Sinossi del libro di Francesco Battistini-Jerusalem Suite .C’è un luogo, l’American Colony di Gerusalemme, che è sempre stato sulla prima linea del conflitto arabo-israeliano. Non è solo un albergo storico e di fascino. Nato quasi 150 anni fa nella vecchia casa di un effendi, culla d’una piccola colonia di presbiteriani americani, il Colony, sul limite fra l’Est e l’Ovest, ha sempre cercato d’essere un luogo di neutralità, di dialogo, d’incontro fra cristiani, ebrei, musulmani. Il libro è la storia di questo albergo. Raccontato attraverso i suoi personaggi, le sue stanze, gli eventi che l’hanno abitato. Fu un lenzuolo del Colony, usato come bandiera bianca, a sancire la fine della dominazione ottomana. Qui venivano Lawrence d’Arabia a rifugiarsi e Churchill a ridisegnare il Medio Oriente, Selma Lagerlöf a scrivere il suo romanzo da Nobel e Mark Twain a riposarsi. Nel 1948 da questi tetti si sparavano la Legione Araba e la Banda Stern. Durante le guerre dei Sei giorni e del Kippur in questa reception bivaccavano i giornalisti di tutto il mondo. In questi giardini giocava un piccolo Rudolf Hess, futura anima nera della Shoah, e nella camera 16 ci furono le prime trattative per gli accordi di Oslo. Qui alloggiava Tony Blair quand’era inviato per la Cisgiordania e Gaza e qui passava John Kerry, dopo gli incontri con Netanyahu. Il Colony è ancora oggi una piccola Palestina nella Gerusalemme occupata, dove molti leader palestinesi non mettono piede, e insieme un pezzo d’Israele che pochi politici israeliani frequentano. Una terra di nessuno e di tutti. Plato Ustinov vi piantò due palme della pace più volte incendiate e poi ripiantate dal nipote Peter. Durante le intifade, il Colony era una fortezza sicura: un rigido statuto fissa le quote “etniche” dei camerieri che vi possono lavorare, e per questo nessuno l’ha mai attaccato.
Il Colony ha visto ventun guerre, trenta piani di pace, ventidue accordi, ottocento risoluzioni Onu. L’autobiografia di tre religioni, due popoli, una città.
«Qualcuno dovrebbe davvero raccontare la storia di questo luogo». The New York Times
«Il Signore Iddio divise tutta la bellezza in dieci parti: ne consegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Poi divise anche il dolore in dieci parti e di nuovo ne assegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo». Talmud di Gerusalemme, Kiddushin 49b
L’Autore-Francesco Battistiniè inviato speciale al Corriere della Sera, dopo aver lavorato al Giornale di Indro Montanelli e alla Voce. Ha seguito i Balcani dalla Bosnia in poi. Già corrispondente da Gerusalemme, si occupa prevalentemente di Europa dell’Est, Medio Oriente e Nord Africa. Ha coperto una dozzina di conflitti dall’Afghanistan all’Iraq. Coautore di Che cosa è l’Isis (Fondazione Corriere della Sera).
“Torre della Residenza Aurelia”-Conosciuta anche come Torre della Dea DEMETRA
Franco Leggeri-Fotoreportage–Roma Municipio XIII dalla raccolta:“Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana”–La TorreAurelia oTorre della Dea DEMETRAè sita all’interno del Consorzio Residenza Aurelia , zona residenziale del Comune di Roma nel XIII Municipio. Si raggiunge dalla vecchia via Aurelia, ora via di Castel di Guido . La Torre sorge nel punto più alto della Valle Galeria e si trova di fronte alla Torre della Bottaccia e al sito archeologico Casale della Bottaccia.La Torre per un periodo è stata sede del Circolo LA Torre della Dea DEMETRA.
La Campagna Romana o Agro Romano, in senso storico o tradizionale, non coincide con nessuna delle odierne suddivisioni amministrative e neppure con l’area che potrebbe definirsi come banlieue di Roma. Essa comprende il comune di Roma (1507,6 km2) eccetto l’area occupata dalla città coi quartieri e suburbî (222 km2) cioè 1285,6 km2 cui sono peraltro da aggiungere il comune di Aprilia (177,6 km2) costituito nel 1937, e parte dei comuni di Anzio, Nettuno, Pomezia e Marino; in quest’ultimo comune si trova l’aeroporto di Ciampino coi nuclei abitati dipendenti, compresa la così detta Città giardino Appia (v. ciampino, in questa App.). Il fatto più notevole che caratterizza l’ultimo ventennio è il progressivo rapido ripopolamento della Campagna. Limitandoci al territorio pertinente al Comune di Roma, i 62.500 ab. (residenti) del 1936, sono divenuti 120.781 nel 1981 e 161.886 nel 1956. L’incremento è dovuto non tanto al moltiplicarsi delle case sparse, quanto al costituirsi di nuclei che sono spesso antichi casali trasformati, dotati di chiesa, scuola, stazione sanitaria, ovvero di nuove unità rurali, o infine di veri e proprî centri. Di questi il più recente censimento ne annovera 42, dei quali uno, il Lido di Ostia è ormai una cittadina di circa 20.000 ab., altri due o tre hanno popolazione superiore a 5000 ab. (oltre a Ciampino) e sette o otto popolazione superiore a 1000 ab. Il richiamo della popolazione verso il mare è evidente. Dopo il Lido, il centro più popoloso è Fiumicino, che acquisterà nuovo incremento con l’apertura al traffico (1961) del grande aeroporto intercontinentale; a nord di Fiumicino è Fregene; a sud del Tevere Tor Vaianica, a prescindere dalle altre recenti “marine” che si succedono fino ad Anzio. Altra ben visibile trasformazione della Campagna, del resto connessa con la precedente, è la riduzione delle aree pascolive a vantaggio delle coltivazioni. Tra queste predomina ancora il grano, ma nelle zone periferiche compare la vite (anche per frutto), altri alberi fruttiferi, prati da foraggio e, in plaghe più ricche di acqua, colture orticole. La Campagna comprende due grandi bonifiche effettuate secondo piani predisposti, la bonifica di Maccarese e quella di Porto-Isola Sacra, oltre ad altre minori; comprende anche taluni grossi centri di allevamento, come Torrimpietra. L’allevamento bovino si sviluppa, quello ovino declina a causa della accennata riduzione del pascolo naturale. Manifesta è anche la trasformazione o integrazione della rete stradale. Le antiche vie consolari irraggianti dalla città che ancora costituiscono lo schema fondamentale, sono collegate da vie trasversali (a cominciare dal “grande raccordo anulare” corrente a 11-15 km dal centro di Roma), da collegamenti secondarî, da strade vicinali e di bonifica.
La parte della Campagna più vicina alle aree suburbane viene a poco a poco assorbita dalla espansione del Suburbio stesso sia verso il mare (dove i quartieri dell’EUR sono, secondo il reparto del 1951, ancora fuori del Suburbio), sia verso est (via Tiburtina), sia verso sud-est (vie Prenestina e Casilina), sia anche verso nord (via Cassia).
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana
La dea Demetra e la sacralità della natura
(perché per gli antichi l’ambiente era la loro casa)
Erisittone aveva abbattuto senza alcun rispetto gli alberi di un bosco sacro a Demetra: la reazione della dea e il senso degli antichi per la natura.Fu così che Erisittone, bulimico, più mangiava più aveva fame, divorava tutto quello che gli capitava davanti agli occhi e un giorno mangiò anche il gatto di casa. E continuò sino a mandare la sua casa in rovina.
Ecologia è un calco costruito sul greco e (come anche economia) contiene la parola oikia, la casa, l’ambiente in cui viviamo e che dobbiamo proteggere.Ambiente ed ecologia sono parole moderne, ambiente viene dal verbo latino ambire, che vuol dire andare intorno, ed è un nome che indica lo spazio che ci circonda e nel quale ci muoviamo e viviamo assieme agli altri.
Curioso che ambiente e ambizione derivino dallo stesso verbo latino ambire che nel senso più positivo del termine è un desiderio legittimo di migliorarsi.
E uno dei nostri desideri più forti, sin da giovani, è la casa, il nostro posto in cui stare bene nel mondo, un posto da proteggere, l’ambiente nel quale cresciamo ogni giorno e facciamo crescere i nostri figli.
In fondo scriviamo ambiente, ma leggiamo casa.Nota di Cristina Dell’Acqua (pubblicato su corriere.it del 3 dicembre 2021)
Il commento di Carlo Crovella Il mio professore di liceo mi assicurava che la cultura classica aveva già spolverato l’intero palinsesto dell’esistenza. Nei miti greci e latini c’era già “tutto” quello che riguarda la vita umana, caratteri, vizi, difetti, i pochi pregi. E c’era già l’intero universo. All’inizio ero perplesso: come potevano sapere, secoli e secoli fa, cosa sarebbe accaduto “dopo”, con la tecnologia, l’evoluzione, il progresso? Semplice: il lupo perde il pelo, ma non il vizio. La specie umana era già così. Il “dopo” ha solo amplificato gli effetti negativi dei suoi difetti per la combinazione fra progresso tecnologico e crescita esponenziale degli individui. Altro che un bosco, ci divoriamo oggi! Intere colline di silice sono state completamente spianate per utilizzare quel componente da inserire nei telefonini e pc.: saremo anche noi condannati alla stessa pena eterna di Erisittone? Peggio, siamo destinati all’estinzione: non riusciremo letteralmente più a sfamarci perché avremo consumato tutte le risorse del pianeta. Un’altra considerazione si lega al mito classico. Come ho già raccontato, purtroppo io non ho il dono di una profonda fede religiosa. Non sono proprio ateo, sono piuttosto un “laico”, credo in principi etici a-religiosi (correttezza, rigore, senso del dovere, ecc.). Tuttavia percepisco un che di sacro nell’essenza stessa nell’ambiente, è imperniato di qualcosa di “divino”. La nostra bulimia di risorse, oltre a distruggere noi stessi, ha un carattere addirittura blasfemo: uccidiamo Dio.
Wanda Osiris | Dal registro alla Storia-Archivio di Stato-
Wanda Osiris – all’anagrafe Anna Menzio – nacque a Roma il 3 giugno 1905, da Giuseppe, palafreniere del re, e Adele Pandolfi.
Il suo precoce interesse per lo spettacolo la portò al debutto nel 1923, come soubrette presso il cinemateatro Eden di Milano, dove diede inizio alla sua scalata verso il successo. Divenne presto una figura iconica, con la sua pelle artificiosamente ocra, il trucco marcato, i capelli ossigenati, piume, paillettes, tacchi e fiumi di profumo Arpège, sempre rivestita di sfarzo e sensualità.
Il primo vero trionfo fu agli inizi degli anni Trenta, all’Excelsior di Milano, accanto a Totò ne Il piccolo cafè. Con l’avvento della notorietà vennero coniati anche i suoi soprannomi, la Wandissima e la Divina, che solo il fascismo tenterà di contenere, italianizzando il suo nome d’arte in “Vanda Osiri”.
Lavorò a fianco di grandi personaggi del tempo, come Carlo Dapporto, Macario, Nino Taranto, Walter Chiari, Renato Rascel e molti altri. Ma soprattutto le sue riviste divennero famose per le eccentriche scenografie e le enormi scalinate che scendeva con grazia e disinvoltura, sempre attorniata da un ampio corpo di ballo che sceglieva lei stessa.
Fra i suoi maggiori successi si ricordano: Tutte donne (1939), Che succede a Copacabana? (1943), Grand Hotel (1948), Made in Italy (1953) e Festival (1954), a cui si affiancano canzoni di grande risonanza, come Sentimental (1949) e Ti parlerò d’amor (1944).
Tuttavia, l’avvento della televisione contribuì pian piano a sfumare il mito di Wanda, complice anche la diffusione di un nuovo prototipo di bellezza e di fare varietà. Eppure, ancora oggi Wanda Osiris incarna l’emblema della soubrette italiana della prima metà del Novecento e per questo riconosciuta dal grande pubblico come la prima vera diva nazionale.
Morì a Milano nel 1994, all’età di 89 anni.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1905
È stata la prima Diva dello spettacolo leggero italiano. I suoi spettacoli erano caratterizzati dallo sfarzo; amava discendere scale hollywoodiane attorniata da giovani ballerini che sceglieva lei stessa. Per lei vennero coniati gli appellativi di Wandissima e di Divina. Le interpretazioni canore molto personali, il trucco tipicamente ocra, i capelli ossigenati, le piume, i tacchi, le paillettes, i fiumi di profumo Arpège, le rose e i ricchi costumi (ideati e realizzati da Folco Lazzeroni Brunelleschi), divennero caratteristici. Registrata allo stato civile come Anna Menzio, nacque a Roma il 3 giugno 1905 nella casa di Via Quirinale 16, figlia di Adele Pandolfi e del marito Giuseppe Menzio, palafreniere del Re presente a Monza nel momento dell’assassinio di Umberto I.
Lasciata la famiglia e abbandonati gli studi di violino per seguire la passione teatrale, arrivò a Milano dove debuttò nel 1923 al cinema Eden.
Durante il fascismo, in ottemperanza alle direttive emanate da Achille Starace per conto del governo, le fu imposto di italianizzare il nome d’arte, che divenne Vanda Osiri. Nel 1937 fu scritturata da Macario per mettere in scena la rivista Piroscafo giallo. Nel 1938 è in Aria di festa, dove appare in una gabbia d’oro. A Milano nel 1940 uscì da un astuccio di profumo in Tutte donne; a Roma nel 1944 recitò per la prima volta con Carlo Dapporto, in Che succede a Copacabana, nel 1945 in L’isola delle sirene e La donna e il diavolo.
Dopo la fine della guerra, tornò a Milano e sempre con Dapporto divenne la regina del gran varietà. Nel 1946 entrò a far parte della compagnia teatrale di Garinei e Giovannini.
Nel 1948, Al Grand Hotel, sorprese il pubblico in un’opera teatrale al massimo sfarzo e lusso. Conobbe Gianni Agus con il quale ebbe una lunga relazione professionale. Sul finire degli anni quaranta, la Osiris diventò la regina incontrastata dei salotti e al Teatro Lirico le sue apparizioni erano degne dei botteghini della Scala. Nel 1951 lavorò in Gran baraonda con il Quartetto Cetra, Turco, Dorian Gray e Alberto Sordi.
Nel 1954 ritornò con Macario in Made in Italy, mentre nel 1955 in Festival, diretto da Luchino Visconti, non ottenne il successo sperato. L’anno dopo, nella rivista La granduchessa e i camerieri (tra gli attori compariva anche Gino Bramieri) inciampò nell’abito di crinoline: si temette la fine della sua carriera, ma dopo cinque giorni la Divina calcò di nuovo la scena. Ugualmente, il successo si spense rapidamente con il tramonto del varietà, progressivamente soppiantato dalla nascente commedia musicale, e l’affermarsi impetuoso di un modello di soubrette del tutto nuovo (impersonato da figure come Delia Scala, Lauretta Masiero, Marisa del Frate) e al radicale rinnovamento di stile portato avanti dalla “ditta” Garinei e Giovannini in accordo con l’evoluzione dei gusti del pubblico.[2]
Nel 1963 in una riedizione di Buonanotte Bettina, interpretò la parte della suocera a fianco di Walter Chiari e Alida Chelli, poi con la concorrenza della televisione e la decadenza del varietà, il suo percorso teatrale si interruppe. Recitò in prosa negli anni settanta: la sua parte più celebre fu in Nerone è morto? di Hubay nel 1974, con la regia di Aldo Trionfo.
Accudita dalla figlia Ludovica Rivolta in Locatelli, detta Cicci (1928-2013), e dalla nipote Fiorenza, Wanda Osiris morì a Milano nel 1994, all’età di 89 anni, a causa di un edema polmonare. È tumulata al Cimitero monumentale di Milano, non lontano dalla tomba di Gino Bramieri.[3]
Vita privata
Nel 1928, dalla relazione con Osvaldo Rivolta, nasce la figlia Ludovica, detta Cicci.
Viola Conti-Perché sfuggo all’amore? Il dolore è un talento
-Giovane Holden Edizioni-
Descrizione del libro di Viola Conti-Stabilità, presenza, accettazione sono ciò che Micol ha trovato nel suo compagno Alberto. È un uomo solido, misurato, affidabile, che la apprezza sempre per quello che lei è, e che sa darle la tranquillità che nella vita troppo spesso le è mancata. Un uomo così è difficile da trovare, le ripetono le amiche e i familiari. Ma in quella tranquillità perfetta e sempre uguale, fatta di routine e priva di quegli slanci di fantasia di cui un amore si nutre, Micol si sente segretamente soffocare. Quando il destino le fa incrociare lo sguardo di Flavio, di cui il soprannome il Vichingo racconta ogni cosa, esplode una violenta passione clandestina, accesa di sensualità e di curiosi giochi mentali. Flavio è agli antipodi di Alberto, sfacciato, aggressivo, sfuggente, ogni momento con lui è una sfida imprevedibile ma inebriante. Micol si ritrova lacerata tra due opposti, in cerca di un equilibrio impossibile e della determinazione per compiere una scelta definitiva, mentre i sensi di colpa la divorano e la confusione non fa che crescere. Una storia vivace e di grande acutezza che sa raccontare le sfumature complesse di un sentimento universale, quel bisogno di completezza e insieme il desiderio di brivido che si vorrebbero sempre al centro di un rapporto sentimentale. A illuminare il racconto con una interpretazione psicologica, un saggio chiaro e divulgativo sulle organizzazioni di personalità, con un focus particolare sulla personalità depressiva detta abbandonica, che per la paura della solitudine indossa maschere reprimendo se stessa nel tentativo di aderire alle aspettative altrui.
Giovane Holden Edizioni
Fondata nell’agosto 2006 da Miranda Biondi e Marco Palagi, la casa editrice si distingue subito per la sua linea editoriale originale e per la capacità di saper coniugare innovazione e qualità. Il riferimento nel nome a Holden Caulfield, il protagonista del famoso libro di Salinger, testimonia un intento specifico: curiosità, coscienza critica, un pizzico di ironia. Le difficoltà per un piccolo editore indipendente sono molte, Giovane Holden però è riuscita a ritagliarsi un suo spazio nel mercato conquistando credibilità e soprattutto fama di serietà professionale. A oggi Giovane Holden è una delle realtà editoriali indipendenti più apprezzate a livello nazionale e internazionale. La vocazione per la scoperta letteraria e il gusto per il nuovo si palesa fin dai suoi esordi attraverso l’organizzazione di un Premio Letterario Nazionale, doverosamente, intitolato “Giovane Holden”, che nel 2016 giunge alla sua decima edizione. Negli anni si è aggiunto un Premio tematico “Streghe Vampiri & Co.” La casa editrice vanta oltre cinquecento titoli in catalogo e ha fama, tra gli operatori del settore, di azzeccare sempre una pubblicazione: con una media di circa trenta titoli l’anno, si propone sul mercato come uno dei piccoli editori indipendenti più attivi nel settore promozione. Tra i generi pubblicati: narrativa italiana e straniera (tra cui thriller, avventura, fantasy, rosa), narrativa per bambini e ragazzi, poesia italiana e straniera, saggistica divulgativa (attualità e politica, storia, scienze) e manuali, classici e libri fotografici. Nel 2009 la pubblicazione di Nudo, il libro provocazione composto rigorosamente da pagine bianche, proietta Giovane Holden sulle più importanti testate giornalistiche nazionali, tra cui un passaggio sul Tg satirico di Canale 5 “Striscia la notizia”. A partire dal 2012 conquista anche le piattaforme digitali e avvia la distribuzione dei titoli in versione e-book su tutte le piattaforme online di vendita. La casa editrice partecipa a diverse fiere del libro, tra cui il Pisa Book Festival, la fiera dell’editoria indipendente che si svolge a novembre nella cittadina toscana e il Salone del libro di Torino. Non solo casa editrice quanto piuttosto realtà composita, Giovane Holden è stato anche editore di un periodico di arte e cultura free press “I soliti ignoti magazine” e partner ufficiale della Prima Campagna Nazionale di sensibilizzazione alla lettura “Leggere giova gravemente alla salute”, ideata dall’Associazione culturale I soliti ignoti, che prevede la distribuzione gratuita di migliaia di testi in tutta Italia. Giovane Holden è in prima linea per la difesa della cultura e anche dei diritti civili, dal 2006 ha aderito a un progetto di adozione a distanza. Inoltre è ideatrice e promotrice della campagna nazionale di sensibilizzazione contro la violenza di genere Woman. No more violence, trust yourself.
Descrizione del libro di Marco Dalla Torre-Antonia Pozzi (1912-1938), straordinaria voce lirica del ‘900, frequentò intensamente la montagna, traendone ispirazione più di ogni altro poeta italiano. Marco Dalla Torre ne ricostruisce l’attività alpinistica e ne indaga la relativa trasfigurazione poetica, che costituisce una linea tematica fortemente originale all’interno del suo canzoniere. Il testo è completato da una ricca documentazione fotografica inedita.
Breve biografia di Antonia Pozzi, nata a Milano nel 1912, morì suicida nel 1938.Grazie all’agiatezza della sua famiglia, ebbe la possibilità di viaggiare molto in Italia e all’estero e di praticare vari sport, soprattutto l’alpinismo. Nel 1935 si laureò in Estetica con Antonio Banfi e, negli ultimi anni di vita, sviluppò una crescente apertura alla società e alla storia. Le sue poesie sono state pubblicate postume in varie edizioni e traduzioni, accolte tutte con profondo interesse. Una grande attenzione hanno suscitato anche le pagine di diario sopravvissute, le molte lettere e la tesi di laurea. Antonia Pozzi ha lasciato inoltre una consistente produzione fotografica di notevole e ormai ampiamente riconosciuto valore artistico.
Licenza Poëtica di Peter Ciaccio-La legge di Lidia Poët
Articolo di Peter Ciacco-La legge di Lidia Poët-La speranza è che nonostante tutto questa serie televisiva contribuisca a far conoscere questa donna straordinaria, italiana e valdese, montanara e intellettuale
In tempo per il XVII Febbraio è uscita per Netflix una serie tv che oscilla tra il legal e il crime, con protagonista una delle personalità più importanti della storia valdese, una donna che lottato per i diritti di tutti e tutte. La legge di Lidia Poët [pronunciato Pòet, sic] pare prendere, però, solo pochi elementi dalla storia: qualche nome, l’ambientazione torinese e due eventi biografici, cioè la cancellazione di Poët dall’albo l’11 novembre 1883, appena tre mesi dalla storica iscrizione quale prima avvocata, e il rigetto del ricorso da parte della Cassazione il 18 aprile 1884. Tutto, ma proprio tutto, il resto è frutto di invenzione. Pertanto non si può parlare di un’opera biografica. La scelta degli autori di omettere due informazioni importanti e potenzialmente gustose per il pubblico, quali il suo essere valdese e montanara, è di difficile comprensione. Di solito, i personaggi più caratterizzati sono quelli in cui è più facile identificarsi: quanti maschietti di città si sono commossi di fronte ai sentimenti della piccola Heidi?
La sensazione è che al personaggio Lidia sia stata strappata l’anima. È soltanto una donna di fine Ottocento che rivendica il diritto di esercitare l’avvocatura. Non è poco, certo, ma non è neppure abbastanza per renderla credibile agli occhi del pubblico e suscitare empatia. Altri aspetti della serie, poi, non tornano. Tralasciando alcune incongruenze narrative e il fatto che Torino sembri appena scartata dal cellophane per quanto è pulita, colpisce un linguaggio non consono all’ambientazione: i personaggi sono alquanto sboccati e si danno quasi tutti del tu. Come spiegare queste e altre scelte? Non sembra possibile che in una serie così raffinata nelle scenografie e nei costumi, con bravi interpreti che reggono da soli la credibilità della narrazione, con una bella colonna sonora rock (particolarmente azzeccata in chiusura la canzone King di “Florence+the Machine), gli autori abbiano scelto deliberatamente di non raccontare né la vera Lidia Poët né la vera ambientazione storico-sociale.
Una risposta possibile è che la serie parli in realtà dei nostri giorni. Lidia e le questioni intorno a lei potrebbero non essere altro che “idee” (in senso platonico) del nostro mondo, anzi della nostra Italia. Così si spiegherebbero il linguaggio informale vicino all’italiano contemporaneo, l’indifferentismo religioso, il libertinismo sessuale, una gioventù mai stimata dalle generazioni più mature, l’uso regolare di stupefacenti per sopravvivere a un mondo alienante, drogato di ansia da prestazione.
Soprattutto, così si spiegherebbe l’elemento più paradossale della serie. Lidia non appare, infatti, particolarmente intelligente. Arriva a scoprire la verità non attraverso il ragionamento, ma grazie al sentimento delle viscere. Una circostanza peraltro non molto utile alla causa dell’emancipazione femminile. Allo stesso tempo il maschilismo dei suoi interlocutori è becero e triviale, ridotto a macchietta. Insomma, ne emerge un dibattito su femminismo e patriarcato banalizzato come su certi post di Facebook.
In conclusione, la speranza è che nonostante tutto questa serie contribuisca a far conoscere questa donna straordinaria, italiana e valdese, montanara e intellettuale, e che susciti interesse intorno alle sue battaglie. Sarebbe importante in un’Italia che ha difficoltà a fare i conti con il passato e che spesso si dimentica di onorare la memoria dei suoi figli e delle sue figlie migliori.
Fonte–Riforma.it–Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
-Poesie di Vladimir Nabokov da “Poems” (Doubleday & Co., 1959)
Traduzione a cura di Sarah Talita Silvestri per la Rivista Atelier
Brevissimi cenni biografici di Vladimir Nabokov (San Pietroburgo, 22 aprile 1899 – Montreux, 2 luglio 1977) è stato un romanziere e poeta russo. Nato in Russia, scrisse i suoi primi nove romanzi in russo mentre viveva a Berlino. Raggiunse fama internazionale dopo essersi trasferito negli Stati Uniti e aver iniziato a scrivere in inglese. Nabokov è diventato cittadino americano nel 1945, ma tornò in Europa nel 1961 per stabilirsi a Montreux, in Svizzera. Il romanzo Lolita (1955) è probabilmente la sua opera più nota. È stato sette volte finalista per il National Book Award.
THE POEM
Not the sunset poem you make when you think aloud,
with its linden tree in India ink
and the telegraph wires across its pink cloud;
not the mirror in you and her delicate bare
shoulder still glimmering there;
not the lyrical click of a pocket rhyme –
the tiny music that tells the time;
and not the pennies and weights on those
evening papers piled up in the rain;
not the cacodemons of carnal pain;
not the things you can say so much better in plain prose –
but the poem that hurtles from heights unknown
– when you wait for the splash of the stone
deep below, and grope for your pen,
and then comes the shiver, and then –
in the tangle of sounds, the leopards of words,
the leaf-like insects, the eye-spotted birds
fuse and form a silent, intense,
mimetic pattern of perfect sense.
La Poesia
Se troppo ragioni non arriverai alla poesia del crepuscolo,
col suo tiglio d’indaco, e i cavi
del telegrafo dentro al suo roseo nembo;
non il riflesso in te e la sua fragile spalla
svelata che ancora qui scintilla;
non il lirico guizzo di una rima banale…
l’inutile ritmo che annuncia il tempo;
né le monete e i tesori ammassati su quei
giornali della sera sotto il diluvio;
né i dolorosi demoni di strazi carnali
e tutto ciò che può esser detto meglio in prosa…
ma la poesia che si precipita da vette ignote
… quando attendi dall’abisso lo zampillo
lapideo, che cieco si muove verso la tua mina,
finché giunge il fremito, e infine…
dentro al groviglio di suoni, i leopardi di parole,
i fillidi, i pennuti dalle iridi chiazzate
confluiscono e creano una tacita, abbacinante
mimetica rete di autentico senso.
*
LINES WRITTEN IN OREGON
Esmeralda! Now we rest
Here, in the bewitched and blest,
Mountain forests of the West.
Here the very air is stranger.
Damzel, anchoret, and ranger
Share the woodland’s dream and danger.
And to think I deemed you dead!
(In a dungeon, it was said;
Tortured, strangled); but instead –
Blue birds from the bluest fable,
Bear and hare in coats of sable,
Peacock moth on picnic table.
Huddled roadsigns softly speak
Of Lake Merlin, Castle Creek,
And (obliterated) Peak.
Do you recognize that clover?
Dandelions, l’or du pauvre?
(Europe, nonetheless, is over).
Up the turf, along the burn,
Latin lilies climb and turn
Into Gothic fir and fern.
Cornfields have befouled the prairies
But these canyons laugh! And there is
Still the forest with its fairies.
And I rest where I awoke
In the sea shade – l’ombre glauque –
Of a legendary oak;
Where the woods get ever dimmer,
Where the Phantom Orchids glimmer –
Esmeralda, immer, immer.
*
Versi scritti nell’Oregon
Esmeralda, adesso sostiamo
qui, nei fatati e benedetti
alpestri boschi dell’Ovest.
Qui persino l’aria è inesplorata.
Fanciulla, anacoreta e sentinella
narrano il sogno e le insidie della foresta.
Pensavo che fossi morta!
(Dicevano in un loculo;
torturata, strangolata), e invece…
dalla favola cobalto pennuti pervinca,
orso e lepre di nero ammantati,
sulla tavola del picnic la Saturnia.
Assiepati segnali stradali sussurrano
del Lago Merlin, di Castle Creek,
e del Picco soppresso.
Riconosci quel trifoglio?
Tarassaco, l’or du pauvre?
(Ciononostante l’Europa è in rovina)
Sulle distese erbose, lungo ciò che è arso
ascendono roteando gigli latini
su gotiche conifere e felci.
Campi di grano hanno corrotto le praterie,
ma queste voragini arridono! E ancora
le fate popolano il bosco.
E resto immobile, lì dove presi coscienza,
dentro l’ombra della marea – l’ombre glauque –
di una quercia memorabile;
dove le foreste svaniscono,
dove baluginano orchidee innevate…
O Esmeralda, sempre, per sempre.
Citazione dal Romanzo Lolita
“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta”.
Sarah Talita Silvestri (Palermo 1982) vive a Bra, in provincia di Cuneo.È laureata in Archeologia e Storia antica presso l’Università degli Studi di Torino, si occupa di numismatica antica e collabora con associazioni culturali e musei; è docente presso la Scuola Secondaria.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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Giulia Bologna (1990) è laureata in Psicologia Clinica. Ha vinto il primo premio di poesia inedita “Pagine Marchigiane” 2023 dell’Associazione Versante. Ha vinto il 3° Premio Assoluto dell’Undicesima edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, organizzato da Euterpe APS di Jesi, nella sezione Sperimentazioni poetiche e nuovi linguaggi (sotto-sezione: dittico poetico) insieme ad Eugenio Griffoni.
Vita non è vita
se non in transito verso la sua mancanza,
verso la speranza vana
dell’incontro.
Nel fiordo del senso
ancoriamo le nostre parole
e nell’incavo del tempo
gettiamo i nostri germogli
più cari.
Nei nodi dell’Aria
appendiamo le ombre più buie
all’ineffabile
saldiamo tutta la nostra eternità.
Siamo cera restituita dal fuoco,
alfabeti in fuga centripeta dall’abisso
ignifero rigettato dal buio.
*
Teniamo traccia di ogni assenza/
di ogni rosa che manca all’appello/
di ogni pietra che argina il vento/
di ogni giorno
che è solo polvere –
guardiamo nel fondo
rimestiamo
cerchiamo l’irripetibile d’ogni vita/
il caglio dei mondi/
la genitura dell’origine/
– cercando la chiave di qualcosa
che non ha nome.
Trovando soltanto il grido
di questi versi.
*
E dunque non patteggiare il potere,
non tacere il velo
che rivela il dissesto.
Vedo il soffocamento del segreto,
la copertura della ferita inastata a nido del presente.
Chi deborda, chi eccede la parola,
chi resiste oltre la fine, conservando il proprio scalpello del dissanguamento continuo?
Chi scioglie la propria pelle
uscendo dal compasso di Dio?
Stanotte prendi ogni fonema
come ago per scucire gli alfabeti,
fermenta i liquidi
in un nuovo ordine chimico.
Stanotte innestala fotosintesi
nel midollo spinale,
poi sarà altra pigiatura inaugurale,
altro scoppio di stelle.
Allora
svezzando il mondo
tutto avremo dato.
*
Solideo
Cosa portiamo alla vita in dono
se intorno v’è solo
malagrazia e pietra dura?
Se dobbiamo ancora pagare
il nostro fio?
Siamo soltanto soglie
da attraversare, ciechi erratici
ad urlare in ginocchio
avanti ai camini del cielo.
Solamente con la bocca violata
dagli sterpi
– immersa nell’humus –
sapremo cantare
in tutte le lingue di Dio.
*
Il vino ci consola,
ricordi?
Ricordi quei corpi
immacolati per la resa dei conti?
Guardali ora
nel cordoglio
hanno un altro cielo per il perdono-
un luogo dove si possa riposare
dimenticando i passi fatti
su questa terra
e un giorno dove si possa
ricominciare
con nuovi re
nuovi papi
nuove stirpi
nuove strade
nuove parole.
Un mondo di pellegrini
e un nuovo Dio.
(Questo intanto ci urina in testa
mentre protetto c’arride.)
Sarebbe bello
contare i millenni a manciate,
farne storia e polvere.
Ma l’uomo è stanco
e la terra non restituisce pietà.
Sarebbe bello ascoltarti in eterno
mentre parli mesto di tua madre
mentre ometti l’importante
mentre semini vittime
e mieti la tua memoria.
Sarebbe bello non avere paura
quando la mattina ci si sveglia/
conservare il coraggio della notte
anche il giorno.
Ma questa è la risposta:
oggi sono sul letto
e non ho intenzione di uscirne.
Conserverò la speranza
per il prossimo anno.
Conserverò la carne
le parole
i respiri e il sangue.
E conserverò te
in qualche meandro della memoria
che non tace mai.
Forse vedremo altri cieli
altri oltraggi che oscurano altri pianeti-
altre vite che sfrutteremo.
Ho gridato il tuo nome
quando il tuo nome era ancora Adamo,
ma stanotte griderò tutti i nomi
che abbiamo dimenticato
strappati alla sabbia
alla terra
alla lontananza del creato
riemersi dalle dune-
coniugherò ogni verbo
per vederle fiorire.
Ci sarà un diluvio
ricordi?
*
Parlavi rimestando nella ghiacciaia:
“io covo la mia esultanza nel turibolo”.
Hanno immolato lo smarrimento
per ricusare la specie,
incrinato il passo
che ci precede negli inizi,
reso lattescente nebbia
il nostro respiro.
Ecco. Ora siamo ruggine in una carniera, siamo al confine d’un deserto senza oasi e mulattiere.
(Il siero rimesta
nel fondo del Lete
come sangue ramificato
nella sabbia).
Che la terra promessa ci riarda nelle mani.
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Edizione con testo a fronte-Traduzione di Silvia Bre-A cura di Ottavio Fatica
ADELPHI EDIZIONI
Risvolto-Robert Frost-Poesie Fuoco e ghiaccio«Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento». Questa spiazzante formula di poetica racchiude i due estremi del fuoco e del ghiaccio, al centro della visione di Frost come di molti suoi versi – estremi inestricabilmente complementari, di quelli che fanno il tormento e la delizia di critici e lettori. «Ma il bello sta nel modo in cui lo dici» recita un suo verso. Così, dietro i grandi monologhi drammatici espressi in un parlato popolare, come dietro i sonetti e le altre composizioni formalmente ineccepibili da lui predilette – del verso libero diceva che era come «giocare a tennis senza rete» –, c’è sempre qualcos’altro. Qualcosa che ci turba, che ci mette in discussione, e non si lascia domare. Sarà per questo che le sue poesie, anche a leggerle cento volte, manterranno sempre la loro freschezza, continueranno a custodire il loro segreto. In questa vastissima scelta, tratta da tutta la sua produzione, il lettore avrà modo di incontrare il maggiore poeta americano del Novecento, diventato paradossalmente, come tutto ciò che lo riguarda, il più ‘moderno’, forse perché il più refrattario, ingannevole, e a modo suo audace, fra i grandi modernisti. Quello con cui bisogna ogni volta tornare a fare i conti.
In copertina
Robert Frost ritratto nella sua fattoria vicino a Ripton, Vermont. Fotografia di Tom Hollyman. tom hollyman/photo researchers/premium archive via getty images
Nota biografica-Robert Lee Frost (San Francisco, 26 marzo 1874 – Boston, 29 gennaio 1963) è stato un poeta statunitense. È uno dei più noti e importanti poeti americani e fu anche traduttore e drammaturgo.
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