacomo Puccini-La Tosca-1964 – IL SOPRANO MARIA CALLAS NELLA “TOSCA”, PA, CANTANTE, OPERA, LIRICA, COSTUME, SCENA, TEATRO, TAVOLO, CANDELE, PUNTARE, BRACCIO, ANNI 60, ITALIA, B/N, 03-00007881
Tosca è un melodramma in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. La prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900. A partire dal 1890 la scena del melodramma vide una fase di straordinaria vitalità; l’inizio di questa fase può farsi coincidere con il successo improvviso dell’opera Cavalleria Rusticana di Mascagni. A seguire esordì una nuova generazione di compositori (Leoncavallo, Franchetti, Cilea, Mascagni, Giordano e lo stesso Puccini), tanto da spingere a coniare il termine “Giovine Scuola“.
Tale terminologia non voleva indicare un’apparteneza culturale o anagrafica comune, quanto piuttosto un radicale cambiamento improntato alla ricerca di nuovi moduli drammaturgici e musicali che inaugurò una nuova stagione creativa.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Per abbracciare questa richiesta di novità, anche grazie a soggetti di forte impatto emotivo, Puccini aveva manifestato l’intenzione di scrivere un’opera basata sul dramma in cinque atti di Victorien Sardou “La Tosca“.
Puccini assistette ad una rappresentazione de “La Tosca” nel 1889 a Milano, rimanendone profondamente colpito: vi riconobbe subito il soggetto perfetto per un’opera lirica.
L’editore Giulio Ricordi si attivò per avere i diritti dell’opera, ma sorsero alcuni problemi con Victorien Sardou che spinsero Puccini a rinunciare.
Giacomo Puccini-La Tosca-Opera-Carlo-Felice-
Una confessione di Giuseppe Verdi al suo biografo (“Vi sarebbe un dramma che, se io fossi ancora in carriera, musicherei con tutta l’anima, ed è Tosca“) spinse l’editore Ricordi a ritentare la strada di un accordo per i diritti del dramma, questa volta con esito positivo.
Il primo destinatario dell’incarico di comporre l’opera fu Alberto Franchetti, reduce dal recente successo del suo “Cristoforo Colombo” (1892). Pochi mesi dopo aver ottenuto l’incarico (fine 1893) Franchetti decise però di rinunciare all’opera.
Fu così che gli subentrò Giacomo Puccini.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Nonstante la composizione dell’opera particolarmente travagliata, tra ripensamenti e modifiche dell’ultimo minuto, la Tosca di Puccini debuttò il 14 Gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma.
Il ruolo di Tosca venne affidato a Hariclea Darclée, Emilio De Marchi fu il primo Cavaradossi e Eugenio Giraldoni ricoprì con successo il ruolo di Scarpia. L’orchestra venne diretta da Leopoldo Mugnone.
Il clima della prima era quello delle grandi occasioni: tutti gli esponenti della “Giovine Scuola” erano presenti (compreso Alberto Franchetti). Inoltre anche l’allora Regina e il Capo del Governo assistettero a parte della rappresentazione.
La Tosca di Puccini ottenne da subito un considerevole successo; il compositore riuscì così a scrollarsi definitivamente di dosso il cliché di “cantore delle piccole cose”.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Floria Tosca, celebre cantante – soprano
Mario Cavaradossi, pittore – tenore
Il Barone Scarpia, capo della polizia – baritono
Cesare Angelotti, un prigioniero politico evaso – basso
Il Sagrestano – basso
Spoletta, agente di polizia – tenore
Sciarrone, Gendarme – basso
Un carceriere – basso
Un pastore – ragazzo,voce bianca
L’azione si svolge a Roma, il 14 Giugno 1800, data della battaglia di Marengo. La Repubblica Romana è caduta e feroci rappresaglie sono in corso verso gli ex-repubblicani simpatizzanti di Napoleone Bonaparte.
Giacomo Puccini-La Tosca-Maria Callas
ATTO I
Angelotti, già console della Repubblica e per questo prigioniero politico, riesce a evadere da Castel Sant’Angelo e trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea Della Valle. Sua sorella, la Marchesa Attavanti, gli ha lasciato la chiave della cappella di famiglia, ove egli trova nascondiglio.
Arriva il sagrestano per ripulire i pennelli del pittore Mario Cavaradossi, impegnato nella realizzazione di un affresco raffigurante la Madonna. Il pittore entra poco dopo per rimettersi al lavoro. Quando toglie il telo dal suo affresco, il sagrestano ha un sobbalzo: nell’effige della Madonna riconosce un volto già visto. Cavaradossi confessa di essersi ispirato ad una devota della chiesa, non sapendo che si tratta proprio della Marchesa Attavanti.
Continua a dipingere il quadro guardando, di tanto in tanto, una foto della sua amata Floria Tosca.
Pur se inquieto, il sagrestano fa per uscire, quando nota che il paniere con il pranzo di Cavaradossi è ancora intatto; pensa ad un digiuno di penitenza, ma il pittore lo rassicura dicendo di non aver appetito.
Angelotti, pensando di esser rimasto solo, esce dal nascondiglio. Incontra però Cavaradossi, suo vecchio amico e anch’egli simpatizzante per Napoleone Bonaparte. I due vengono interotti bruscamente dall’arrivo di Tosca; Angelotti è costretto a nascondersi frettolosamente, non prima di aver preso il paniere di Cavaradossi.
Floria Tosca, cantante e amante di Cavaradossi è per sua indole molto gelosa. Ha sentito il suo amato parlare con qualcuno e teme la presenza di un’altra donna. Dopo essere stata rassicurata dal Cavaradossi di essere l’unica donna da lui amata, lo invita a passare la serata insieme nella villa del pittore. Prima di uscire però, riconosce nello sguardo della Madonna gli occhi della Marchesa Attavanti; di nuovo viene presa da un’impeto di gelosia, e di nuovo Cavaradossi le proclama il suo unico e incondizionato amore.
Allontanatasi Tosca, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio. Racconta che la sorella ha nascosto nella cappella per lui delle vesti femminili; aspetterà il tramonto per fuggire dalla caccia del barone Scarpia. Cavaradossi consiglia all’amico di recarsi subito alla sua villa e – in caso di pericolo – nascondersi nel pozzo. Un colpo di cannone sparato da Castel Sant’Angelo annuncia che la fuga di Angelotti è stata scoperta. Questi è dunque costretto alla fuga.
Entra il sagrestano circondato da una folla di chierici e confratelli, tutti festosi per la notizia dell’imminente (e presunta) sconfitta di Napoleone da parte degli austriaci.
Li interrompe bruscamente Scarpia, accompagnato da Spoletta, giunto nella chiesa per ricercar il fuggitivo. Trova il paniere vuoto e un ventaglio femminile con lo stemma Attavanti. Riconoscendo alfine il volto della Marchesa nell’effige della madonna, capisce che il piano di fuga di Angelotti è stato ordito con la complicità di Cavaradossi.
Tosca torna in chiesa per annunciare al suo amato un cambio di programma: dovrà presenziare ad un concerto a Palazzo Farnese quella sera stessa, quindi non potrà recarsi alla sua villa. Il barone Scarpia utilizza il ventaglio per instillare il dubbio nella mente di Tosca. Ella riconosce lo stemma sul ventaglio e crede che Cavaradossi abbia una relazione con la Marchesa; corre quindi alla villa del pittore per poter cogliere i due sul fatto.
Scarpia la fa seguire da Spoletta e da alcuni poliziotti. Il suo scopo è duplice: avere per sè Floria Tosca e catturare Angelotti.
Giacomo Puccini-La Tosca-Maria Callas
ATTO II
Interno di Palazzo Farnese, camera di Scarpia al piano superiore; dalla finestra provengono le note del concerto e – di lì a poco – la voce inconfondibile di Tosca. Il capo della polizia è in compagnia del gendarme Sciarrone.
Spoletta entra trascinando con sè Cavaradossi. Nella villa infatti vi era solo quest’ultimo, nessuna traccia del fuggitivo Angelotti. Scarpia cerca di fargli confessare l’ubicazione del suo amico, senza però riuscirvi.
Tosca entra nella stanza; vedendo Cavaradossi gli fa un cenno per fargli intendere d’aver capito tutta la situazione. Lui la implora di non dire nulla.
Cavaradossi viene portato nella camera di tortura mentre Scarpia, rimasto solo con Tosca, cerca di farle rivelare il nascondiglio di Angelotti. Per convincerla a parlare le fa sentire le urla di dolore di Cavaradossi, provenienti dalla stanza attigua.
Solo allora Tosca capisce cosa sta succedendo al suo amato. Cerca di resistere, sopportando le urla strazianti del pittore, finchè non cede: urla a Scarpia che Angelotti è nascosto nel pozzo del giardino.
Cavaradossi, sanguinante e fisicamente provato, viene condotto da Tosca, mentre Spoletta va a catturare Angelotti.
Irrompe nella stanza Sciarrone con una notizia preoccupante dal fronte: quella che sembrava essere una sconfitta pesante per Napoleone, in realtà si è trasformata in una vittoria decisiva. L’esercito austriaco è stato sconfitto a Marengo.
Cavaradossi ritrova le forze e urla alla vittoria, facendosi beffe di Scarpia. Quest’ultimo non tollera l’affronto del rivale e lo condanna a morte.
Rimasto di nuovo solo con Tosca, Scarpia le dice che potrebbe esserci un modo per salvare Cavaradossi: ella dovrà concedersi a lui.
Tosca rifiuta sdegnata la proposta, ma il barone alfine la convince, complice anche l’imminenza dell’esecuzione capitale.
Spoletta ritorna con la notizia della morte di Angelotti: il fuggiasco, pur di non farsi catturare, si è tolto la vita.
Sugellato il patto con Tosca, il barone finge di accordarsi con Spoletta per una finta fucilazione di Cavaradossi: in questo modo il pittore avrebbe salva la vita e il barone manterrebbe il suo rruolo di capo della polizia.
Tosca, non capendo l’inganno del barone, chiede inoltre un salvacondotto per poter fuggire da Roma con il suo amato. Scarpia le consegna il documento e chiede a Tosca di rispettare il patto; in tutta risposta lei prende un coltello dalla tavola imbandita e lo pugnala, uccidendolo.
ATTO III
Dalla sua cella di reclusione, Mario Cavaradossi chiede al suo carceriere di poter scrivere un’ultima lettera alla sua amata Tosca.
Mentre si strugge per trovare le parole adatte, Tosca fa il suo ingresso nella cella accompagnata da Spoletta (il quale ancora non è a conoscenza della morte di Scarpia). Quando i due amanti restano soli, Tosca confessa il suo crimine e mostra a Cavaradossi il salvacondotto firmato da Scarpia prima di morire.
Tutto ciò che dovrà fare Cavaradossi è cadere quando i soldati spareranno con i loro fucili caricati a salve. Tosca infatti non immagina che la messa in scena della finta fucilazione sia in realtà un inganno perpetrato da Scarpia per approfittare di lei.
Cavaradossi viene portato sul ponte di Castel Sant’Angelo per essere fucilato; quando i soldati sparano lui cade a terra.
Tosca attende che i soldati se ne siano andati, prima di accorrere verso il suo amato e aiutarlo a rialzarsi; solo allora capisce che, quella che avrebbe dovuto essere una simulazione, in realtà è stata una vera fucilazione.
Dalle stanze di Castel Sant’Angelo si odono le urla di Spoletta e dei soldati che hanno trovato il corpo di Scarpia.
Si recano in fretta sul ponte per arrestare Tosca. Lei sale sul parapetto del ponte e si getta nel vuoto, non prima di aver lanciato un’ultima maledizione a Scarpia.
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