La storia e le voci di poetesse,da Anna Achmatova a Maria Wisława Anna Szymborska, che hanno lasciato il segno nella cultura mondiale con il loro immaginario potente. Sono autrici che dal Medio Oriente all’Est Europa rappresentano mondi poetici caratterizzati da mille culture e da uno sguardo aperto e profondo sulla contemporaneità.La poesia delle donne, una storia da raccontare -Articolo di Lorenzo Pompeo– Con il loro immaginario potente, le voci delle poetesse hanno lasciato il segno nella letteratura mondiale, con una sensibilità aperta a mille culture e uno sguardo sempre attento alla realtà storica e sociale. Pubblichiamo un estratto del libro di Left “La poesia delle donne” di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo che il 20 ottobre 2022 è stato presentato a Roma presso la Biblioteca comunale “Goffredo Mameli” via del Pigneto n. 22-
La poesia femminile rappresenta una questione aperta, un quesito al quale la presente antologia vorrebbe offrire solo un modesto contributo. Non vogliamo offrire risposte definitive, semmai porre domande, a partire dalla definizione stessa della categoria: esiste una poesia femminile? Esiste una differenza significativa che la contraddistingue? È utile o necessario creare una categoria a parte?
Partiamo da alcune considerazioni introduttive: se da un lato a partire da Saffo, vissuta presumibilmente tra il 630 e il 570 a. C., la poesia femminile è una realtà testimoniata nella storia da molte altre figure, è pur vero che fino al XIX secolo si è trattato di presenze marginali, casi eccezionali e rari. Le cose cambiano in modo sostanziale con la Rivoluzione industriale e il lento processo di emancipazione femminile. Attraverso l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, si andò affermando nelle società occidentali prima, e poi in tutto il mondo, seppure in modo graduale e parziale, il principio della parità di diritti. Mano a mano che questo processo avanzava nel corso del XIX e del XX secolo, anche nel mondo dell’arte e della poesia la presenza femminile è diventata sempre più importante, in numeri e peso specifico. Ciò malgrado, si tratta pur sempre di una presenza ancora largamente minoritaria. E se consideriamo la questione in una ottica mondiale, anche oggi esistono Paesi e vaste aree geografiche in cui l’accesso all’istruzione è ancora precluso alle donne, oppure ostacolato da circostanze materiali che di fatto impediscono tale accesso. Ciò malgrado, non è raro il caso di bambine nate in seno a famiglie prive di mezzi che grazie alla loro forza di volontà sono riuscite a far sentire la propria voce attraverso i loro versi malgrado mille difficoltà e ostacoli, facendosi spesso portatrici di una visione del mondo nuova e inedita, ribellandosi cioè a quell’atavico silenzio in cui le loro madri, le sorelle e le nonne erano e sono ancora confinate da una tradizione secolare.
Ma questo è solo uno degli aspetti del mondo della poesia femminile del ’900, a cui senza dubbio occorre prestare la massima attenzione (anche perché si tratta di figure spesso marginali o emarginate anche nel mercato editoriale italiano, che solitamente alla poesia presta già ben poca attenzione). Ma la poesia femminile del ’900 non fu solo uno strumento per rivendicare il diritto alla parola delle donne. O meglio, in alcuni casi lo è stato, ma se la prendiamo in esame esclusivamente da questo punto di vista, si finirebbe per attribuirle uno statuto puramente finalistico e, in quanto tale, presumibilmente inferiore, se consideriamo la poesia una forma d’arte. Eccoci quindi di fronte allo scoglio principale: a questo punto forse qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe meglio ignorare completamente la questione di genere (posizione condivisa anche da alcune poetesse, come ad esempio il premio Nobel Wisława Szymborska). Poesia engagé o “arte pura”? – Un antico dilemma, che però può assumere un significato inedito se declinato al maschile e al femminile. Sorgono però a questo punto nuove domande che inevitabilmente chiamano in causa la dimensione pubblica e quella privata della poesia, dei poeti e delle poetesse.
È indubbio che il movimento femminista ha giocato un ruolo importante nello sviluppo della poesia femminile, creando le condizioni necessarie affinché la presenza delle donne nel mondo delle lettere non si limitasse a casi sporadici e isolati. Ma sarebbe limitante ricomprendere tale fenomeno esclusivamente nell’alveo del femminismo. L’arte del ’900 fu prima di tutto sperimentazione e ricerca, rottura di schemi e di immagini preordinate. In questo processo la presenza delle donne è stato un elemento capitale, aspetto forse ancora non del tutto recepito nel canone del secolo appena trascorso….
Il testo è un estratto dal libro di LeftLa poesia delle donne di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo.
Premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi anni e una delle poetesse più amate dal pubblico di tutto il mondo. In Polonia i suoi libri hanno raggiunto cifre di vendita (500 000 copie vendute, come un bestseller) che rivaleggiano con quelle dei più notevoli autori di prosa, nonostante abbia ironicamente osservato, nella poesia intitolata Ad alcuni piace la poesia (Niektórzy lubią poezję), che la poesia piace a più di due persone su mille.
Tradotto da: Agnese Grieco e Vittorio Lingiardi- Neri Pozza Editore
Descrizione del libro di Joseph Campbell-Le pagine che seguono costituiscono il puntuale resoconto di una lunga conversazione tra Bill Moyers, una delle grandi firme del giornalismo americano, e Joseph Campbell. Parte della conversazione ebbe luogo allo Skywalker Ranch di George Lucas, il celebre regista e produttore che ha pubblicamente riconosciuto l’enorme influenza degli studi mitologici di Campbell sul suo cinema. «Perché abbiamo bisogno della mitologia?»: questa domanda ricorre in varie forme nel testo e ne rappresenta, in un certo senso, il filo conduttore. Campbell non si sottrae al compito di offrire al lettore una risposta chiara ed esauriente. I miti, per lui, non sono soltanto i «resti» del mondo antico che coprono le pareti del nostro sistema interiore di credenze, come i cocci del vasellame rotto in un sito archeologico. I miti, e i rituali che li evocano, riaffiorano puntualmente in molte delle cose della vita di oggi, dalla religione alla guerra, dall’amore alla morte, poiché riposano sulla «continua necessità della psiche umana di trovare un centro fatto di principi profondi». La mitologia, perciò, non è una mera disciplina di studio dei popoli e delle civiltà antiche, ma «il canto dell’universo», «la musica delle sfere», musica al cui ritmo danziamo anche quando non possiamo dare un nome al motivo, e di cui udiamo i ritornelli «ogni volta che ascoltiamo con distaccato divertimento il farneticante rituale di qual che stregone guaritore del Congo o leggiamo con colto rapimento le traduzioni degli idilli di Lao Tzu, o rom piamo qua e là il guscio duro di un’argomentazione di Tommaso d’Aquino, o cogliamo al volo il significato illuminante di una bizzarra fiaba eschimese». Senza cesure e tuttavia senza contrasti, il grande studioso parla liberamente di tradizioni e racconti egizi e greci, ebraici e indiani, islamici e pellerossa, di narrazioni bibliche e chansons de geste, delle tribù dell’Oceania e di Martin Luther King, della cattedrale di Chartres, di John Wayne, Re Artù e Star Wars, accomunandoli nella sua straordinaria affabulazione di impareggiabile cantore del potere del mito.
AUTORE
Breve biografia di Joseph Campbell (New York, 1904-1987) studiò letteratura alla Columbia University, sanscrito e filosofia a Parigi e Monaco. Per trentotto anni fu titolare della cattedra di Mitologia comparata al Sarah Lawrence College circondato dalla fama di maestro e di uomo ricchissimo di umanità. Tra le sue opere principali, L’eroe dei mille volti, Le maschere di Dio. Alla sua morte, Campbell stava lavorando al secondo volume del suo monumentale atlante storico della mitologia mondiale.
RECENSIONI
«Ciò che il grande, sapiente Joseph Campbell ci ha rivelato è che l’umanità comune a ciascuno di noi è, secondo una delle sue più belle e profonde espressioni, la meraviglia e la magia trasformatrice della storia. Leggere Campbell significa aprirsi davvero alla luce e ribadire che la nostra creatività è la sola, autentica voce del nostro destino». Gregory David Roberts, autore di Shantaram
«Joseph Campbell è uno di quei rari, seri intellettuali americani che ha abbracciato la cultura popolare». Newsweek
«Eccezionale e ancora incredibilmente attuale». San Francisco Chronicle
Mariantonia Crupi: il nuovo romanzo “I limoni e la malvarosa”
– Adhoc Edizioni–
Descrizione del libro Mariantonia Crupi-“I limoni e la malvarosa” è un romanzo al plurale, dominato da un universo di donne che attraversano il tempo nel paese di Acquaro, ai piedi delle Serre calabresi, il paese dell’autrice, narrate attraverso una scrittura evocativa, elegante e intensa, e che esprime, al tempo stesso, i moti dell’anima e gli slanci della natura, il passato e il presente, uniti da una grande casa di pietra, un fiume, una panchina che vive i suoi secoli di vita, declinandoli agli amori, alle passioni, alle perdite, alla speranza.
«“I limoni e la malvarosa” è il titolo, malinconico e suggestivo, un po’ gattopardo, un po’ alla ricerca del tempo perduto di un lungo viaggio di sentimenti e di memoria, di gratitudine, amicizia e solidarietà, di partenze, ritorni e solitudini, la Calabria lontana, voluta e sofferta, bella e passionale»,commenta la scrittrice. Sinossi
Lina, figlia di un ricco borghese, muore pochi giorni prima del suo matrimonio con Riccardo.
Riccardo sposa quindi Diamante, la migliore amica di Lina, nobile e non bella.
Vivono, insieme alla madre di lei, nella grande casa di pietra adiacente il fiume.
Per loro lavorano Apollonia, Maruzza e la greca Vasiliki, unite da rapporti di profonda solidarietà, e le loro vicende personali si intrecciano al destino stesso dell’intero paese, tra partenze, perdite, assenze, solitudini, amori impossibili, passioni e tormenti infiniti, sottolineati dal canto d’acqua del fiume, che si assapora, e possiede voci, sensazioni e memorie.
È la giovane Diamante che, al termine di un doloroso percorso di formazione, sa dare voce alle loro esperienze individuali, unendole in una personalissima catarsi, con un ritorno agognato ma sofferto, in una terra non sempre prodiga, mai facile, sempre amata.
Biografia di Mariantonia Crupi è nata ad Acquaro e vive a Pizzo di Calabria.
È stata docente di Lingua e Letteratura Francese presso l’Istituto Tecnico Commerciale di Pizzo e l’Istituto Alberghiero di Vibo Valentia. “I limoni e la malvarosa” è il suo romanzo di esordio.
Descrizione del libro di Simona Colarizi per “Le smanie per la villeggiatura”Il caldo dell’estate del 1968 riusciva laddove aveva fallito la forza pubblica: alla spicciolata gli studenti lasciavano le aule dell’università dove si erano barricati dopo la prova di forza in difesa della facoltà di architettura a Roma. Sgomberata dalla polizia per ordine del rettore D’Avack e di nuovo rioccupata, per gli studenti era diventata un simbolo della contestazione che ormai da due anni aveva messo a soqquadro gli atenei di tutta Italia. Così nel marzo un corteo di 4000 giovani si avviava in due direzioni: una parte raggiungeva la Facoltà di Architettura a Valle Giulia, un’altra forzava i cancelli dell’Università centrale. Era però tra Villa Borghese e le vie adiacenti dei Parioli, il quartiere privilegiato dalla borghesia benestante della capitale, l’epicentro degli scontri con i “celerini”, i reparti della PS dalla mano pesante, i più odiati dagli studenti.
Nell’immaginario dell’epoca era stata una vera battaglia, la “battaglia di Valle Giulia”, con lanci di sassi e manganellate, cariche della polizia e fughe dei dimostranti. D’altra parte della città si scatenava la rissa nella sede centrale sotto le finestre di Giurisprudenza, occupata dagli studenti dell’estrema destra, e sulla scalinata della Facoltà di Lettere, quartier generale degli studenti di sinistra; gli uni e gli altri decisi a difendere i propri spazi che la fazione opposta voleva conquistare. Queste giornate della primavera 1968 avevano suscitato clamore in tutto il paese anche per la condanna contro gli studenti “figli di papà”, lanciata da Pier Paolo Pasolini nella famosa poesia “Il Pci ai giovani”. E tra quei giovani della sinistra c’erano ragazzi destinati a diventare intellettuali ed editorialisti di peso nella vita politica italiana nei decenni successivi.
Da mesi non c’era stato un giorno di tregua negli atenei di tutta Italia dove si sperimentavano lezioni alternative ai vecchi corsi, si sospendevano le sedute di laurea e gli esami, si mettevano al bando i professori che resistevano alle innovazioni didattiche imposte dagli studenti. Si chiedeva in sostanza un rinnovamento profondo nei saperi, un ricambio dei docenti, una trasformazione delle vecchie strutture insufficienti a contenere la crescita della massa studentesca, soprattutto si voleva abbattere il vecchio Gotha accademico che esercitava un potere assoluto, autoritario e opaco. Insomma, gli studenti chiedevano la riforma delle università rimaste quelle dell’epoca fascista, con le stesse regole e con gli stessi professori; università elitarie dove accedevano solo i figli della borghesia, mentre restava ferma al 3% la percentuale degli studenti provenienti dai ceti sociali più bassi.
Riforme non rivoluzione dunque: il cuore della contestazione sessantottina era ancora democratico, ottimista, dissacrante e allegro, una fase speciale nella vita delle giovani generazioni – e persino delle studentesse – che sperimentavano nuove libertà e trasgressioni, violando codici familiari e accademici consolidati nei secoli. Così sarebbe stata anche la lunga estate del 1968, “l’ultima estate dell’innocenza”, prima che prendessero la direzione del movimento i nuclei politici di estremisti votati alla rivoluzione e nell’estrema destra si cominciasse a teorizzare la strategia della tensione. In pochi si erano resi conto che i primi semi della violenza avevano già cominciato a mettere radici quanto più gli obiettivi della riforma universitaria si sommavano alla critica dell’intero sistema politico italiano e internazionale occidentale, quelle democrazie nate dopo il secondo conflitto mondiale ma rimaste prigioniere della guerra fredda; fredda in Europa, ma calda in altre parti del mondo, e le dimostrazioni contro l’intervento americano in Vietnam erano state l’incubatrice dell’aggregazione studentesca già negli anni precedenti il Sessantotto.
Al salto di qualità nella politica aveva concorso un evento chiave per capire l’evoluzione della contestazione. Nel 1968, due mesi dopo gli scontri a Valle Giulia, era esploso il “maggio francese” che aveva fatto del quartiere latino parigino la meta prediletta dei più avventurosi contestatori italiani ed europei. Un vero e proprio “pellegrinaggio”, in realtà l’anticipo di vacanze all’estero mai sperimentate fino a quel momento dai tanti giovani che si raccoglievano davanti a “Sciences Po” scandendo in una confusione di lingue gli stessi slogan: “L’immaginazione al potere”, “Tutto e subito”, “Joussiez sans entraves” e tanti altri dipinti a grandi lettere sulle pareti delle università, come la scritta “Il est interdit d’interdire” che campeggiava sulla facciata della Sorbonne.
Per quasi un mese agli occhi dei giovani, Parigi era apparsa l’epicentro di una vera e propria rivoluzione che aveva allarmato anche le autorità francesi già in allarme per le continue manifestazioni delle masse operaie alle quali si univano adesso i cortei degli studenti. Da tempo in Francia il mondo del lavoro era percorso da agitazioni sempre più incontenibili, culminate appunto nel maggio in uno sciopero generale di tale portata da riportare alla memoria i moti del ’34. Barricate per le strade, banlieue in rivolta, fabbriche chiuse da Calais a Marsiglia. Studenti e operai avevano sfidato insieme il potere del generale De Gaulle, il quale non sarebbe però arretrato di un passo, soffocando rapidamente le scintille incendiarie.
Col passare dei giorni l’ondata di protesta rifluiva ovunque pacificamente, complice l’arrivo dell’estate. I giovani partivano per i luoghi canonici di villeggiatura al mare, in montagna, in collina; ma questa volta in tanti sceglievano mete oltre frontiera, ancora largamente sconosciute dagli studenti italiani rimasti alquanto provinciali, come il resto della popolazione. Adesso però partivano in gruppo, quasi non volessero spezzare il filo di continuità con la vita collettiva sperimentata nelle occupazioni; una vita intensa e gioiosa, la stessa che avrebbe caratterizzato tutti i mesi estivi. Giugno, luglio, agosto e settembre – quella calda estate che sembrava non avesse mai fine – passavano così, all’insegna delle nuove amicizie strette nel corso delle lotte nelle università. Sarebbe stata per tutti una tappa importante nell’esistenza privata e nella crescita civile e culturale dei sessantottini che rompevano i rituali delle tradizionali vacanze trascorse con le famiglie nelle case al mare o in montagna. La parola d’ordine diventava il viaggio in Europa dove in tutto l’Occidente e persino a Praga nell’impenetrabile mondo sovietico, i loro coetanei stavano anch’essi ribellandosi contro il vecchio mondo accademico e più in generale contro l’intera struttura di società classiste, rimaste ancorate a poteri autoritari nel pubblico e nel privato.
Certo, il sogno sarebbe stato quello di varcare l’oceano e arrivare fino alla West Coast degli Stati Uniti, dove tutto aveva avuto inizio. Ma con un sacco a pelo sulle spalle si poteva arrivare ovunque nelle capitali europee e nei luoghi più ameni ancora sconosciuti, sentendosi un po’ hippies e un po’ i motociclisti di “Easy rider” – un film cult per la generazione del ‘68. In assenza della moto, c’erano i treni o le automobili dei compagni prestate dai papà dei più ricchi, che venivano caricate fino all’inverosimile: cinque sei persone, pigiate una sull’altra, insieme a poche magliette di ricambio e tanti viveri, in genere una quantità di pacchi di pasta che i compagni degli altri paesi imparavano adesso a gustare usando il cucchiaio, incapaci di arrotolare sulla forchetta i famosi spaghetti.
L’intero mondo della contestazione europea si incontrava in queste vacanze con gli stessi rituali già messi in atto nelle università occupate: discussioni interminabili in tutte le lingue alla ricerca di un idioma comune – in genere il francese, rimasta ancora la lingua più conosciuta in Europa come all’epoca delle generazioni precedenti; tante letture da condividere, ma soprattutto i testi marxisti diventati la nuova Bibbia, e i saggi dei sociologi di Francoforte e di Marcuse, eletto a vate dell’anti consumismo. Non tutti ne comprendevano il significato, ma nessuno voleva confessare di non averlo letto. Tutti invece conoscevano le canzoni intonate a sera negli accampamenti in riva al mare, nei boschi e nelle valli dove si alzavano le tende, si accendevano i fuochi e risuonavano alti i cori partigiani – su tutti “Bella ciao” – che davano l’illusione ai giovani di rinverdire la missione dei resistenti in lotta contro il nazi-fascismo.
Gli “spinelli” enfatizzavano l’allegria contagiosa e i tanti amori sbocciati nel clima gioioso e irresponsabile della nuova libertà sessuale. Le ragazze italiane misuravano la repressione subita da sempre guardando le coetanee dei paesi del Nord, così disinibite nei rapporti con i maschi. Le imitavano indossando jeans – da allora una divisa d’ordinanza – ma anche tuniche folcloristiche orientaleggianti dai mille colori; si mostravano senza reggiseno sulle spiagge in un estremo gesto di sfida al pudore che le voleva sottomesse alle regole dettate dai padri, dalle madri, dalla Chiesa. La rivoluzione femminista, anche se non ancora ufficialmente dichiarata, in Italia cominciava in questa estate del ’68 che nessuno avrebbe voluto finisse mai. In questi mesi i giovani avevano costruito in miniatura un mondo senza confini geografici, né barriere culturali dove regnava una nuova fratellanza e c’erano sempre sole e caldo, dove si viveva con poco, ci si divertiva un sacco e sembrava scomparso l’universo dei doveri, degli obblighi, delle responsabilità.
Eppure l’autunno si avvicinava inesorabile. Il 1969 non sarebbe stato identico all’anno precedente: il ricambio nelle file degli studenti è sempre rapido. La permanenza all’università per chi intendeva concludere i suoi studi, durava meno di cinque anni e i più maturi che da tempo guidavano la contestazione, si avviavano sulla strada del lavoro dove avrebbero portato il vento del cambiamento e della modernizzazione. Alcuni però restavano in campo, decisi a continuare una battaglia i cui connotati politici acquistavano una valenza ideologica sempre più estrema. Il mito della classe operaia rivoluzionaria che dopo il maggio francese si era diffuso oltre i circoli intellettuali marxisti-leninisti e operaisti, avrebbe alimentato nei gruppuscoli extra parlamentari l’illusione di una rivoluzione sociale possibile. Una sfida immediatamente raccolta dall’estrema destra che da tempo si preparava a una contro-rivoluzione preventiva, come già era affiorato nel ‘64 con la vicenda del SIFAR. Con il nuovo anno si sarebbe aperta un’altra stagione di cortei e di occupazioni nelle Università; ma qualcosa era cambiato: c’era più rabbia, meno allegria, meno improvvisazione. Il sole dell’estate si era oscurato, il freddo aveva cominciato a mordere, e, nel dicembre del ‘69, con la strage di Piazza Fontana a Milano iniziava la notte della Repubblica.
Simona Colarizi
Simona Colarizi è ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue ultime pubblicazioni, Storia del Novecento italiano (Milano 2000). Per i nostri tipi, tra l’altro, L’Italia antifascista dal 1922 al 1940 (a cura di, 1977), Dopoguerra e fascismo in Puglia. 1919-1926 (19772), Biografia della prima Repubblica (19982), L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943 (20002) e, con M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi , il partito socialista e la crisi della Repubblica (20062).
Inger Marianne Larsen[2] (born 27 January 1951 in Kalundborg) is a Danish poet, writer, and novelist.
Between 1970 and 1975 Larsen was studying literature and Chinese at the University of Copenhagen, but then made the decision to write full-time.[1]
First poems were published in the magazine Hvedekorn (Wheatgrain) when she was 18,[3] followed by her first poetry collection, Koncentrationer (Concentrations), in 1971. Her writing at this early stage was experimental, giving way to a more engaged, affirmative style, both critical of officialdom and supportive of the underdog from a leftist point of view.[4]
Larsen’s first three novels, published between 1989 and 1992, were about a provincial girl’s coming of age and partly autobiographical. Since then she has written more novels, as well as books for children and young adults.[5]
Over the years she has been the recipient of many literary awards and prizes. The most recent of these was the Danske Akademis Store Pris (Great Prize of the Danish Academy) in 2022 with the citation: “Since her debut in 1971…her openly political dream world has been a seemingly endless and natural source of power in literature and in the Danish language.”[6]
There have been three English selections of Marianne Larsen’s poetry from three continents. The first, by Nadia Christensen, appeared in 1982 in the United States,[7] and Robyn Ianssen’s selection, Shadow Calendar, followed in Australia in 1995.[8] A third, gathering work from several translators, was published from the UK as A Common Language in 2006.[9]
Quando la gente la mattina si desta nei suoi isolati nuclei familiari con uno strano sapore di canti di libertà nella bocca, si desta anche il suo vuoto. E subito il vuoto pregusta la gioia di quando la gente sparirà nel buio, diretta alle macchine in attesa e resterà solo a possedere le cose e lo spazio che son loro. Attende invisibile con ansia. Quando è sicuro che la madre, il padre e i figli sono via salta come un pupazzo da una scatola magica e si mette a rovistare facendo da padrone. Nessuno sa quanto perverso sia il vuoto. Il vuoto che resta nelle case private quando la gente è uscita. Rovista fra lettere e armadi della gente, ne prova le vesti, si volta e rivolta davanti ai loro specchi. Il vuoto ha via libera quando la gente non c’è. Il tempo in cui sono costretti a stare insieme è una pena. Ma ciascuno si ingoia la sua uggia. Il vuoto se l’ingoia perché sempre sa che l’aspetta una mattina felice quando la gente sarà sparita per tutta una giornata di lavoro. Ma perché si ingoia la gente la sua uggia nei confronti del vuoto,quando non sempre può aspettarsi in fabbriche e uffici una mattina felice lontana dal vuoto. No, nelle fabbriche può però imparare a essere unita, e quando è unita non s’accorge tanto del vuoto. La gente parla sempre di unirsi per scacciare il vuoto dalle loro case e dal lavoro.
Fabel Når folk om morgenen vågner i deres isolerede familieceller med en sær smag af sange om frihed i munden, vågner deres tomhed også. Og tomheden begynder straks at glæde sigtil at se folkene forsvinde ud i mørket til de ventende maskiner så den kan få deres familierum og ting for sig selv. Den venter usynlig spændt. Når den er sikker på at både moren og faren og børnene er våek springer den som trolld op af æske, og begynder at rode og regere. Ingen ved hvior perverse tomheden er. Tomheden der ligger hen i de private hjem, når folk er gået. Den roder i folkenes breve og skabe, den prøver alt deres tøj, vender og drejer sig foran alle deres spejle. Tomheden har helt frit slag, når folkene ikke er der. Folk hader tomheden, og tomheden hader folk. Den tid de er nødt til at være sammen er en lidelse. Men de bider hver sine ulystfølelser i sig. Tomheden bider den i sig, fordi den altid kan sehen til en glad morgen, hvor folk forsvinde en arbejdsdag ud af syne. Men hvorfor bider folkene deres ulystfølelser over for tomheden i sig, de kan ikke altid se hen til en glad morgen borte fra den i kontorerne og på fabrikkerne. Nej, men på fabrikkerne kan de lære at holde sammen, og når de holder sammen føler de den ikke. Så meget. Folkene taler altid om sammen at fordrive tomheden fra deres hjem og fra arbejde.
Marianne Larsen (Kalundborg, 27 gennaio 1951), da Giovani poeti danesi (Einaudi, 1979)
Amleto un eroe moderno –Articolo di Alberto Pellegrino-Shakespeare è il più grande genio teatrale di tutti i tempi, perché, come scrive il drammaturgo August Strindberg, egli “descrive gli uomini in tutti i loro aspetti, incongrui, contraddittori, lacerati, fragili, divisi, incomprensibili proprio come sono gli esseri viventi”. Tra le sue opere la tragedia di Amleto è la più affascinante e misteriosa, complessa e problematica, perché essa appare assolutamente moderna per la vitalità e la polivalenza del protagonista, un intellettuale tormentato dal dubbio che è solito rifugiarsi nello studio e nella riflessione per fuggire da una realtà che lo disgusta.
Oggetto di migliaia di analisi e interpretazioni, Amleto è uno dei grandi miti moderni per aver segnato il passaggio dell’Inghilterra dal medioevo all’età rinascimentale, per avere un protagonista che rappresenta il nuovo intellettuale borghese, l’uomo di Copernico e della Riforma, l’uomo con i caratteri tratteggiati da Machiavelli, Montagne e Cartesio, l’intellettuale che ha conosciuto l’Orlando furioso di Ariosto, il Don Chisciotte della Mancia di Cervantes ma soprattutto l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. In quest’ultima opera si parla di una “razionale” forma di pazzia che serve ad affrontare i ciarlatani, i parassiti, i mestatori, la stessa gente che affolla la reggia di Danimarca, la stessa follia che suggerisce al principe Amleto di assumere la maschera del pazzo, di recitare la parte del fool, una mitica figura del folklore popolare che è un buffone stravagante e un manipolatore di parole abile nel saper mescolare furbizia e follia. La figura di Amleto è ancora affascinante, perché riflette l’ambiguità, l’introspezione, lo smarrimento dell’uomo contemporaneo impegnato a cercare l’essenza della vita, ma sempre più solo di fronte alla propria coscienza e alla propria ragione.
Nella grande stagione del teatro elisabettiano gode di grande popolarità la tragedia di vendetta, fondata su alcuni elementi ricorrenti: l’apparizione di un fantasma che chiede di essere vendicato, il giuramento di chi ha questo compito, l’uso della pazzia come maschera per difendersi, l’occasione per vendicarsi offerta dallo stesso nemico, la corruzione del protagonista che, nel portare avanti il suo piano, scende allo stesso livello morale del nemico. La tragedia scespiriana, nonostante presenti delle analogie, si allontana da quel genere teatrale, perché contiene una visione innovativa della vendetta, non privilegiando l’azione ma il percorso interiore che conduce all’attuazione della vendetta stessa. Dalle società primitive fino alla società rinascimentale il principio “occhio per occhio, dente pe dente” era un dovere che spettava ai parenti prossimi dell’ucciso e in particolare al figlio maggiore ma quest’obbligo morale risulta estraneo ad Amleto che è tormentato dal dubbio, dal bisogno di arrivare alla conoscenza della verità, dal peso di problematiche morali che provocano un rapporto conflittuale con la sua coscienza.
La Danimarca è uno Stato nato dalla forza militare della nobiltà e fondato sulla violenza, governato da un re che è un guerriero sanguinario, anche se valoroso, il quale incarna la politica di conquista e di potere di una società dove vige la legge della vendetta e della ritorsione sanguinaria. Amleto esalta la figura del padre paragonandolo a un dio, nonostante stia scontando in Purgatorio i crimini politici e gli altri peccati che ha commesso.
In questo mondo vecchio e corrotto Amleto porta una ventata di novità, perché è un uomo di spada ma anche un intellettuale che ha studiato nell’Università di Wittenberg, centro della riforma, del razionalismo, del progresso moderno, dell’erudizione umanistica. Dotato di una grande sensibilità morale e di alti valori spirituali, egli rimane gravemente colpito e disgustato dall’assassinio del padre, dall’usurpazione del trono, dalla scoperta della condotta immorale della madre, tanto da avvertire una nausea che lo spinge fino alle soglie del suicidio rifiutato solo per la paura verso il mistero dell’aldilà (“Così questa troppo solida carne potesse fondersi e disciogliersi in rugiada: o che l’Eterno non avesse stabilito la sua legge contro l’uccisione di sé!…Come sono tediosi, vieti, insipidi e non profittevoli sembrano a me tutti gli usi di questo mondo! Come l’ho a schifo!”).
Amleto condanna il comportamento della madre che ha scambiato un essere perfetto con un uomo ignobile, vile, ipocrita e fratricida come Claudio, il quale governa uno Stato in preda alla corruzione, all’ipocrisia, alla repressione. Il nuovo re, che nutre dei sospetti verso Amleto, guida tutti gli intrighi di corte; condanna il principe all’esilio in Inghilterra e ordina di ucciderlo appena giunto a terra; ordisce il complotto finale, coinvolgendo un Laerte assetato di vendetta per la morte del padre e della sorella Ofelia. Al fianco del re opera il primo ministro Polonio che incarna una politica fondata sulla macchinazione, la manipolazione, lo spionaggio: è lui a proporre di sorvegliare Amleto, perché la follia dei grandi non può rimanere senza controllo; a usare la figlia per circuire Amleto e strappargli la verità; a spiare l’incontro-scontro tra madre e figlio, stando nascosto dietro una tenda e pagando con la vita questa sua predisposizione all’intrigo.
Amleto, con la sua anima ferita e tormentata, s’interroga sul comportamento più giusto da seguire per assolvere il dovere della vendetta, sul confine tra il bene e il male, sulle ragioni per vivere il presente e per comprendere il destino ultimo dell’uomo. Senza più le certezze religiose e politiche del medioevo, egli avverte l’obbligo di sperimentare, sondare e capire le motivazioni del suo agire.
Nonostante le sue incertezze, egli trova il coraggio di avventurarsi in un mondo ingannevole di cui non conosce i confini, di accettare una sfida che lo carica di nuove responsabilità, di rinunciare al suo mondo giovanile, agli studi, agli amici, all’amore, al trono. I suoi dubbi lo spingono ad avere dei comportamenti contraddittori: a volte è un sognatore erudito e indolente, incapace di portare a termine un atto di vendetta; a volte è un assassino impulsivo e brutale; in alcune occasioni è tenero, amorevole, sensibile, raffinato, in altre è spietato, beffardo e perfino volgare.
Erving Goffman, nella sua opera La vita come rappresentazione, ci aiuta a capire questi modi di operare, quando dice che ogni individuo agisce trasmettendo il proprio io particolare per mezzo di comportamenti esteriori e di parole come fa un attore chiamato sulla scena a interpretare un ruolo. Noi siamo quello che recitiamo, perché comunichiamo attraverso la rappresentazione e l’interpretazione di una vasta gamma di ruoli che cambiano a seconda dell’uditorio e che richiedono delle capacità drammatiche per entrare pienamente nella parte che s’interpreta. Amleto, che è un profondo conoscitore dell’arte drammatica, si trova al centro di uno spettacolo che riflette la concezione scespiriana del teatro, che deve essere considerato lo specchio della natura, lo specchio della società, lo specchio del tempo con lo scopo di conferire un volto alle virtù e ai vizi dell’umanità. Con i materiali drammatici che ha a disposizione, egli riesce a trovare una parte da interpretare ogni volta che sale sul palcoscenico della vita, passando attraverso una successione di ruoli che gli consentono di apparire agli altri recitanti come un diverso, un estraneo, un pazzo, anche se, dietro i suoi vaneggiamenti, s’intravede un disegno razionale regolato da un preciso schema mentale finalizzato alla ricerca della verità.
In questo percorso verso la catarsi finale, troviamo al fianco di Amleto due donne che interpretano un ruolo importante: Gertrude e Ofelia. La regina Gertrude è la madre alla quale il figlio non perdona di essere passata con troppa rapidità da un letto all’altro, spinta dalla lussuria e vittima di una libidine che “si abbuffa vorace di sudiciume”. Amleto, rivolgendosi alla donna con il furore di un amante geloso e di un figlio tradito, le ordina di praticare l’astinenza sessuale, perché il suo non può essere un nobile sentimento amoroso; la prega di non rivelare a nessuno la sua finta follia e di riferire al re che suo figlio è veramente impazzito. La regina crede in questa finzione o in una reale follia? Difende e protegge suo figlio? In ogni caso asseconda i suoi piani e si riscatta salvandogli la vita, quando nel duello finale impedisce ad Amleto di bere il vino avvelenato che lei ha già bevuto.
Ofelia è una fanciulla innocente e sinceramente innamorata del principe e, quando lui entra nella sua stanza indossando la maschera del folle, la giovane sente vacillare il suo amore, respinge le sue lettere e le sue profferte amorose, corre dal padre per dirgli che Amleto è vittima di una follia che Polonio scambia per la pazzia propria di un innamorato respinto. A sua volta Polonio, dopo avergli ordinato di non cedere alle lusinghe del principe che, per gli obblighi del suo rango, non potrà mai essere il suo sposo, la manipola e la strumentalizza, inviandola a sondare lo stato mentale del principe. Amleto, pur amandola, vede in Ofelia una femmina soggetta a peccare e a generare altri peccatori, per cui sfoga su di lei la propria misoginia in una scena di brutale violenza: “Dio vi ha dato una faccia e voi vene fate un’altra. Ancheggiate, ondeggiate, bisbigliate. date nomignoli alle creature di Dio e spacciate la vostra impudenza per candore. Via non ne voglio più sapere. Mi ha reso pazzo. Dico che i matrimoni non s’hanno più da fare. Quelli che si sono sposati – tranne uno – vivranno. Gli altri resteranno come sono. Va, chiuditi in convento”.
Ofelia, sconvolta per la morte del padre e per l’abbandono dell’uomo che ama, si trova avvolta da una tragica solitudine che finisce per farla impazzire e farla morire affogata in un fiume, vittima innocente e sacrificale di una società violenta e crudele, specchio di un mondo marcio dove nessuno prega, nessuno si pente, nessuno perdona, dove a pagare sono gli esseri più deboli e indifesi, dove l’amore è una variabile che il teatro della vita non prevede e non comprende. Questa tragedia finisce praticamente di fronte alla tomba di Ofelia, quando Amleto confessa pubblicamente il suo amore e afferma il primato del suo dolore rispetto al fratello che lo accusa di aver fatto impazzire e spinto al suicidio la giovane.
La follia di Amleto realtà o finzione?
“Il tema della follia occupa in Shakespeare una posizione estrema nel senso che essa è senza rimedio. Niente la riporta mai alla verità e alla ragione: la follia, nei suoi vani ragionamenti, non è vanità; il vuoto che la riempie è un male molto aldilà della mia scienza, come dice il medico a proposito di Lady Macbeth; è già la pienezza della morte: una follia che non ha bisogno di medico” (Michel Foucault).
La pazzia di Amleto è vera o falsa? Amleto è folle o si finge folle? In ogni caso il principe, per mezzo della follia, si ritaglia uno spazio di libertà per arrivare attraverso la menzogna a scoprire la verità. La sua è una follia ambigua, simulata per trarne un vantaggio quando è solo o con gli amici è lucido e consapevole, è capace di profonde riflessioni; quando finge di essere folle assume il ruolo del vendicatore. In questo vortice di ragione e pazzia, Amleto è costretto a distinguere che cosa è reale e che cosa è apparenza, anche se le sue barriere psicologiche cominciano a vacillare, tanto da apparire gioioso e triste, comico e violento, un uomo dagli alti ideali che ama e odia la vita, una persona sensibile ma con una debole volontà. Dotato di una coscienza iperattiva, egli cade facilmente nella recriminazione e nell’autoflagellazione, soppesa e valuta ogni suo pensiero, non giustifica nessuna azione, per cui il suo percorso verso la verità arriverà a trovare una soluzione solo alla fine della storia. Sulla base di questi elementi si può avanzare l’ipotesi che Amleto soffra di una voluptas dolendi non patologica, ma derivante dalla sua condizione di figlio chiamato ad assolvere un compito che non sente come un dovere, di persona costretta a esplorare le radici più profonde della fragilità umana, a saldare il conto con il proprio destino.
Il tema della follia ha fatto nascere diverse teorie psicoanalitiche che possono sembrare persino eccessive, tenuto conto che siamo di fronte a un personaggio nato dalla fantasia di un autore. Tuttavia, dopo la scoperta fatta nel 1896 dallo storico inglese Brandes, per il quale questa tragedia sarebbe stata scritta da Shakespeare agli inizi del Seicento, poco dopo la morte del padre, molti autori, compreso Freud, ritengono che dietro il personaggio di Amleto si celi la persona del suo creatore e che l’opera rappresenti una catarsi psicologica destinata a risolvere i problemi esistenziali del drammaturgo. Del resto è incontestabile che la tragedia, alla quale Shakespeare ha lavorato dal 1589 al 1601, rappresenti una svolta fondamentale nella sua vita e nella sua opera, perché appare completamente diversa dai precedenti drammi storici inglesi e ha pochi punti di contatto con i sedici grandi drammi scritti successivamente.
Lo psicanalista André Green sostiene che in Amleto sono presenti tre livelli di follia: il primo livello è al servizio dell’astuzia e si basa sulla dissimulazione, che il principe usa per realizzare il suo progetto di vendetta con un gioco destinato a inquietare i suoi nemici che non sanno più chi egli sia; il secondo livello è la passione malinconica che nasce dal lutto per la ferita inferta ai suoi sentimenti filiali, per il crollo dell’immagine idealizzata della madre degradata dal ruolo di madre a quello di prostituta; l’ultimo livello è la follia amorosa che porta Amleto a scaricare la sua misoginia e il suo odio su Ofelia e sulla madre. Amleto ha scoperto che il candore materno nasconde la sfrenatezza del peccato; ha intuito che Ofelia, immagine della purezza e della sincerità, è stata usata come esca per tendergli una trappola e la colpisce verbalmente con estrema violenza, gettando le premesse perché la fanciulla cada vittima di una vera follia.
Nell’analizzare il personaggio di Amleto, Freud ritiene che il suo inconscio desiderio di uccidere il padre e di giacere con la madre sia stato rimosso, facendo così rallentare la sua azione e facendo risvegliare in lui quelle pulsioni e quei desideri sopiti nel confronto con la realtà. “Il mito di re Edipo che uccide il padre e prende in moglie la madre, rivela il desiderio infantile, contro cui interviene più tardi la ripulsa della barriera conto l’incesto. La creazione poetica dell’Amleto di Shakespeare nasce sul medesimo terreno del complesso incestuoso, questa volta meglio mascherato…Nell’Edipo l’infantile fantasia di desiderio, su cui l’opera si accentra, viene evidenziata e portata a compimento come nel sogno; nell’Amleto resta rimossa e la sua presenza c’è rivelata unicamente, come avviene in una nevrosi, dagli effetti inibitori che ne sono la conseguenza. L’effetto prodotto nell’Amleto non esclude il fatto che si possa ignorare del tutto la personalità dell’eroe del dramma, che è costruito sulla sua riluttanza a compiere il gesto di vendetta assegnatogli; l’opera non ci dice il motivo di questa esitazione, né i più disparati tentativi di interpretazione hanno potuto indicarcelo” (Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni).
Secondo Freud, Amleto è un malato d’isteria e questo spiega sia la sua esitazione a uccidere lo zio per vendicare il padre, sia l’indifferenza con cui manda a morire due cortigiani e uccide Laerte: “La sua coscienza è il suo inconscio sentimento di colpa. E non sono forse isterici la sua freddezza sessuale quando parla con Ofelia, la sua reiezione dell’istinto di generare figli, e infine il suo transfert dell’azione da suo padre a Ofelia? E forse che alla fine non riesce, esattamente allo stesso singolare modo con cui lo fanno i miei isterici, ad attirare su di sé la punizione e a subire lo stesso destino del padre, quello di essere avvelenato dallo stesso rivale?” (Lettera a Wilhelm Fliess del 15 ottobre 1897).
Jung sposta l’attenzione dalla pulsione sessuale di Amleto verso la madre alla figura del Padre, sostenendo che l’emersione simbolica della figura paterna nei sogni diventa il veicolo di una normativa sociale (“Nei sogni, è da una figura di padre che provengono decisive persuasioni, proibizioni, consigli”). Jung ritiene che il nostro inconscio si serva di immagini (gli archetipi) che illustrano tutta una serie di tematiche psicologicamente connesse tra di loro. Nel caso di Amleto l’apparizione del fantasma paterno diviene un’apparizione dell’archetipo, una proiezione psichica che attraverso le immagini trova la sua voce, per cui questa irruzione del sovrannaturale nel mondo reale nasce dalle profondità inconsce dell’individuo.
Considerazioni finali su Amleto
Aldilà di tante analisi e valutazioni, possiamo affermare che nessun’altra opera teatrale contiene una così vasta gamma di sentimenti e di azioni, nessuna offre un’immagine così ricca e complessa dell’operare umano, nessuna sa meglio analizzare gli aspetti più segreti dell’anima, perché in questa tragedia sono rappresentate le vicende individuali e dello Stato, le amicizie e gli affetti, gli odi e le uccisioni, i tradimenti e le congiure, le pene d’amore e le perversioni sessuali, la razionalità e la follia dell’uomo. Incapace di dare delle risposte e delle certezze, Amleto rimane solo sul palcoscenico e affida a Orazio il compito di raccontare la sua vera storia, perché tutto “il resto è silenzio”. Perdonare Amleto è come perdonare noi stessi consapevoli che egli ha saputo colmare l’abisso tra il recitaredi esserequalcuno e l’esserequalcuno.
Shakespeare ha teatralizzato i valori della libertà e della responsabilità, ha introdotto l’idea che la volontà umana può essere libera senza essere inquinata dal peccato, perché l’individuo possiede il libero arbitrio senza il quale nessun uomo avrebbe la possibilità di scegliere il proprio destino. Amleto, a differenza di Edipo e di Oreste, non agisce sotto l’imposizione del Fato, ma è il principale artefice di se stesso, non si lascia imprigionare dalle circostanze nemmeno quando le scelte gli vengono imposte dall’alto. La sua è la storia di un giovane che prende coscienza di una malattia spirituale ancora presente in qualsiasi società, perché il “marcio” di Elsinore colpisce non solo la sensibilità del protagonista, ma la nostra attuale sensibilità. In questa sua tragedia Shakespeare ci mostra un eroe che il mondo crocifigge alla croce del tempo, condannandolo a vivere in una società dove essere, rispetto al non essere, richiede uno sforzo tremendo.
Nello stesso tempo l’autore propone una nuova ricchezza di pensieri e di emozioni, un nuovo modo di rappresentare il dolore, chiamando Amleto a decidere tra stoicismo e attivismo, tra la scelta di morire e l’impegno di vivere, tra l’attrazione per l’ignoto e il pensiero che la morte non costituisce la fine di un’esistenza travagliata, ma l’inizio di un nuovo tormento. Nel suo celebre monologo è assente ogni segno di follia, perché esso contiene una profonda saggezza rappresentata da parole che sono la discesa nel più profondo mistero dell’umanità, la più drammatica riflessione sulla vita.
Per leggere la tragedia
William Shakespeare, Amleto, traduzione di Eugenio Montale, Vallecchi, Firenze, 1949, Mondadori, 1977
William Shakespeare, Amleto, traduzione di Cesare Garboli, Einaudi, 2009
Bibliografia essenziale
Giorgio Melchiori, Shakespeare, Laterza, 1994
Isabella Imperiali (a cura di), Shakespeare al cinema, Bulzoni, 2000
Harold Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, Rizzoli, 2001
Andrew C. Bradley, La tragedia di Shakespeare. Storia, personaggi, analisi, Zizzoli, 2002
Aldo Carotenuto, L’ombra del dubbio. Amleto nostro contemporaneo, Bompiani, 2005
Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, Mondadori, 2010
Film consigliati
Amleto, regia e interpretazione di Laurence Olivier, GB, 1948
Amleto, regia e interpretazione di Carmelo Bene, Italia, 1973
Hamlet, regia e interpretazione di Kenneth Branagh, GB-USA, 1996
LA TRAMA
Nel XVI secolo, nel castello di Elsinore in Danimarca, due sentinelle avvertono Orazio che, nelle ultime notti, è apparso loro a mezzanotte un fantasma. Orazio vede a sua volta lo spettro e rimane colpito dalla somiglianza con il defunto Re Amleto, per cui decide di avvertire il principe Amleto. Intanto è salito al trono Claudio, fratello del re e zio di Amleto, che si è immediatamente sposato con Gertrude, la regina rimasta vedova. Un matrimonio che Amleto non ha accettato, per cui è triste e indignato per la scelta della madre. Dopo avere appreso della comparsa dello spettro, Amleto raggiunge Orazio sugli spalti del castello e il fantasma fa intendere di voler parlare solo con Amleto e gli annuncia la terribile verità: a parlare è lo spirito di Re Amleto, tornato sulla Terra per chiedere al figlio di vendicarlo. La sua morte non è stata casuale: Claudio, approfittando del sonno del re, ha versato nel suo orecchio un veleno mortale, facendo credere a tutti che la morte del re sia stata provocata dal morso di un serpente. In questo modo Claudio si è impossessato del trono e della moglie del defunto sovrano, con la quale già intratteneva una relazione adultera. Lo spettro chiede ora ad Amleto di punire l’assassino. Finito il colloquio con il fantasma, il giovane ordina di mantenere il segreto sulle apparizioni. Preoccupato per la tristezza del nipote, il nuovo sovrano cerca di scoprirne le cause, servendosi di Ofelia, la figlia di Polonio che sta accuratamente evitando Amleto perché diffida dalle sue dichiarazioni d’amore. Mentre il re, la regina e Polonio sono nascosti in un angolo, Ofelia incontra Amleto che, nel frattempo, tra sé e sé sta recitando il monologo “Essere o non essere”. Turbato dalla scoperta dell’assassinio del padre, Amleto le nega il suo amore e le consiglia di entrare in convento. Amleto è particolarmente entusiasta per l’arrivo di una compagnia di attori: il giovane decide di modificare la sceneggiatura del loro spettacolo, aggiungendo delle parti per mettere in scena l’assassinio del padre per osservare le reazioni del Re Claudio e poterlo così smascherare davanti a tutti. Purtroppo il piano di Amleto con la rappresentazione teatrale dell’omicidio del padre va a buon fine: Claudio esce indignato dalla sala e la regina Gertrude decide di avere un colloquio con il figlio per comprendere le ragioni della sua condotta, ma è duramente rimproverata dal figlio. Polonio, che si è nascosto nella camera della regina per riferire tutto al re, è scambiato per Claudio e viene ucciso da Amleto. Sempre più convinto che Amleto sia un pericolo per la corona, il re decide di spedirlo in Gran Bretagna con l’ordine che egli sia ucciso non appena arrivato in terra inglese. Intanto Laerte, fratello di Ofelia, avuta la notizia della morte del padre Polonio, ritorna in Danimarca per vendicarsi. Il re gli propone di sfidare a duello Amleto (che intanto è sfuggito alla morte ed è ritornato a Elsinore), intingendo nel veleno la punta della sua spada e avvelenando la coppa del vincitore in caso Amleto ottenga comunque la vittoria. Ofelia, resa folle dal dolore causatogli dal rifiuto di Amleto e dalla morte del padre, si uccide gettandosi in un fiume. Il duello sarà all’ultimo sangue: Amleto vince il primo assalto e la regina, brindando alla sua salute, beve dalla coppa avvelenata. Intanto i duellanti, nella confusione che segue, si scambiano più volte i fioretti e vengono entrambi colpiti dalla punta imbevuta nel veleno. Morta la regina, Laerte decide di rivelare tutta la verità ad Amleto che, preso dall’ira, si getta sul re e lo trafigge con la spada incriminata, costringendolo poi a bere dalla coppa che ha ucciso la madre. Prossimi alla morte, i duellanti si riconciliano e Orazio è incaricato da Amleto di raccontare la sua vicenda.
–Articolo di Alberto Pellegrino-Fonte-Lettere dalla Facoltà – Bollettino dalla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche
Antifasciste e antifascisti a cura di Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura-
-Viella Libreria Editrice- Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri –
Sinossi del libro Antifasciste e antifascisti – Collana: Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri -Da alcuni decenni l’antifascismo pare aver perso la sua rilevanza nel dibattito civile e storiografico. Anche il Centenario della marcia su Roma ha lasciato sullo sfondo le storie di coloro che si opposero al fascismo sin dagli anni dello squadrismo.
Questo libro invece le recupera e le racconta, mettendo al centro il vissuto quotidiano, i percorsi coraggiosi e dolorosi, in nome della libertà, dentro e fuori l’Italia negli anni complicati della guerra civile europea. Si riflette anche sugli antifascismi come ideologie politiche, con saggi che prendono in esame i discorsi e le pratiche delle diverse culture antifasciste e talvolta il loro difficile dialogo. Infine, si aprono alcuni squarci su cosa accade all’antifascismo dopo il 1945, sulle dispute della memoria e sul suo utilizzo nelle battaglie politiche dei primi anni della Repubblica e della Guerra Fredda.
Prefazione di Giovanni Scirocco
Gianluca Fulvetti, Andrea Ventura, Introduzione
I. Storiografia
Andrea Ventura, L’antifascismo e la società italiana. Una messa a fuoco
Renato Camurri, Crossing Borders: esilio e antifascismo
II. Antifascismi
Marco Manfredi, Violenza politica, forme di lotta armata e cultura popolare fra Prima guerra mondiale e avvento del fascismo
Claudia Baldoli, La “religione antifascista” dell’Aventino: i socialisti unitari tra 1924 e 1925
Patrick Karlsen, Gli antifascismi alla frontiera alto-adriatica dalla transizione post-imperiale alla Seconda guerra mondiale
Emanuela Miniati, La Liguria antifascista in Francia tra internazionalismo e identità nazionale
Daniel Goldstein, Leo Valiani e Mario Montagnana in esilio a Città del Messico (1941-1945)
III. Antifasciste e antifascisti
Enrico Miletto, Maria Bernetič, una comunista di frontiera
Daria De Donno, Stili di antifascismo. Sulle tracce di Giorgia Boscarol
Andrea Montanari, Fortunato Nevicati, un antifascista europeo
Gianluca Fulvetti, Il dolore e la sconfitta. Antifascisti lucchesi nel Casellario politico centrale
Stefano Latino, Antifascisti e antifasciste nelle fabbriche: l’organizzazione clandestina del Partito comunista a Sesto San Giovanni (1925-1939)
Roberta Mira, Antifasciste e sovversive. Profili di donne bolognesi nei casellari di polizia del regime
Massimiliano Bacchiet, I primi comunisti. Per un dizionario biografico della provincia di Pisa (1921-1940)
Giorgio Mangini, L’anagrafe dei sovversivi bergamaschi
Roberta Mori, Sandro Delmastro, appunti per una biografia
Graziella Gaballo, L’antifascismo di Ada Della Torre
IV. Dopo il 1945
Giovanni Brunetti, L’ambiguità costituente. L’antifascismo nel Casellario politico centrale del secondo dopoguerra (1945-1956)
Francesca Picci, «Trattandosi di una donna». Le partigiane vicentine nelle carte del Ricompart
Mirco Carrattieri, Un monumento all’antifascismo. Statue e lapidi per Giacomo Matteotti
Nicola Lamri, Antifascisti e antifasciste italiane di fronte alla guerra di decolonizzazione algerina
Costanza Calabretta, L’antifascismo nelle relazioni fra Italia e Repubblica democratica tedesca fra anni Cinquanta e Sessanta
Luca Zanotta, Franco Antonicelli e l’antifascismo tra generazioni
Indice dei nomi
Autrici e autori
In copertina: I funerali di Carlo e Nello Rosselli (Parigi, 19 giugno 1937). Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti”, Archivio Fotografico Originario.
Jack Hirschman nasce il 13 dicembre 1933 a New York nel Bronx, figlio di Stephen Dannemark Hirschman e Nellie Keller. Mentre frequentava ancora il liceo, comincia a scrivere come reporter per il Bronx Times e il Bronx Press-Review. Tra il 1951 e il 1959 completa gli studi al City College di New York e alla Indian University (con una tesi su Joyce).
Lamento d’una mamma napoletana (Alfondo Gatto tradotto da J.H.)
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Mio, il figlio, non era della guerra,
dei padroni che lasciano ch’io pianga
dietro la porta come un cane, mio,
delle mie mani, del mio petto giallo
ove le mamme seccano sul cuore.
Mio, e del mare che ci lava i piedi
tutta la vita, del vestito nero
che m’acceca di polvere se grido.
Mio, il figlio, non era della guerra,
non era della morte e la pietà
che cerco è di svegliare col suo nome
tutta la notte, di fermare i treni
perché non parta, lui, ch’è già partito
e che non tornerà.
Mio, il figlio, e la sua morte mia, la guerra.
I cavalli mi corrano sul petto,
i treni i fiumi ch’egli vide: il fuoco
m’arda i capelli ove la notte sola
alle mie spalle s’accompagna.
Il vento
resti del mondo allucinato, il sale
degli abissi che abbagliano, il lenzuolo
del nostro lutto…
Traduzione: Jack Hirschman
Le tombe le case (Rocco Scotellaro tradotto da J.H.)
Le tombe le case…
cuore cuore
oltre non ti fermare.
Il fumo dei camini
nell’aria bagnata
il passo dei nemici
bussano alla tua porta, proprio.
Cuore cuore
oltre non ti fermare.
Le tombe le case.
novembre è venuto,
la campana: è mezzogiorno
è lo scherzo del tempo.
I morti non possono vedere
la mamma è cieca presso il focolare.
Cuore cuore
oltre non ti fermare.
Le tombe le case,
dirsi addio e rimandare
l’amore ad altra sera.
Come le mosche moribonde ai vetri
scorrono ai cancelli i prigionieri,
è sempre chiuso l’orizzonte.
Quanti non hanno che sperare!
cuore, non ti fermare.
Le tombe le case,
è il dieci di agosto
che abbiamo scasato.
Che fanno dove abitavamo?
Negli alberghi girano le chiavi?
I miseri, i buoni
son dannati ai traslochi?
Le donne ebree gridano sui massi
del tempio rovinato.
Quanti non hanno chi pregare!
cuore, non ti fermare.
Le tombe le case
uomini curvi, donne aggrovigliate
si confessano alle inferriate
della Ricevitoria del lotto.
L’anima mia
è in questo respiro
che mi riempie e mi vuota.
Cosa sarà di me?
Cosa sarà di noi?
Per chi vuol camminare
dalle tombe alle case
dalle case alle tombe
grida nei cantieri
grida ai minatori
cuore, non ti fermare.
La poesia resistente! Napolipoesia, 2010
Traduzione: Jack Hirschman
La felicità
C’è una felicità, una gioia
nell’anima che è stata
sepolta viva in ciascuno di noi
e dimenticata.
Non si tratta di uno scherzo da bar
né di tenero, intimo umorismo
né di amicizia affettuosa
né un grande, brillante gioco di parole.
Sono i superstiti sopravvissuti
a ciò che accadde quando la felicità
fu sepolta viva, quando essa
non guardò più
dagli occhi di oggi, e non si
manifesta neanche quando
uno di noi muore – semplicemente ci allontaniamo
da tutto, soli
con quello che resta di noi,
continuando ad essere esseri umani
senza essere umani,
senza quella felicità.
Traduzione: Raffaella Marzano
L’arcano delle Torri Gemelle
1.
Un lutto tale dal quale
potremmo svegliarci
(essendo stati risvegliati da una tale luce)
per vedere la luce
alla fine:
che noi siamo ora
non più
né meno ma siamo stati più di altri
una terra violenta
nei nostri mercati monetari
nella nostra “legge ed ordine”
nei nostri “Quotidiani” quotidiani
nei nostri letti
una vita violenta
fingendo un’innocenza impenetrabile
e il potere simbolizzato
da quelle gigantesche
Twins.
La loro distruzione:
sogno di Hitler, sognato persino
prima che fossero costruite,
prima che il suo suicidio
cominciasse a combattere al fianco
del fanatismo religioso.
E noi
che avevamo ereditato tanto
della sua violenza ed anti-comunismo,
noi, che infine abbiamo persino
finanziato l’attacco
alla nostra pretesa innocenza
– noi così a nostro agio
con il fascismo (negato, naturalmente)
con la brutalità (rinnegata naturalmente)
con la libertà sentimentalizzata
da un nucleo di vuoto distruttivo,
disperazione,
cinismo in fondo,
figli di un nichilismo
a stelle e strisce (naturalmente negato e rinnegato)
“dalla California
all’isola di New York”
fratelli e sorelle,
i miei
così tristemente colpiti,
così profondamente colpiti.
2.
L’Israeliano dice: “Ora lo sanno”
lui che è stato infestato
dai geni
di una siringa di male indimenticabile
lunga dodici anni.
Probabilmente siamo noi ora a sapere
che cosa significhi essere totalmente detestati
fino all’apocalisse.
Ed è una difesa fascista contro
un attacco fascista che il mondo
sta preparando, perché non c’è altro
che quel nulla
di un pianeta scorpione che si mangia
la coda;
ed è la consapevolezza di questa verità
che raddoppia il lutto
e rende più profonda la paura
della perdita dell’innocenza
che già prima era una bugia.
Questa volta siamo davvero intrappolati
dalla verità e ci addolora
noi che siamo stati così a nostro agio
nella libertà della menzogna.
Questa volta la mobilitazione totale
della consapevolezza della guerra dice:
anche se il pacifismo cresce,
anche se esso impedirà attacchi in risposta,
anche se la non violenza trionfa,
il futuro sarà
come un uomo di colore,
o come l’erotismo,
che pur non più linciato o censurato,
comunque non si sentirà
mai completamente a proprio agio
in questa vita terrena.
Il dominio del nulla
è completo ora.
Dio assassinato da un lato.
Dio suicidato dall’altro.
Il trionfo del fascismo.
Siamo condannati a vivere
le nostre vite non-violente
comprando e vendendo
e pregando la violenza
nostro malgrado
perché non c’è nient’altro,
nulla è cambiato,
è solo più chiaramente rivelato.
3.
Celia,
so che sei corsa verso
non via da,
per aiutare, salvare.
E che hai visto il
secondo aereo svanire
nel muro mentre correvi
in quella direzione.
E che hai visto, per
la prima volta nella tua vita,
esseri umani saltare giù
da finestre altissime.
E le Twins collassare
in un’unica montagna ripiegata
di una morte moltiplicata per mille
e macerie e polvere.
Nulla di ciò che ho visto
su uno schermo televisivo
migliaia di miglia lontano
in un altro continente
può avvicinarsi all’orrore
di ciò che tu hai visto mentre
correvi verso la scena
fin quando non hai più potuto,
nuvole di polvere si espandevano
nelle strade e
quelli che correvano
via dal nucleo per salvarsi
ti dicevano che non potevi
andare oltre, non potevi aiutare,
non potevi salvare, o mia
coraggiosa, coraggiosa figlia.
So che il tuo dolore non viene
da lontano. In vano, in vano
sono morti! gridi e
e la tua disperazione allora forse
ci risparmia, forse addirittura ci salva
dallo shock che
ha trasformato il futuro in un
arcaico scavo archeologico.
4.
La notte che è arrivata, la notte tecnologica, lunga tutto il giorno,
e con essa il lutto,
il digiuno dei veloci,
il gusto amaro
del proprio deserto.
E che non è solo nostro
perché tutti parliamo con bocche di sabbia,
e le dune crescono, a onde con le parole
di un’oscurità abbagliante nel sole
che è infranto in ciascuno di noi.
Per tutta la notte, aeroplani ed elicotteri hanno volato
sui portici terra bruciata di Bologna,
dove mi ritrovo
in lutto.
È diventato lo Stato
dell’Essere.
Una bandiera nera
a mezz’asta.
Sospesa a mezz’aria.
(2001)
Traduzione: Raffaella Marzano
Sentiero
Vai al tuo cuore infranto. Se pensi di non averne uno, procuratelo. Per procurartelo, sii sincero. Impara la sincerità di intenti lasciando entrare la vita, perché non puoi, davvero, fare altrimenti. Anche mentre cerchi di scappare, lascia che ti prenda e ti laceri come una lettera spedita come una sentenza all’interno che hai aspettato per tutta la vita anche se non hai commesso nulla. Lascia che ti spedisca. Lascia che ti infranga, cuore. L’avere il cuore infranto è l’inizio di ogni vera accoglienza. L’orecchio dell’umiltà ascolta oltre i cancelli. Vedi i cancelli che si aprono. Senti le tue mani sui tuoi fianchi, la tua bocca che si apre come un utero dando alla vita la tua voce per la prima volta. Vai cantando volteggiando nella gloria di essere estaticamente semplice. Scrivi la poesia.
Little Kaddish
per mio figlio, David
Sono morto quando sei morto tu, mio caro, piccolo ravanello del grande mondo rosso piccolo kaddish del mio respiro
il mio digiuno è finito il mio attimo è compiuto
Io sono il verme sul fondo del mezcal, io sono il vento parassita che corre inseguendo le tue ceneri
per trattenere il calore in memoria del tuo fuoco, per nutrire il cuore della luce perchè il mio non c’è più.
In memoria di Ernest Hemingway
Sfilze di lampi nella mezzanotte del cielo del Dakota.
Dormivamo nel retro della macchina, i piedi che sporgevano dalla zanzariera.
Faceva caldo. Il Wy-
oming di mattina era rosso- indiano con montagne dai nasi aguzzi di
Shoshone, strapiombi di sedimenti stratificati che raccontano
di quando le montagne lottarono una contro l’altra e il Big Horn si restringeva con l’argilla e il limo fino
ai marroni e verdi montana. Cervi che saltavano sulle colline, orsi delle regioni selvatiche, un grande albero che spuntava dalla testa di un alce.
Ci dirigevamo verso sud nell’Idaho, evitando le città, prendendo strade secondarie, riempiendo il retro della macchina di ramoscelli e fiori.
Non accendemmo mai la radio. Non leggemmo mai un giornale.
Arrivammo in California. Il giornale diceva, Papà, che eri morto da tre giorni.
Le città e i paesi di nuovo in fila uno dopo l’altro. Il sole diventò accecante. Lei si mise gli occhiali scuri.
Guidai lentamente lungo le strade fino alla fine.
Saidichestoparlando
Quanti figli e figlie di tutte le centinaia di uomini e donne del Congresso stanno combattendo in Irak? Due. Bene, si tratta di un esercito volontario e gli uomini e le donne del Congresso, malgrado i loro impegni e i loro investimenti privati, sono per la maggior parte milionari. Saidichestoparlando I loro figli non hanno bisogno di un lavaggio militare perché sono stati sporcati da calunnie razziste, crivellati dalla paura della galera, perseguitati dalla povertà, come il 20 per cento degli Afro-Americani nelle forze armate (gli Afro-Americani rappresentano solo il 12 per cento della popolazione), o come la forte percentuale di Latini e bianchi poveri, che prendono ordini, lavorando in un paese la cui metà della popolazione sono bambini di 15 anni o più piccoli. Saidichestoparlando E io dovrei sentirmi patriottico ed abbracciare questa spinta verso la minaccia planetaria dalla parte di quella giunta militare di teste-morte che quotidianamente fanno galleggiare le sue infamie morali sui canali della nostra disperazione? La paura nucleare ha riportato indietro Dio dalla morte, e le Guerre Sante si guardano l’un l’altra nelle loro bugie, mentre i bambini qui e i bambini là sono devastati fino alle radici dei loro ancora possibili sorrisi innocenti. Nelle loro piccole teste, nelle loro entrate e letti, si augurano di potere, si augurano che potranno seppellirti, tu nullità assassino, per tutti i bambini che hai ferito, e getteranno sporcizia felice sul tuo cadavere, Mr. President. Saidichestoparlando!
Interludio umano
Lei stava appoggiata
al muro vicino
all’Hotel Tevere con in mano
un biccchiere di plastica
quando iniziò a piovere.
Ho cercato una moneta, le sono
andato vicino
e l’ho fatta cadere nel bicchiere.
Cadde sul fondo
di un’aranciata.
Sono arrossito, ho guardato
i suoi occhi devastati e la pelle
e i capelli diventati prematuramente
grigi, e ho detto che
mi dispiaceva, che avevo pensato
avesse bisogno di soldi.
“Ne ho bisogno”, rispose
e sorrise “Stavo
solo bevendo
qualcosa”.
E restammo così
a ridere assieme
mentre guardavamo le gocce di pioggia cadere
sul lago d’arancia
sopra la moneta che affondava.
Traduzione: Bruno Gullì
Jack Hirschman nasce il 13 dicembre 1933 a New York nel Bronx, figlio di Stephen Dannemark Hirschman e Nellie Keller. Mentre frequentava ancora il liceo, comincia a scrivere come reporter per il Bronx Times e il Bronx Press-Review. Tra il 1951 e il 1959 completa gli studi al City College di New York e alla Indian University (con una tesi su Joyce).
Nel 1953 Hirschman invia alcuni suoi racconti a Ernest Hemingway, che vive a Finca Vija a Cuba. Hemingway gli risponde incoraggiandolo a continuare a scrivere e gli suggerisce di leggere Stephen Crane, Guy de Maupassant, Ambrose Bierce, Gustave Flaubert e il primo Thomas Mann. Anni dopo, in seguito alla morte di Hemingway, la Associated Press diffonde la lettera che viene pubblicata sui giornali di tutto il paese compreso il New York Times, come “Lettera a un giovane scrittore”.
Nel 1954 sposa Ruth Epstein, una compagna di classe del City College, dalla quale ha due figli (David nel 1956 e Celia nel 1958) e dalla quale si separa nel 1972 e divorzia nel 1974.
Professore di inglese alla UCLA di Los Angeles dal 1961 al 1966, ha fra i suoi studenti Gary Gach, Steven Kesslerm, Max Schwartz e Jim Morrison. Fra il 1964 e il 1965 grazie ad una borsa di studio della UCLA fa il suo primo viaggio in Europa visitando Parigi, la Grecia e l’Inghilterra dove Asa Benveniste, della Trigram Press, pubblica Yod. È l’inizio della tendenza cabalistica nel lavoro di Hirschman che riapparirà nelle decadi successive.
Mentre Hirschman è in Europa scoppia la guerra del Vietnam. Tornato negli Stati Uniti riprende l’insegnamento alla UCLA e dà vita ad una serie di proteste e manifestazioni contro la guerra. Fra le altre cose comincia ad attribuire la “A” (corrispondente al voto più alto) a tutti gli studenti passibili di arruolamento per aiutarli a sfuggire alla guerra. Per questa attività definita “contro lo Stato” viene licenziato dalla UCLA nel 1966.
Rimane in California stabilendosi a Venice dal 1967 al 1970 dedicando tutto il suo tempo a scrivere, tradurre e dipingere. Inizia una collaborazione con David Meltzer che pubblica nella rivista Tree diverse sue traduzioni cabalistiche.
Nel 1972 traduce e pubblica Un Arc-en-ciel pour l’Occident chrétien di René Depestre, la cui opera lo conduce definitivamente al marxismo.
Fra il 1972 e il 1980 vive a North Beach, San Francisco, e continua a scrivere e tradurre poesia contemporanea, imparando il russo e – dopo un anno di traduzioni quotidiane – prendendo a scrivere poesie in quella lingua.
Dal 1980 si unisce al Communist Labor Party e lavora come attivista culturale con un gruppo di poeti fra cui Luis Rodriguez, Michael Warr, Kimiko Hahn, Sarah Menefee, Bruno Gullì, fino al volontario scioglimento del gruppo nel 1992.
Dopo un periodo di transizione, nel 1994, diventa membro della League of Revolutionaries for a New America e contribuisce al suo giornale People’s Tribune.
Durante gli anni Ottanta, dirige Compages, una rivista internazionale di traduzione di poesia rivoluzionaria. Poeti di tutto il mondo vengono tradotti in americano da un gruppo di poeti e traduttori, e poeti americani vengono a loro volta tradotti in altre lingue. La rivista viene spedita in 50 paesi a gruppi rivoluzionari e ad organizzazioni culturali. In quel periodo Hirschman pubblica l’unica antologia di poesia albanese degli anni comunisti che sia mai stata pubblicata negli Stati Uniti, Jabishak.
È stato in contatto fin dalla metà degli anni Cinquanta con i poeti della beat-generation (alla quale è stato a volte associato) dai quali però si differenzia subito proprio per le sue posizioni politiche. Pur amico di Allen Ginsberg, Gregory Corso, Bob Kaufman e di tutti gli altri poeti beat, dissente da quella che ritiene una rivoluzione “borghese”, fatta di droghe e misticismo orientale, mentre si sente più vicino politicamente e culturalmente ai movimenti radicali afroamericani (Black Panther Party e tra i poeti Amiri Baraka).
Nel 1972 Hirschman comincia a scrivere i poemi lunghi che chiama Arcanes. Negli ultimi 42 anni ne ha scritti quasi 250 rimasti inediti per molti anni. Alcuni sono stati pubblicati dalla rivista Left Curve edita e diretta da Csaba Polony.
Hirschman descrive gli Arcanes come la trasformazione dialettica materialistica di ciò che è spesso alchemico o mistico. Essi si sforzano di portare avanti il significato spirituale del pensiero e del sentimento dialettico in un senso personale e politico.
Gli Arcanes, anche quando toccano temi personali (come nell’Arcano per suo figlio David, morto a 25 anni per un linfoma nel 1982), hanno sempre relazioni con le trasformazioni politiche e sociali. Negli ultimi anni il suo impegno ci ha dato opere di struttura e coscienza politica e poetica che sono baluardo per l’anima contro l’ondata di caos e fascismo che sta divorando lo spirito umano.
Ha pubblicato più di 100 libri e opuscoli di poesia, e saggi e traduzioni da nove lingue. Fra i suoi libri di poesia più importanti: A Correspondence of Americans (Bloomington, Indiana University, 1960), Black Alephs (Trigram Books, New York/London, 1969), Lyripol (City Lights Books, San Francisco, 1976), The Bottom Line (Curbstone Press, Willimantic, 1988), Endless Threshold (Curbstone Press, Willimantic, 1992), Front Lines (City Lights Books, San Francisco, 2002), I was Born Murdered (Sore Dove Press, San Francisco, 2004).
Nella sua intensa opera di traduttore ha lavorato su autori come Mayakovsky, Roque Dalton, Pier Paolo Pasolini, Rocco Scotellaro, Paul Laraque, Paul Celan, Martin Heidegger, Pablo Neruda, René Char, Stéphane Mallarmé, Alexei Kruchenykh, Ismaël Aït Djafer, Alberto Masala, Ferruccio Brugnaro.
È stato anche curatore e traduttore nel 1965 della prima importante antologia di Antonin Artaud pubblicata negli Stati Uniti da City Lights Books, opera che ha influenzato profondamente molti intellettuali, scrittori e gruppi teatrali (su tutti il Living Theatre). Ha rivelato una sensibilità particolare traducendo e pubblicando diverse poetesse, tra cui Sarah Kirsch (Germania), Natasha Belyaeva (Russia), Anna Lombardo, Lucia Lucchesino e Teodora Mastrototaro (Italia), Katerina Gogou (Grecia), Luisa Pasamanik (Argentina), Ambar Past (Mexico).
Il rapporto di Hirschman con l’Italia inizia alla fine degli anni Cinquanta.
La poesia che dà titolo al suo primo libro, A Correspondence of Americans, fu pubblicata nella rivista Botteghe Oscure a Roma nel 1958, due anni prima della sua pubblicazione negli Stati Uniti. Nel 1980 è in Sicilia per la pubblicazione bilingue della sua traduzione di Yossyph Shyryn del poeta siciliano Santo Calì.
Nel 1990, una versione italiana del suo libro di poesie militanti, The Bottom Line, curata da Bruno Gullì, è pubblicata dall’Editoriale Mongolfiera di Bologna con il titolo Quello Che Conta.
Nel 1992 comincia un tour in Italia, dando origine ad un sodalizio con la Multimedia Edizioni e la Casa della Poesia di Salerno, con il libro Soglia Infinita, tradotto ancora da Bruno Gullì. Questa collaborazione continua nel 2000 con la pubblicazione della prima raccolta di Arcanes, tradotti da Raffaella Marzano (che ha anche revisionato e dato corpo unico ad altre traduzioni di Anna Lombardo e Mariella Setzu) che ha poi continuato a proporre le opere di Jack Hirschman in Italia.
Hirschman è stato tra i primi poeti di livello internazionale ad aderire al progetto di Casa della poesia, di cui è uno dei più assidui collaboratori e frequentatori, partecipando agli Incontri internazionali di poesia che si sono svolti a Salerno, Napoli, Baronissi, Amalfi, Pistoia, Trieste, Reggio Calabria, Sarajevo.
È spesso accompagnato da sua moglie, la poetessa e pittrice anglosvedese Agneta Falk, sposata nel 1999.
Nel 2002 la Before Columbus Foundation attribuisce a Jack Hirschman l’American Book Award for Lifetime Achievement. La motivazione del premio, scritta dal poeta e scrittore David Meltzer, recita tra l’altro: “Jack Hirschman è una figura incredibilmente presente e tuttavia nascosta nella politica culturale e nella vita della poesia americana. Straordinariamente prolifico – ai più alti livelli dell’impegno artistico e del coinvolgimento attivo – il suo lavoro è generoso, aperto, e profondamente critico. La sua critica non è mai banale o inefficace ma ha immensa profondità. La sua opera maggiore – Arcani– si inserisce nella scia dell’epica moderna dei Cantos di Pound, del Paterson di William Carlos Williams, del The Maximum Poems di Charles Olson e delle Letters To An Imaginary Friend di Thomas McGrath. Instancabile lavoratore per la giustizia sociale e la libertà artistica. Noi siamo onorati nel dare riconoscimento alla sua opera e alla sua vita, ed egli onora e sfida la nostra opera e le nostre vite.”
Finalmente nel 2006 la città di San Francisco gli attribuisce il riconoscimento di “Poeta Laureato”, la Multimedia Edizioni pubblica in inglese, in un unico volume di 1000 pagine, l’intero corpus degli Arcani con il titolo The Arcanes e la City Lighs, nel 2008 All that’s left.
Sempre nel 2006 riceve a Reggio Calabria il Premio “Città dello Stretto”.
Il volume The Arcanes viene salutato dalla critica e dagli appassionati come un vero e proprio evento editoriale e culturale.
Nel 2007 riceve a Salerno il Premio Alfonso Gatto (sezione internazionale) ed è ad Haiti per il centenario di Jacques Roumain, invitato dal fratello di Paul Laraque, Franck Laraque. Inoltre, lo stesso anno, è l’organizzatore degli Incontri internazionali di poesia di San Francisco.
Nel 2008, riceve in Italia la cittadinanza onoraria di Baronissi.
Il 2009 è un anno ricco di avvenimenti: al termine del suo incarico come poeta laureato, l’Associazione Amici del Biblioteca di San Francisco gli affidano l’organizzazione dell’International Poetry Festival of San Francisco e delle letture settimanali di giovani poeti negli 11 distretti della città dal titolo Poets 11. Inoltre lo stesso anno, insieme con Sarah Menefee, Cathleen Willams e Bobby Coleman fonda The Revolutionary Poets Brigade, un’organizzazione di poeti politicamente e socialmente impegnati. Questa Brigada oggi ha nuclei di aggregazione anche in altre città quali Los Angeles, Albuquerque, Chicago, Burlington e in Europa a Roma e Parigi.
Negli Stati Uniti pubblica, nel 2010, in collaborazione con Casa della poesia e la Fondazione Alfonso Gatto, il volume Magma che raccoglie le sue traduzioni di poesie di Alfonso Gatto. Nello stesso anno partecipa, insieme ad altri poeti, ad una serie di letture a Basra, come protagonisti della prima apertura internazionale dell’Iraq dall’invasione americana.
Nel 2011 fonda insieme con 35 poeti e con gli organizzatori di vari festival il World Poetry Movement a Medellin, in Colombia, dove era già stato con Agneta Falk nel 2009.
L’anno successivo è in tour in Cina per alcuni reading con Agneta Falk e altri poeti cinesi.
Con la Multimedia Edizioni di Salerno pubblica nel 2014 28 Arcani, sempre tradotto da Raffaella Marzano. Nel 2016 viene pubblicato sempore dalla Multimedia Edizioni il secondo grande volume in lingua originale che raccoglie i suoi Arcanes scritti dal 2007 al 2016. Infine nel 2017 in Italia, sempre la con la traduzione di Raffaella Marzano, viene pubblicato il “libro-miracolo” L’Arcano del Vietnam.
Nel 2018 sono stati ristampati (con la revisione di Raffaella Marzano, in una nuova edizione) i primi due libri di Hirschman pubblicati in Italia “Quello che conta” e “Soglia infinita”.
Nel 2019 viene pubblicato (sempre in lingua originale) il terzo volume “The Arcanes”.
Per fine 2021 è prevista la pubblicazione del quarto volume “The Arcanes”.
-Articolo di Daniela Musini per Vanilla Magazine Club-
ANTONIO LIGABUE -“El matt”,lo chiamavano quelli della Bassa, quando lo vedevano vagare tra le nebbie del Po, parlare da solo, fare smorfie terrifiche ed emettere suoni animaleschi.
«Dam un bès» (dammi un bacio) chiedeva ossessivamente, un grido lacerante come una tela tagliata.
Ma a lui, vagabondo dall’aspetto sgraziato e grottesco, quel bacio non lo dava mai nessuno, tanto meno le donne che, vedendolo, tiravano via velocemente o si scansavano spaventate e disgustate.
E allora lui se l’inventava una compagna, indossando abiti femminili, in una struggente e patetica farsa.
E agli sghignazzi della gente del posto, lì a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, rispondeva con un sorriso sgangherato, ma più spesso con scatti di furore.
“El matt”, ma anche “El tedesch”, perché era nato a Zurigo il 18 Dicembre 1899 da Elisabetta Costa, ragazza madre del bellunese emigrata in Svizzera (lui non saprà mai chi fosse suo padre); quando aveva due anni sua madre si sposò con Bonfiglio Laccabue che lo adottò dandogli il suo cognome.
Era un uomo violento e tirannico, Bonfiglio, a dispetto del nome, e Antonio lo detestava e, preda di un rancore livoroso e mai sopito, lo accuserà fino alla morte di aver ucciso la madre e i 3 fratellini che da quell’unione erano nati, avvelenandoli (e invero morirono tutti e quattro per una esiziale intossicazione alimentare).
E fu per questo che si firmerà sempre Ligabue e non Laccabue: per odio.
Quella tragedia ebbe conseguenze devastanti per il suo equilibrio psichico ed emotivo già da sempre fragilissimo, e per la sua esistenza: dato in adozione ad una coppia zurighese, iscritto in una scuola per bambini minorati mentali, sottoposto a privazioni e vessazioni, iniziò già a 18 anni quella drammatica teoria di ospedali psichiatrici e ricoveri di fortuna, quella straziante odissea che lo fa approdare a Gualtieri, dove vivrà fino alla morte.
Appena arrivato, solo, senza parlare e capire una parola d’italiano, dal carattere ruvido e e aspro, dai modi selvatici e bruschi, dagli scatti umorali incontrollati e dal famelico bisogno d’affetto, guardato con sospetto dalla comunità locale, cominciò a vivere ai margini della società, un reietto vagabondo che si riparava nelle stalle e che aveva più dimestichezza con gli animali (di cui imitava versi e posture) che con gli esseri umani.
E cominciò a dipingere, “el matt”, dovunque gli capitasse, su fogli e con colori prestati da anime buone: un universo primitivo e onirico, fatto di aquile rapaci e tigri dalle fauci spalancate, di animali in lotta tra di loro e serpenti e “vedove nere” infide e letali.
La violenza repressa del suo animo angosciato, le vertigini e gli abissi della sua mente, la sopraffazione dei più forti, il soccombere dei più deboli: tutto c’era in quei dipinti dai colori lussureggianti, tra quelle foreste, anzi, giungle folte e pregne di simboli nascosti, che farebbero pensare alla pittura naïf del Doganiere Rousseau, se non fosse che nel segno spesso e contorto di Ligabue, in quei colori accesi e aggressivi, c’è un che di inquietante, ancestrale, ferino.
Se ne accorse, con stupore, il pittore Renato Marino Mazzacurati, mica uno qualunque, uno che faceva parte della Scuola Romana e aveva dimestichezza con il Cubismo e l’Espressionismo, e che gli insegnò l’uso dei colori ad olio.
La pittura si fece allora ancora più vivida con i colori che sembravano spremuti direttamente dai tubetti, come nei dipinti dei Fauves (“Belve”, appunto) di primo Novecento che rispondevano ai nomi di Matisse, Van Gogh, Derain, de Vlaminck, ma con un’aura più nevrotica, più feroce e disperata che anticipava i furori espressionistici di Schiele.
E poi quegli autoritratti che dipinse ossessivamente (ben 300) in cui lui ha sempre quell’espressione guardinga e strabuzzata, quel ghigno ostile che gli serra le labbra, e la vedi la sua anima tormentata, percepisci i suoi incubi, i suoi drammi, le violenze subite.
Durante la seconda guerra mondiale “el matt” divenne utile ai suoi compaesani perché conosceva il tedesco e faceva da interprete agli occupanti in cambio di un pasto caldo e di un giaciglio riparato.
Ma poi una bottigliata in testa ad un soldato tedesco lo fa precipitare di nuovo nel gorgo dei ricoveri in manicomi, da cui esce ogni volta sempre più squilibrato, furibondo, disperato. E la pittura si fa ancora più gridata e ringhiosa.
Poi la svolta, improvvisa, inaspettata, nel 1948 quando critici e mercanti d’arte si accorsero finalmente di lui e furono interviste e articoli stupefatti e ammirati.
Divenne anche ricco, proprio lui, “el matt”, “el tedesch”.
E allora realizzò il sogno di una Vita: comprarsi una motocicletta, una Guzzi rossa fiammante, con cui sfrecciare tra le strade di Gualtieri, così glielo faceva vedere ai suoi compaesani, a quelli che l’avevano deriso ed emarginato.
E persino un’auto con tanto di autista in divisa che doveva togliersi il cappello (così s’era impuntato) ogni volta che lui entrava e si sedeva sui sedili posteriori, come facevano i signori.
Perché se non aveva potuto avere l’amore e l’amicizia, almeno il rispetto glielo dovevano tutti ora, perdinci!
La passione per la motocicletta gli fu fatale.
Un brutto incidente lo ammaccò nel fisico e nell’anima cui fece seguito una maligna paresi.
La Vita, ancora una volta, lo aveva sferzato con unghiate crudeli.
In una radiosa giornata di maggio del 1965, chiese al Curato di essere battezzato e cresimato.
Tre giorni dopo, il 27, Antonio Ligabue, uno dei più geniali artisti del Novecento spirò.
Ma la sua leggenda continua.
-Articolo di Daniela Musini per Vanilla Magazine Club-
e il suo soggiorno obbligato dal regime fascista a RIVODUTRI di Rieti
RIVODUTRI (Rieti)-2 luglio 1940 –Il soggiorno obbligato perLINA CAVALIERI, LA DONNA PIU’ BELLA DEL MONDO.
LINA CAVALIERI Il 2 luglio 1940 fu internata, con obbligo di firma tre volte al giorno , insieme alla sorella, a Rivodutri in provincia di Rieti, in quanto suddita francese.A Rivodutri vi restò fino al 27.07.1940 per poi essere trasferita a Rieti. Gabriele D’Annunzio la definì la “massima testimonianza di Venere in terra” e nella dedica di una copia del romanzo “Il Piacere” scrisse: “a Lina Cavalieri, che ha saputo comporre con arte, una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto. Un poeta riconoscente. Firmato Gabriele D’Annunzio.”
Lina Cavalieri risiedette, durante il soggiorno a Rivodutri, in via Micheli Giuseppe 1, nei pressi della Piazza del Municipio.
N° O07I4 P/llo Rieti, 5 luglio 1940 XVIII
Oggetto; Cavalieri Natalia fu Florindo e fu Peconi Teonilla nata a Roma,25/12/1876 – suddita francese.
Al PODESTÀ’ di Rivodutri
AL COMANDO STAZIONE CC.RR. Rivodutri
p.c .ALLA R. PREFETTURA DI – RIETI
ALLA R. PREFETTURA DIV. RAGIONERIA di RIETI
AL COMANDO GRUPPO CC,RR. di RIETI
AL COMANDO COMPAGNIA CC.RR. Rieti
Con foglio di via obbligatorio ho avviato costà, in data odierna, l’individuo in oggetto il quale, con provvedimento I* corr» N°484I2/443
del Ministero dell’interno, viene internato in cotesto Comune.
Il Podestà di Rivodutri è pregato attenersi scrupolosamente
alle seguenti disposizioni Ministeriali;
.
I°) – All’arrivo dell’ internato provvedere a far impiantare il fascicolo personale ed un registro, nel caso vi siano più internati
2°)- Stabilire il perimetro entro il quale l’internato può circolare.
3°) – Imporgli, senza però rilasciargli speciali carte di permanenza, la prescrizione di non allontanarsi da detto perìmetro. Per gìustificati motivi sì pòtra consentire all’internato di recarsi in determinate località dell’abitato. II permesso dì allontanarsi dall’abitato potrà, invece, essere concesso soltanto dietro autorizzazione del Mini¬stero, da richiedersi pel tramite di quest’Ufficio.
4°) – Imporre all’internato un orario con divieto, salvo giustifi¬cati motivi o speciali autorizzazioni, di uscire prima dell’alba e rin¬casare dopo l’Ave Maria.
5e) – L’internato dovrà presentarsi tre volte.al giorno: al mattino. a mezzo giorno ed alla sera, al Podestà o ad un Funzionario Comunale che ne prenderà nota nel fascicolo personale. In caso di constatata as¬senza il Podestà dovrà darne immediato avviso a cotesta Stazione CC.CC,; per le ricerche, telegrafando altresì a quest’Ufficio.
6°) – L’internato potrà consumare i pasti in esercizi o presso famiglie private del posto, dietro autorizzazione del Podestà.
7′) L’internato ha l’obbligo di serbare buona condotta e non dar luogo a sospetti e mantenere contegno disciplinato,
8°) – Non è consentito all’internato dì tenere presso di se passa porti o documenti equipollenti e documenti militari.
9°) – L’internato non deve possedere danaro a meno che non sì tratti di piccole somme non eccedenti in nessun caso le cento lire; le eccedenze dovranno essere depositate presso banche o uffici postali su libretto nominativo che sarà conservato dal podestà. Qualora l’internato abbia necessità di effettuare prelevamenti, dovrà chiedere di volta in volta l’autorizzazione al podestà il quale, se ritiene gìustificata la richiesta provvedere a fare eseguire l’operazione tenendo presenti che la somma da prelevare non deve mai superare quella consentita. Prelevamenti di somme superiori dovranno essere autorizzati dal Ministero,pel tramite di questo Ufficio.
IO°)- L’internato non può tenere gioielli di valore rilevante né t:itoli; tanto i gioielli che i titoli dovranno essere depositati a spese dell’interessato,, in cassette di sicurezze presso la banca più vicina dove l’internato sarà fatto accompagnare per tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato, mentre il libretto dì riconoscimento sarà conservato dal Podestà,
…………………..Omissis
Firmato: il Questore di Rieti
Di seguito viene riportato uno stralcio del registro della firma dell’internata Lina Cavalieri. Le firme dovevano essere apposte alle ore: 9,00, alle 12,30 ed alle 18,30
Biografia di Lina Cavalieri-Autore Marta Questa
Era il 1936 quando fu pubblicato a Roma il libro Le mie verità scritto da Lina Cavalieri, canzonettista, soprano lirico, mito della belle époque europea ed attrice cinematografica. L’ autobiografia, curata da Paolo d’ Arvanni, nome d’ arte dell’ avvocato Arnaldo Pavoni, suo impresario e compagno di vita, era dedicata al poeta Trilussa, pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri, “grande amico e grande romano” e noto per le sue composizioni in dialetto romanesco. Lina aveva da poco superato i sessant’ anni, età in cui, diceva, “si è maturi per vivere in campagna”. A quell’ epoca aveva scelto di abitare nella villa di Roma “tra alberi secolari e piante e fiori” e per altri sei mesi dell’ anno a 80 chilometri dalla capitale, presso Rieti, a Castel San Benedetto , in collina, zona che diceva, “valorizzata per volere di Mussolini” e dominata dalla “montagna di Roma, il Terminillo”.
L’ aspetto conventuale e serenamente monastico della casa di campagna sembrava giustificare il suo nome La Cappuccina, termine che, comunque, risultava avere molta assonanza con la villa La Capponcina, presso Settignano, a Firenze, abitata per un certo periodo dal poeta Gabriele d’ Annunzio che Lina aveva conosciuto, frequentato e forse, per breve tempo, anche amato e che ai suoi occhi “si era trasformato da poeta incomparabile in eroe leggendario nella guerra che ha reso l’ Italia degna delle più fulgide tradizioni”. Si trattava di una ammirazione reciproca perché già lo stesso poeta a Milano nel maggio del 1903 aveva scritto:” A Lina Cavalieri , che ha saputo comporre con arte una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto” ed ancora nel settembre dello stesso anno su un volume, appena pubblicato, dal titolo Il piacere apparve la seguente dedica: “A Lina Cavalieri, alla massima testimonianza di Venere in terra, questo libro ove si esalta il suo potere”.
“I suoi capelli corvini, la pelle d’ avorio, le sopracciglia più lunghe del mondo, le labbra carnosissime e lievemente rilevate, il naso gentile, e all’insù, gli occhi profondissimi e ombrati”, nonché le sue forme valorizzate da splendidi abiti e da un abbigliamento in genere molto scollato, fecero impazzire gli uomini dell’ epoca tanto da essere definita “La donna più bella del mondo”. Si diceva che fosse “ talmente perfetta da fare arrestare le persone per strada”
“Sono nata a Roma il 25 dicembre di un anno che non ricordo”, così esordiva nel libro “Le mie verità” , celando volutamente l’ anno della sua nascita, atteggiamento vezzoso tipico delle donne di spettacolo famose che vogliono nascondere la loro età . “Venni al mondo in una più che modesta viuzza del vecchio Trastevere dal quale lo spirito di Gioacchino Belli aveva saputo trarre ora la satira pungente, ora la poetica descrizione di uomini e di cose”. Era il 1 875 e Roma da pochi anni era capitale del Regno unito d’ Italia con a capo il re Vittorio Emanuele II. Nacque in Via del Mattonato 17 il giorno di Natale e per questo fu battezzata nella basilica di Santa Maria in Trastevere due giorni dopo con il nome, si dice, di Natalina. Sin da bambina si manifestò vivace e caparbia : “Mia madre aveva tentato tutti i mezzi per domare questa eccessiva mia indipendenza di carattere. Trovate assolutamente inutili le forme più comuni di persuasione, ricorreva assai spesso alle busse, che non sortivano effetto migliore degli amorevoli ammonimenti”. Le piaceva giocare a picca a campana e cercava sempre con gli amici di entrare nei baracconi da fiera senza pagare. Lasciata bruscamente “l’età dei giochi”, a causa della situazione familiare economica molto precaria, svolse diversi mestieri per sostenere la famiglia: sarta apprendista, quindi, fioraia ambulante ed anche piegatrice di giornali presso il quotidiano La Tribuna. “Lavoravo, rigovernavo, facevo le compere, custodivo i miei fratelli Nino e Oreste e mia sorella Giulia. Nella nuova stamberga che ci alloggiava, in Via Napoleone III (una camera e una cucina) tutto intorno a me era squallore. Io lo sentivo , mi si stringeva il cuore , ma per uno strano contrasto sempre presente in ogni i istante della mia vita, cantavo […]. Il caso volle che mi dedicassi al teatro”. L’ abitudine della ragazza a cantare durante il lavoro con una notevole voce spinse la madre a ricorrere ad Arrigo Molfetta, maestro di musica, non certo passato alla storia, che si offrì gratuitamente di insegnare a Lina qualche canzonetta per diventare una chanteuse di caffè – concerti . Nel 1887 fu scovata nei Capannoni di Porta Salaria dall’ impresario Nino Cruciani che la scritturò per il caffè-concerto Esedra. Il suo primo repertorio era costituito di tre canzoni : Core innamorato, Chiara Stella, Il cavallo del colonnello, una di quelle composizioni a doppio senso allora di moda, ed un teatrino di piazza Navona fu luogo del suo esordio. “Avevo quattordici anni – scrive nel memoriale Le mie verità – la mia buona mamma mi accompagnava a piedi dalla nostra casa di via Napoleone III a piazza Navona […] perché eravamo tanto povere da non poterci permettere il lusso di un tram. Del mio ingresso nella vita artistica conservo un confuso ricordo di paura […], le mie mani trepide, tormentavano il mio vestitino, la bocca non riusciva ad aprirsi, la gola serrata dallo spavento non emetteva alcun suono. In quest’ attimo terribile intravidi la mia casetta, la necessità e inconsciamente aprii le labbra, articolai qualche nota. Cessò la musica del piano scordato, un frastuono di mani plaudenti mi scosse e quasi automaticamente ricaddi tra le quinte. Quando molti anni dopo la critica dei grandi quotidiani americani rilevava[…] il caldo singulto arrotondante della mia voce, ho ripensato che il mio debutto fu dolente e che forse quella sera , nella fumosa sala di piazza Navona, la mia voce ricevette il crisma del singhiozzo, che si confuse per sempre alle mie note appassionate”. Da quel timoroso debutto nel sordido teatrino romano, dove cominciò ad esibirsi per una lira al giorno, indossando ogni sera un semplice abitino di tessuto a fiori celeste comprato a Campo dei Fiori e cucito dalla madre, la popolarità sarà in continua ascesa grazie anche alla sua bellezza, sensualità e temperamento focoso, divenendo in breve tempo una figura popolare della Roma umbertina. La scritturarono in locali sempre più importanti e famosi. Nel 1894 il nome di Natalina Cavalieri per la prima volta apparve sulla locandina del Concerto delle Varietà, in Via Due Macelli , poi sarà la volta del grande teatro Orfeo, per dieci lire al giorno, e poi al teatro Diocleziano per quindici lire. Il suo repertorio si arricchì di altre canzoni: La Ciociara, Funiculì – funiculà, A Frangesa di Mario Costa. Il suo successo romano fu siglato anche dalla elezione a reginetta di Trastevere, avvenuta una sera di Carnevale al teatro Costanzi, per merito soprattutto di un principe romano e dei suoi amici, e questo titolo le agevolò l’ingresso al grande Orfeo, dove i suoi meriti artistici ebbero l’opportunità di essere consacrati. Arrivò dopo anche per lei il momento di approdare nel regno italiano dei cafè chantant, caffè con spettacoli di varietà: il Salone Margherita di Napoli, il luogo, in quel periodo, più prestigioso per una canzonettista. Fu l’ impresario del salone Margherita che nel 1895 la presentò al pubblico per la prima volta con il nome abbreviato di Lina al posto del dichiarato Natalina. Dichiarato perché molti dubbi sorgeranno infatti sul suo nome proprio quando nel 1940, durante il breve periodo di internamento nel carcere di Rivodutri, vicino a Rieti, sarà registrata con il nome di Natalia e non Natalina e questo può far pensare che a Napoli, al momento dell’ abbreviazione, lei o chi altro per lei, avesse preferito al diminutivo Lia, forse troppo breve, quello di Lina con il quale poi sarà conosciuta in tutto il mondo. Nei tre locali partenopei più famosi, quali il Salone Margherita l’Eldorado e l’Eden si esibì con il suo repertorio delle più celebri canzoni napoletane di Maria Marì, O sole mio, Marechiare, e con l’inedita Ninuccia, canzone che fu composta per lei dal poeta e musicista napoletano Giambattista De Curtis su testo di Vincenzo Valente e di cui fu la prima interprete. Era alta, aggraziata con un contegno angelico e trasognato e molto sensuale ed a Napoli, anche quando entrava in scena cantando” O sole mio”, accompagnata da un gruppo di mandoliniste vestite da pescatore, faceva impazzire tutti gli uomini. Napoli rappresenterà per lei in trampolino di lancio per l’ Europa. Aveva appena vent’ anni quando da lì andò a Parigi, alle Folies Bergère, riproponendo il suo programma di canzoni napoletane, con un’ orchestra completamente femminile con chitarre e mandolini. Lina Cavalieri sconcertò Parigi: si fece scoprire dai suoi ammiratori mentre correva vezzosamente per il Bois de Boulogne su un velocipede color rosso fuoco,” polpacci e caviglie in bellavista, il volto graziosamente arrossato dallo sforzo.”. Fu un’abile strategia che le consentì, già allora, di ottenere un’ampia pubblicità gratuita. Nella primavera del 1893 Natalina aveva già saputo attirare attorno a sé l’attenzione degli sportivi e l’ammirazione delle donne recandosi a Milano per una gara ciclistica nella quale l’attrice aveva sfidato la fioraia Adelina Vigo. Quella delle due ruote fu per la Cavalieri un sincero diletto sportivo che l’accompagnò anche negli anni successivi e che la portò a correre e a vincere la corsa a tappe Roma – Torino e ancora, nel 1899, a sfidare la campionessa belga, mademoiselle Hélene Dutrierux.
Dimostrava di comprendere lo spirito del tempo: diffusione dello sport tra le donne significava emancipazione. Il pedalare un velocipede liberava dall’opprimente corsetto, ne scopriva il corpo, e tutto questo dava alla donna la coscienza del proprio fisico e sessualità. La belle epoque” fu affascinata dalla sua intraprendenza, dalla sua grazia e dalla sua straordinaria bellezza. Cominciavano a circolavano in tutto il mondo cartoline postali che riproducevano il suo volto, i suoi favolosi boa di struzzo, i suoi splendidi gioielli che fecero sognare donne di tutti i paesi.
Salì poi sul palcoscenico dei più importanti teatri di Londra, Berlino e San Pietroburgo.
Aveva già un figlio, Alessandro, chiamato anche lui con un diminutivo: Sandro. Era nato a Roma nel febbraio del 1892, si dice, da una relazione con il maestro di musica Arrigo Molfetta, a cui, poi, Lina qualche anno dopo, sembra, avesse restituito tutto il denaro “prestato per gli alimenti”, perché non avesse alcuna ingerenza nell’ educazione di quello che reputava solo suo figlio . In quegli anni Lina non poteva immaginare ancora che Sandro avrebbe più tardi preso il cognome del suo terzo marito, il tenore francese Lucien Muratore.
Di lei si diceva che era una danzatrice aggraziata, in grado di compiere i movimenti ed i gesti più allusivi con tale innocenza e con tale fanciullesca semplicità e fascino che la loro natura pornografica veniva ignorata. Jules Massenet., autore di alcune fra le opere portate in scena da Lina semplificava così: “La bellezza ti dà il diritto di sbagliare qualche volta”.
Fu a Mosca che omaggiò il pubblico di una versione un po’ pasticciata di Oci ciorni e, nonostante la pronuncia approssimativa, ne ricavò tanti applausi ed il dono di un facoltoso ammiratore: una cesta di fiori unita ad una collana di smeraldi appartenuta all’ inglese Lady Hamilton. Il donatore era il principe russo Aleksander Bariatinsky che Linotchka, come lui la chiamerà, sposerà in segreto a Pietroburgo nel 1899.
Fu alla fine del secolo che, spinta da molteplici pareri favorevoli, Lina decise di passare al canto lirico. Darà definitivamente l’ addio al varietà per realizzare un sogno più ambito: diventare una cantante lirica, professione considerata all’epoca più nobile. Fu il tenore Francesco Marconi, il popolare Checco, interprete dei Puritani e del Rigoletto, a perfezionare il suo canto. Prenderà lezioni dall’ affermata cantante del Teatro della Scala, Maddalena Mariani Masi, che di Lina riconoscerà sempre l’ intelligenza, l’ intuito musicale non comuni ed una forza di carattere da permetterle di sottoporla ad uno studio indefesso. “Il teatro lirico metteva in me la febbre del desiderio” .
Il debutto a soprano avvenne nel 1900 a Lisbona ne “I Pagliacci”. Fu un fiasco totale che Lina nel suo libro attribuì al nervosismo destato dalla presenza della famiglia reale portoghese ed all’ intervento malevolo del manager Petrini, talmente ossessionato da lei da essere disposto a rovinare lo spettacolo per farla cedere alle sue avances.
Il 4 marzo dello stesso anno si cimenterà nella Bohème di Giacomo Puccini nel ruolo di Mimì al San Carlo di Napoli: “Vestii l’ abito di Mimì e cantai. Non potevo non vincere Stravinsi. Sentii Napoli. Napoli mi comprese”.
Il passo era fatto e Lina era diventata soprano lirico.
Sergi Levik, baritono e critico d’ opera di origine russa, così commentava: “L’ enorme lavoro che la Cavalieri ha fatto su se stessa con la supervisione di buoni insegnanti ha trasformato una voce debole e miserella in uno strumento professionale del tutto tollerabile” Si diceva che avesse una voce limpida e fresca, ma piuttosto limitata nel volume, nelle vibrazioni ed anche nell’ estensione e c’ è chi la consigliava di sostare al confine tra il genere lirico e quello leggero.
Il momento di svolta artistica coincise con la fine del suo primo matrimonio a cui seguirà l’ annullamento dell’ unione da parte dello zar Nicola.
Da Napoli si aprirà per lei una carriera che la porterà nei più importanti teatri lirici d’ Europa e d’ America al fianco di nomi celebri della lirica. Fu al S. Carlos di Lisbona, all’ Imperiale di Varsavia, all’ Aquarium di Pietroburgo, al Teatro Massimo di Palermo, al Dal Verme ed al Lirico di Milano nel 1902 e nel 1903, al Carlo Felice di Genova, al Casino di Montecarlo tra il 1904 ed il 1906. Importantissimi sono gli ingaggi che ottenne oltreoceano, a New York, al Metropolitan e al Manhattan. Il suo successo derivava molto dal fatto che incarnava il prototipo di bellezza femminile dell’ epoca: una bellezza trasognata che, unita ad una presenza scenica ed ad una buona recitazione, rappresentava in campo operistico nell’ epoca del verismo una vera e propria carta vincente. Una sera d’ impulso, al termine del gran duetto d’ amore della Fedora, Lina Cavalieri al Metropolitan, durante la stagione del 1906-1907, in scena baciò realmente Enrico Caruso sulle labbra, ottenendo così il definitivo successo del suo personaggio. Per la prima volta in America un’ attrice aveva baciato davvero sulla scena. Fu un trionfo, si gridò allo scandalo e ciò aumentò il successo che la porterà alla vittoria sulla soprano Geraldine Farrar e ad ottenere l’ interpretazione della Manon Lescaut di Puccini. L’ indomani , l’ Evening World intitolava così la cronaca della serata:
”Cavalieri and Caruso, in a fervent embrace arouse a Metropolitan Opera House audience”. La Cavalieri fu allora conosciuta negli Stati Uniti come la primadonna che bacia,“the kissing primadonna”.
L’ influente critico musicale Algernon ST Brenon sul Daily Telegrapphy così scriveva: “Possiede fuoco e varietà di movimento, impulso ed emozione[….].un colpo d’ originalità nel gestire la scena […]. A proposito del canto non ci si può esprimere altrettanto entusiasticamente. A volte le sue note acute sono imprecise, a volte le medie, a volte le gravi; almeno in questo sembra essere imparziale […]. Ma sul palco riesce davvero a dare qualcosa di raro. Nessuno è come lei con quella faccia da madonna e la sua figura sinuosa e serpentina”. Dopo un periodo iniziale di rappresentazioni della Bohème, del Faust, de “I Pagliacci”, s’ indirizzò verso le parti di cortigiana d’ alto rango e di donna fatale. Era attratta da opere come la Fedora, la Tosca, l’ Adriana perché le offrivano l’ occasione di sfoggiare abiti sontuosi che mettevano in risalto il suo fisico e gioielli veri e preziosissimi. Aveva “un portamento da gran dama” e, secondo il giudizio di molti, nessuna primadonna seppe raccogliere e drappeggiare al pari di Lina lo strascico della principessa Fedora.
Ma la Lina Cavalieri “dell’ Opera di Parigi, del Metropolitan di New York, del Coven Garden di Londra, del teatro italiano di Pietroburgo…. ecc.” non cantò mai a Roma come soprano. ”Non ho mai voluto presentarmi al pubblico dei miei concittadini – scriveva nella sua autobiografia- perché ho sempre risentita una autentica paura degli spettatori romani. Il pubblico a Roma è critico, sagace, intenditore perfetto di musica, abituato agli spettacoli lirici più vari e più complessi, assuefatto a dare un giudizio su tutte le celebrità. Sebbene non mi sia mai sentita come artista, inferiore a tanti altri, ho sempre pensato, da buona romana, quale sono, Nemo propheta in patria”.
La bellezza le valse, si dice, ottocentoquaranta proposte di matrimonio e numerosi flirt. La desiderarono gli uomini di mezzo mondo e per lei spasimarono principi, baroni, finanzieri,poitici ed artisti di ogni continente, per lei Wassili d’Angiò, duca di Durazzo, conte di Gravina e di Alba, ex capitano dell’esercito zarista, ultimo discendente del re di Napoli, di Sicilia e d’Albania Carlo D’Angiò a Parigi, fece ricoprire di petali di rose rosse l’intero tragitto tra la stazione ferroviaria e l’albergo in cui l’aspettava. Ma lei stessa in “Le mie verità” scrive: “Tre volte ho sposato e tre volte ho rotto i miei vincoli legali: un russo, un americano ed un francese”. Dopo il principe russo Alessandro Bariatinsky sarà la volta del ricchissimo, “cittadino della stellata repubblica”, l’ americano Robert Winthrop Chanler, conosciuto a New York durante la stagione lirica al Manhattan Opera House, durante un ricevimento dato in onore di Lina in casa della signora Benjamin Guiness, “la migliore e la più cara amica”. “Non avevo per lui che un sentimento di buona amicizia” ed infatti il matrimonio durò appena una settimana e nella sua opera autobiografica scrive: “Le mie valige erano fatte. Partii […]. Ed io rinunziai ai palazzi, alla grande tenuta, alla rendita annua […]. Non ho mai più rivisto il mio secondo marito del quale solo qualche anno fa ho appreso la morte. Amici comuni mi dissero [ ..] che la sua camera era letteralmente tappezzata di mie fotografie”. In realtà c’ è chi disse che una immensa quantità di beni, comprendente addirittura tre palazzi, trasmigrò dalla proprietà dell’ americano nelle mani di Lina prima addirittura della separazione. Anche questa volta la separazione fu dovuta al fatto che Lina amava assumere il ruolo di vera e propria donna di spettacolo. Amava calcare le scene, farsi ritrarre nelle pose più conturbanti, vestire abiti sfarzosi arricchiti anche da pietre preziose spesso regalate dai suoi ammiratori, mariti ed amanti, indossare capi della famosa della sartoria francese di Jeanne Paquin, più conosciuta come Madame Paquin, capi che Lina pubblicizzava in tutto il mondo. “In certe sere il palcoscenico dei teatri veniva trasformato in giardino ed i diamanti, gli smeraldi, i rubini sfolgoravano indosso alla bella artista”. Molto spesso in scena fu vista portare in petto una croce di diamanti, non per la grande devozione per il simbolo, quanto, sosteneva il critico Giulio Piccini, meglio conosciuto con lo pseudonimo Jarro, per il valore delle pietre che la costellavano. Divenne il simbolo della donna più elegante ed affascinante d’ Europa, un sogno per gli uomini di tutti i paesi ed un mito per le donne dell’ epoca. “E’ così bella, si diceva, che troverebbe mille spettatori anche se andasse in un’ isola deserta”.
Il marito francese sarà il tenore Lucien Muratore, che sposerà nel 1913 a Parigi e che diventerà padre adottivo del figlio Sandro. La guerra del 1914 “sconvolse tutto [….] Allontanò da me in poco tempo mio marito nell’ esercito della Repubblica transalpina, due miei fratelli e mio figlio nell’ armata italiana”. Il matrimonio con il terzo marito coincise con l’ abbandono della carriera lirica e l’ approccio con quella cinematografica.
Come tanti ironizzarono, divenne la prima cantante lirica protagonista di films muti. Dopo i primi passi compiuti alle Cines di Roma, società allora diretta dal barone Alberto Fassini, debuttò a Parigi sotto l’ insegna dei Fratelli Pathè. Tra il 1914 ed il 1921 girerà film in Italia, poi a Berlino, in Inghilterra e, prima fra le europee, in America, scritturata dalla Players films company a New York, dove recitò per la prima volta nel film muto “Gismonda “diretto da Edward José e tratto dall’ opera teatrale di Victorien Sardou, L’ eterna tentatrice su scenario di Fred de Gressac, che poi divenne produttore della Metro Goldwin Mayer a Hollywood. ”Il lavoro cinematografico mi piaceva moltissimo – scriveva – ma male sopportavo le luci dei proiettori che mi cagionarono gravi forme di congiuntivite […]. Come al teatro di Montecarlo nella Fedora cantai l’ opera per l’ ultima volta, così a New York l’interpretazione di Gismonda chiuse la mia attività cinematografica”. In Italia, per gli effetti della Grande Guerra, i film americani della Cavalieri furono distribuiti solo al termine del conflitto, non ottenendo peraltro pari successo delle proiezione oltralpe. Da cantante di cabaret a soprano lirico, da sportiva ad attrice cinematografica, scrittrice ed anche produttrice di creme e profumi Il periodo del matrimonio con Muratore coincise anche con l’apertura dell’Istituto di bellezza “Chez Lina”, a Parigi, vicino agli Champs Elysèes, in Avenue Victoir Emmanuel,, oggi avenue du Président Roosevelt, che sarà frequentato da nobili e ricche signore affascinate dal mito della bellezza “costi quel che costi”.
“Mi dedicai a questa nuova forma d’ arte che ritenni anche manifestazione pratica di altruismo”. Fu così che le macchine di massaggio e di ondulazione, le ciprie, le creme, i rossetti e le lozioni, sostituirono per circa dieci anni le orchestre, le scene, le partiture. Le parrucche ed i costumi. I miei compagni di successo non si chiamarono più: musicisti, tenori, baritoni, bassi ma parrucchieri, massaggiatori, manicure e pedicure” ”In questa nuova attività ho avuto gioie e soddisfazioni, se non materiali almeno morali”. La maison fu frequentata dalle signore della nobiltà europea affascinate dal mito della bellezza di Lina che produsse anche cosmetici che recavano sulla confezione il suo nome: ricercatissimi i profumi Monna Lina ed Eau de Jouvence. Nel 1909 la Cavalieri aveva aperto un laboratorio di prodotti di bellezza anche negli Stati Uniti, gestito dal fratello Oreste, nel quale venivano realizzati cosmetici secondo i segreti acquisiti da un antico ricettario di Caterina de Medici che, diceva, “di aver rinvenuto”. Accetterà anche di pubblicizzare vari prodotti dell’ epoca, come quelli della casa di produzione Palmolive e l’ aperitivo Bitter Campari, allora in voga. Nel 1914, aveva dato alla stampa un libro “My secrets of beauty” il cui sottotitolo recava uno slogan che sembra scritto oggi: “Contiene più di mille preziose ricette di preparazione usate e raccomandate da Madame Cavalieri in persona”. Offriva raccomandazioni sulla conservazione della bellezza, consigli che la Cavalieri aveva già dispensato alle lettrici di una rivista francese di attualità e moda femminile.
Le sue varie attività ed i suoi ingaggi la porteranno continuamente a viaggiare da un paese all’ altro, correndo spesso anche dei rischi, in un’epoca, non dimentichiamo, in cui i mezzi di locomozione erano assolutamente primordiali, la distanza tra una località e l’altra praticamente insormontabile così come le frontiere delle varie nazioni.. Durante un suo viaggio da Bordeaux per Nuova York sul piroscafo Patria della Favre Line, che ospitava anche la famosa attrice Sarah Bernhardt, Lina racconta che temette per la sua vita in quanto un sottomarino nemico seguì minaccioso la rotta del piroscafo, dopo averne già fatto affondare ben undici.
Anche il matrimonio con il tenore francese ebbe termine e si separarono a Parigi nel 1927. Ammetterà di aver “amato sempre con riserva, col beneficio dell’ inventario come direbbero gli avvocati specializzati in successione”. “Amo gli uomini come amo la vita, come amo la natura, ma penso che, nella maggioranza dei casi, questo compagno della nostra esistenza è assai inferiore a quel che crede o sente di valere”.
Nel frattempo, una nuova unione ufficiale, c’ è chi sostiene coronata anche da un matrimonio, di cui, però, non ci sono tracce e di cui Lina nelle sua opera autobiografica non fa alcuna menzione, la vedrà impegnata con il campione automobilistico Giovanni Campari, che morirà tragicamente di lì a poco il 10 settembre 1933, uscendo di pista nell’autodromo di Monza durante una gara. Sarà il fratello Davide Campari, l’imprenditore italiano legato anche lui, sembra, sentimentalmente alla Cavalieri, a sfruttare la fama di lei per promuovere in tutto il mondo i propri elisir, le bevande Cordial e Bitter. Nello stesso periodo, ancora molto affascinante, anche se non più giovane, Lina sarà ambasciatrice del made in Italy ma anche la testimonial per prodotti di bellezza, per l’ alta moda sartoriale e per apparecchi musicali Columbia.
Anche il legame sentimentale con Davide Campari non durerà a lungo e nel 1934 la Cavalieri si legò all’avvocato romano Arnaldo Pavoni, di venti anni più giovane di lei, già sposato e che, con lo pseudonimo di Paolo D’Arvanni, curerà due anni dopo la pubblicazione del libro autobiografico di Lina “Le mie verità”, memorie che sembravano un romanzo, tanto da indurre una grande casa cinematografica americana a proporle di girare un film sulla propria vita, che sicuramente sarebbe stato realizzato se non fosse scoppiata la seconda guerra mondiale.
Nel frattempo già all’ età di 55 anni, tre anni dopo essersi separata da Lucien Muratore, si era ritirata dal lavoro. Aveva affidato al figlio l’ amministrazione di tutte le attività di Parigi e Montecarlo , aveva abbandonato il cinema. “Abbandono che non mi rattristò – diceva – perché lo ritenevo solo un riposo”. “Mi ritiro dall’ arte senza chiasso dopo una carriera forse troppo clamorosa”.
Tornò in Italia, comprò una casa vicino a Rieti, a Castel San Benedetto, dove riunì tutti i suoi cimeli e lì visse accanto al suo impresario Arnaldo Pavoni ed al suo cane tanto amato che chiamò Pastorella in sintonia con il nome monastico della villa La Cappuccina. Si racconta che in quegli anni di ritiro in campagna Lina Cavalieri aprisse la sua dimora a tanti ospiti italiani e stranieri, organizzando giornate di festa con spettacoli anche di fuochi d’artificio e con particolari luci ad intermittenza con una cadenza che poteva dar luogo ad una sorta di alfabeto Morse luminoso, destinato come messaggio a qualcuno che si trovava a distanza e nel buio. Queste luci, che potevano, in effetti, servire per lanciare messaggi a chi “si intendeva informare”, e, quindi, il sospetto di spionaggio o di tentato sabotaggio ed il fatto di essere suddita francese furono probabili causa del suo arresto e successivo internamento a Rivodutri, voluto esplicitamente dal Ministero dell’ Interno italiano.
In passato, a partire dalla prima guerra mondiale aveva sempre mostrato una aperta simpatia per le forze alleate. Durante il periodo parigino insieme al terzo marito Lucien Muratore ed all’ amica Rachel Boyer della Comedie francaise aveva fatto parte del Comités pour l’ assistence aux poilus, aveva partecipato alle numerose tournée di propaganda per gli alleati europei insieme al marito anche in occasione del viaggio del maresciallo Ferdinand Foch, che aveva occupato il ruolo di comandante in capo di tutti gli eserciti alleati sul fronte occidentale sino alla resa della Germania imperiale. Negli anni Trenta aveva, si diceva, dato ospitalità nella sua abitazione parigina a Dolores Donati, sorella del più noto Oreste che in quegli anni, come antifascista, era esule in Francia. Nel suo libro Le mie verità, pubblicato nel 1936, facendo riferimento al suo viaggio in Africa settentrionale ed in Asia Minore, parlerà della Palestina come della “culla di tre religioni, la patria del più grande spirito che il mondo abbia conosciuto : Gesù Cristo”, e rimarrà impressionata dalla “visione dei pochi ebrei rimasti in Gerusalemme, non più padroni di casa loro, non più liberi di esercitare liberamente la loro missione di moderne vestali, custodi del fuoco sacro d’ Israele”. Inoltre sempre nella sua opera autobiografica descriverà con acume e benevolenza le caratteristiche dell’ uomo russo, americano, francese, italiano, ma non farà alcun riferimento all’ uomo tedesco, citandolo soltanto in un iniziale e semplice elenco. Non si soffermerà a descrivere le sue particolarità, come se volutamente volesse sorvolare sull’ argomento o per paura, o per dichiarato distacco, o per poca attrazione nei confronti di quel tipo di uomo.
Era il 2 luglio del 1940 quando Lina fu arrestata. La Germania a partire dal maggio aveva dato avvio alle operazioni militari contro la Francia ed il 10 giugno l’ Italia aveva dichiarato guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna a fianco della Germania. Fu arrestata insieme alla sorella, ma, forse per il suo passato molto celebre, l’ arresto qualche giorno dopo fu tramutato in domicilio coatto a Rivodutri, in via Giuseppe Micheli 1, nei pressi della piazza del Municipio dove rimase sotto stretto controllo per un certo periodo, con l’ obbligo di non allontanarsi dall’ abitato e di presentarsi tre volte al giorno, vale a dire al mattino. a mezzo giorno ed alla sera, di fronte al podestà o ad un funzionario comunale, che ne doveva prendere nota nel fascicolo personale insieme alla sua regolare firma. Non le era concesso, come a tutti gli internati, di possedere denaro, né gioielli, né titoli. A Lina, che sempre ricordava la difficile infanzia, che mai aveva nascosto di temere la precarietà economica, la povertà e si era continuamente impegnata per divenire ricca, famosa e potente, non fu facile sicuramente accettare queste regole e soprattutto la mancanza di libertà. Questa esperienza rappresentò per lei sicuramente una svolta e segnò un cambiamento nelle sue scelte di vita. Durante l’ internamento può essere entrata in contatto o avvicinata da quelle forze politiche italiane e tedesche per le quali Lina aveva tutti i requisiti per divenire una loro collaboratrice: parlava bene il russo, il francese e l’ inglese, proprio le tre lingue dei belligeranti nemici dell’ Italia e della Germania ed inoltre aveva numerose conoscenze all’ estero anche fra civili e militari con incarichi importanti. Sta di fatto che dopo il domicilio coatto a Rivodutri e la sua permanenza ancora per poco tempo a Castel San Benedetto , lascerà la casa “La Cappuccina” per trasferirsi insieme al suo compagno di vita Arnaldo Pavoni, in arte Paolo D’ Arvanni, a Firenze, la “città dei fiori”, “la città di Dante”, come l’ aveva definita nella sua opera autobiografica, quella città che l’ aveva vista più volte far “moda automobilistica” sfrecciando lungo le Cascine o in aperta campagna su una splendida Ford Model T, conosciuta anche col nome di Tin Lizzie (lucertolina di latta). Aveva sempre associato Firenze ad una esperienza alquanto singolare, vissuta nel periodo in cui si trovava nella città per le varie rappresentazioni della Traviata al teatro Pagliano, ai primordi della sua attività di soprano lirico. All’ epoca alloggiava, all’ hotel Baglioni insieme alla compagna delle “sue fatiche”, la maestra Maddalena Mariani Masi ed in quella occasione era venuta a conoscenza che l’ autista, che ogni mattina la scorrazzava alle Cascine per un passeggiata, altro non era che il duca Raimondo T, primogenito di una delle più antiche e nobili famiglie siciliane, ben conosciuto da alcuni amici palermitani e che, pur di dividere il suo tempo con lei, aveva accettato questo incarico. Ma i tempi erano cambiati: Italia e Germania erano in guerra, Firenze aveva accolto in visita Hitler già ben due volte, nel 1938 e poi nel 1940 ed il clima mondano era solo un lontano ricordo.
Lina prenderà alloggio, o meglio, forse le sarà assegnato come alloggio, la villa Torre al Pino, ammobiliata, con villino attiguo, in via Suor Maria Celeste nella zona di Poggio Imperiale, di proprietà della tedesca Olga Tall, vedova del russo Muravieff , e che era stata sottoposta a sequestro dall’ Ente gestione e liquidazione immobiliare di Roma in quanto dichiarata di proprietà di un suddito “nemico della patria”. Vivere a Firenze le permetteva anche di avere più contatti con il figlio dal carattere, dicevano, molto schivo e poco socievole, che sin dalla tenera età era stato lasciato alle cure dei nonni materni e che aveva avuto pochi contatti con la madre sempre impegnata in attività che la portavano a viaggiare in tutta Europa ed in America. Alessandro risiedeva in città ormai dal 1933 insieme alla moglie, Elena Darra, che aveva sposato a Firenze nel 1932, quando ancora a Palmanova svolgeva attività in qualità di capitano dell’ esercito italiano. Viveva insieme ad Elena in uno stabile in via Jacopo Nardi, abitato anche dagli zii della moglie con i quali sicuramente aveva instaurato un legame affettivo molto stretto che lo porterà alla sua morte, avvenuta nel 1993, all’ età di 101, a scegliere di essere seppellito nella tomba che aveva già accolto le spoglie degli zii acquisiti e successivamente della consorte. Si trattava di una zona abitata dalla borghesia fiorentina, al di là di quei viali di circonvallazione, realizzati su progetto dell’ architetto Giuseppe Poggi dopo l’ abbattimento delle mura città nella seconda metà dell’ Ottocento, nei pressi della stazione di Campo di Marte, non certamente vicina a via Suor Maria Celeste, nella zona di Arcetri , in campagna, fuori dalla città, vicina a villa Il Gioiello, che aveva ospitato un tempo Galileo Galilei, all’ Istituto di Poggio Imperiale, all’ Osservatorio astronomico di Arcetri ed all’ Istituto di fisica, voluto in quella zona dallo scienziato e poi anche sindaco e podestà di Firenze, Antonio Garbasso. La via stretta e lunga era poco frequentata e la villa Torre al Pino, che si trovava circa a metà della strada, era isolata, circondata da un ampio parco e chiusa da un alto muro e pertanto presentavano una conformazione adatta per essere facilmente controllabili in tutt o loro punti. All’ epoca i vicini vedevano talvolta Lina Cavalieri girare nei dintorni su una carrozza guidata da un cocchiere, ma nessuno sembra averla mai avvicinata. Sta di fatto che molti fiorentini e visitatori ebbero modo di vederla per l’ ultima volta alla XIII Mostra d’ arte toscana, tenuta a Palazzo Strozzi nell’ aprile – maggio del 1942, ritratta nel dipinto di Giovanni Boldini che la raffigurava vestita stranamente con un abito molto castigato che nascondeva “la rara perfezione del suo corpo, massima nelle braccia che erano rimaste esemplari con gli anni”.
Firenze la ospiterà per poco tempo. Alcuni amici raccontarono che a Parigi una cartomante le aveva predetto che un giorno sarebbe morta di morte violenta. Così accadde. L’ 8 febbraio del 1944 da un aereo delle forze alleate, alle tre del pomeriggio, furono sganciate tre bombe: la prima colpì la casa di Lina Cavalieri, la seconda il bordo della strada che rimase transennato per anni, la terza cadde nel terreno agricolo sottostante la strada, che gli abitanti di Pian dei Giullari chiamavano Regnaia, perché i contadini erano soliti collocarvi delle reti per catturare piccoli uccelli. Solo la prima bomba provocò vittime. Lina Cavalieri morì insieme al suo segretario , l’ avvocato Arnaldo Pavoni ed alla sua casiera Guglielma Raveggi. Lo spostamento d’ aria demolì anche parte del villino vicino dove rimase ferito Ennio Raveggi, il popolare massaggiatore della Fiorentina. Sembra che Lina non avesse raggiunto in tempo i sotterranei esterni di difesa antiaerea per poter recuperare i gioielli nascosti nella sua camera da letto.
All’ epoca ci fu chi sostenne che le bombe erano state sganciate perché l’ aereo stava perdendo quota a causa di una avaria, ma tre bombe sganciate erano poca cosa perché l’ aereo si alleggerisse ed inoltre i punti colpiti apparvero precisi e strategici perché l’ obiettivo venisse colpito ed eliminato. Molti, infatti, ritennero che le truppe alleate avessero voluto punire la cantante in quanto collaboratrice di ufficiali tedeschi.
Brevi e sintetici furono gli articoli apparsi sui giornali nei giorni successivi al bombardamento ed alla morte di Lina Cavalieri, mentre si dice che dopo il tragico evento «lenta e dura la voce della radio” introdusse “ un brivido di orrore nelle tante case borghesi dove Lina Cavalieri era divenuta un mito [… ] milioni di persone hanno sospirato, riconoscendo nella fine di una leggenda un congedo della propria stessa giovinezza”. Sembra che dopo l’ accaduto in Firenze non fu reso alcun omaggio alla “donna più bella del mondo”, a colei che nella sua vita era sempre stata un personaggio pubblico ed aveva in tutti i modi cercato di attirare a sé l’ attenzione di tutti. La paura,forse, di nuovi attacchi aerei, il clima di forte tensione in quei giorni tra forze fasciste e gruppi di antifascisti e la presenza frequente nella zona di militari tedeschi, ormai prossimi alla ritirata, faranno sì che “dietro al suo carro, in quei giorni tristi e dolorosi” ci fossero solo “ un prete, sei persone ed una folla di ricordi che nessuno vide”.
La salma, pare intatta, di Lina Cavalieri, estratta dalle macerie, fu trasferita all’ asilo mortuario del Romito dove si svolse,come comunicarono molti giornali dell’ epoca, il non ben definito “rito del’ associazione”. Il suo corpo fu poi trasportato al cimitero delle Porte Sante, dove rimarrà sino al 1947 ed alla fine della guerra verrà tumulata nel cimitero del Verano, a Roma, nella tomba di famiglia insieme al padre Florindo, già morto nel 1909, ed alla madre Teonilla, deceduta nel 1931 e dove più tardi la raggiungeranno anche i fratelli. La salma del suo compagno di vita, il romano Arnaldo Pavoni rimase nel cimitero dello Porte Sante sino al 1951, quando sarà tumulato in un altro cimitero fiorentino senza, ironia della sorte, poter mai raggiungere l’ ultima compagna della sua vita e della morte.
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