POESIA CURDA in ricordo di Asia Ramazan Antar, eroina curda morta a 20 anni per difendere la Siria dall’Isis.
Pubblichiamo questa Poesia per onorare una giovane guerrigliera curda ,di 20anni, morta in combattimento. Questa è la poesia che Asia Ramazan Antar ha inviato, come testamento e lettera di addio alla madre . La poesia si conclude con queste parole :” Se non torno, la mia anima sarà parola …per tutti i poeti.” Noi, Poeti della Sabina, vogliamo testimoniare la memoria della giovane guerrigliera e onorare il messaggio che ha inviato a tutti i Poeti del mondo. La Poesia e gli Eroi non hanno confini.Giovane Asia Ramazan Antar riposa serena nel paradiso degli Eroi e canta le tue poesie alle stelle e alla luna quando si accendono la sera .
POESIA CURDA in ricordo di Asia Ramazan Antar, eroina curda morta a 20 anni per difendere la Siria dall’Isis.
A Neuchâtel in Svizzera- Prix Farel per il film a tema religioso, i vincitori –
Il Prix Farel, il Festival Internazionale del film di tema religioso, si è concluso con la cerimonia di premiazione al Cinéma Rex di Neuchâtel, in Svizzera.
La giuria, presieduta dalla produttrice Florence Adam, era composta da Jean-Philippe Ceppi (giornalista RTS), Damien Fabre (conduttore del canale YouTube Religare), Manéli Farahmand (direttore del Centro intercantonale delle religioni), Amira Souilem (giornalista e giornalista, RFI) ha scelto tra i trenta film documentari selezionati.
Al termine di tre giorni di proiezioni e diverse ore di discussioni, assegna i seguenti premi:
Premio Bonhôte «“Hitler non voleva sterminare gli ebrei”»: Netanyahu dice la verità? di Yann Bouvier alias YannToutCourt.
Premio documentario corto: «Donovan – El Limpiador» di Louise Monlaü, Ladybirds Films.
Premio documentario lungo: «Hawar, i nostri figli esiliati» di Pascale Bourgaux, Louise Productions Losanna.
Caratterizzata da una nuova direzione, un team più ampio, una nuova sede – il cinema Rex a Neuchâtel – questa edizione ha voluto mettere in risalto e promuovere formati di informazione online specifici per i social network. Chi li produce? Chi li consuma? Come distinguere quelli affidabili? I partecipanti al festival hanno mostrato un vivo interesse per queste domande. I film e i video esplicativi selezionati per il Premio, seguiti dal feedback degli spettatori dopo le proiezioni, così come le tavole rotonde di sabato 16 novembre, hanno arricchito le discussioni su temi scottanti di attualità e temi storici. Nei tre giorni del festival più di 2.000 persone in totale hanno seguito le trenta proiezioni e le due tavole rotonde. Un successo che incoraggia gli organizzatori del Premio a portare avanti questo evento, la cui prossima edizione è prevista per l’autunno 2026.
Creato nel 1964, il Premio Farel riunisce ogni due anni a Neuchâtel gli specialisti francofoni delle trasmissioni religiose. A partire dagli anni 2000, la sua programmazione si è aperta sempre più al grande pubblico e a tutte le forme di spiritualità. Nel 2022, i vincoli finanziari dei suoi partner costringono il Premio Farel a ripensarsi. Il suo comitato nomina, alla fine del 2023, la giornalista Camille Andres come direttrice con l’obiettivo di ringiovanire il suo pubblico. In dodici mesi di lavoro, l’equipe propone una 29esima edizione fedele alla propria identità aperta e in sintonia con le problematiche contemporanee. A 60 anni dalla sua fondazione, lo spirito “Farel” si modernizza mantenendo però il suo pedigree: etica, spiritualità, religione, temi trattati con umanesimo e sensibilità.
LaBohème è un’opera in quattro quadri di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, ispirato al romanzo di Henri MurgerScene della vita di Bohème. Il libretto ebbe una gestazione abbastanza laboriosa, per la difficoltà di adattare le situazioni e i personaggi del testo originario ai rigidi schemi e all’intelaiatura di un’opera musicale. Per completare il lavoro Puccini impiegò tre anni di lavoro passati fra Milano, Torre del Lago e la Villa del Castellaccio vicino Uzzano, messa a disposizione dal conte Orsi Bertolini.[1] Qui completò il secondo e terzo atto, come da lui annotato con una scritta rimasta sui muri della villa.[2] L’orchestrazione della partitura procedette invece speditamente e fu completata una sera di fine novembre del 1895.[3]
«Più invecchio, più mi convinco che La bohème sia un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello.»
Meno di due mesi dopo, il 1º febbraio 1896, La bohème fu rappresentata per la prima volta al Teatro Regio di Torino, con Evan Gorga, Cesira Ferrani, Antonio Pini Corsi, Camilla Pasini e Michele Mazzara, diretta dal ventinovenne maestro Arturo Toscanini, con buon successo di pubblico, mentre la critica ufficiale, dimostratasi all’inizio piuttosto ostile, dovette presto allinearsi ai generali consensi.[4] La versione finale invece venne messa in opera per la prima volta al Grande di Brescia, riscuotendo tanti applausi da far tremare le pareti di scena.[senza fonte][5][6][7] L’opera ha la stessa fonte e lo stesso titolo dell’omonimo spettacolo di Ruggero Leoncavallo, con cui al tempo Puccini ingaggiò una sfida.[8]
Trama
L’esistenza spensierata di un gruppo di giovani artisti bohémien costituisce lo sfondo dei diversi episodi in cui si snoda la vicenda dell’opera, ambientata nella Parigi del 1830.
Quadro I
Adolf Hohenstein, bozzetto del costume di una rappezzatrice per la prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
In soffitta
La vigilia di Natale, il pittore Marcello sta dipingendo un paesaggio del Mar Rosso, e il poeta Rodolfo sta tentando di accendere il fuoco con la carta di un dramma scritto da lui (ma nel camino manca la legna). Giunge il filosofo Colline, che si unisce agli amici e si lamenta poiché la vigilia di Natale nessuno concede prestiti su pegno. Infine, il musicista Schaunard entra trionfante con un cesto pieno di cibo e la notizia di aver finalmente guadagnato qualche soldo. I festeggiamenti sono interrotti dall’inaspettata visita di Benoît, il padrone di casa venuto a reclamare l’affitto, che però viene liquidato con uno stratagemma. È quasi sera e i quattro bohémiens decidono di andare al caffè Momus. Rodolfo si attarda un po’ in casa, promettendo di raggiungerli appena finito l’articolo di fondo per il giornale “Il Castoro”.
Rimasto solo, Rodolfo sente bussare alla porta. Una voce femminile chiede di poter entrare. È Mimì, giovane vicina di casa: le si è spento il lume e cerca una candela per poterlo riaccendere. Una volta riacceso il lume, la ragazza si sente male: è il primo sintomo della tubercolosi. Quando si rialza per andarsene, si accorge di aver perso la chiave della stanza: inginocchiati sul pavimento, al buio (entrambi i lumi si sono spenti), i due iniziano a cercarla. Rodolfo la trova per primo ma la nasconde in una tasca, desideroso di passare ancora un po’ di tempo con Mimì e di conoscerla meglio. Quando la sua mano incontra quella di Mimì (“Che gelida manina”), il poeta chiede alla fanciulla di parlargli di lei. Mimì gli confida d’essere una ricamatrice di fiori e di vivere sola (“Sì, mi chiamano Mimì”).
L’idillio dei due giovani, ormai ad un passo dal dichiararsi reciproco amore, viene interrotto dagli amici che, dalla scala, reclamano Rodolfo. Il poeta vorrebbe restare in casa con la giovane, ma Mimì propone di accompagnarlo e i due, che dal “voi” formale del dialogo precedente, sono passati al “tu” degli innamorati, inneggiando all’amore (“O soave fanciulla”, anche conosciuta come “Amor, amor”) lasciano insieme la soffitta mentre si baciano.
Quadro II
Adolf Hohenstein, bozzetto della prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
Al caffè
Il caffè Momus. Rodolfo e Mimì raggiungono gli altri bohèmiens. Il poeta presenta la nuova arrivata agli amici e le regala una cuffietta rosa. Al caffè si presenta anche Musetta, una vecchia fiamma di Marcello, che lei ha lasciato per tentare nuove avventure, accompagnata dal vecchio e ricco Alcindoro. Riconosciuto Marcello, Musetta fa di tutto per attirare la sua attenzione, esibendosi (“Quando men vo“), facendo scenate ed infine cogliendo al volo un pretesto, il dolore al piede per una scarpetta troppo stretta, per scoprirsi la caviglia e far andare via Alcindoro a comprare un nuovo paio di scarpe. Marcello non può resisterle e i due amanti si riconciliano. Subito dopo si scopre che i quattro amici non possono pagare il conto. Musetta allora fa sommare al cameriere il conto di Alcindoro e dei bohèmiens e li mette in conto ad Alcindoro stesso. Quindi fuggono. Poco dopo Alcindoro, tornato con le scarpe per Musetta, scopre la fuga di quest’ultima e visto il doppio conto da pagare si accascia su una sedia.
Quadro III
Adolf Hohenstein, tavola di attrezzeria per la prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
La Barriera d’Enfer
Febbraio. Mentre la neve cade dappertutto, i doganieri lasciano passare le lattaie venute a portare latte e formaggi alla sordida osteria dove Marcello lavora come ritrattista; tra di esse giunge anche Mimì, venuta in cerca dell’amico per confidargli le sue pene. La vita in comune con Rodolfo le si è rivelata ben presto impossibile: le scene di gelosia sono ormai continue, come pure i litigi e le incomprensioni; lui la accusa ingiustamente di leggerezza e di infedeltà. Marcello le rivela che anche il suo rapporto con Musetta è in crisi, poiché la donna non riesce ad abbandonare la sua vita lasciva e lo tradisce ripetutamente con uomini facoltosi. In quella giunge Rodolfo, che ha passato la notte all’osteria: Mimì si nasconde e origlia mentre Marcello lo spinge a parlare di lei. Sulle prime lo scrittore conferma ciò che lei ha raccontato; tuttavia poi, incalzato dall’amico, gli rivela che le sue accuse sono un pretesto: ha capito che Mimì è gravemente malata e che la vita nella soffitta potrebbe pregiudicarne ancor più la salute. Mimì ascolta, non vista, queste confessioni, ma la sua tosse la fa scoprire: lei e Rodolfo hanno quindi uno struggente confronto nel corso del quale dapprima si accusano a vicenda, ma poi iniziano a ricordare tutti i bei momenti passati insieme. Nel frattempo giunge Musetta, la quale ha appena amoreggiato con un uomo: ciò causa le ire di Marcello, che rompe la loro relazione e la scaccia. Anche Mimì e Rodolfo decidono di separarsi, ma trovano che lasciarsi in inverno sarebbe come morire, così decidono di aspettare fino alla bella stagione, la primavera.
Quadro IV
In soffitta
Ormai separati da Musetta e Mimì, Marcello e Rodolfo si confidano le pene d’amore. Quando Colline e Schaunard li raggiungono, le battute e i giochi dei quattro bohémiens servono solo a mascherare la loro disillusione. All’improvviso sopraggiunge Musetta, che ha incontrato Mimì sofferente sulle scale, ormai prossima alla fine, in quella soffitta che vide il suo primo incontro con Rodolfo. Musetta manda Marcello a vendere i suoi orecchini per comperare medicine, ed esce lei stessa per cercare un manicotto che scaldi le mani gelide di Mimì. Anche Colline decide di vendere il suo vecchio cappotto (“Vecchia zimarra, senti”), al quale è molto affezionato, per contribuire alle spese. Qui, ricordando con infinita tenerezza i giorni del loro amore, Mimì si spegne dolcemente circondata dal calore degli amici (che le donano il manicotto e le offrono un cordiale) e dell’amato Rodolfo. Mimì è apparentemente assopita, inizialmente nessuno si avvede della sua morte. Il primo ad accorgersene è Schaunard, che lo confida a Marcello. Nell’osservare gli sguardi e i movimenti degli amici, Rodolfo si rende conto che è finita e, ripetendo straziato il nome dell’amata, l’abbraccia piangendo.
Poesie di Luciano Valentini- Cipressi sulle colline-
– Betti Editrice-
Poesie di Luciani Valentini-Cipressi sulle Colline-Dalla Prefazione di Daniela Pinassi :«Non è facile descrivere in poche righe le sensazioni che suscita questa cospicua raccolta di poesie di Luciano Valentini, perché, anche se si possono intravedere due o tre temi dominanti, in realtà le emozioni che le poesie muovono sono molteplici. I temi prevalenti sono la solitudine, l’inquietudine, che porta spesso il poeta a porsi molti interrogativi, la nostalgia del tempo che passa ed anche la morte, ma solo in qualche testo».
La Betti Editrice nasce nel 1992 con un taglio prevalentemente locale con una particolare attenzione alla storia, cultura e turismo a Siena. Negli anni ha allargato il suo raggio d’azione a generi diversi (narrativa, edizioni per bambini,..) con uno sguardo che spazia all’intero territorio Toscano e a tematiche di interesse nazionale. Una produzione differenziata per argomenti e generi è elemento distintivo della Betti Editrice che opera nel mondo editoriale cercando di far convivere e tenere in equilibrio il rispetto della storia e delle tradizioni con la curiosità per l’innovazione e i linguaggi contemporanei.
Dal 2017 organizza il premio di narrativa dedicato alle storie di viaggio lungo la Via Francigena.
DESCRIZIONE del libro di Ann Mark-Vita di Vivian Maier-Nella periferia di Los Angeles, il 17 luglio 1955, apriva per la prima volta i suoi cancelli Disneyland. Quasi trentamila persone si riversarono nei viali mai calpestati prima, un fiume in piena di bambini pronti a lasciarsi meravigliare. Lì, tra famiglie, figuranti e pupazzi, c’era Vivian Maier, una tata di origine francese da poco trasferitasi sulla West Coast in cerca di un nuovo incarico. La donna girovagava da sola tra la folla con una macchina fotografica in mano: dopo anni di scatti in bianco e nero, aveva deciso di passare al colore per immortalare gli attori travestiti da nativi americani e i castelli di cartapesta, per rendere giustizia a quell’atmosfera sognante e un po’ finta. Ma conclusa la gita, quelle foto non furono viste da nessuno, come le altre decine di migliaia di immagini che Vivian Maier scattò e tenne nascoste agli occhi del mondo per decenni. La storia del loro ritrovamento è già leggendaria: montagne di rullini chiusi in scatole di cartone fino al 2007, quando per un caso fortunato John Maloof, il figlio di un rigattiere di Chicago, acquistò in blocco il contenuto di un box espropriato. All’interno trovò un archivio brulicante di autenticità e umanità, il patrimonio di una fotografa sconosciuta che in pochi anni sarebbe stata celebrata in tutto il mondo. Ma mentre le sue opere diventavano sempre più popolari, la sua biografia restava un segreto impenetrabile, perché Vivian aveva sepolto il suo talento con la stessa cura e riserbo con cui aveva protetto la sua vita. Adesso, grazie alla meticolosa ricerca investigativa di Ann Marks, che ha avuto accesso a documenti personali e fonti di primissima mano, quelle vicende personali finora oscure vengono sottratte all’oblio, al mistero e alla leggenda. “Vita di Vivian Maier” rivela in tutta la sua complessità la storia di una donna fuggita da una famiglia disfunzionale, fra illegittimità, abuso di sostanze, violenza e malattia mentale, per poter finalmente vivere alle sue condizioni. Nessuno, neanche le famiglie presso cui prestava servizio, aveva idea che quella bambinaia di provincia nascondesse uno dei maggiori talenti fotografici del periodo, in grado di ritrarre le disparità e le ingiustizie degli Stati Uniti del boom economico, le persone comuni, i bambini, la semplice vita urbana. In questo, che trabocca di foto (anche inedite), l’opera e la vita finalmente si intrecciano in un’unica storia: il ritratto che emerge è quello di una sopravvissuta, fiduciosa nel suo talento nonostante le sfide della malattia mentale, una donna socialmente consapevole, straordinariamente complessa e soprattutto libera.
Ann Marks spent thirty years as a senior executive in large corporations and served as chief marketing officer of Dow Jones/The Wall Street Journal.After retirement, she put her research and analysis skills to use as an amateur genealogist and became inspired to unlock the mysterious life of photographer Vivian Maier. She has dedicated years to studying Maier’s archive of 140,000 images and is an internationally renowned resource on Vivian Maier’s life and work. Her research has been featured in major media outlets, including the Chicago Tribune, The New York Times, and the Associated Press. Marks lives in Manhattan with her husband and three children.
Chiara Gamberale- “Dimmi di te” -– Articolo di Luigi Oliveto-
Einaudi Editore
Articolo di Luigi Oliveto -L’ultimo romanzo di Chiara Gamberale “Dimmi di te” (Einaudi), pone molte e ardue domande. Non è infatti facile stabilire se la nostra vita corrisponda a come l’avevamo pensata, quanto possiamo dirci ‘compiuti’, non tanto rispetto a certi parametri fasulli imposti dall’esterno, ma in rapporto a sé stessi, a ciò che fa sentire bene con la propria persona, con il nostro essere al mondo. La protagonista del romanzo, Chiara, è giunta a una fase della vita (oltre i quarant’anni) in cui questi interrogativi privi di risposte sono diventati opprimenti, tanto da avere trasformato la sua esistenza in una “palude”. Madre single di una bambina (che nel romanzo viene chiamata semplicemente Bambina), cede ad una delle più diffuse consuetudini familiari: lascia la mansarda del condominio dietro la stazione (perfetto milieu per una adolescenza protrattasi oltre il dovuto) e va ad abitare vicino ai genitori, “impeccabili nonni”, così da avere un aiuto per la gestione della bimba e più tempo per sé. Ma, a cominciare dall’ambiente lindo e tranquillo di quel quartiere (il Quartiere Triste), dalle famiglie così perbene e ‘normali’ che vi risiedono, Chiara si sente quanto mai “impantanata”. Qualcosa accade, però, quando incontra casualmente un amico dei tempi del liceo. L’incontro suscita un inevitabile rimando al passato, ma soprattutto l’esigenza di ripensare quanto il presente possa essersi disallineato dalle aspettative racchiuse in quel passato, quali scelte (e non-scelte) hanno tradito i sogni. L’amico ritrovato diviene così un primo termine di paragone per iniziare a comprendere come si divenga adulti (che è cosa diversa dal crescere), quali compromessi siano forse inevitabili. Questa scoperta dell’altro per testare la propria maturità, induce Chiara a ricontattare diversi suoi coetanei – figure che negli anni del liceo avevano esercitato su di lei forte ascendente, fascino, ammirazione – per verificare quanto il loro presente corrisponda a ciò che erano stati, e, comunque, come e se riescano a vivere in pace con loro stessi. Conduce questa ricerca con metodo, fissa appuntamenti anche percorrendo chilometri, registra scrupolosamente quelle chiacchierate. Pone persino delle condizioni: sarà lei a fare domande – “Dimmi di te”, appunto – e nulla di lei può essere chiesto. Non per una forma di supponenza, ma per essere totalmente in ascolto, per capirli appieno senza introdurre nei loro confronti nessun elemento di giudizio. Anzi, per giungere meglio a un giudizio su di sé, ancorché impietoso, ogni qualvolta si rende consapevole di verità da cui non può più sfuggire. Un’indagine necessaria per maturare senza marcire, poiché all’inazione della palude sono pur sempre preferibili le acque aperte di un mare mosso.
***
Alla fine avevo ceduto e Bambina e io avevamo cambiato casa.
Ci eravamo trasferite nel Quartiere Triste, dove, da quando erano andati in pensione, si erano trasferiti i miei genitori.
Un posto tranquillo, Chiara.
Pieno di verde.
Non sembra neanche di stare a Roma.
C’è un silenzio.
Altro che il tuo, di quartiere.
Un quartiere per studenti fuori sede.
Senza un asilo decente.
Una palestra.
Vuoi mettere? Qui per i bambini c’è tutto.
La vita diventerà subito facile.
E poi avrai noi a pochi passi e potremo darti una mano.
Così, a più di quarant’anni, dopo averne trascorsi almeno trenta a contestare l’impalcatura della famiglia messa su da mia madre e mio padre, avevo bisogno proprio dell’aiuto che loro, solo loro, impeccabili nonni, adesso mi potevano dare.
L’avessi messa su io, una famiglia: no, non ne ero stata capace.
Perché a furia di cercare l’amore, di confidare in un allineamento fra i miei pensieri e i sentimenti e le emozioni, non mi ero preoccupata di imparare che cos’è una coppia, com’è che funziona.
Avevo stremato la mia adolescenza oltre ogni limite, ancora mangiavo poco o niente durante il giorno e poi la notte aprivo il freezer e facevo fuori una vaschetta di gelato, nella mansarda di quel quartiere per studenti fuori sede dove abitavo, ogni sera sul divano poteva addormentarsi un mio amico, un’amica, persone come me che dopo le sette, finito di lavorare, dovevano improvvisare il seguito, non c’era nessuno con cui avessero un appuntamento fisso alla stessa tavola.
Ero riuscita perfino ad avere una figlia in circostanze adolescenziali.
Forse per questo, perché per motivi diversi lo smarrimento era lo stesso, lei e io ci eravamo subito riconosciute, subito capite. Mentre tutto quello che da lì in poi ci avrebbe dovuto girare attorno e quello attorno a cui avremmo dovuto girare noi, non lo riconoscevo, non lo capivo, non sapevo come affrontarlo.
Sei ancora innamorata o no?
Lui? È innamorato?
Un conto è l’amore, un altro è la dipendenza, eh.
Sei sicura che con la ex abbia risolto?
E tu? Con il tuo, di passato?
Sai, lui è identico al tizio con cui sono uscita io l’altra sera e che…
Secondo me invece somiglia più alla tizia che avevo incontrato sul cammino di Santiago, la tedesca, ve la ricordate?
Nella mansarda, dal giorno in cui avevo scoperto di essere incinta, non cercavamo altro che una soluzione al rebus – che era sempre stato difficile, ma adesso si faceva impossibile – del rapporto fra me e il padre di Bambina, che viveva e lavorava in un’altra città. Parlavamo, parlavamo, parlavamo parlavamo. Sapevamo ammazzare il tempo solo così, tutti insieme, oppure ognuno per conto suo, perché allo stare in due (con un’altra persona: quella, e basta) forse chiedevamo troppo, forse eravamo disposti a sacrificare troppo poco – la questione rimaneva aperta. Naturalmente nessuno di noi aveva mai immaginato di avere un bambino, perché eravamo noi i bambini, bambini marci – persone che non erano state in grado di maturare. Tutti infatti avevano da subito amato Bambina come fosse un peluche, la mascotte della nostra mansarda. Ma ero io, solo io, che la notte mi svegliavo se lei si svegliava, ero io che restavo sveglia anche mentre dormivo, che la stringevo a me incandescente quando aveva la febbre alta, e non memorizzavo che i bambini piccolissimi fanno così: il giorno dopo passa tutto, era a me che ogni volta quella febbre arrivava alla cima dei nervi, ero io che mi ero prosciugata per allattarla almeno i primi tre mesi con il latte che purtroppo avevo a gocce, io che scaldavo – ma senza esagerare – quello in polvere, per le aggiunte, io che avevo sempre avuto il freezer gonfio e il frigorifero vuoto, occupato solo dalla sua luce, e adesso, mentre Bambina compiva sei sette nove mesi un anno, organizzavo lo scompartimento degli omogeneizzati di carne, di pesce, delle verdure da bollire per il brodo, della crema al mais e alla tapioca – che odore orribile aveva, la tapioca –, ero io che la incoraggiavo a mettere un piedino davanti all’altro, brava, ora aggrappati qui, amore, io che la portavo a fare il primo vaccino, il richiamo, che cercavo il pediatra giusto, il nido giusto, che salivo e scendevo i sette piani a piedi del nostro palazzo senza ascensore con lei in braccio, dopo avere legato il passeggino nell’androne con una catena per le bici, perché se mi dimenticavo di farlo rischiavo di non trovarlo più, come mi era successo due volte nel primo mese: ma, appunto, era un quartiere fatto così, quello. Un quartiere alle spalle della stazione dove tutto può succedere, le persone capitano, se ne vanno, è difficile che qualcuno resti, che si fermi per più di un paio di giorni, e infatti è vero che al di là di un asilo improvvisato nel cortile di cemento armato di un convento, non ci sono scuole per l’infanzia che si possono raggiungere senza prendere la macchina, palestre, non ci sono veterinari, toelettature per cani, niente che possa andare incontro a un’abitudine, i sampietrini dissestati promettono solo avventure e casualità, non ci sono nemmeno i marciapiedi.
Che invece nel Quartiere Triste costeggiano, larghi e placidi, le strade di alberi curati da dove partono viuzze su cui si affacciano i cancelli di graziose villette degli anni Venti, bianche o gialle, e di palazzine liberty basse, con i balconi a cielo aperto, il glicine che si arrampica tutt’attorno ai portoni, le station-wagon parcheggiate.
Eddài, Chiara.
Venite qui.
Fatti aiutare.
Da quanto sei stanca non riesci più a lavorare.
Era vero. Avevo pubblicato il mio primo romanzo a vent’anni, ma ne avevo sette quando avevo scritto Clara e Riki e poi Clara e Riki crescono e poi I figli di Clara e Riki… Non sapevo fare altro nella vita che quello. Leggere, inventare storie, scriverle. I miei personaggi somigliavano ai miei amici della mansarda, ancora prima che li conoscessi: raccontavo chi fa confusione, inciampa, si perde proprio mentre imbocca la via di casa. Chi è destinato a diventare, se ancora non lo è, un bambino marcio. Amavo profondamente il mio lavoro, mi imbarazzava anche chiamarlo lavoro: appena mi avvicinavo a un uomo, a una montagna, allo sportello di un bancomat ero assalita da un dubbio, ma scrivere era la mia certezza, tutte le mie costanze, il mio unico rimedio all’esistenza.
Finché non era arrivata Bambina.
[da Dimmi di te di Chiara Gamberale, Einaudi, 2024]
Luigi Oliveto Giornalista , scrittore e saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita dapoeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poetadelle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),…
Sinossi del libro di Francesco Battistini-Jerusalem Suite .C’è un luogo, l’American Colony di Gerusalemme, che è sempre stato sulla prima linea del conflitto arabo-israeliano. Non è solo un albergo storico e di fascino. Nato quasi 150 anni fa nella vecchia casa di un effendi, culla d’una piccola colonia di presbiteriani americani, il Colony, sul limite fra l’Est e l’Ovest, ha sempre cercato d’essere un luogo di neutralità, di dialogo, d’incontro fra cristiani, ebrei, musulmani. Il libro è la storia di questo albergo. Raccontato attraverso i suoi personaggi, le sue stanze, gli eventi che l’hanno abitato. Fu un lenzuolo del Colony, usato come bandiera bianca, a sancire la fine della dominazione ottomana. Qui venivano Lawrence d’Arabia a rifugiarsi e Churchill a ridisegnare il Medio Oriente, Selma Lagerlöf a scrivere il suo romanzo da Nobel e Mark Twain a riposarsi. Nel 1948 da questi tetti si sparavano la Legione Araba e la Banda Stern. Durante le guerre dei Sei giorni e del Kippur in questa reception bivaccavano i giornalisti di tutto il mondo. In questi giardini giocava un piccolo Rudolf Hess, futura anima nera della Shoah, e nella camera 16 ci furono le prime trattative per gli accordi di Oslo. Qui alloggiava Tony Blair quand’era inviato per la Cisgiordania e Gaza e qui passava John Kerry, dopo gli incontri con Netanyahu. Il Colony è ancora oggi una piccola Palestina nella Gerusalemme occupata, dove molti leader palestinesi non mettono piede, e insieme un pezzo d’Israele che pochi politici israeliani frequentano. Una terra di nessuno e di tutti. Plato Ustinov vi piantò due palme della pace più volte incendiate e poi ripiantate dal nipote Peter. Durante le intifade, il Colony era una fortezza sicura: un rigido statuto fissa le quote “etniche” dei camerieri che vi possono lavorare, e per questo nessuno l’ha mai attaccato.
Il Colony ha visto ventun guerre, trenta piani di pace, ventidue accordi, ottocento risoluzioni Onu. L’autobiografia di tre religioni, due popoli, una città.
«Qualcuno dovrebbe davvero raccontare la storia di questo luogo». The New York Times
«Il Signore Iddio divise tutta la bellezza in dieci parti: ne consegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo. Poi divise anche il dolore in dieci parti e di nuovo ne assegnò nove a Gerusalemme e una al resto del mondo». Talmud di Gerusalemme, Kiddushin 49b
L’Autore-Francesco Battistiniè inviato speciale al Corriere della Sera, dopo aver lavorato al Giornale di Indro Montanelli e alla Voce. Ha seguito i Balcani dalla Bosnia in poi. Già corrispondente da Gerusalemme, si occupa prevalentemente di Europa dell’Est, Medio Oriente e Nord Africa. Ha coperto una dozzina di conflitti dall’Afghanistan all’Iraq. Coautore di Che cosa è l’Isis (Fondazione Corriere della Sera).
Wanda Osiris | Dal registro alla Storia-Archivio di Stato-
Wanda Osiris – all’anagrafe Anna Menzio – nacque a Roma il 3 giugno 1905, da Giuseppe, palafreniere del re, e Adele Pandolfi.
Il suo precoce interesse per lo spettacolo la portò al debutto nel 1923, come soubrette presso il cinemateatro Eden di Milano, dove diede inizio alla sua scalata verso il successo. Divenne presto una figura iconica, con la sua pelle artificiosamente ocra, il trucco marcato, i capelli ossigenati, piume, paillettes, tacchi e fiumi di profumo Arpège, sempre rivestita di sfarzo e sensualità.
Il primo vero trionfo fu agli inizi degli anni Trenta, all’Excelsior di Milano, accanto a Totò ne Il piccolo cafè. Con l’avvento della notorietà vennero coniati anche i suoi soprannomi, la Wandissima e la Divina, che solo il fascismo tenterà di contenere, italianizzando il suo nome d’arte in “Vanda Osiri”.
Lavorò a fianco di grandi personaggi del tempo, come Carlo Dapporto, Macario, Nino Taranto, Walter Chiari, Renato Rascel e molti altri. Ma soprattutto le sue riviste divennero famose per le eccentriche scenografie e le enormi scalinate che scendeva con grazia e disinvoltura, sempre attorniata da un ampio corpo di ballo che sceglieva lei stessa.
Fra i suoi maggiori successi si ricordano: Tutte donne (1939), Che succede a Copacabana? (1943), Grand Hotel (1948), Made in Italy (1953) e Festival (1954), a cui si affiancano canzoni di grande risonanza, come Sentimental (1949) e Ti parlerò d’amor (1944).
Tuttavia, l’avvento della televisione contribuì pian piano a sfumare il mito di Wanda, complice anche la diffusione di un nuovo prototipo di bellezza e di fare varietà. Eppure, ancora oggi Wanda Osiris incarna l’emblema della soubrette italiana della prima metà del Novecento e per questo riconosciuta dal grande pubblico come la prima vera diva nazionale.
Morì a Milano nel 1994, all’età di 89 anni.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1905
È stata la prima Diva dello spettacolo leggero italiano. I suoi spettacoli erano caratterizzati dallo sfarzo; amava discendere scale hollywoodiane attorniata da giovani ballerini che sceglieva lei stessa. Per lei vennero coniati gli appellativi di Wandissima e di Divina. Le interpretazioni canore molto personali, il trucco tipicamente ocra, i capelli ossigenati, le piume, i tacchi, le paillettes, i fiumi di profumo Arpège, le rose e i ricchi costumi (ideati e realizzati da Folco Lazzeroni Brunelleschi), divennero caratteristici. Registrata allo stato civile come Anna Menzio, nacque a Roma il 3 giugno 1905 nella casa di Via Quirinale 16, figlia di Adele Pandolfi e del marito Giuseppe Menzio, palafreniere del Re presente a Monza nel momento dell’assassinio di Umberto I.
Lasciata la famiglia e abbandonati gli studi di violino per seguire la passione teatrale, arrivò a Milano dove debuttò nel 1923 al cinema Eden.
Durante il fascismo, in ottemperanza alle direttive emanate da Achille Starace per conto del governo, le fu imposto di italianizzare il nome d’arte, che divenne Vanda Osiri. Nel 1937 fu scritturata da Macario per mettere in scena la rivista Piroscafo giallo. Nel 1938 è in Aria di festa, dove appare in una gabbia d’oro. A Milano nel 1940 uscì da un astuccio di profumo in Tutte donne; a Roma nel 1944 recitò per la prima volta con Carlo Dapporto, in Che succede a Copacabana, nel 1945 in L’isola delle sirene e La donna e il diavolo.
Dopo la fine della guerra, tornò a Milano e sempre con Dapporto divenne la regina del gran varietà. Nel 1946 entrò a far parte della compagnia teatrale di Garinei e Giovannini.
Nel 1948, Al Grand Hotel, sorprese il pubblico in un’opera teatrale al massimo sfarzo e lusso. Conobbe Gianni Agus con il quale ebbe una lunga relazione professionale. Sul finire degli anni quaranta, la Osiris diventò la regina incontrastata dei salotti e al Teatro Lirico le sue apparizioni erano degne dei botteghini della Scala. Nel 1951 lavorò in Gran baraonda con il Quartetto Cetra, Turco, Dorian Gray e Alberto Sordi.
Nel 1954 ritornò con Macario in Made in Italy, mentre nel 1955 in Festival, diretto da Luchino Visconti, non ottenne il successo sperato. L’anno dopo, nella rivista La granduchessa e i camerieri (tra gli attori compariva anche Gino Bramieri) inciampò nell’abito di crinoline: si temette la fine della sua carriera, ma dopo cinque giorni la Divina calcò di nuovo la scena. Ugualmente, il successo si spense rapidamente con il tramonto del varietà, progressivamente soppiantato dalla nascente commedia musicale, e l’affermarsi impetuoso di un modello di soubrette del tutto nuovo (impersonato da figure come Delia Scala, Lauretta Masiero, Marisa del Frate) e al radicale rinnovamento di stile portato avanti dalla “ditta” Garinei e Giovannini in accordo con l’evoluzione dei gusti del pubblico.[2]
Nel 1963 in una riedizione di Buonanotte Bettina, interpretò la parte della suocera a fianco di Walter Chiari e Alida Chelli, poi con la concorrenza della televisione e la decadenza del varietà, il suo percorso teatrale si interruppe. Recitò in prosa negli anni settanta: la sua parte più celebre fu in Nerone è morto? di Hubay nel 1974, con la regia di Aldo Trionfo.
Accudita dalla figlia Ludovica Rivolta in Locatelli, detta Cicci (1928-2013), e dalla nipote Fiorenza, Wanda Osiris morì a Milano nel 1994, all’età di 89 anni, a causa di un edema polmonare. È tumulata al Cimitero monumentale di Milano, non lontano dalla tomba di Gino Bramieri.[3]
Vita privata
Nel 1928, dalla relazione con Osvaldo Rivolta, nasce la figlia Ludovica, detta Cicci.
Viola Conti-Perché sfuggo all’amore? Il dolore è un talento
-Giovane Holden Edizioni-
Descrizione del libro di Viola Conti-Stabilità, presenza, accettazione sono ciò che Micol ha trovato nel suo compagno Alberto. È un uomo solido, misurato, affidabile, che la apprezza sempre per quello che lei è, e che sa darle la tranquillità che nella vita troppo spesso le è mancata. Un uomo così è difficile da trovare, le ripetono le amiche e i familiari. Ma in quella tranquillità perfetta e sempre uguale, fatta di routine e priva di quegli slanci di fantasia di cui un amore si nutre, Micol si sente segretamente soffocare. Quando il destino le fa incrociare lo sguardo di Flavio, di cui il soprannome il Vichingo racconta ogni cosa, esplode una violenta passione clandestina, accesa di sensualità e di curiosi giochi mentali. Flavio è agli antipodi di Alberto, sfacciato, aggressivo, sfuggente, ogni momento con lui è una sfida imprevedibile ma inebriante. Micol si ritrova lacerata tra due opposti, in cerca di un equilibrio impossibile e della determinazione per compiere una scelta definitiva, mentre i sensi di colpa la divorano e la confusione non fa che crescere. Una storia vivace e di grande acutezza che sa raccontare le sfumature complesse di un sentimento universale, quel bisogno di completezza e insieme il desiderio di brivido che si vorrebbero sempre al centro di un rapporto sentimentale. A illuminare il racconto con una interpretazione psicologica, un saggio chiaro e divulgativo sulle organizzazioni di personalità, con un focus particolare sulla personalità depressiva detta abbandonica, che per la paura della solitudine indossa maschere reprimendo se stessa nel tentativo di aderire alle aspettative altrui.
Giovane Holden Edizioni
Fondata nell’agosto 2006 da Miranda Biondi e Marco Palagi, la casa editrice si distingue subito per la sua linea editoriale originale e per la capacità di saper coniugare innovazione e qualità. Il riferimento nel nome a Holden Caulfield, il protagonista del famoso libro di Salinger, testimonia un intento specifico: curiosità, coscienza critica, un pizzico di ironia. Le difficoltà per un piccolo editore indipendente sono molte, Giovane Holden però è riuscita a ritagliarsi un suo spazio nel mercato conquistando credibilità e soprattutto fama di serietà professionale. A oggi Giovane Holden è una delle realtà editoriali indipendenti più apprezzate a livello nazionale e internazionale. La vocazione per la scoperta letteraria e il gusto per il nuovo si palesa fin dai suoi esordi attraverso l’organizzazione di un Premio Letterario Nazionale, doverosamente, intitolato “Giovane Holden”, che nel 2016 giunge alla sua decima edizione. Negli anni si è aggiunto un Premio tematico “Streghe Vampiri & Co.” La casa editrice vanta oltre cinquecento titoli in catalogo e ha fama, tra gli operatori del settore, di azzeccare sempre una pubblicazione: con una media di circa trenta titoli l’anno, si propone sul mercato come uno dei piccoli editori indipendenti più attivi nel settore promozione. Tra i generi pubblicati: narrativa italiana e straniera (tra cui thriller, avventura, fantasy, rosa), narrativa per bambini e ragazzi, poesia italiana e straniera, saggistica divulgativa (attualità e politica, storia, scienze) e manuali, classici e libri fotografici. Nel 2009 la pubblicazione di Nudo, il libro provocazione composto rigorosamente da pagine bianche, proietta Giovane Holden sulle più importanti testate giornalistiche nazionali, tra cui un passaggio sul Tg satirico di Canale 5 “Striscia la notizia”. A partire dal 2012 conquista anche le piattaforme digitali e avvia la distribuzione dei titoli in versione e-book su tutte le piattaforme online di vendita. La casa editrice partecipa a diverse fiere del libro, tra cui il Pisa Book Festival, la fiera dell’editoria indipendente che si svolge a novembre nella cittadina toscana e il Salone del libro di Torino. Non solo casa editrice quanto piuttosto realtà composita, Giovane Holden è stato anche editore di un periodico di arte e cultura free press “I soliti ignoti magazine” e partner ufficiale della Prima Campagna Nazionale di sensibilizzazione alla lettura “Leggere giova gravemente alla salute”, ideata dall’Associazione culturale I soliti ignoti, che prevede la distribuzione gratuita di migliaia di testi in tutta Italia. Giovane Holden è in prima linea per la difesa della cultura e anche dei diritti civili, dal 2006 ha aderito a un progetto di adozione a distanza. Inoltre è ideatrice e promotrice della campagna nazionale di sensibilizzazione contro la violenza di genere Woman. No more violence, trust yourself.
Descrizione del libro di Marco Dalla Torre-Antonia Pozzi (1912-1938), straordinaria voce lirica del ‘900, frequentò intensamente la montagna, traendone ispirazione più di ogni altro poeta italiano. Marco Dalla Torre ne ricostruisce l’attività alpinistica e ne indaga la relativa trasfigurazione poetica, che costituisce una linea tematica fortemente originale all’interno del suo canzoniere. Il testo è completato da una ricca documentazione fotografica inedita.
Breve biografia di Antonia Pozzi, nata a Milano nel 1912, morì suicida nel 1938.Grazie all’agiatezza della sua famiglia, ebbe la possibilità di viaggiare molto in Italia e all’estero e di praticare vari sport, soprattutto l’alpinismo. Nel 1935 si laureò in Estetica con Antonio Banfi e, negli ultimi anni di vita, sviluppò una crescente apertura alla società e alla storia. Le sue poesie sono state pubblicate postume in varie edizioni e traduzioni, accolte tutte con profondo interesse. Una grande attenzione hanno suscitato anche le pagine di diario sopravvissute, le molte lettere e la tesi di laurea. Antonia Pozzi ha lasciato inoltre una consistente produzione fotografica di notevole e ormai ampiamente riconosciuto valore artistico.
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