Un seguito per “Lo straniero” di Albert Camus-Kamel Daoud-Articolo di Alberto Corsani-Uno scrittore algerino immagina il contraltare del celebre romanzo,Un arabo uccide un francese, apparentemente senza motivo, pochi giorni o poche settimane dopo l’indipendenza ottenuta dagli algerini nei confronti della Francia. È il ribaltamento della situazione che innescava, nel 1942, Lo straniero di Albert Camus, dove, nelle prime pagine, un francese d’Algeria sparava a un arabo sulla spiaggia, apparentemente senza motivo. Ma il libro iniziava in maniera inattesa, secca, brutale: «Oggi la mamma è morta…». E la madre è assolutamente centrale, sia pure in termini diversi, anche nel romanzo, ora uscito anche in Italia, dello scrittore-giornalista Kamel Daoud*, che davvero prosegue, rovesciandola, l’«inchiesta» legata allo Straniero e al suo protagonista Meursault(Meursault: contre-enquête è il titolo originale).
La vicenda dello Straniero è stata conosciuta da molti anche sui banchi di scuola: forse Meursault, abbacinato dal sole, ha visto l’arabo avvicinarsi minaccioso, forse era comparsa la lama di un coltello. Dunque, il delitto. E poi tutto quel che ne segue: il protagonista-assassino (che è anche il narratore) non si difende, anzi il suo comportamento sarà alla base della sua condanna a morte. Era defunta la madre, in un ospizio, e lui non se ne era occupato, anzi era andato con una donna. Tutto gli sembrava assurdo, Meursault si «lascia vivere addosso»: non gli resta che farsi condannare, sperando che tanta gente assista, odiandolo, alla sua esecuzione.
Daoud rifiuta questa impostazione, perché essa non rende giustizia alla vittima: vestendo i panni del fratellino dell’arabo ucciso, l’autore lamenta che nel romanzo di Camus la vittima esca di scena senza neppure aver avuto la dignità di un nome. Poteva essere stato ucciso chiunque altro, ciò che interessa lo scrittore francese è solo il disagio interiore, il rovello metafisico, il mal de vivre del sig. Meursault. Un lusso (il disagio esistenziale) che i poveracci non si possono permettere, dovendosi piuttosto arrabattare per tirare avanti e crescere nei vicoli andando a scuola quando capita.
Sembrerebbe una polemica rivendicativa e dettata dall’identità di un popolo liberatosi dal dominio coloniale, che ora volesse liberarsi anche della cappa culturale impostagli dalla Francia. Ma ci sono anche elementi più sottili. Intanto il romanzo di Daoud è tutto pervaso dai libri di Camus, di cui l’autore dimostra una grande conoscenza. Non solo per alcune frasi che ricalcano Lo straniero (per analogia o per via contraria, quasi parodistica). Se nello Straniero il protagonista tiene un atteggiamento di totale insensibilità nei confronti del suo delitto e della sua vittima, qui è tutta la società che assolve l’assassino-narratore: il suo crimine viene considerato un colpo di coda della guerra anticoloniale.
Ma poi c’è anche lo stile – altra operazione interessante: Daoud non si limita a usare frasi brevi ed essenziali come Camus, il suo tono quasi dimesso e una certa brevità del racconto; in un buon terzo del libro scrive rivolgendosi direttamente a un interlocutore, con stile oratorio e dimostrativo, che riecheggia quello di una successiva, complessa opera di Camus come è La caduta. Chi si addentra a questi livelli nello stile del predecessore non può che averlo ammirato.
Inoltre è centrale e molto evocativa la figura della madre. Camus parlò sempre di sua madre come di un modello (povera, di scarsissima istruzione, ma maestra di umanità); per il giovane protagonista invece la mamma è tutto (è già orfano di padre quando gli viene ucciso il fratello), ma è anche una cappa che gli impedisce di crescere, finché l’incontro con una ragazza alle prese con una tesi di laurea sul delitto non lo farà svincolare dalle sue ali protettive.
Un’opera complessa, dunque, che rimanda inevitabilmente all’opera complessiva di Camus, al suo umanesimo che non fu toccato direttamente dalla grazia della fede, ma che ne fu intrigato. Durante la guerra mondiale, nella Francia occupata, lo scrittore entrò in contatto con il mondo protestante. La morte in un incidente d’auto (assurdo, questo sì), quindici anni dopo, ha impedito questo ulteriore, eventuale sviluppo di una vita e carriera dedicate a promuovere la causa dell’umanità: contro ogni oppressione, contro la povertà, la pena di morte, contro la solitudine, e anche contro l’arroganza umana che pretende di creare autonomamente l’uomo nuovo.
*K. Daoud, Il caso Meursault, Milano, Bompiani, 2015, pp. 130, euro 16,00.
Successo a Roma della II Edizione di CORTI DA MARE-
Successo a Roma della II Edizione di CORTI DA MARE – International Short Film Festival – Si è svolta a Roma, Ostia Lido, Acilia e Tolfa la II Edizione di CORTI DA MARE – International Short Film Festival, prodotto dalla CINEMART S.r.l. in collaborazione con Barrett International Group e Associazione ART GLOBAL, e con il sostegno di “LAZIO TERRA DI CINEMA – REGIONE LAZIO”. Direzione Artistica del dott.Franco Mariotti (Direttore di numerosi Festival di Cinema Nazionali ed Internazionali e già Ufficio Stampa di Cinecittà Holding). Ospite d’eccezione, Relatore e Giurato Sezione Videoclip il M° Vince Tempera (Compositore e Direttore d’Orchestra di fama Internazionale).In gara Short Film, Documentari, Interviste e Videoclip provenienti da tutto il mondo.
Il nutrito programma del Festival si è sviluppato nei seguenti appuntamenti:
TAVOLA ROTONDA SUL MARE E SU TEMATICHE AMBIENTALI – Roma (Casa del Cinema – Sala Gian Maria Volontè)
Relatori d’eccezione: Franco Mariotti in qualità di Direttore Artistico del Festival; Vince Tempera in qualità di Giuriato della Sezione Videoclip. Il Maestro ha commentato lo Short Film “Earth” e il Videoclip “I sensi del mare”, proiettati durante la serata, parlando dell’importanza della Colonna Sonora nelle Opere cinematografiche. Maurizio Chirri (Geologo e Docente Uniroma3 e Università “La Sapienza” di Roma) che ha incuriosito il pubblico presente con l’intervento “Il mare e i cicli della terra”, fornendo informazioni preziose sui cambiamenti climatici nei secoli. Numerose le domande fatte dal pubblico presente – Gianlorenzo Battaglia (Autore della Fotografia e operatore subacqueo con all’attivo circa 100 film realizzati, documentari e il programma per RAI 2 “Azzurro quotidiano” che documentavano la cultura, l’archeologia e le tecniche di pesca, viste anche sott’acqua, di vari Paesi del Mediterraneo) che ha raccontato numerosi aneddoti legati ai film per i quali ha realizzato riprese sott’acqua e dei quali ha commentato alcune foto proiettate in Sala – Eleonora Vallone (Attrice e Presidente Aqua Film Festival) che ha raccontato il suo rapporto speciale con l’Acqua e il Mare. Angelo Bassi (Produttore e Distributore MEDITERRANEA PRODUCTION) in qualità di Presidente Giuria Short Film e Documentari; alcuni Finalisti del Festival giunti da tutta Italia : Joseph Lu (Pianista e Compositore di Modica – RG, che ha ricevuto diverse Nomination in numerosi Premi Internazionali tra i quali l’Hollywood Independent Music Awards); Paolo Robino Cuddle (Pianista e Compositore Internazionale) che ha affascinato tutti i presenti con il suo videoclip “I Sensi del mare”; Caterina Novak (Mezzosoprano e Scrittrice) autrice di un VideoArt in cui immagini della terra e del mare si mescolano con i versi di una sua Poesia. Ha moderato Virginia Barrett.
INTERNATIONAL AWARDS CEREMONY- Roma(ANICA – Sala Proiezioni). Dopo il rituale Red Carpet con Foto all’arrivo degli ospiti, sono stati proiettati gli Short Film e i Videoclip Finalisti, e il Trailer del Documentario vincitore, già visionato dalla Giuria di Esperti composta da: Franco Mariotti,Angelo Bassi, Vince Tempera, Gianna Menetti (Direttrice CINEMART), Gianlorenzo Battaglia e Riccardo Antinori (Direttore di VIVIROMA.IT). La Giuria Popolare eracostituita dal dott. Alex Di Giorgio (Presidente Associazione “Arcobaleno dell’Arte”), dott.ssa Luisa Bischetti (già Ispettrice della Polizia di Stato), Claudio Caputo (Responsabile Sicurezza del Teatro dell’Opera di Roma), prof.ssa e dott.ssa Luisa Gorlani Gambino (Docente, Psicologa, Scrittrice), Alessia Sabelli (Giovane Attrice), Ludovica Blasi (Fotomodella). Sul Palco della Sala sono state esposte opere del M° Angiolina Marchese, Presidente dell’Associazione “ARTGLOBAL” e autrice delle preziose litografie delle sue Opere dedicate al mare donate ai Vincitori, agli Ospiti e ai Giurati. Ospiti della serata : Eleonora Vallone, alla quale è stato consegnato un riconoscimento per l’impegno profuso nella diffusione della Cultura dell’Acqua, del Mare e della sua tutela; la dott.ssa Raffaella Zannetti, membro della Comunicazione diUNICEF Fondazione ETS, che ha presentato uno Spot dedicato ai bambini vittime di tutte le guerre. Nello Spot, alcuni bambini di Gaza sognano di ritornare a scuola con gli amici, ma nel frattempo si accontentano di pescare pesci in mare, luogo di serenità e Pace, dunque “PACE IN MARE, PACE IN CIELO, PACE IN TERRA, OVUNQUE PER OGNI BAMBINO”. Ad UNICEF è stato consegnato un riconoscimento per l’impegno costante profuso nella cura di bambini in stato di disagio; Cristiana Bini Leoni, che ha presentato un Video ricordo del marito Roberto Leoni, noto Regista e Sceneggiatore scomparso di recente. Al termine delle proiezioni le Giurie hanno consegnato le votazioni alla dott.ssa Luisa Bischetti che ha stilato la classifica dei Vincitori insieme alla Produttrice del Festival Gianna Menetti e a Claudio Caputo.
SEZIONE SHORT FILM : 1° PREMIO e PREMIO MIGLIOR FOTOGRAFIA “AL DI LA’ DEL MARE” di Massimo Ivan Falsetta. I Premi sono stati consegnati da Angelo Bassi e Gianlorenzo Battaglia. 2° PREMIO : “MARTINA SA NUOTARE” di Giorgio Molteni. 3° PREMIO : “LUISA E’ AL MARE” di Giuseppe Caponio. PREMIO SPECIALE : “EARTH” di Joseph Lu. Il Premio è stato consegnato da Gianna Menetti.
MENZIONE SPECIALE “LUCI SPARSE” Videoart di Poesia e Immagini di Caterina Novak. Il Premio è stato consegnato dal M° Angiolina Marchese.
SEZIONE DOCUMENTARI : 1° PREMIO ASSOLUTO “ERA SCRITTO SUL MARE” di Giuliana Gamba. Il Premio è stato consegnato dal dott. Franco Mariotti.
PREMIO DELLA CRITICA : “IL MAESTRO DEL MARE” Documentario scritto da Kyrahm e Julia Pietrangeli anche Regista dell’Opera. Il Premio è stato consegnato dal dott. Riccardo Antinori, Direttore di VIVIROMA e Presidente Giuria Stampa.
SEZIONE VIDEOCLIP : 1° PREMIO “I SENSI DEL MARE” di Paolo Robino Cuddle – Il Premio è stato consegnato dal M° Vince Tempera; 2° PREMIO “IL LAMENTO DEL MARE” di Tiziana Scimone; 3° PREMIO EX AEQUO a “FLIGHT OVER THE OCEAN” di Fausto Bizzarri (Videoclip Musica Strumentale) e “ZUCCHERO, ZUCCHERO” di Flora Vona (Videoclip).
PREMIO MIGLIOR COLONNA SONORA DA FILM al M° Gabriele Saro, autore del brano “VENICE” per l’omonimo Videoclip, al quale è stato conferito anche il Premio della Giuria Popolare che ha molto apprezzato l’idea dell’Opera con una panoramica su Venezia vista dagli occhi del noto Fotografo Diego Cinello. Ha condotto l’Evento Virginia Barrett (Attrice, Regista, Musicista). A seguire si è svolto un momento conviviale con Cocktail di fine Evento.
La mattinata è stata aperta dall’Intervento di Fulvio Volpi, Comandante del natante della APS SOTTO AL MARE , definito “Astronauta dell’acqua”. Durante l’Evento sono state premiate le migliori Interviste ad over 60 su ricordi di vita legati al Mare, realizzate ad Acilia, Ostia Lido e Tolfa da una Troupe della CINEMART. Le Interviste, già visionate dalla Giuria di Esperti, sono state anche valutate dalla Giuria Popolare presente in Sala. Tutti concordi per i Premi da assegnare: 1° PREMIO a Fernanda Sergio di Donnamasa; 2° PREMIO a Franco Capitanelli; 3° PREMIO ad Ambra Sax. Inoltre sono stati assegnati Diplomi d’Onore ai tre CSA partecipanti : Centro Anziani di Piazza dei Sicani (Acilia) Presidente Vincenzo Basso – Centro di Promozione Sociale “La Rocca”(Tolfa) Presidente Daniela Cedrani – CSAQ Piazza Ronca 22 (Ostia Lido) Presidente Veronica Vincenza Volpi. E’ intervenuto Mimmo Barbuto, Coordinatore dei dieci CSAQ del X Municipio di Roma. L’Attrice e Regista Virginia Barrett, conduttrice del Matinée, ha letto in modo appassionato alcuni Racconti dal Libro “Balene salvateci! – I Cetacei visti da un’altra prospettiva” (Casa Editrice MURSIA)di Maddalena Jahoda (Biologa e Divulgatrice Scientifica), accompagnata dalle calde note della chitarra classica del M° Angelo Cacciato (Compositore e Polistrumentista) e dalla voce recitante, con ironica inflessione veneta, di Barbara Braghin (Attrice eGiornalista). LaPoetessa e Scrittrice Melina Mignemi ha emozionato il pubblico con la lettura delle sue Poesie “Siculo profumo di mare” e “Cascata d’acqua”, dedicate al mare della sua Sicilia e tratte dal Libro “La penna dell’anima” (Edizioni Nuova Impronta).
Ospiti : il prof. Gennaro Ruggiero Direttore del Festival “Corti al Tevere”e la dott.ssa Angelica Loredana Anton Presidente della Fondazione AREA CULTURA di Roma che ha consegnato il Premio “ATHENA d’ORO” a Virginia Barrett, eccellenza nel settore della Cultura. A chiusura dell’Evento sono state proiettate alcune delle Opere dei Vincitori delle Sezioni del Festival.
Tutti gli Eventi si sono svolti ad ingresso libero e gratuito.
Franco Leggeri Fotoreportage-Roma Gianicolo-La quercia del Tasso –
Articolo di Marco Fulvio Barozzi –Fotoreportage di di Franco Leggeri per REDREPORT-Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri.
Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “E’ il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”.
Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?”
“Della quercia del Tasso.”
E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”.
Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”.
Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”.
Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”.
Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.
Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.
Articolo Pubblicato da Marco Fulvio Barozzi sul sito web Popinga –
venerdì 3 maggio 2013-Scienza e letteratura: terribilis est locus iste-
Ilaria Giovinazzo nasce a Roma nel 1979. Laureata in Lettere. Nel 1999 vince il premio Segnalazione speciale della Giuria al concorso europeo di poesia e narrativa “Massimo Grillandi”. Ha pubblicato i seguenti romanzi “Anime perdute (Effedue, 2001), “Non posso lasciarti andar via” (Prospettiva, 2005), “Donne del destino” (Besa, 2007) e le raccolte poetiche “Come un fiore di loto” (Ensemble, 2020), “La simmetria dei corpi” (Ensemble, 2021). Sue poesie sono state pubblicate su riviste specializzate e blog (De sur a sur, Atelier, Metaphorica, Transiti Poetici, La Bottega della Poesia de giornale La Repubblica, Centro cultural Tina Modotti). Con Fuorilinea nel 2022 pubblica il libro illustrato per bambini “Life. 10 cose importanti” e nel 2023 cura la plaquette, edita da Ensemble, dell’evento “Sinfonie Poetiche. Concerto per corde e fiati” da lei concepito e diretto. Attualmente vive e lavora tra le colline sabine.
Appartenere alle nuvole,
porsi come girasole alla luce,
libera ghianda in evoluzione di destino.
Sciogliersi e sorridere
come il ghiaccio innamorato del sole,
senza dolore.
Essere. Essere. Essere.
Senza convincimento di peccato.
*
Lo senti questo logorio continuo
delle corde intorno all’argano?
L’incontro perfetto del corpo
che aderisce all’ombra?
Sei nelle armonie improvvise
a cui accedo negli attimi illuminati
delle mie giornate.
Sotto il peso delle cose
questo muscolo idiota schianta.
Dimmi solo che la vita non tradisce
Dimmelo ancora. Menti.
*
Sono le illuminazioni del vento,
il canto ripetuto del cuculo
sul ramo di magnolia
a darmi la consistenza del seme,
l’efflorescenza del respiro,
a dirmi: taci.
La dea Tara sorride al Caos
mentre prego le cime innevate
del mio Himalaya personale.
Inspira. Espira.
Tutto sta lì a dirmi: taci.
*
Ho tentato di ricomporre
le ossa della bambina spezzata,
quella che nessuno vede
nascosta dentro i vestiti
incisa nella carne
che sorride a tutti
senza trovare la via di casa.
*
Sono composta di silenzi
e ubriacature d’anima
che non riesco a nascondere
e fede in orizzonti lontanissimi.
Paio vivere di poco
ma l’infinito abita
dentro le mie cellule.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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-Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –
–Rivista PAN n°9 del 1935-
Victor Hugo-Scrittore francese (Besançon 1802 – Parigi 1885), figlio di Joseph-Léopold-Sigisbert (v.), che egli seguì da bambino nei suoi spostamenti (Corsica, Calabria, Spagna). Già nel 1818 e nel 1819 fu premiato nei “giochi floreali” di Tolosa: alla poesia si dedicò fin dalla prima adolescenza, durante gli studî al liceo Louis-le-Grand, imitando i classici, ma dichiarandosi soprattutto discepolo di Chateaubriand, poi di Lamartine, e fervente difensore del trono e dell’altare.
Victor Hugo-Scrittore francese (Besançon 1802 – Parigi 1885), figlio di Joseph-Léopold-Sigisbert (v.), che egli seguì da bambino nei suoi spostamenti (Corsica, Calabria, Spagna). Già nel 1818 e nel 1819 fu premiato nei “giochi floreali” di Tolosa: alla poesia si dedicò fin dalla prima adolescenza, durante gli studî al liceo Louis-le-Grand, imitando i classici, ma dichiarandosi soprattutto discepolo di Chateaubriand, poi di Lamartine, e fervente difensore del trono e dell’altare. Nel 1819-21 diresse con il fratello Abel il giornale Le conservateur littéraire; quindi si affermò come poeta con le Odes et poésies diverses nel 1822 (l’anno in cui sposò una sua amica d’infanzia, Adèle Foucher), cui seguirono: Nouvelles odes (1824) e Odes et ballades (1826; raccolta complessiva, con lo stesso titolo, 1828). Frattanto si era accostato al cenacolo romantico e aveva collaborato alla nuova rivistaLa Muse française (1823-24); ma la lunga prefazione al suo dramma Cromwell (1827), poi considerato il vero “manifesto” del romanticismo francese, fece di lui addirittura il capo acclamato e riconosciuto della nuova scuola, specie dopo il successo delle Orientales, un’altra raccolta di poesie (1829), che si distinguono per la vivacità del ritmo e della fantasia, e per un esotismo un po’ convenzionale, oltre che per il culto della libertà e di Napoleone. Nel clima che precedeva la rivoluzione di luglio, e dopo la censura del suo nuovo dramma Marion Delorme (1829), la prima rappresentazione del dramma Hernani (25 febbraio 1830), che rompe apertamente con la tradizione delle regole classiche, suscitò la violenta reazione dei classicisti e il delirante entusiasmo dei romantici. Fu per questi ultimi una “battaglia” vinta: l’avvenimento fece epoca e per molti storici successivi segnò l’inizio del vero e proprio movimento romantico in Francia. In seguito l’attività di H. non conobbe soste; continuò la serie delle sue raccolte poetiche: Les feuilles d’automne (1831), Les chants du crépuscule (1837), Les voix intérieures (1838), Les rayons et les ombres (1840), in cui l’ispirazione intimistica, religiosa e filosofica si alterna con quella politica e sociale, di poeta “vate”, interprete del suo tempo e profeta dell’avvenire. Una vera tribuna, del resto, egli fece spesso dei suoi drammi: nel 1831 fece rappresentare Marion Delorme, poi Le Roi s’amuse (1832), Lucrèce Borgia (1833), Marie Tudor (1833), Angelo tyran de Padoue (1835), questi ultimi tre in prosa, e quindi ancora Ruy Blas (1840), forse la sua migliore opera di teatro, e infine Les Burgraves, che invece cadde clamorosamente (1843). Intanto anche il romanzo lo aveva attirato: dopo i primi tentativi giovanili nel gusto del romanzo “nero” allora di moda, Han d’Islande (1823) e Bug Jargal (1825), pubblicò una delle sue opere più celebri, Notre-Dame de Paris (1831), colorita, grottesca evocazione della Parigi medievale e tipico romanzo “romantico”, interessandosi di problemi sociali e morali in Le dernier jour d’un condamné (1829) e in Claude Gueux (1834). In questo primo periodo della sua attività, H. svolse pienamente il programma del romanticismo francese: nella poesia, prevalenza e libertà dell’ispirazione lirica rispetto a tutte le regole codificate dal classicismo; concezione di una drammatica sciolta dai vincoli delle unità pseudo-aristoteliche; sia nel teatro, sia nel romanzo, una visione fantastica e passionale della vita, in un alternarsi e confondersi di elementi ora tragici, ora grotteschi. Questo rovesciamento della poetica classica tradizionale fu, in lui, troppo spesso programmatico: il che nocque non di rado alla sua opera, specie al teatro, in cui oggi è agevole riconoscere una struttura artificiosa, a spese della consistenza dei personaggi. Ma già prima dei Burgraves, la sua attività letteraria cominciava a cedere all’interesse per la vita politica, in un susseguirsi di passioni travolgenti, di onori, di lutti (amori per Juliette Drouet, per Mme Biard; elezione all’Académie française, 1841; tragica morte della figlia Léopoldine, 1843; nomina alla Camera dei Pari, 1845). La rivoluzione del 1848 lo orientò verso la democrazia: eletto deputato, partecipò con passione ai lavori dell’Assemblea legislativa, finché il colpo di stato del 2 dicembre 1851 non lo costrinse all’esilio, prima in Belgio, poi nelle Isole Normanne (Jersey e Guernesey), dove rimase per tutta la durata del Secondo Impero, riprendendo la sua attività letteraria. Pubblicò altre quattro raccolte poetiche: Les châtiments (1853), violenta satira contro Napoleone III e la sua corte; Les contemplations (1856), che segna un ritorno, con accenti più puri e drammatici, alla poesia intimistica, ed è, forse, fra le sue opere poetiche migliori con La légende des siècles (1859), grandiosa visione epica, per episodî, della storia dell’umanità; Les chansons des rues et des bois, infine (1865), poesie leggere e agili, d’un gusto quasi parnassiano. E dopo altre opere di satira politica in prosa, (Napoléon le petit, 1852 e l’Histoire d’un crime, 1877), tornò al romanzo con l’ampia epopea dei Misérables (1862), in cui gli intenti umanitarî si fondono con le rievocazioni storiche e i ricordi autobiografici, e poi con Les travailleurs de la mer (1866) e L’homme qui rit (1869). Tornato in patria dopo il 1870, fu di nuovo eletto all’Assemblea nazionale, da cui si dimise per protesta contro l’accoglienza ostile riservata dalla destra a Garibaldi, eletto deputato in quattro dipartimenti. Nel 1876 fu nominato senatore, ma ormai si dedicava quasi esclusivamente alla sua infaticabile attività letteraria. La produzione di questi ultimi anni è abbondantissima: il romanzo storico Quatre-vingt-treize (1873), altre due serie de La légende des siècles (1877 e 1883), Torquemada (1882), suo ultimo dramma, e numerose raccolte di poesie: L’année terrible (1872); L’art d’être grand-père (1877); Le Pape (1878); La pitié suprême (1879); L’âne (1880); Religions et religion (1880); Les quatre vents de l’esprit (1881); infine una serie di scritti politici, Actes et paroles (4 voll., 1875-85). Fra le numerose opere postume si ricordano il Théâtre en liberté (1886), la Fin de Satan (1886), Toute la lyre (1888) e Choses vues (1887 e 1900; ultima ed. accresciuta, 1913), notazioni e ricordi personali d’una grande efficacia e di vivo interesse. Se le opere scritte dopo l’esilio sono viziate dall’enfasi verbale cui il poeta indulgeva ormai senza freno, lo stesso carattere, seppure in misura minore, è diffuso in tutta la sua opera che peraltro rivela vena copiosa e ricca fantasia. Rimase perciò, salvo rari momenti, lontano da quella perfezione che divenne l’ideale dei parnassiani. Ma la vastità molteplice della sua opera, la grandiosità di talune sue concezioni, l’impeto del sentimento da cui è spesso animato fanno di lui una delle figure maggiori dell’Ottocento letterario europeo.
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
Castelnuovo di Farfa – La riva sinistra del Farfa-
Brani e Poesie dal libro di Franco Leggeri-MURALES CASTELNUOVESI-
Castelnuovo di Farfa -Brani e Poesie dal libro di Franco Leggeri– la riva sinistra del Farfa-MURALES CASTELNUOVESI– ………..Al termine della salita che porta dalla campagna al borgo di Castelnuovo , si trova un vecchio edificio ricoperto di edera, muschi e arbusti vari che crescono sul muro , ma vi è anche l’immancabile pianta di fico. All’interno delle vecchie mura , frammenti di mura, cresce spontaneo un giardino incolto che alimenta la fantasia di architetture fantastiche , scenografia di storie medievali in quel che resta del manufatto. Eppure questo rudere assume, nella fantasia del visitatore attento e non superficiale, una valenza magica ch’è l’unione tra realtà e immaginario letterario. Chissà se il rudere la sera si veste di colori bluastri, scala del “bleu gotico” l’ora amica dei fotografi e dei pittori, oppure ha lo stesso colore del vecchio insediativo storico racchiuso nelle mura di cinta costruite in pietrame a difesa dell’antico borgo di Castelnuovo. Rudere che potrebbe essere un eremo solitario posto ai confini del mondo, ma anche luogo dove si consuma da secoli l’instancabile opera dell’uomo per conquistare e domare la natura del colle dove sorge il Borgo di Castelnuovo di Farfa………….
-Castelnuovo, gli speroni della Luna.
La luna, i suoi speroni, ha ferito la notte castelnuovese. Il tempo, l’insulto del tempo si è smarrito nella ruggine dei ricordi. Occasioni uccise da barbari affamati di euro . Ora incidere la memoria su lastre di pietra. Il verde, la verde Valle del Farfa era un invito alla contemplazione .La colpa , se colpa è l’aver creduto di possedere la luna nell’età dei sogni. La colpa è nell’aver camminato nei sentieri dell’erica. La Valle , il mito , la sua Storia è qui nel mio cuore che colora di rosso gli spini delle siepi. Se il sogno si disperde lascio le mie parole sulla pietra. La stagione del gelo uccide le gemme della speranza , il tragitto segnato dal forte profumo, tragitto senza bandiere, del fieno falciato dai ricordi e illuminato dalla luna che uccide l’ombra dei cespugli. Ho rigirato tra le mie mani le parole, contato i sospiri come si contano le monete, ho cercato di scrivere l’ombra della sera , i ricordi degli anni giovani e l’altalena delle spinte infinite, le stagioni senza croci e le mani legate. Se la morte mi resta come l’ultimo sogno , l’ultima arma prima che anche le parole scritte siano morte per sempre. Cerchi un lapis , un foglio , una sedia per ricomporre, con calma, i fili, i fumi delle illusioni, le nuvole che portano la pioggia carica di poesia. Le vecchie porte dei fienili, il cigolio dei cardini vecchi, le note delle passate avventure prima che i fuochi si spengano . I ricordi, come le rondini, tornano sempre a scandire la forte stagione della follia mente negli uliveti la brezza accarezza le foglie , la brezza intrisa di fumo , di fieno, e sono i fuochi del bivacco del tempo immutato scolpito nell’attesa di un’alba rossa che trasformano i vicoli del Borgo nel labirinto di Dedalo e ad ogni incrocio trovi una epigrafe , un ricordo e un nuovo inizio.
I tetti di Castelnuovo di Farfa, il mio Dedalo.
Scoprire, o riscoprire Castelnuovo, cercando di aver gli occhi disincantati, mi permette comunque di vederne l’anima del mio Dedalo la più popolare, la più vissuta dalla gente comune. Scopro e riscopro, nuovo punto di vista, dopo tanti anni i vicoli del mio “Borgo Dedalo”, dove ho trascorso l’infanzia e la mia giovinezza che, nell’età dell’incoscienza, appare eterna. Se da adulti, in modo crudo, ci rendiamo conto che la vita passa in fretta, ci consola il pensiero che l’eterno rimane non nella materia, ma nelle vibrazioni, nelle sensazioni che aleggiano intorno a noi e che percepiamo secondo la nostra sensibilità e i nostri stati d’animo. Ora, osservando i tetti , vale la pena ricordare e raccontare e magari riflettere su queste nuove sensazioni che danno i tetti di Castelnuovo. Quante cose sono cambiate in queste vie , tante persone ,attori nella mia fanciullezza, non esistono più, altre sono invecchiate e altre ancora sono lontano altrove a cercare una vita diversa . E’ strano cercare dai tetti, di aprirli, e vedere, nei ricordi, le persone che abitavano la casa, scoprire l’atmosfera, rivivere gli stati d’animo con occhi diversi, con esperienza ,“lunga esperienza della vita”, reinventare ed animare anche i più piccoli dettagli del quotidiano la vita semplice e minimalista di una volta.
Vedo le vie di Dedalo là dove diventano più ripide, più stette , gli incroci e giù per i vicoli e scalette e ancora piccoli cortili e scale buie, soprattutto d’inverno. Nel mio paese, nel mio Dedalo ora sono cambiate molte, moltissime cose forse troppe .Sono cambiate le persone, le case, anche le storie non sono più le stesse. Ma non il “Borgo Dedalo” , il mio Castelnuovo , quello carico di storie scritte su di epigrafi marmoree “inchiodate” nella mia anima. Queste storie, immutabili e solide, che parlano e raccontano alla mia memoria, come una canzone poetica infinita ,di un Castelnuovo tramontato per sempre. Il mio paese, Castelnuovo, il mio Dedalo è un posto così sconosciuto alla “nuova gente” che ora lo abita e lo “consuma” e che ne distrugge il verde e la sua storia. La “nuova gente” che non ha l’abitudine di menzionarne il nome del mio Dedalo. La “nuova gente” non può ricordare la musica , dolci suoni, che uscivano da ogni porta , non può godere il trionfo e la purezza dei sogni che nascondono i cuori carichi di emozioni che creano le case del “mio paese” .
Castelnuovo, via Roma Est
Avete mai aspettato e visto il sole
che dona il primo bacio a Castelnuovo?
E se una mattina anche tu cerchi tra il sillogismo e il controesempio
di questo nostro dialetto, si di questo “sporco latino”
di cui adoro il categorico del disadorno,
ma essenziale canto invisibile che emerge da tracce nascoste .
Tracce, si quelle arate nella terra Sabina, che fermentano nel decasillabo armonioso che varia al ritmo dei versi sciolti e che , poi, li ricompone
nell’armonia del canto che allontana il “genio crudele”
che ha violentato la notte castelnuovese
e che , ora, aspetta il coagulo del sangue al sole
che ne rallenta la fecondità del passato fervore.
Castelnuovo,
ho negli occhi la quotidiana immagine, se pur superficiale,
del puntuale equilibrio e solo allora , se sarò libero, cercherò
di narrare la meraviglia dei racconti nascosti
che, da sempre ,dormono senza avere risposta,
ma era luce assoluta e felicità degli antichi castelnuovesi.
Rivisitare Castelnuovo, il suo profondo contraddittorio sillogismo filosofico
che , da sempre, cerco nella spiritualità
che diventa fulcro del mio soggettivismo
così relativo al mio pensiero pendolare.
Cerco la chiarezza nella mia anima ch’è tela
pronta per caratteri del libro che mai ho consultato.
Mi chiedo se troverò a Castelnuovo
il controesempio del sillogismo aristotelico?
A Castelnuovo, a volte , le risposte le trovi nascoste ,
ma esse sono sempre testimoni di dolci sere e serene albe,
lente, pallide e timide promesse future
che puoi trovare soltanto quando Castelnuovo diventa attico
e dialoga , dopo le stelle, con il primo raggio del sole.
Si potrebbe ascoltare, dai colli, forse anche la dolce,
filosofica voce dei castelnuovesi che si avviano ,
incontro al sole, camminando lungo via Roma Est.
Ed è allora che il sole riaccende, per il giorno,
i giochi linguistici dei fiori di campo.
Ecco, dunque, che, adesso, io ridivento una decomposizione
di sogni e illusioni in cerca di approdo,
una salvezza tra le ombre acute,
ma pronte a scomparire in un futuro senza storia e senza epoca.
“Se le pietre,
il cuore delle pietre,
l’acqua,
è la sua carezza che traccia l’ombra dei sogni,
sono e diventano
allora
l’inizio dei ricordi.
L’arido cuore delle pietre è (si fa) prigioniero nella mia anima.
Solo ora, adesso
La bassa marea tra i vicoli di Dedalo travolge il ragazzo
Che si accende nel nuovo giorno al sole
che entra solenne dalla via Roma est”.
Franco Leggeri, castelnuovese-
Poesia-Castelnuovo, via Roma Est
Dalla raccolta Murales Castelnuovesi
AMARCORD – Castelnuovo nel cuore.
Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo raccolti con i padroni è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia . Anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi. Il vecchio e il giovane nella storia , Castelnuovo per sempre. Castelnuovo nel cuore.
dal libro – “MURALES CASTELNUOVESI”
di Franco Leggeri , Castelnuovese
Castelnuovo, il racconto scritto col chiodo forgiato.
(alla scoperta di vecchi casali, ruderi castelnuovesi)
Ho trovato,
nell’angolo estremo,
in alto, in quella vecchia trave le sagome tracciate dal chiodo forgiato,
segni del tempo di guerra.
E’ lo stupore e la finezza del racconto disegnato,
lasciato da questa donna castelnuovese
che ha distrutto la legge di gravità.
E questo disegno,
così neanche in bianco e nero, ma solo legno,
solo un fossile e scena del passato
riverberi onirici dell’immaginazione.
Traccia di armonia del creato,
traccia segnata solo per alcuni riti passeggeri, ma solenni.
Nella trave è disegnata e immaginata
l’esplosione della luce
mentre si espande l’azzurro infuocato
immaginazione della sfrenata insoddisfazione
nella ricerca di un cielo sereno.
Ora sono tracce di parole e gridi inascoltati,
ora che sono “fossili” testimoni che narrano una tragedia,
tutta castelnuovese, ma ancora inascoltata
e nascosta in questa trave “intonsa” .
“Castelnuovo il chiodo forgiato
all’ombra della polvere.
Castelnuovo, c’è sempre la luna pronta per la nuova notte
carica di illusioni e inattesi veleni,
pensieri segreti depositati
, frettolosamente,
all’interno di nuvole di fumo.
Ed ecco che, ora, l’anima si commuove
e partorisce una luna piena,
la preghiera gemella che brucia l’amore,
quella che viene respinta nella via segreta,
che si illumina alla luce,
distratta , della luna nuova”.
Castelnuovo, il sogno e l’UTOPIA CONSUMATA.
Sono nato a Castelnuovo in una casa senza libri, ma , poi, la vita , i fatti tristi della vita mi fecero sconfinare nella Poesia. Io divenni un castelnuovese clandestino, emigrante all’interno di una biblioteca, e ,quindi, iniziai a navigare in un “OCEANO DI LIBRI”. Ogni libro era ed è un’isola su cui mi è stato possibile vivere libero .
La Poesia e la scrittura sono il giusto modo , forse, per ripagare il mio Borgo. Ripagare Castelnuovo, con moneta giusta per avermi accolto, per avermi regalato i sogni scritti sui muri, suoni e profumi , la sua bella storia , e le piccole storie che, assieme, sono diventate il mio Castello di Kafka e forse l’isola per un nuovo “naufrago castelnuovese”.
Sono nato castelnuovese , da genitori castelnuovesi e da nonni castelnuovesi , ma ho vissuto anche altrove una parte della mia vita. A Castelnuovo ho trascorso anni importanti, quelli che danno “l’impronta” alla formazione umana. Sono castelnuovese “dentro” e incatenato a Castelnuovo da sentimenti contrastanti come : Ammirazione per le sue straordinarie risorse , ma anche, ahimè, frustrazione per il modo in cui, quotidianamente, esse vengono sprecate da incapaci, si quelli della “Dittatura della Maggioranza”.
Come castelnuovese, orgoglio castelnuovese, sono parte di quella pattuglia che pensa che fare qualcosa , anche poco, sia meglio che non fare nulla ed abbandonare il Borgo, l’amato Castelnuovo, al suo triste destino di :”colonia della sottocultura Sabina”. Troppi castelnuovesi, senza altra colpa se non quella di essere nati a Castelnuovo, meritano di avere una chance , cioè quella di valorizzare le loro straordinarie qualità nascoste che spesso non sanno nemmeno di possedere. Credo , fortemente, che la politica dei piccoli passi, in un Borgo come Castelnuovo, sia quella da percorrere, quindi, piccoli passi e non spese faraoniche , soldi pubblici mal spesi per passerelle pre-elettorali, che diventano solo un pallido ricordo “snocciolati e bevuti” nei discorsi del bar.
Spero che altri “castelnuovesi dentro”, anche se residenti altrove, vogliano unire le loro idee e le loro voci in un progetto di Rinascimento culturale castelnuovese.
Piccola riflessione di un castelnuovese
Castelnuovo, La Notte.
Si adagia la notte su Castelnuovo
Ne assume, diligentemente, le forme,
essa si fa architettura, ridisegna le vie e i vicoli.
La notte castelnuovese , la mia notte,
quella che raccoglie le ombre depositate dal giorno
e che il vento sa disperdere e nascondere
dietro gli scricchiolii della vecchie porte
così solenni al gioco dei lampioni che ne esaltano i colori.
E’ la notte la sentinella del riposo,
dei pianti e dei sorrisi.
E’ la notte che fa volare l’ultimo , esile, fumo dei camini
custodi di nudezze e specchio di grazie nascoste
e di profili di cose semplici.
E’ la notte castelnuovese
che scrive, solitaria, storie dettate da folletti senza nome.
Il mio Castelnuovo è tazza e culla
del latte che versano le nuvole
che troviamo al risveglio del giorno.
Notte castelnuovese dimora amica delle stelle
e delle rose alle finestre dolci come i sorrisi delle mamme.
Notte castelnuovese gemella della solitudine e della quiete,
resoconto di lunghi intervalli tra il fuoco e la tristezza ,
ma così immobile nella solitudine del buio.
Notte che, infine, libera il sole sui cumuli
di speranze respinte dal filo irto della realtà.
Ed io, allora, ridivento pastore
del mio gregge di delusioni che ritornano,
rientrano dagli spiragli delle finestre.
Castelnuovo, è la notte la mia prigione
Ben costruita e cucita alla mia anima senza ali.
E ora, finalmente, senza una benedizione mi addormento.
“ Si può trattenere la notte?
Si può simulare il niente?
Vestiti di crudo realismo
Siamo al centro del niente,
mentre fugge la notte
nostro riparo dalle voci
delle finestre vicine.”
Castelnuovo, storie ai suoi margini.
Castelnuovo se diventa il margine e recinto
di una notte senza perché,
allora raccontiamoci storie
sussurrate tra le sbarre di cancelli inopportuni e indesiderati.
Ora ci ritroviamo qui a contare , a catalogare
le costellazioni disperse in lontane dimensioni
fuori dai confini bisbigliati
e scritti sui nostri pezzi di carta silenziosa.
Pensieri scritti con le gocce d’acqua
che ci regala, sempre, la notte castelnuovese.
E’ questa corteccia così ostinatamente
aggrappata ai fuggitivi e ribelli pensieri,
veri dominus di questa oscurità
ch’è spazio dove si espande
il profumo antico degli indugi
dei nostri silenziosi dibattiti, alcune volte inconsistenti,
che si evolvono nel brevissimo tempo a noi concesso dalle emozioni.
Ed ecco che la notte,
se pur essa superficiale e a volte emozionata
e dispersa nel circolo delle nostre mani
si fa ora luce lieve, vicina alla volontà
che si coniuga con l’irruenza nascosta in un desiderio impreparato.
Si ,la notte ,ora, diventa anarchia e poesia
Che evade oltre le fragili braccia,
esse imprudenti guardiane di una libertà
che si eclissa dietro la luce delle stelle
che diventano così sensuali
in questa melodia che incornicia la nostra notte castelnuovese.
I campi arati
Così come il sangue delle parole
Si posa sopra le note
Che nascono dalle pietre
Che difendono i campi arati
E la fatica lenta e severa dei buoi
Hanno profanato,
Hanno invaso
Hanno calpestato
Hanno deriso
La nostra sacra terra e la nostra valle
Hanno ucciso gli ulivi
E le spighe del grano maturo,
Hanno tagliato i riflessi dell’acqua
con il ferro e il rumore dell’argano
Hanno disperso nel vuoto
il profumo della nostra pace.
Ora il pane viene impastato con il cemento
e l’acqua è sepolta nelle rocce delle Gole del Farfa.
Nessuno di noi sentirà il grido
e la speranza della vittoria dispersa
nella nebbia che disegna questa notte nemica delle stelle.
I campi arati- Murales castelnuovesi di Franco Leggeri.
Citazione:“Ci sono domande a cui le risposte si hanno solo se si riesce a dare del tu a Dio “
Castelnuovo ,le sue Colline.
Castelnuovo ha le colline
Come cupole coperte di ulivi
Dove l’erba si lascia cullare
Dall’alito del Farfa
Mentre nasce l’attimo di Pace
Che si abbandona al riposo dei pensieri.
L’erba, come Castelnuovo,rinasce come fosse immortale
E risorge dalla meravigliosa terra
Per donarsi alla dolcezza del giorno
Come coperta e cuscino
Dove poter sognare melodie
Che addolciscono gli anni passati
Mentre scrivo del tempo che ancora mi accompagna
Mentre sogno su questo foglio bianco.
Ricordo che Fu Euripide la mia prima fuga dall’adolescenza,
mentre la neve rubava il mio sguardo
che tratteggia la soglia ,
il confine, del mio sentimento che fu strutturato e descritto
in una liturgia che esautorò le orditure ,
i simboli di struggenti antitesi.
Fu anche il blu che ,seminato nel silenzio della notte,
accese il dubbio e la paura.
Ora anche il vento si ripara dalla notte castelnuovese,
notte innamorata di Euripide e della luna.
Luna che trafigge il silenzio dell’anima,
dispersa tra le pietre dei giovani sogni.
Sogni che nascono così disadorni in questo novembre
che li ha rinchiusi tra le siepi di bosso.
Castelnuovo, Come la Pioggia.
Cadono le ore dalla torre
così come cadono le gocce di pioggia
infinite e ritmiche
come le note di jazz.
Le gocce e le note
così dolci e misteriose
come se , assieme, fossero
da poco arrivate da Nashville.
E’ la pioggia
che danza in questa nebbia,
mantello dell’autunno castelnuovese,
che diventa collezione romantica di perle
che, come gocce infinite,
si disperdono nei vicoli e vie di Castelnuovo.
Con la pioggia, gli angoli castelnuovesi
travolti e disegnati sulla nebbia,
sono le quinte e scenografia
del palcoscenico per rappresentare
e immaginare, le metafore,
le analogie di inediti racconti
che ,come gli occhi delle donne castelnuovesi ,
sono sempre in attesa del sole,
mentre, nell’angolo ,si trovano
angeli che ascoltano racconti che cercano mani
annegate nel vento del nulla.
Dalla torre cadono le ore
avvolte nei sogni all’interno di bolle di sapone
sogni in cerca di occhi
che mi accompagnano verso
il crudo cibo della realtà
del gelo freddo castelnuovese.
P.S.
Racconti in cerca di occhi
che come le mie mani cercano, sempre, le tue.
Castelnuovo, lo scantinato del chiacchiericcio .
L’orgia delle chiacchiere castelnuovesi
ha partorito il libro dei rancori ,
album così caro a voi che affilate le parole
e lo sguardo per colpire in silenzio,
un silenzio che riempie il vuoto del vostro scantinato
dove vivete ,galleggiando, sulle acque nere del vostro odio.
Voi vi nutrite del male, avete fame del male .
Voi siete il buio che vestite con la nebbia dei vostri occhi,
la vostra voce è come il sibilo della serpe.
Al vostro richiamo rispondono solo i latrati, lontani, dei cani randagi.
L’umido, insopportabile, del vostro respiro
è un virus letale che infetta il mio Castelnuovo.
Castelnuovo, i colori e l’ideologia.
Questa mattina i colori di Castelnuovo
si disperdono come stelle filanti.
Colori profumati, impercettibili, e nascosti
tra il linguaggio degli ulivi.
E’ questa una mia visione interiorizzata,
ma sempre in cerca di un approdo sicuro.
Si, Castelnuovo non può essere un racconto sommario
ma, come le sequenze chimiche , deve espandersi
in una litania nell’immenso cielo.
Castelnuovo diventa una litania senza amen,
e senza consistenza, un oggetto fantasma
all’interno di una storia inaccessibile
che si frantuma come stelle filanti
nell’intimità di esperienze sofferte e malate
che diventano , esse stesse, oggetti appesi alle pareti del mio io.
Castelnuovo mi tenta ancora al peccato dell’illuminismo,
e così l’ideologia diventa il mio luogo del “niente”,
l’elemento misterioso di una poesia forgiata con i colori della pietra.
Colori castelnuovesi e tristezza ideologica
che sono come i dubbi di Amleto
in cerca di Ofelia che disperde, così tremante, i colori
della sua fragile innocenza.
Piange Castelnuovo in cerca dei colori,
sepolti trai vecchi tronchi deposti a terra ,
terra scura come i sogni svaniti all’alba
di questa poesia, ora diventata logora e affaticata
mentre rincorre il colore di questo giorno
sempre uguale agli altri.
”Novembre castelnuovese.”(1976)
Sono debole ed è allarme fragilità.
Il dolore cronico di un’opera senza citazioni,
ma, per fortuna, sono gli zuccheri
a indicarmi la luna .
Ma è l’Ulysses di James Joyce che insiste e logora la mia fragilità.
Percorsi, postumi, per correre nella bellezza dell’acqua piovana
Non più incubi illustrati,
ma solo semplici foto di una luce debole,
Fragile.
Debole come il probabile ,ammirando, di viziati ritratti,
ora
è sempre più fragile dipingere il desiderio in modo godibile
nel “mentre”, gli affreschi dei miei sogni non hanno illustrazioni patinate.
Castelnuovo è la mia, orrenda, poesia per odiarmi,
è tutto inutile so già che il foglio bianco
è di un nero brillante .
Castelnuovo , a volte aristocratico e dominante
È una nave pregiata , visibile e bella, che naviga in formazione
Dentro la flotta dei Borghi sabini.
Castelnuovo non prenderà il largo
In quell’oceano del futuro,
Castelnuovo
Un colore diverso della schizofrenia tracciata da un sismografo impazzito.
Castelnuovo il borgo delle decapitazioni delle idee e tomba dei sogni.
Le illusioni di un sabato castelnuovese
È una comicità tragica di un copione senza parole.
Ombre,
si ,ombre cinesi
sono adagiate sul mio foglio bianco
e
dal nero volano gialle farfalle
esse
“PARLANO PAROLE DENTRO LE BOLLE DI SAPONE”
Raccontano , elevandosi in un vortice,
di un Castelnuovo disperso all’interno di mura ciclopiche.
E’ forse l’ora
Che torni alla montagna,
Alla roccia,
Alla neve,
Alla nebbia di questo sabato di novembre
Ho ora l’inchiostro nelle mie mani
Per dipingere cerchi senza misura,
e senza diametro.
Come sono lontani dal mare questi sabati castelnuovesi.
P.S. Ogni libro intorno a me ha un’anima, ma non riesco a trovarla essa corre e si nasconde per le vie di Dedalo.
Come disse James: “non so in che ordine vanno le parole”.
Allora che senso ha scolpire in forma dedalica una pagina bianca?
Certamente Castelnuovo non è una scultura greca, ma ha , possiede, un’anima : “ossessiva, assordante.”
Castelnuovo, il mio Castelnuovo, è un libro raro per pochi eletti.
Castelnuovo di Farfa le tracce del Razzismo- (Archivio 1986)
Brividi, incubi
Appesi a una catenella, come l’odio “Cara Poesia”.
Non può essere la cultura della nostalgia.
Così
Le ragazze che abitano a Nord, nel buio
Leggono le lapidi con le dita della mano
Non hanno lo sguardo per nuovi fantasmi
La loro lentezza , come nelle onoranze funebri
Sottolinea il desiderabile
Esalta
“l’estetica della fatica”
Castelnuovo , il razzismo è scritto in cifre
Nei conti correnti del cemento.
Castelnuovo mostri usciti da un thriller
Delle follie umane,
si
l’altra faccia di Castelnuovo:
L’altra parte della barricata;
Castelnuovo, l’alcool
E il pezzo della bassa manovalanza.
Castelnuovo: Dare voce alla volontà di esistere
Oltre le follie ,
i sorrisi e i racconti da osteria.
La lavanderia degli anni non cancella
Il seme dell’odio
RANCORE AVVELENATO:
“i feroci anni castelnuovesi”
sono sulla sponda avversa.
Ora posso vedere, ho catturato
L’impressione di una Rivoluzione.
“NON UN LAMENTO ESCE DALLE FERITE”.
Sulle sponde del Farfa-
Dove ho lasciato a riposare il sole
carnefice inchiodato al cielo
e la luna che aspetta l’ora silenziosa
di una solitaria speranza
scritta sui muri bianchi
e come i pensieri riflessi nei torrenti
che cercano la luce degli occhi.
Si
Io getto i miei pensieri nell’acqua
e rintraccio i miei occhi.
Apro i silenzi ,come riti al crepuscolo,
quando il vento fa crollare
le foglie
e la mia angoscia mi fa vivere il nulla.
Ora è il tempo del silenzio
ho già spento le grida
di schegge taglienti.
Il docile germoglio
di lotte essenziali
sono gocce di opaco sole
che annodano il sangue
e rincorrono gli echi
nascosti nell’ombra
di una cascata di acqua
e tu, assassino feroce,
hai distrutto il sogno,
scritto sul pentagramma,
mentre lo recitavo a braccia nude tra i profumi dell’erba
sulla riva del Farfa.
I vecchi libri
I vecchi libri sono come sculture
di una vita del dopo,
sono ritagli di tempo
e risultati di calcoli per una rotta tracciata
alla ricerca di sentieri che segnano l’anima.
Sentieri solitari e sospesi sulle emozioni
che si anellano all’interno di un cerchio
di passione e scrittura.
Ed è così, mentre i gatti si addormentano
sull’autobiografica di un’oscura psicologa analista,
che mi interrogo sui Dialoghi, ormai scheletri, di Platone,
si, proprio quelli
che ho sepolto
nei miei appunti tra i libri e nascosti in alto sugli scaffali.
L’Estate castelnuovese (1978)
Dai campi si leva
un coro serrato di cicale .
Il rosso , taciturno, dei papaveri
veglia il riposo delle poche parole
di desiderio silenzio.
Poi, la sera ,lo sguardo abbraccia fosforescenti geometrie
che nascono dall’immobilità della stanchezza.
Ascolto note di avventure eccessive, affogate in follie singolari.
I miei occhi (pallidi) sono sguardi (stanchi) ai margini dei campi.
Ora, del giorno, che corre al tramonto, ne dimentico l’alba.
Se Castelnuovo (Archivio 1981)
Castelnuovo,parole meravigliose, se le saprò vestire e dipingere, con le foglie degli ulivi , nella dolcezza della sera.
Castelnuovo, se saprò descrivere, scrivere e incidere, il fascino raffinato dei colori, così come sono tradotti e vissuti nella spiritualità dell’anima.
Non ho un teschio in mano, non ho i dubbi di Amleto, non scriverò i tormenti,la nebbia dei miei dubbi, non sono Shakespeare.
Non trovo statico il legittimo dubbio che vaga , da sempre, nel labirinto di Dedalo.
Castelnuovo, non è il Castello di Elsinore o quello di Dracula. Castelnuovo è, a volte ,un inquieto schema di vie dove si rincorrono i pensieri partoriti da uno spirito notturno per un progetto del bello.
Castelnuovo è un pensiero filtrato,
Castelnuovo è potenzialità: non idea, ma sostanza.
Il fuori posto della mia poesia ,Castelnuovo se lo chiami “musica” o “poesia”,
( neanche Cartesio mi aiuta ad uscire dai meandri del nozionismo).
Le ferite aperte sono il suono di una domanda antica, la pericolosa,( gesuitica?), insoddisfazione.
Eppure la notte si adagia , sempre, sui tetti e il “genio maligno” fugge, finalmente , dalla mia esistenza.
Conosco la luce di Castelnuovo, Castelnuovo non è la mia “provincia oscura”.
Castelnuovo è una divinità ed io ai suoi piedi ho lasciato i miei sogni, i miei sguardi, i miei pensieri, i miei versi.
Castelnuovo: ora non confondo più il buio con la tenebra. Oggi, ora, non ho più paura della notte.
MURALES CASTELNUOVESE- libro di Franco Leggeri
….e la lancia dell’ultimo sole
squarciò il sipario della notte alla luna castelnuovese…
Ho iniziato a scrivere MURALES CASTELNUOVESE , non perché ci fosse bisogno di altra carta stampa, ma perché volevo viaggiare, con la fantasia, in un Borgo solidale e pacifico di un tempo e questo era il mio Castelnuovo e questo è il mio modo di raccontarlo.
Ho trovato semplicemente delizioso, un po’ come aprire un barattolo di marmellata, quando appassionatamente rivivo in forma di Poesia questo mondo e l’emozione di scrivere esperienze incise sui volti dipinti nei miei Murales.
Mi emoziono a ogni pagina… sento sempre più forte il desiderio di partire e di terminare il viaggio . Caro Castelnuovo, ti ho conosciuto, in profondità, poco per volta devo dire che ho trovato , l’intuizione, l’alfabeto, e le parole da scrivere ad ogni tuo angolo ad ogni tua via. Confesso che mi emoziono , rileggendo gli scritti “ammassati “sulla scrivania. Devo lavorare sulle citazioni, ma ormai , forse, sono in dirittura di arrivo. Il mio lungo MURALES CASTELNUOVESE me lo sto gustando…lo rileggo poco per volta, e lo gusto come un vecchio whisky . Il fascino incredibile di questa avventura letteraria tutti i volti, i soggetti bè sono anche “metropolitanizzati” e per questo i miei “editor”, si ho due “editor”, i miei nipoti Flavio e Flaminia Leggeri. Flaminia mi corregge i passi successivi e i viaggi fantasiosi mentre Flavio , ahimè, i “congiuntivi” e l’architettura della pagina.
Sono felice di aver avuto l’opportunità di scrivere, devo terminarlo, per poi condividere questa esperienza con altri , forse, pochissimi Castelnuovesi.
Sto controllando che ogni parola abbia la sua giusta collocazione, per questo leggo senza fretta, cercando di comprendere bene il significato di ogni frase che mi trasmette l’energia di chi riesce a vivere veramente il cammino e realizza il sogno di trasferirlo agli altri attraverso le parole, così da rendere la “strada dei Murales ” infinita, nella speranza di passeggiarvi nuovamente.
E’ solo una parentesi
E’ un’ora di riflessione e mi approprio
di metafore e strumenti.
Ora il mio lirismo è prigioniero
in un cerchio di rose
rosse come infuocate armate
e avanzano petali di parole,
regimenti di sogni,
che sono pronte a combattere contro
la repressione della libertà.
Ho il lusso della fantasia
per correre dietro le nuvole
cariche d’ideali.
A volte ,
solo certe volte,
quantifico le emozioni che sono voci e gridi
così
come l’eterogeneo collettivo
delle note che occupano gli spazi e le righe
in assemblea permanente
nel pentagramma della mia anima.
A volte, le invertebrate note
si nascondono nei colori della mia terra
e le parole e l’immagine
del vecchio neorealismo
offusca l’esordio di questa strana parentesi
inserita e , forse, inopportuna
nel discorso di un vecchio castelnuovese.
Castelnuovo, Noi i ragazzi di via Coronari.
Amici miei, siamo quelli che abbiamo intrecciato i nostri sogni
come i vimini di un canestro
e, poi, li abbiamo riposti, nascosti
così lontano dalla vita vera.
Erano le inutili verità
rifiutate da noi adolescenti
che sapevamo annegare nel pane
i fiori del nostro sorriso.
Ora siamo diventati realtà dei sogni dei nostri padri
e artisti nel raccontarci una vita dispersa
nelle difficoltà di un percorso asfaltato da incognite.
Amici miei ora il sorriso
e il sospiro (soddisfatto?) di essere arrivati nell’oasi dei ricordi
quelli da noi sussurrati e nascosti tra sassi di via Coronari.
Ricordate?
Allora ci è stato impossibile
Far volare i nostri aquiloni che, oggi, ritroviamo
Se un Castelnuovese abita a Roma, ve ne sono moltissimi, nei fine settimana o per qualsiasi altro motivo decide di lasciarsi alle spalle rumori, stress e cemento dove andare se non in Sabina . E’ innegabile che la mente e il corpo si distendono immergendosi nel “morbido” paesaggio collinare , ma come descrivere , trovare le parole, il piacere di “affogare” gli occhi e l’anima tra gli uliveti . Tornando in Sabina , a Castelnuovo, ritrovi sepolti sotto una strato spesso di fogli polverosi, migliaia di immagini archiviate nella memoria. Questi fogli si sono stratificati e appiccicati l’uno all’altro, ma è ancora leggibile lo scritto. Qui a Castelnuovo ritrovi i volti del passato vedendo i giovani che corrono per la piazza. Certo a Castelnuovo , tappa intermedia tra passato e futuro, scopri che puoi ancora incontrare un sorriso e chi crede ancora nella stretta di mano. Si , qui a Castelnuovo puoi incontrare ancora un sorriso che si allarga e ti viene incontro per una stretta di mano per dimostrare , a me, che esistono ancora ricordi e voci che hanno segnato , inciso, le notti castelnuovesi senza lampioni. Disperdi l’ansia quotidiana, ma ricordi e rivivi l’ansia di guadagnarsi il futuro , proprio qui dove hai costruito il timbro della rabbia e lo slancio per la lotta.E’ qui che mi chiedevo cosa ci fosse oltre l’orizzonte, ma non è questo il giorno, oggi, per essere l’archeologo del ricordo.Ormai, forse, solo la Poesia ha un effetto tellurico e carnale che sa trasformare il mio tempo. Il “tempo differente” in tempo di Poesia; di salvezza e di recupero di tutto ciò che l’uomo perde nel suo allontanarsi dall’infanzia, beata età dell’innocenza, che nella memoria poetica diventa un luogo di simboliche appartenenze. Qui a Castelnuovo, le fragili figure dei sogni rivivono , sono ferite, le più insanabili ferite, fatte di carne e di sangue. Ferite, sogni feriti che incontro nei vicoli di Dedalo (Castelnuovo) con un destino , un tragico destino di dolore, ma forse questa è una storia di ordinaria follia dove il pathos si genera in stigmatiche narrazioni che, poi, riesco sempre a diluirsi nella “retorica dei sentimenti”. Ai primi segni di pioggia va in frantumi, nel mio ricordo, il mondo arcadico, bucolico, ma fragile come un presepe di cartapesta. Ora a Castelnuovo regna la stirpe della “razza carnefici”, a Castelnuovo sono escluso, sono l’intellettuale-poeta, con la testa tra le nuvole e nel cuore i versi di una poesia. Si, è vero riesco ancora a sentire tra i vicoli di Dedalo le canzoni ingenue e sentimentali dell’anteguerra. E’ ora di andare ,ma resterò sempre col cuore castelnuovese. E ora lancio lo sguardo verso questo cielo carico di nubi e di spazi azzurri , sembra un cielo di Raffaello, dove le leggi della natura mescolano la vita e morte anche nel misto colore di un pomeriggio qualunque passato qui a Castelnuovo.
Castelnuovo, noi che siamo andati via.
Noi castelnuovesi che abbiamo viaggiato dietro la polvere
alzata dagli zoccoli dei cavalli del padrone.
Noi che abbiamo bevuto l’acqua del nostro fiume Farfa
e mangiato il pesce pescato in quelle Gole
maestre del nostro nuoto .
Castelnuovo , siamo andati via
seguendo la luna del mattino
tra gli sguardi nascosti dietro le finestre.
Siamo andati via cercando il sole,
il suo nascondiglio dietro Fara.
Siamo andati via , non ricordo, o non voglio ricordare la stagione
dei silenzi, madre dei nostri mille perché.
Siamo andati via noi che conoscevamo
il suono della cedra solo dal racconto dei vecchi castelnuovesi
guerrieri reduci di assurde e folli guerre in terre lontane.
Siamo andati via , noi poveri tra i poveri,
accolti da Pasolini e da Mamma Roma.
Siamo stati neorealismo e protagonisti
di pellicole in bianco e nero.
Castelnuovo, noi torniamo con le nostre cicatrici e i nostri racconti.
Noi castelnuovesi abbiamo nostalgia
dei vecchi sorrisi , dei volti amici,
siamo tornati con lo zaino ancora pieno di perché.
Siamo tornati alla ricerca dei suoni e voci antiche,
quelle conservate in angoli chiusi e bui.
Siamo tornati per rileggere lapidi a noi care.
Castelnuovo, siamo tornati ora
tra sguardi estranei alle nostre cicatrici.
Eppure, Castelnuovo
noi non siamo mai andati via
perché abbiamo nelle nostre vene il tuo sangue.
Torniamo a prenderci e testimoniare quel che nessuno
potrà mai riscrivere o certificare: la nostra Storia.
La Storia quella che abbiamo lasciato
chiusa dietro le nostre vecchie porte.
Castelnuovo, si quelle porte dove aspettavamo
di uscire dietro i passi certi da seguire.
Castelnuovo, siamo tornati forti con il coraggio di terminare
l’inverno e l’amara stagione dei rancori e dell’odio.
Castelnuovo, siamo tornati per testimoniare,
per essere humus della nostra Storia .
Castelnuovo, riportiamo il tuo sangue
per nutrire il sogno vecchio e nuovo
di un Castelnuovo futuro.
Il volto senza titolo
È l’astratto segno in una cornice oscura
Divisa da un’introspezione psicologica
E dal suono primitivo del battere le mani
In mille riflessi
Si
Ho dimorato nell’inconscio
Dove
Il suono e l’armonia
Sono una narrazione di ombre rubate
Ai sogni di geometrie e geografie
Di scarabocchiati ritratti
Su di uno scarto di pensiero
Di trame d’amore
Affogo nel piacermi agitato
Mentre resto
Annoiato nel nulla
Ora sono entrato in un meccanismo ,perverso, di un’evoluzione continua.
SERA CASTELNUOVESE
La dignità è un fiore
che torna la sera.
La sera castelnuovese,
è come un evento letterario
vi sono i frammenti dei sorrisi,
luce di paradossi,
baci e fiori di campo
e la mia trasgressione
di un materialismo infinito.
Così la sera estiva è consumata,
mentre emerge la notte con le sue regole silenziose.
Ecco ora s’è spenta
anche l’ultima luce, dolce e supplichevole
come una voce umana.
Troppo umana tutta
questa sera castelnuovese.
Adesso nell’aria, c’è un vellutato riposo
di palpebre abbassate.
Castelnuovo, lo ami sempre di più…..
Finche non si arrende.
Ed ora nel buio io mi trovo ,come Telemaco, in un godimento dissipativo in riva al mare.
P.S. nota a piè pagina .
“Quale è il più grande peccato dell’uomo? E’ dormire di notte, quando l’universo è disposto a lasciarsi guardare.”(Lilaschon)
Castelnuovo,la nostalgia leggendo Cechov
Si , per avere nostalgia
Devi avere, possedere , una casa,
ma, ora, i miei ricordi sono di un rosso sbiadito
e io mi lascio cadere addosso la sera
mia compagna fedele, essenziale madre dei sogni.
La mia anima
ora è
Simile al vetro della finestra
che raccoglie le gocce di pioggia.
Nostalgia è il mio veleno Lucifero
È lui il padrone del foglio bianco
Che io cerco inutilmente di incidere con la penna rossa.
Proverò, ancora una volta, a disegnare Cechov
E “La signora con il cagnolino”
All’interno della mappa arancione
Inchiodata alla mia anima.
Ora lascio Cechov in un mare tropicale
Mentre io torno a creare un nuovo sogno
Per una casa castelnuovese inesistente.
Luna Castelnuovese. (1978)
Si muovono lentamente le foglie
come timide onde al soffio della brezza
mentre la luna, la sua faccia bianca
trafigge la fragilità dei pensieri.
Le (romantiche ) case di Castelnuovo
producono sogni, incompiuti
lontani, non al passo del tempo veloce.
Castelnuovo,
se il silenzio diventa una melodia per l’anima,
e mi segue per le vie di Dedalo, sempre uguale,
vado a contare i sogni e le lacrime
in questa notte senza un sussulto
mentre cerco i tuoi occhi dispersi nel corteo delle stelle che seguono la luna.
E pur mi associo a un sogno collettivo per il nulla ,
per, poi, ritornare nella certezza delle tue vie ,
e tu
Dedalo ,
sempre uguale, che mi segui nei miei ricordi
per godere
mentre annego nella faccia bianca della luna castelnuovese.
Né surreale , né metafisico
Portate i “fallacciani” al padrone
Castelnuovo, l’uomo servizievole che, camminando, aspetta di mangiare i “FALLACCIANI” del padrone.
Il “Vero sindaco”, quello ombra, merita l’omaggio:” E il servo devoto gli rifornisce la tavola con deliziose primizie.”
E’ questa l’immagine di una quieta giornata castelnuovese senza tempo. La resa, quasi pittorica, del gesto servile, minuziosa nei dettagli e sapiente nei colori dell’offerta dei “fallacciani” . Quadretto che appare in perfetto equilibrio con l’idea struggente della vita che, in continuo divenire, anima e illumina di senso, contenuti e spessore, la realtà del nostro piccolo Borgo.
E se anche una bugia
Può essere una verità
Sarà come parlare
Della dialettica di Platone
Con uno sconcertante
Essere
la mente e destino da retrovie,
Appunto,
è navigare le bugie per trasformarle in verità …apparenti.
Il servo che guarda sgomento il “ cesto pieno di fallacciani” che , ahimè, sfuggitogli di mano è il simbolo di un tempo che evidenzia e sottolinea la ,triste, verità.
È lui il” tuo padrone”: rendigli omaggio.
E ,in fine, il servo con la cravatta ha gridato :
”PORTATE I FALLACCIANI AL PADRONE”.
Mentre uno stormo di uccelli volteggia attorno al campanile e l’aria della sera si fa umida e profumata. Ora sembra avverarsi, quasi vicino, il sogno del servo fedele . Sogno che, da molto tempo già assapora il servo e che, forse, un giorno anche lui assaggerà , finalmente,
il“ FALLACCIANO ” del padrone.
I BASTIONI di Castelnuovo.
Le distese arate
Erano come seni
Della madre che offre la vita
Alle labbra del bambino.
L’anima lasciata sui bastioni di Castelnuovo,
mi allontana dalla giovinezza.
Lascio i libri , e coagulo l’attimo
del “prima” e del “poi”.
La lotta e la clemenza infinita
Sono la traccia per il dialogo con me stesso.
Ora uscirò illeso da poesie sconosciute.
I GRAFFITI di CASTELNUOVO
Ho contemplato le facciate di Castelnuovo
Ho memorizzato, cercato, ogni dettaglio
Ho inciso tutto nella mia memoria
Ho registrato i suoni, grida, i pianti, i singhiozzi e i gemiti
Ho evidenziato i colori del giorno e della notte
Ho scritto Castelnuovo nel mio muro degli appunti.
Ecco, ora i sogni stanno fuggendo dalle mie mani.
P.S.
Castelnuovo, i suoi bastioni
Dall’umile casa della mia semplice giovinezza, ricordo le scale buie, le stanze piccole e basse, dove si respirava la dignitosa povertà. Non vi erano tende di seta blu con risvolti cremisi, non si serviva il caffè agli ospiti in visita. Era questa la mia casa, la casa dell’infanzia, la mia infanzia . I libri furono i miei canali satellitari e Montale, Ossi di Seppia, la mia navicella spaziale. La semplicità dei rapporti , il rapporto sociale, era una condizione , inconsapevole, ma fondamentale di una vita serena .
Possiedo ancora Ossi di Seppia, la III ristampa del 1954 Ed. Mondadori.
dal libro di Franco Leggeri-“Castelnuovo, la riva sinistra del Farfa”
Insieme per le donne IL LIBRO FEMMINISTA CHE FECE CADERE LA DITTATURA IN PORTOGALLO Può un libro, un libro femminista, contribuire alla caduta di una dittatura? Sì, un libro femminista può anche questo!
– Rizzoli Editore-
Nel 1972, nel Portogallo che vive una dittatura ormai quarantennale, viene pubblicato un libro: “Le nuove lettere portoghesi” di Maria Isabel Barreno, Maria Teresa Horta e Maria Velho da Costa, tre autrici il cui impegno femminista è già noto alle autorità, che di fatto le controlla.
Le Tre Marie, come verranno chiamate da questo momento in poi, descrivono nero su bianco che cosa sia la dittatura portoghese: attraverso un’opera epistolare collettiva scritta a sei mani, le autrici tratteggiano una società patriarcale, sessista e misogina, fortemente razzista nei confronti delle colonie.
Il testo affronta temi quali la riappropriazione e l’autodeterminazione del corpo femminile, il diritto al piacere, nominando nell’opera parole quali “vagina” e “clitoride”, il diritto all’aborto e all’occupazione di spazi pubblici da parte delle donne.
L’opera viene immediatamente censurata “per incompatibilità con la morale pubblica” e Le Tre Marie interrogate: le autrici non riveleranno mai chi avesse scritto cosa.
La storia delle “nuove lettere portoghesi” varca i confini nazionali arrivando in Francia all’attenzione delle più grandi femministe dell’epoca, tra cui Simone de Beauvoir.
Ne consegue una vastissima mobilitazione internazionale a sostegno delle Tre Marie, la cui opera ha di fatto contribuito a screditare l’immagine della dittatura portoghese a livello mondiale, il cui processo si tiene il 25 ottobre del 1973.
Il regime pretende che le autrici ritrattino pubblicamente affermando di non aver avuto intenzione di “offendere il governo, né il buon nome del Portogallo”.
Per il timore di grossi disordini la lettura della sentenza viene rinviata al successivo 25 aprile 1974, lo stesso giorno in cui la dittatura viene rovesciata con il colpo di stato conosciuto come la Rivoluzione dei Garofani.
Alcune settimane dopo, le Tre Marie vengono assolte da tutte le accuse.
Il giudice Acácio Lopes Cardoso emette la sentenza: “Il libro non è pornografico né immorale. Al contrario: è un’opera d’arte, di alto livello, come gli altri che le stesse autrici avevano scritto in precedenza”.
Dafne Malvasi
Per approfondire:
Maria Isabel Barreno, Maria Teresa Horta, Maria Velho da Costa, “Le Nuove Lettere Portoghesi”, Ed. Rizzoli, 1977.
https://www.ilpost.it/…/portogallo-femminismo-tre…/
Immagine tratta da: https://espresso.repubblica.it/…/libro_erotismo…/
#letremarie #nuovelettereportoghesi #Portogallo #donnecontroladittatura #librifemministi #insiemeperledonne
“Scrivere le Nuove lettere portoghesi è stata una delle cose più importanti della mia vita”
[intervista apparsa sul portale portoghese di informazione alternativa Esquerda.net il 25 ottobre 2020 a cura di Mariana Carneiro – traduzione e note a cura di Alice Girotto]
Il 25 ottobre 1973 ebbe inizio il processo alle “Tre Marie”, autrici del libro Nuove lettere portoghesi. In quest’intervista concessa a Esquerda.net, Maria Teresa Horta parla del processo di creazione letteraria, della persecuzione che subirono e del movimento di solidarietà che intimorì il regime fascista.
Nel maggio del 1971 Maria Teresa Horta, Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa iniziarono a scrivere, a sei mani, le Novas Cartas Portuguesas (‘Nuove lettere portoghesi’). Per la scrittura collettiva, si accordarono di partire dalle lettere d’amore indirizzate a un ufficiale francese da Mariana Alcoforado, pubblicate in Portogallo in edizione bilingue dall’editore Assírio & Alvim con il titolo Cartas Portuguesas (‘Lettere portoghesi’) e tradotte da Eugénio de Andrade.[1]
In Nuove lettere portoghesi Maria Teresa Horta, Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa sfidano la dittatura, l’ordine patriarcale e le convenzioni sociali del paese. Nell’opera vengono denunciate le diverse oppressioni subite dalle donne, il sistema giudiziario che perseguitava le donne scrittrici, così come la guerra coloniale e la violenza fascista. Esattamente 47 anni fa, il 25 ottobre 1973, ebbe inizio il processo alle “Tre Marie”. In occasione di questa data, Esquerda.net ha intervistato Maria Teresa Horta, che ringraziamo per la disponibilità e la gentilezza.
Come conobbe Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa, le altre due “Marie” con cui avrebbe scritto le Nuove lettere portoghesi?
Io ero giornalista al quotidiano A Capital, dove coordinavo il supplemento letterario “Literatura e Arte”, e un giorno intervistai Maria Isabel Barreno. Da quel momento diventammo amiche. Nel frattempo, Fátima [Maria Velho da Costa] pubblicò Maina Mendes. Quando lo lessi, parlai con Isabel, che mi disse che lei e Fátima erano molto amiche e lavoravano insieme all’Istituto nazionale di ricerche industriali. Mi diede subito il contatto di Fátima per poter organizzare un’intervista. Chiacchierammo per sei ore, uscì da casa mia alle sette di sera passate. Dopo quest’incontro iniziammo, tutte e tre, a incontrarci tutte le settimane. Sentivamo che avevamo molte cose da dirci. Avevamo molto in comune. Isabel veniva in macchina con Fátima e venivano a prendermi al giornale. Pranzavamo sempre al Treze, nel Bairro Alto a Lisbona, dove, all’epoca, si incontravano i giornalisti. Durante i nostri incontri, parlammo varie volte di scrivere qualcosa insieme. Era un progetto che continuavamo a rimandare. Con la pubblicazione del mio libro Minha Senhora de Mim (‘Mia padrona di me’) tutto cambiò. Smettemmo di essere solo le amiche che si incontravano per parlare di letteratura, della dittatura e della situazione delle donne e iniziammo a scrivere un libro insieme: le Nuove lettere portoghesi. Era il maggio del 1971.
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Il libro Minha Senhora de Mim fu ritirato immediatamente dalla polizia politica (PIDE) e le valse, oltretutto, un pestaggio. Può parlarmi un po’ della persecuzione che subì?
Le Nuove lettere portoghesi non esisterebbero se non esistesse il libro Minha Senhora de Mim. La mia vita cambiò radicalmente quando lo pubblicai. La PIDE lo ritirò otto giorni dopo e Snu Abecassis, fondatrice della casa editrice Dom Quixote, fu chiamata dal direttore del Segretariato nazionale di informazione. Moreira Baptista le proibì di tornare a pubblicare una mia opera. “Qualsiasi libro?”, gli chiese Snu, al che lui rispose: “Se il libro si intitola La storia del piccolo maggiolino ed è firmato da Maria Teresa Horta, le faccio chiudere la casa editrice”. A quell’epoca, Moreira Baptista già mi odiava. Ero l’unica donna direttrice di un circolo cinematografico e i circoli erano centri di grande resistenza politica. Un giorno andammo al Palácio Foz, sede del Segretariato, a protestare perché Moreira Baptista aveva proibito un ciclo di film di Visconti che stavamo organizzando. Quando mi vide, chiese cos’è che stava facendo lì quella ragazzina. Gli spiegarono che non ero una ragazzina, ero una scrittrice, sposata, e direttrice dell’ABC. Mi guardò e disse: “Povero paese il nostro, in cui ci sono già donne direttrici di cineforum”. A partire da quel momento diventò il mio peggior nemico.
Dopo il ritiro di Minha Senhora de Mim, divenni bersaglio di una persecuzione feroce. Fu un processo di umiliazione pura, una cosa vergognosa, offensiva. Dovetti cambiare l’utenza telefonica di casa e metterla a nome di mio marito Luís [de Barros]. All’epoca, era rarissimo che l’utenza telefonica fosse a nome di una donna. Chiamavano alle cinque, alle quattro, alle tre del mattino per insultarmi e minacciarmi. Era inconcepibile. Dicevano cose come “Dovrebbero violentarti per vedere se ti piace”. Quando telefonavano di mattina o di pomeriggio, a volte, era mio figlio Luís Jorge che rispondeva e doveva sentire tutte quelle ingiurie su sua madre. Era di una violenza atroce. Oppure rispondeva mio marito, al quale dicevano che doveva “mettere la moglie al suo posto”. In redazione, le centraliniste dovettero istituire il triage delle telefonate, tale era il numero di persone che chiamavano e mi cercavano.
Una sera uscii di casa, nel quartiere popolare di Arco do Cego, per incontrarmi con Luís. Iniziai a salire in direzione della statua di António José de Almeida per prendere un taxi. Era un percorso abbastanza solitario. Improvvisamente, un’auto accese i fanali, iniziò a muoversi verso di me e salì sul marciapiede dove stavo camminando. Dall’auto uscirono due uomini, mentre un terzo rimase al volante. Mi gettarono a terra e iniziarono a picchiarmi. “È per imparare a non scrivere come scrivi”, dissero. Allora capii che non si trattava di una rapina, erano fascisti. Apparve un signore che abitava lì nel quartiere, padre di una mia amica. Chiese “Cosa sta succedendo?”, mentre correva verso di me. Gli uomini entrarono nell’auto e sparirono. Il signore mi portò all’ospedale e sua moglie chiamò alla redazione del Diário de Notícias. Qualcuno doveva avvisare mio marito di quello che era successo. Venne da me subito profondamente turbato. Mi medicarono e mi diedero i punti.
Tutto questo per un libro! E un libro bello, che non è neppure il più erotico che ho scritto e in qualche punto è quasi ingenuo.
È in seguito allo scandalo provocato da Minha Senhora de Mim e alla persecuzione da lei subita che decideste di sfidare il regime fascista e scrivere, a sei mani, le Nuove lettere portoghesi. Come nacque quest’idea?
Circa una settimana dopo l’aggressione, andai a pranzo con Isabel e Fátima. Incontrai per prima Fátima. Quando mi vide, rimase indignatissima per il mio stato, per quello che mi avevano fatto. Di fronte al subbuglio provocato dal libro, allo scandalo che si generò e per il fatto di essere stata inseguita, minacciata e picchiata, Fátima lanciò la sfida: “Se una donna da sola provoca tutta questa confusione, questo subbuglio, questo scandalo, cosa succederebbe se fossimo in tre?”. L’idea mi piacque subito. Nel frattempo, arrivammo al Treze, dove Isabel stava scrivendo su un foglio. Le parlammo dell’idea di scrivere un libro insieme, molto entusiaste. La sua reazione fu: “Che rompiscatole, ne inventate sempre una. Proprio adesso che sto scrivendo A Morte daMãe (‘La morte della madre’)…” (un libro magnifico). La settimana dopo, quando ci incontrammo di nuovo, Isabel aveva già un primo testo, la prima lettera. Fu così che nacquero le Nuove lettere portoghesi.
Conosciamo la “maternità” solo di questo stesso testo. Del resto, vi siete reciprocamente promesse che non avreste mai rivelato chi aveva scritto che cosa. Com’è stato questo processo letterario collettivo?
Oltre al nostro pranzo settimanale al Treze, decidemmo di incontrarci una volta alla settimana in casa di una di noi. L’idea era di alternare di volta in volta il luogo, solo che la stragrande maggioranza delle volte finimmo per riunirci a casa mia. Definimmo diverse regole. Ognuna di noi doveva dare alle altre una copia, battuta a macchina, di quello che avevamo scritto. Durante i nostri incontri non discutevamo solo della costruzione letteraria del libro, parlavamo anche di altre questioni che sorgevano man mano nel corso del processo. Sostanzialmente, discutevamo di tutto. Dovevamo leggere il nostro testo a voce alta alle altre e qualsiasi testo poteva essere rifiutato. Non era affatto il caso di “Io scrivo e voi sopportate”. Poi avevamo dei rituali scherzosi. All’inizio e alla fine dicevamo sempre determinate parole, come se fossero password. Era una specie di gioco. La nostra generazione lo faceva spesso, usavamo parole di cui solo noi sapevamo il significato.
Qualcuno dei testi è mai stato rifiutato?
Neanche uno.
E modificavate i testi le une delle altre?
No, mai, né volevamo farlo. Se non eravamo d’accordo, ne discutevamo lì. Cercavamo di convincere l’autrice del testo a cambiarlo. Chiaramente potevamo rifiutare il testo nella sua interezza, ma di fatto non lo facemmo mai, né mai nessuna di noi disse che non le piaceva il testo di una delle altre due. E tutto questo era la verità. Discutevamo molto dei testi e dello sviluppo della storia. Era dai testi che stavamo discutendo in un dato giorno che partivamo per nuovi testi. Spesso avevamo visioni diverse e scrivevamo testi che andavano in direzione contraria a quella che un’altra stava seguendo, ma lo facevamo in modo letterario, non in modo critico.
Era una vera sfida…
Assolutamente sì! Stavamo lì a discutere ore e ore. Ognuna parlava del testo delle altre e ognuna di noi difendeva il proprio testo. Fu molto intenso.
Ricordo di averla sentita dire che scrivere quest’opera è stata una delle cose più divertenti e avvincenti che ha fatto nella vita. Mi può spiegare perché?
È stata davvero una delle cose più importanti e divertenti che ho fatto nella vita. Ridevamo così tanto! Eravamo tutte molto scherzose. Il libro è pieno di umorismo. Quando affrontiamo il discorso della mascolinità, non c’è niente di più devastante che usare l’umorismo per far arrabbiare quelle creature.
Era una battaglia politica che stavate ingaggiando…
Era fortemente politica e fu un processo politico, anche se i fascisti hanno sempre tentato di far credere che era una questione di morale e buoni costumi. Molte persone sapevano già che stavamo scrivendo il libro e lo consideravano come una specie di vendetta. Non contro gli uomini, ma contro chi ci chiamava in tribunale e ci proibiva di scrivere, come già era successo con Natália Correia.[2] E questo è uno dei motivi che spinse così tante persone a offrirsi successivamente come testimoni della difesa.
Quanto tempo impiegaste per scrivere il libro?
Nove mesi, dal 1° marzo al 25 novembre del 1971. Ce ne rendemmo conto solo quando stavamo preparando le copie del libro da consegnare alle case editrici. Eravamo a casa mia. Natália Correia della Estúdios Cor, Leão de Castro della Europa-América e Pedro Tamen della Moraes Editores rimasero nel salottino al piano di sotto, aspettando le copie del libro per prenderne una e decidere se volevano pubblicarlo. Mentre preparavamo i mucchietti chiesi quanto tempo ci avevamo messo per scrivere le Nuove lettere portoghesi. Arrivammo quindi a questa conclusione: nove mesi, il tempo di una gravidanza. È impossibile che sia un caso. Quale fu la reazione degli editori al libro?
Leão de Castro, proprietario della casa editrice Europa-América, mi telefonò per spiegarmi che non poteva pubblicarlo perché gli avrebbero fatto chiudere e non sarebbe riuscito a pagare i tipografi. I proprietari della casa editrice di Pedro Tamen non accettarono di pubblicare le Nuove lettere portoghesi. Natália disse invece che, se non le avessero avallato la pubblicazione, si sarebbe licenziata. I proprietari della Estúdios Cor, che più tardi furono sentiti durante il processo e rifiutarono qualsiasi responsabilità, diedero comunque indicazioni a Natália di tagliare alcune parti, ma lei chiese a uno dei tipografi di pubblicare l’opera integralmente. Natália fu la prima persona a essere interrogata durante il processo. Volle assumersi tutta la responsabilità, affermando che, se esisteva qualcuno a cui attribuire la colpa per quel libro magnifico, era lei. Noi lo avevamo scritto, ma era stata lei a pubblicarlo. Se non fosse stato per lei, il libro non sarebbe mai stato pubblicato. Tutte le case editrici si sarebbero rifiutate di farlo. “L’unica responsabile del fatto che il libro sia finito nelle librerie per essere venduto sono io”, sottolineò Natália. Facemmo subito molto rumore in tribunale per cercare di dire che non era vero e ci fu ordinato di tacere.
Era una donna coraggiosa…
Natália era una donna straordinaria. La persona più coraggiosa che ho conosciuto. Una persona intelligente, solidale, che scriveva bellissima poesia. Era davvero una gran donna.
I fascisti considerarono il contenuto delle Nuove lettere portoghesi “irrimediabilmente pornografico e attentatore della morale pubblica” e minacciarono una pena fra i sei mesi e i due anni di carcere. Eravate già consapevoli delle conseguenze che avreste affrontato con la pubblicazione del libro? Pensavate che la persecuzione si sarebbe spinta fino a quel punto?
Eravamo curiose. Credo che sia la parola adatta. Non siamo mai state donne paurose, men che meno di scrivere. Fu, questo sì, una grossa sfida. Del resto, il libro parte dalla sfida di Maria Velho da Costa: “Se una donna da sola provoca tutta questa confusione, questo subbuglio, questo scandalo, cosa succederebbe se fossimo in tre?”. Non ci eravamo mai proposte di scrivere un libretto con tutte le attenzioni.
Stavamo sfidando il regime fascista ed eravamo assolutamente consapevoli del pericolo che stavamo affrontando. All’epoca, tutto era considerato sovversivo. Tutti noi, di sinistra, vivevamo in pericolo. Gli agenti della PIDE potevano fare quello che volevano, come arrivare alle sei della mattina a casa mia, entrare e prendermi per il collo, con il volto addossato contro la parete. Uno dei compiti di quei signori era andare a casa della gente a quell’ora. Faceva parte dell’intimidazione e del terrore permanente. Ognuno di noi aveva un “signor agente” che ascoltava le nostre chiamate. Mi ricordo di una telefonata con [José] Cardoso Pires[3] in cui mi disse “Bene, adesso parliamo al signor agente che ci sta ascoltando”. [ride] Oltre al fatto che, prima di noi, Natália Correia era già finita in tribunale ed era stata condannata per aver scritto la Antologia de Poesia Erótica e Satírica (‘Antologia di poesia erotica e satirica’).
Quello che non ci aspettavamo era tutta quella violenza, tutto l’apparato. Sentimmo cose incredibili e spaventose, anche durante le sessioni in tribunale. Già mentre stavamo scrivendo il libro Isabel e Fátima si separarono dai mariti. E non fu una coincidenza, è tutto legato alle Nuove lettere portoghesi. In questo periodo così breve le nostre vite ne risentirono, anche prima della PIDE, della polizia e del processo. Le nostre vite cambiarono completamente anche per altri aspetti: conoscemmo persone impensabili, come la Duras o Simone [de Beauvoir], uscimmo dal Portogallo…
Ci fu un tentativo implacabile di umiliarvi e intimidirvi e di fingere che non si trattava di un processo politico. Foste addirittura interrogate dalla polizia del buon costume, come le prostitute. Questo tentativo fu esplicito durante il vostro processo?
Vollero proprio umiliarci, schiacciarci. Fu sinistro. Dovemmo presentarci alla polizia del buon costume. Non ammisero mai che era un processo politico, dissero che ciò che era in causa era un attentato alla morale pubblica. Ci trattarono come delle svergognate. Tutto questo è molto importante per capire che le Nuove lettere portoghesi furono considerate gravissime per essere state scritte da donne. E le donne dovevano essere umiliate.
Quando arrivammo alla polizia del buon costume ci ordinarono di sederci, noi e i nostri avvocati, in una stanza dove c’erano delle signore. Poco dopo una di loro, la più vecchia, si alzò e venne a parlare con noi. “Voi, ragazze, siete qui a far che?”, chiese. Il mio avvocato, Francisco Rebelo, le spiegò che eravamo lì perché avevamo scritto le Nuove lettere portoghesi. Rimase molto ammirata. Ci disse che quella stanza non era per le scrittrici, era la stanza delle prostitute, e che non dovevamo stare lì: “Uscite e andate in un’altra stanza, ce ne sono varie disponibili”.
Girò il dito nella piaga. Vollero metterci nella stanza delle prostitute per cercare di umiliarci ed erano convinti che avremmo parlato, che una di noi alla fine avrebbe parlato. Prima ci sentirono insieme, poi ci chiamarono una alla volta, con il rispettivo avvocato. Quando sentirono me, mi dissero che dovevo vergognarmi, che sapevano che ero stata io a scrivere il libro. Non credevano alla storia di un libro scritto in tre, non esisteva. Fu a quel punto che Francisco Rebelo se ne uscì con quella battuta infelice: “È una specie di cadavre exquis”.
Durante l’intero processo non prendeste mai in considerazione la possibilità di smettere di scrivere o, più tardi, di ritrattare?
No! Scrivere questo libro è stata una delle cose migliori delle nostre vite. Com’era possibile? Quel processo letterario fu inedito nel nostro paese, né trovammo niente di identico in altri paesi. Stavamo facendo una cosa unica: tre donne, tre scrittrici, tre amiche che si riuniscono per parlare e scrivere di quello che volevano in un paese fascista. Il fatto che non avevamo paura fu una delle cose che più li fece infuriare. Pensavano che, essendo donne, eravamo esseri fragili e che ci avrebbero terrorizzato. Ma non ci riuscirono. Quando andammo in tribunale non eravamo piene di paura. Eravamo decise.
Il vostro atteggiamento durante le sessioni in tribunale era una delizia, con un’aria convinta, padrone di voi stesse…
Elegantissime, sempre. Ma dovevamo sistemare Isabel prima delle sessioni, perché a lei queste cose non interessavano. [ride] E arrivava in ritardo. Il giudice doveva aspettarla. Le facemmo promettere che l’ultimo giorno sarebbe stata splendida e, infatti, fu così.
E non era solo il fatto di essere elegantissime, ostentavate anche un sorriso in viso.
Nonostante tutta la violenza che subimmo, di fatto non lasciammo mai trasparire intimidazione. E molto di ciò che ci circondava risultava addirittura comico: dall’assistente che trascriveva tutto quello che veniva detto, perché non veniva registrato niente, e interrompeva costantemente per chiedere se “sutura” si scriveva con –s o con –ç, al procuratore che sembrava essersi provato gli interventi prima di andare in tribunale… Tutto questo ci faceva ridere. [ride] Non ricordo di aver avuto paura nemmeno una volta, neppure quando uscii di casa per andare in tribunale pensando che il giudice avrebbe letto la sentenza.
La prima volta che siete comparse davanti al giudice avete avuto il privilegio di assistere a situazioni piuttosto ridicole. Può parlarmi di quel momento?
La prima sessione si svolse al primo piano del tribunale della Boa Hora, nel luglio del 1973. Il giorno dopo iniziavano le ferie giudiziarie, perciò per tre mesi non tornammo in tribunale. L’inizio ufficiale del processo venne fissato per il 25 ottobre, con un giudice e un procuratore diversi. Esattamente il giorno prima di questa prima sessione rimasi senza avvocato. Alla fine fu Duarte Vidal, avvocato di Isabel, a rappresentarmi. Il procuratore si entusiasmò a tal punto che iniziò a parlare senza fermarsi e sempre più forte, per spiegare perché eravamo in tribunale e quanto quel libro fosse orribile e nefasto. Tutto avveniva a porte chiuse, senza pubblico, perciò non so bene a chi stava cercando di spiegarlo. Sembrava che avesse provato il suo intervento a casa con la moglie, per confermare che gli veniva bene. Il giudice teneva già le mani in fronte, quasi a dimostrare di essere già stanco di ascoltarlo. A un certo punto, il procuratore, vestito con quella tunica nera, prese un esemplare delle Nuove lettere portoghesi e lesse un passo. Ne approfittò per dire che non eravamo delle signore, perché una signora non avrebbe scritto una cosa come quella. Pensava che ci stava offendendo tantissimo. Il passo che scelse fu il seguente:
Fragili sono gli uomini di questo paese di nostalgie identiche e paure e avvilimenti. Fragilità camuffata in vari tentativi: sfidando tori in piazze pubbliche, per esempio, corse di macchine e lotte corpo a corpo. O mio Portogallo di maschi che ingannano l’impotenza, animali da monta, stalloni, pessimi amanti, così frettolosi a letto, attenti solo a mostrare il cazzo.
Fu la ridarella totale. Gli avvocati scoppiarono a ridere, anche noi scoppiammo a ridere. Il giudice tentò di dissimulare la risata mettendosi la mano davanti alla bocca. Fu una cosa ridicola. La sessione finì lì, anche perché, non appena terminò la sua rappresentazione teatrale, il procuratore uscì dalla porta. Isabel, con quell’aria tranquilla che aveva sempre, ci chiese di coprirla mentre raccoglieva il libro dal pavimento. La guardammo, con i suoi due metri di altezza, e le spiegammo “solo se una di noi si mette a cavalcioni dell’altra”, ma non sapevamo fare queste acrobazie. [ride] Alla fine trovammo un altro modo. Quando arrivammo accanto al libro ci fermammo, Isabel si abbassò e lo prese mentre la coprivamo. Il giudice vide, è impossibile che non abbia visto, ma non disse nulla. Siccome Isabel non aveva neppure la borsa, uscì dal tribunale con il libro in mano. Questo esemplare adesso si trova a casa di suo figlio, al quale ho raccontato questa storia.
Durante l’intero processo godeste di appoggi molto importanti, com’è il caso di Maria Lamas. In che modo venne coinvolta nel processo?
Quando Marcelo Caetano autorizzò Maria Lamas[4] a tornare in Portogallo, per dimostrare che era molto benevolo, il processo delle Nuove lettere portoghesi era all’inizio. Lei insistette per essere fra i miei testimoni. All’epoca non capii perché, solo in seguito venni a sapere che Maria Lamas era una delle donne che partecipava alle riunioni a cui andava la mia nonna Camila e alle quali mi portava quando ero piccola. Visto che avevamo già molti testimoni e c’era un numero massimo consentito, Paulo e Carmo si rese disponibile a cedere il suo posto a Maria Lamas. C’è un episodio molto bello durante il processo. Siccome era molto sorda, il giudice ordinò di mettere una sedia accanto al suo banco e fu lui a farle le domande. A un certo punto le disse: “Allora, la signora pensa che le donne sono oppresse?”. Lei rispose: “Se io sono oppressa? Ah, molto, dottore, dalle mie figlie”. Penso che sia la cosa più stupefacente. Naturalmente scoppiò una risata generale. [ride]
A un certo punto lei, Isabel e Fátima decideste di inviare all’estero tre libri delle Nuove lettere portoghesi, accompagnati da tre lettere: a Simone de Beauvoir, a Marguerite Duras e a Christiane Rochefort. Perché queste tre figure?
Sì, decidemmo di inviare i libri quando la situazione era già abbastanza pericolosa. Non appena il libro venne proibito, Duarte Vilar, che era già amico di Isabel e fu il suo avvocato, le disse che dovevamo divulgare quello che stava succedendo e le chiese se aveva conoscenze fuori del paese. Lei rispose di no, ma che le avevo io, in particolare di gruppi che lavoravano con Simone de Beauvoir. Un amico di Isabel si offrì di portare tre libri e tre lettere nel suo viaggio a Parigi. Fu molto coraggioso, sapendo del pericolo che correva. All’epoca, quando andavamo all’estero, i nostri bagagli erano perquisiti da cima a fondo. Se la PIDE avesse visto una cosa del genere l’amico di Isabel sarebbe stato arrestato immediatamente.
Quando parlammo delle femministe alle quali avremmo inviato i libri, c’erano due figure che emersero subito. Una di loro era Simone. Chi meglio di Simone de Beauvoir? Assolutamente nessuno! Era la donna e la grande scrittrice più conosciuta un po’ in tutto il mondo e un’indiscutibile femminista. Sapevamo anche che c’erano diversi gruppi di donne che lavoravano con lei, di cui uno latino-americano, che poteva tradurre le Nuove lettere portoghesi. Marguerite Duras era, e continua a essere, la mia passione. È un punto di riferimento per la mia vita. Una donna molto difficile e favolosa. Simone era già molto meno irriguardosa. Christiane Rochefort scriveva molto sulle donne. Ma, di fatto, le due donne che fecero di più per il libro furono Duras e Simone.
Il libro Nuove lettere portoghesi non è pornografico né immorale. Al contrario, è un’opera d’arte di elevato livello, che segue altre opere d’arte che le autrici hanno già prodotto.
È impressionante come le cose cambino…
[1] In Italia, l’edizione più diffusa delle Lettre portugaises, testo anonimo francese del 1669, è quella curata da Brunella Schisa per Marsilio con il titolo Lettere di una monaca portoghese.
[2] Natália Correia (1923-1993) fu una scrittrice di poesia, di prosa e di teatro, oltre che giornalista, programmatrice televisiva e attivista politica, sia prima che dopo la caduta dell’Estado Novo; una donna carismatica, figura di riferimento per la cultura portoghese del Novecento. In italiano è possibile leggere la raccolta di poesie Comunicação (tradotta da Maria da Graça Gomes de Pina e pubblicata da Carocci nel 2015).
[3] José Cardoso Pires (1925-1998), romanziere, saggista e drammaturgo, è stato uno dei maggiori scrittori portoghesi contemporanei. Fra le più recenti traduzioni in italiano di sue opere vi sono Dinosauro eccellentissimo (Vertigo, 2007), Gli scarafaggi (Le nubi, 2006) e De profundis: valzer lento (Feltrinelli, 2002).
[4] Maria da Conceição Vassalo e Silva da Cunha Lamas (1893-1983) fu una scrittrice, traduttrice, giornalista e famosa attivista politica femminista. La sua opera più importante è As mulheres do meu país (‘Le donne del mio paese’), la prima inchiesta mai realizzata sulle condizioni di vita delle donne portoghesi.
La Campagna Romana nelle tempere e nei pastelli di Giulio Aristide Sartorio
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
La Campagna Romana nelle tempere e nei pastelli di Giulio Aristide Sartorio,Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 -Man mano che la via Appia scende nelle paludi un silenzio innaturale comincia a gravare sul paesaggio . I canti si affievoliscono , non si sentono grida di gioia, ma solo l’indefesso zirlio delle cicale e un gracidare assordante . Qualche bifolco , qualche contadino , qualche buttero giallo di febbre vi fanno un triste saluto . Pian piano si scoprono tra le canne dei lustri sospetti: è l’acqua stagnante … Nei rari casali , nelle povere osterie, vi salutano uomini dall’aspetto fraterno , ma come scaturiti dal passato. Paiono di una stirpe che non è morta mai ; le loro facce sembrano lavorate come i ruderi della Campagna e su di esse si leggono i sacrifici secolari. La via Appia procede così per miglia e miglia, attraverso un paese sospetto , ricco di pascoli , di macchie, ma silenzioso . Gli archi della strada superano i canali fangosi nei quali si vedono i bufali immobili, mentre rari guizzi accusano i pesci. Qualche famiglia di pescatori ha costruito le capanne sulle palizzate e vive come gli uomini primitivi fabbricando le stuoie e le nasse. Sembra di essere catapultati in un paesaggio arretrato nei secoli; sembra d’essere in una specie di Stige e la nostra vita civile
“sembra un inganno , un’illusione”.
Questo paesaggio e questa vita –triste, solenne, straordinariamente caratteristica- il Sartorio delinea con tocchi rapidi e suggestivi in un conferenza su Terracina e traduce da tempo in piccole tempere e pastelli.
Giulio Aristide Sartorio , uscito da una famiglia d’artisti imbevuti di classicismo e che consideravano , quindi, il paesaggio come manifestazione artistica di scarsa importanza, non si dedicò sin dai primi anni agli studi che poi ha privilegiato. Fino alla Gorgone e alla Diana Efesina il Sartorio fu sotto l’influenza deli insegnamenti paterni e deve al pittore Francesco Paolo Michetti il primo impulso verso questi nuovi orizzonti.
Nell’Esposizione parigina del 1889 un suo quadro – I figli di Caino- fu premiato con una medaglia d’oro; e in questa occasione egli si recò , insieme al Michetti, alla Mostra di Parigi.
L’amore e la conoscenza profonda che il Michetti aveva per i paesisti francesi del ‘30 gli rivelarono tutto un mondo quasi ignoto, lo appassionarono per una manifestazione artistica da lui prima poco stimata. Ed a Francavilla a Mare, subito dopo Parigi , segnò con i pastelli del suo grande amico le prime impressioni di paese. Venuto a Roma, trovò nell’amicizia di due nobili illustratori della Campagna Romana- il Carlandi e il Calemann- stimolo costante a che l’improvvisa rivelazione non impallidisse. E il Carlandi e il Colemann gli furono guida nelle prime escursioni attraverso l’Agro Romano: anzi fra loro tre si fermò il progetto di una illustrazione completa di esso; progetto che, purtroppo, pare abbandonato. Ed ora ben pochi conoscono come il Sartorio le segrete bellezze e le ardenti emozioni che può offrire a
chi la contempli con anima candida e fervente l’interminata desolazione della Campagna Romana. Finora il Sartorio, sotto l’aspetto assai cospicuo di paesista, era stato conosciuto frammentariamente- quasi si potrebbe dire saggiato- nelle mostre di Venezia, di Roma, di Milano. Nel febbraio, però, sono state esposte a Londra settantatrè opere – metà tempere, metà pastelli- fra nuove e vecchie sensazioni paesistiche di lui, sì che la mostra offre la visione completa di quel che il Sartorio rappresenta non solo come paesista, ma anche come interprete di una regione nello svolgimento dell’Arte moderna. A Roma, nel salone Corrodi, si è tenuta la prova generale del grande spettacolo londinese: e artisti, amatori, studiosi, giornalisti sono accorsi: e in tutti era profondo il convincimento che il Sartorio fosse il vero multiforme poeta della Campagna Romana e che la mostra odierna avesse una significazione e una organicità profonda che la rendeva un avvenimento artistico affatto insolito. Bisognava vedere, infatti, quale tenace legame spirituale collegava tutte queste Opere così varie di soggetto, di sentimento, di tecnica e come il loro
intimo valore d’arte si intensificasse e si accendesse nel dispiegamento magnifico! La semplicità aristocratica e originale del taglio – rarissima perché segno di una personalità squisita-;la varietà dei momenti colti e la tecnica varia e sensibilissima con cui son resi ; la finezza e la intensità del sentimento onde son tutti materiali; la suggestiva magia evocatrice che li anima pareva che si avvivasse e si ampliasse in una vita più ricca e più ardente. Il Sartorio mantiene nel suo spirito una spiccata propensione per il mondo classico di cui egli ha una conoscenza straordinaria per un artista e perciò predilige quei luoghi della Campagna Romana avvolti nei veli fantasiosi delle leggende oppure onusti di memorie. Così si spiega il gran numero di quadri nei quali egli canta Terracina e il Circeo. E’ il mare di Omero e di Virgilio e-scrive il Sartorio nella conferenza citata- :”i navigli a vela che oggi lo solcano potrebbero essere le navi di Giasone, di Ulisse, di Enea, di Augusto, di Genserico; potrebbero essere flotte che portarono la Poesia , l’Arte, la Guerra, la conquista, la distruzione: pare che noi stessi abbiamo vissute tutte le vicissitudini antiche.” Circe, l’incantatrice di Colchide, ebbe nella regione il suo regno fatale: e il suo spirito sembra che aleggi ancora sul mare azzurro , sulle azzurre lenee dei monti , sulle rovine dei Templi, sugli stagni putridi e mortali . Una solenne atmosfera di silenzio
circonfonde Terracina squallida , chiusa tragicamente nella luce del suo passato, quando i traffici ed il commercio urgevano, quando gli eroi turbinavano intorno, quando l’arte risplendeva nel tempio di Anxur che prometteva al suo popolo la giovinezza eterna e in molti altri Templi e Fori e Basiliche e case. L barcgìhe pescherecce sotto al Circeo con le vele tessute di luce . gonfie e veloci sulla solenne distesa del mare azzurrissimo nella violenza del sole sembrano quelle che passarono innanzi l’isola a vele spiegate una notte remota tra il ruggire dei leoni incatenati e l’ululare dei lupi, mentre Odisseo era tenuto prigioniero nel palazzo incantato di Circe. I bufali pigri, fangosi, dagli occhi iniettati di sangue che triano una pesante carrozza presso Terracina, guazzando in mezzo all’acqua, sembrano veramente quelli abbandonati dalle torme unne di Genserico nella loro partenza precipitosa. Altri bufali lenti e grevi tirano un carro dalle enormi ruote ai monti Ausoni di linea sobria e sdegnosa, interrotta dal Pesco montano, una rupe a foggia di torre sporgente dal Tirreno come faro ciclopico. Esso fu tagliato sotto il primo impero perché contenesse la via Appia, la quale solo colà toccava il mare ed era un punto strategico guardato dal presidio romano chiuso nel Castrum che circondava il tempio di Anxur. Sul davanti del quadro il terriccio melmoso si affloscia ed affonda . L’ampio paesaggio sembra fasciato in tedio profondo , in un silenzio pauroso ed il carro ed i bufali ed i conducenti sembrano silenziose apparizioni fantastiche. Ancora altri bufali affogati nel fango , con le teste torte in alto , ansanti, guardati da due butteri monumentali, selvaggi ruderi di una remota età eroica. Desolazione epica domina anche nelle rovine del porto di Trajano, ora pozzanghera in cui guazzano i bufali, ma un tempo rifugio ricco di vele e di grida che vide partire verso l’Africa gran parte del bottino di Genserico. E’ un arco di terra melmosa cui sono attaccati ancora gli anelli per le navi e al di là di essa si stende sconfinato il mare, rompendosi in spuma sulla terra
superstite ch’esso ogni dì più incalza e sopprime. L’organismo coloristico è squisito : i toni aurati iridescenti delle nuvole pendule sul mare si fondono mirabilmente con quelli oscuri e sordi dell’acqua opaca e della terra che scoscende , rilevati dalla massa azzurra del monte e dalla macchia rossa della casetta che si erge a destra . Molti di questi finissimi quadri si fan notare , oltre che per la loro significazione sempre profonda , per la raffinata seduzione del colore. Vi è una tempera – L’aratura a Foro Appio- che è tutta una delicata sinfonia di toni gialli nell’immensità triste del piano, nelle figure dell’uomo e dei buoi, atomi perduti nello spazio. Un’altra tempera –Nel lago di Nemi, sotto villa Cesarini- in cui attraverso un incrocio fantastico di olmi e platani s’intravvede il cielo roseo sorridente sulle masse azzurrine dei monti, è un accordo finissimo di giallo, verde , rosso , azzurro. Nell’Aratura con i bufali è il roseo chiarore dei monti che anima il paesaggio illuminandolo di un sorriso infinito di pace e di gioia, mentre un lungo convoglio di bufali immani passa con andatura lenta grave come nell’eternità del tempo. Fini illustrazioni ha anche Ostia. Una tempera
che ritrae un piccolo cimitero settecentesco , il cui modesto ingresso è fiancheggiato da due colonne joniche, ornamento forse di qualche villa romana, è una visione di una semplicità e di una signorilità più che squisita, resa con magnifica nitidezza e rilievo, animata da un occhieggiare vivace di papaveri che squillano nella chiara luminosità diffusa sulla campagna. E’, come tante cose del Sartorio, una cosa fatta di niente, ma piena di freschezza e di aristocratica distinzione. Guardate il Pagliaio così morbido, tagliato finemente sull’orizzonte luminosissimo, perlaceo per lo sfolgorare del sole. Guardate lo studio di Tor di Quinto: una semplicissima linea di colline su cui si arrampicano curve le pecore, tutta soffusa di una tristezza e di una poesia infinita. Il Sartotio ha la virtù dei grandi artisti, quella di innalzare ad espressione di arte le forme più umili della vita e della natura, di essere sempre semplice ed originale insieme, di animare come per incantesimo perfino manifestazioni d’arte strascinate per tutte le mostre e tutte le botteghe. Vuol rendere le rovine dei
monumenti romani e non fa né la veduta, né la cartolina illustrata. Le colonne superstiti del Teatro di Ostia sembrano membra sparse, ma ancora viventi, di un organismo già vibrante e pare che anelino all’alto agili e fulgide; le rovine delle Terme antoniniane , quadro di fattura finissima, sembrano penetrare in ogni pietra, in ogni linea di una vita profonda e anche gli acquedotti hanno una grandiosità altera, solenne di voci remote che li rende una vera e grande evocazione di vita fuggente nei secoli. Le paludi e il Litorale pontino sono evocati in alcuni quadretti che sono i migliori della serie, specie quello rappresentante un armento di bufali che attraversa un ponte di pietra, il cui riflesso rossastro anima l’acqua appena increspata e, più ancora, quel lembo di litorale , vero capolavoro, in cui è reso possentemente l’infinito del mare e quel senso di timoroso stupore, di tristezza, di annichilimento che esso produce e che la tenue vita delle pecore beventi intensifica. Delle illustrazioni di Tivoli è assai fine quella che ritrae una cascata, ora scomparsa, scendere rumorosa e fresca tra rigogliose siepi verdi, e le due rive dell’Aniene , eleganti nella loro pace un po’ triste, fresche di ombre animatrici. Di Castel Fusano si
vede lo Stagno del Levante , immobile, triste, armonia di toni verdi, e il viale del coniglio, grandioso, in cui le masse brune dei pini ondeggianti staccano sopra il cielo diafano che appare a tratti tra esilità dei rami. La pineta di Sant’Anastasia è resa in due aspetti diversissimi- una volta oasi perduta in una desolazione immensa, affondata in un orizzonte torbido, chiuso da una monotona linea di monti- un’altra come parco signorile racchiudente una casetta candidissima: una visione gaia, fresca, aristocratica. Molti altri quadri ritraggono svariati aspetti della Campagna Romana. La strada attraverso la selva laurentina, oltre a rivelare una straordinaria abilità tecnica , è altamente suggestiva per lo sfondo misterioso, per la immobilità quasi esanime degli alberi e delle erbe che sembrano forme di una vita lontana. Di morbidezza squisita e finissima di chiaroscuro è la Raccolta del fieno. Più fine e possente il Temporale sulla via Cassia bianca di polvere, su cui rotolano con grave incedere carri tirati da bufali. L’appesantimento dell’aria , l’attenuazione dei colori pel filtrare lieve del sole, l’aspettazione misteriosa e raccolta che si diffonde sugli
uomini e sulle cose insieme a una tristezza profonda fanno apparire imminente l’abbattersi della bufera. L’Aratura di settembre in una sterminata e desolata campagna chiusa da monti assume una grandiosità sovrannaturale come se fosse una funzione sacra. Assai delicata è la Pastorale, pervasa di una tristezza elegiaca che si effonde non solo dal volto accasciato del suonatore gonfio e lacero, ma anche da quel rudero-voce d’altri tempi- staccante sul piano erboso e dalla squallida distesa interminata avvolta in una luminosità diffusa. Epica è la Sera nella Campagna Romana per il rossore tragico che avvolge come di un velo di nebbia il desolato piano erboso, le pecore strette l’una all’altra, timidamente. Certi grandi quadri hanno raggiunto una vita straordinaria, riprodotti in piccole dimensioni. Così quello già a Venezia in cui si vedono le pecore disposte a semicerchio come per un misterioso rito sotto il tenue chiarore roseo dell’estremo crepuscolo, mentre la luna rosseggia pallida e incerta dietro i vapori : pare che un silenzio argentino circonfonda ogni cosa ; pare che un infinito senso di poesia da ogni cosa emani. Così da Tonnara , esposta a
Milano nel 1906, che appare più intensa nell’azione, più armonica nella costruzione , più accordata nel colore. La pittura , con questi lavori, il Sartorio ha superbamente rappresentato e descritto la Campagna Romana.
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
Biografia di Giulio Aristide Sartorio.
Allievo prima del padre e poi dell’Accademia di San Luca fece i suoi primi passi all’insegna del fortunismo alla moda con quadi in costume settecentesco o comunque contrassegnati dalla pennellata virtuoso e dalla tematica facilmente leggibile. Nel 1883 inviò all’Esposizione di Belle Arti di Roma Dum Romae consulitur morbus imperat ovvero Malaria (opera dispersa), potente dipinto neo caravaggesco di denuncia sociale. Nel 1889 vinse la medaglia d’oro a Parigi con I figli di Caino e si avvicinò a Francesco paolo Michetti, da cui derivò l’amore per il pastello e per il paesaggio. Contemporaneamente alla frequentazione di In Arte Libertas realizza il trittico Le Vergini Savie e Le Vergini Folli per il conte Gegè Primoli, opera intrisa di umori neo bizantini. Un passo successivo fu il dittico Diana d’Efeso e gli Schiavi e La Gorgone e gli Eroi – vera e propria summa della sua stagione simbolista e delle sue riflessioni sull’arte – opera che alla Biennale di Venezia del 1899 ottenne l’acquisto statale per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Tra il 1908 e il 1912
realizzò l’intero fregio per la nuova aula del Parlamento mettendo a punto un nuovo linguaggio per la decorazione ambientale dove si coniugava il classicismo michelangiolesco con la propria sigla inconfondibile. Allo stesso periodo risale la partecipazione al gruppo dei XXV della Campagna Romana, con il quale perlustrò tutti gli amati dintorni di Roma riportandone i segni distintivi in procinto di essere cambiati per sempre dal progresso. Nel 1915 partì volontario per la guerra che documentò con una serie di lavori di straordinaria modernità caratterizzati da tagli fotografici arditi e da contrasti cromatici d’effetto. Negli anni ’20 compì una serie di viaggi in Oriente e Sud America grazie ai quali realizzò una serie straordinaria di opere contraddistinte dall’immediatezza del reportage dal vivo. L’ultimo periodo si dedicò a ritrarre la famiglia Fregene mettendo a punto un’innovativa pittura di luce post impressionista di straordinaria modernità. Morì nel 1932 a Roma durante la progettazione della decorazione del Duomo di Messina. Biografia: Nasce a Roma l’11 febbraio 1860, il nonno Girolamo e il padre Raffaele, entrambi scultori, lo avviano
all’arte. Frequenta i corsi di Francesco Podesti all’Istituto di Belle Arti. 1877-79 Si mantiene realizzando soggetti alla moda neo settecenteschi e neo pompeiani sulla scia del successo di Mariano Fortuny. Si reca a Napoli dove conosce Domenico Morelli. 1883 Partecipa all’Esposizione internazionale di Roma con Malaria (Dum Romae consulitur morbus imperat). 1884 Visita a Parigi il Salon e attraverso Vittorio Corcos viene in contatto con l’ambiente degli artisti italiani ivi operanti. 1885 Lavora come illustratore per la “Cronaca Bizantina” di Angelo Sommaruga, che lo presenta a Gabriele D’Annunzio. 1886 Stringe amicizia con Francesco Paolo Michetti ed Edoardo Scarfoglio e viene in contatto con il gruppo di artisti di “In Arte Libertas” legati a Nino Costa. Prende parte all’editio picta dell’Isaotta Guttadauro di D’Annunzio. 1889 Ottiene la medaglia d’oro all’Esposizione universale di Parigi con I figli di Caino (1887-89). Durante l’estate soggiorna con D’Annunzio a Francavilla ospite di Michetti, che lo introduce alla tecnica del pastello e alla pittura di paesaggio. 1890 Frequenta il salotto del conte Giuseppe Primoli, che gli commissiona
il trittico Vergini savie e vergini folli (Roma, Galleria comunale d’arte moderna). Espone per la prima volta con il gruppo “In Arte Libertas”. 1893 Si reca in Inghilterra per studiare le opere dei preraffaelliti e conosce a Londra William Morris. In una tappa a Parigi visita nuovamente il Salon. Invia da Parigi e Londra articoli sull’arte europea alla “Nuova Rassegna”. 1895 Espone alla I Biennale di Venezia, cui sarà presente con assiduità. 1896-99 Insegna pittura alla Scuola d’arte di Weimar su invito del granduca Carlo Alessandro di Sassonia. Si accosta al simbolismo tedesco e compie studi di animali nel giardino zoologico di Weimar. 1899 La III Biennale di Venezia gli dedica una sala personale, in cui espone il dittico Diana d’Efeso e Gorgone e gli eroi (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna). 1901 È nominato membro dell’Accademia di San Luca. Sposa Giulia Bonn. 1903 Nasce la figlia Angiola. 1904 È tra i fondatori del gruppo dei XXV della Campagna romana. 1905 Giulia Bonn rientra a Francoforte portando con sé la figlia. Pubblica il romanzo Roma Carrus Navalis – favola contemporanea. 1906 Partecipa all’Esposizione di
Milano per l’apertura del traforo del Sempione con il Fregio del Lazio, poi suddiviso in diversi pannelli. 1907 Decora il salone centrale della Biennale di Venezia con il ciclo allegorico La Luce, Le Tenebre, L’Amore e la Morte (Venezia, Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro). 1908-12 Realizza il fregio decorativo della nuova aula del Parlamento italiano progettata da Ernesto Basile. 1914 Espone all’XI Biennale di Venezia. 1914-15 Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola come volontario con il grado di sottotenente di cavalleria. Ferito e catturato a Lucino sull’Isonzo è trattenuto nel campo di prigionia di Mauthausen, da cui viene liberato diversi mesi dopo grazie all’intercessione di papa Benedetto XV. Torna al fronte dove dipinge scene di guerra. 1917 Pubblica Tre novelle a perdita. 1919 Sposa l’attrice Marga Sevilla, con cui vive nella villa Horti Galateae. Dirige la moglie nel film Il mistero di Galatea. Si reca in Egitto per realizzare il ritratto di re Fuad I e visita Palestina, Libano e Siria. Il 14 settembre nasce la figlia Lidia. 1919-21 Collabora la casa di produzione cinematografica Triumphalis, firmando il soggetto di Clemente
VII e il sacco di Roma e dirigendo il San Giorgio. 1921 Espone alla Galleria Pesaro. 1922 Pubblica il poema illustrato Sibilla e lo scritto teorico Flores et Humus. 1923 Il 23 novembre nasce il figlio Lucio. 1924 Effettua il periplo dell’America Latina a bordo della Regia Nave Italia. 1929 Si imbarca sulla nave militare italiana Caio Duilio per una crociera nel Mediterraneo. 1930-32 Lavora alla decorazione musiva del nuovo Duomo di Messina. 1932 Muore il 2 ottobre e viene sepolto nella chiesa di San Sebastiano fuori le mura.
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
Amy Lowell-Poetessa statunitense (Brooklin, Massachusetts, 1874 – ivi 1925), lontana parente di James Russell, la Lowell esordì con una raccolta di versi tradizionali, A dome of many-coloured glass (1912); non avendo ottenuto il successo che si attendeva, lasciò l’America per Londra, dove entrò a far parte attiva del movimento imagista creato da E. Pound, riuscendo in breve a esautorarlo per divenirne la più accanita propagandista. Tornata negli Stati Uniti, pubblicò tre antologie: Some imagist poets (1915, 1916, 1917). Accanto a quello dell’imagismo, fu per lei importante l’influsso della poesia francese, sensibile nelle raccolte Sword blades and poppy seed (1914); Men, women and ghosts (1916); East wind (1926); Selected poems (1928). Fu appassionata traduttrice di poesia cinese. Tra i saggi critici: Six French poets (1915), Tendencies in modern American poetry (1917), Life of John Keats (1925), Poetry and poets (post., 1930).
“La lettera”, poesia d’amore di Amy Lowell
Piccole contorte parole, scarabocchiate su tutto il foglio
Come zampe di mosche infangate,
Che cosa potete dire della fiammante luna
Trapuntata dalle foglie della quercia?
O della mia finestra senza tende,
E del nudo pavimento al chiaro di luna?
Le vostre sciocche astuzie e i vostri intrighi
Non hanno nulla della florescenza del biancospino.
E questa carta è fragile, muta, liscia, vergine di dolcezza
Sotto la mia mano.
Sono stanca, amore mio, di riscaldare il mio cuore
Contro il tuo volere;
Di spremerlo in macchioline d’inchiostro,
E di spedirlo per posta.
Ed io qui sola, brucio, sotto il fuoco
Della grande luna.
. da Dreams in War Time:
I
I wandered through a house of many rooms.
It grew darker and darker,
until, at last, I could only find my way
by passing my fingers along the wall.
Suddenly my hand shot through an open window,
and the thorn of a rose I could not see
pricked it so sharply
that I cried aloud.
Vagavo in una casa di molte stanze.
Il buio s’infittiva, ed alla fine
riuscivo ad orientarmi a malapena
tastando la parete con le dita.
Ma d’un tratto incontrava la mia mano
una finestra aperta,
ed ecco che la spina di una rosa
invisibile acuta mi feriva
ed io piangevo forte.
II
I dug a grave under an oak-tree.
With infinite care, I stamped my spade
into the heavy grass.
The sod sucked it,
and I drew it out with effort,
watching the steel run liquid in the moonlight
as it came clear.
I stooped, and dug, and never turned,
for behind me,
on the dried leaves,
my own face lay like a white pebble,
waiting.
Sotto una quercia scavavo una fossa.
Nell’erba pregna di fango affondavo
con cura infinita la vanga,
la risucchiava la zolla,
a fatica di nuovo la estraevo,
osservando il metallo liquefarsi,
riemergere alla luce al chiar di luna.
Scavavo china senza mai voltarmi.
Alle mie spalle, sulle foglie secche,
il mio viso giaceva – un sasso bianco
in attesa.
*
da Picture of the Floating World:
OMBRE CHINOISE
Red foxgloves against a yellow wall stricked with plum-coloured shadows;
a lady with a blue and red sunshade;
the slow dash of wawes upon a parapet.
That is all.
Non-existent – immortal –
as solid as the centre of a ring of fine gold.
Digitali purpuree contro una gialla parete striata d’ombre color prugna;
una dama con un parasole rosso e blu.
Lento frangersi d’onde a un parapetto.
E questo è tutto.
Inesistente – immortale –
solido come il cuore di un anello d’oro fino.
*
The Taxi
When I go away from you
The world beats dead
Like a slackened drum.
I call out for you against the jutted stars
And shout into the ridges of the wind.
Streets coming fast,
One after the other,
Wedge you away from me,
And the lamps of the city prick my eyes
So that I can no longer see your face.
Why should I leave you,
To wound myself upon the sharp edges of the night?
E quando me ne vado via da te
il mondo batte sordo
come tamburo il cui suono si ottunde.
Lancio il tuo nome contro stelle aguzze
fende il mio grido i marosi del vento.
Rapide si rincorrono le strade
e l’una l’altra incalza, ti respinge
via lontano da me. Tutte le luci
della città trafiggono i miei occhi
e il tuo volto scompare alla mia vista.
Perché lasciarti, solo per ferirmi
sulle lame affilate della notte?
Amy Lowell
*la traduzione delle poesie è di Silvio Raffo
Poeti cinesi nella versione di Amy Lowell
L’Imperatore ritorna dopo un viaggio a Sud
Avanza pari a un santo
il Supremo.
Nel suo carro laccato
intimorisce i cento esseri.
Nascosto dal purpureo fumo dell’incenso
un ombrello rotondo
protegge il Figlio del Cielo.
Squisita la bellezza
delle spade a doppio taglio
dei carri, delle scarpe
dei servi, ricamate con le costellazioni.
Davanti a lui portano i ventagli del Sole e della Luna:
lo precedono stuoli di lance affilate
i barbagli di molte bandiere.
Il vento di Primavera proclama il ritorno dell’Imperatore
che unisce le diecimila province
in un’armonia accordata da Pace e Certezza:
i vecchi sono satolli di felicità e lo è il popolo,
la mia ode si aggiunge al canto
della perfetta quiete.
Wen Cheng-Ming, XVI secolo
*
Canto del salice spezzato
Quando montò a cavallo, non prese un frustino di cuoio:
spezzò un ramo di salice.
Una volta smontato, iniziò a suonare il flauto:
con il dolore feroce della partenza voleva distruggere il viaggiatore.
Dinastia Lliang (VI secolo)
*
Lungo il lago, in primavera
La meditazione solitaria continua senza interruzione.
Scorre – va alla deriva, invero – e ritorna in sé:
la barca si muove verso il vento del crepuscolo.
Entriamo all’imboccatura del lago da un affluente fiorito
mentre la notte avvolge la Valle Occidentale.
Dai denti della collina, la Costellazione del Sud:
la nebbia cala sulle anse del fiume, si divarica dolcemente.
Alle mie spalle, la luna cala, tra gli alberi.
Il mondo non è che un quadrato d’acqua in perenne
movimento: acqua che si coagula e dilaga.
Sono felice di essere un vecchio con la canna da pesca.
Chi-wu Ch’ien
*
Scritto in esilio
Il sole sorge mentre dormo. Non è ancora alto
e sento il rigoglioso rigogolo sopra il tetto.
D’improvviso, penso al Parco Imperiale, all’alba:
i richiami degli uccelli assisi sui millenari alberi.
Penso a quando ero funzionario del tribunale
al meticoloso lavoro nella Sala delle Udienze.
In piena primavera, nei rari momenti di svago,
guardavo l’erba e le cose che crescono:
sentivo questo stesso rumore dall’alba al tramonto.
Dove mi trovo ora?
Nella solitaria città di Hsün Yang.
Il canto degli uccelli è lo stesso
ma sono mutate le mie emozioni.
Se solo potessi dimenticare di essere
agli estremi confini della terra:
ma è poi così diversa la vita a palazzo?
Bai Juyi
*
Un ufficiale presso il villaggio dal fossato di pietra
Ho cercato alloggio per la notte: tramontava
presso il villaggio dal fossato di pietra.
Gli agenti di reclutamento catturano le persone di notte.
Un venerabile vecchio scavalcò il muro e fuggì.
Una vecchia uscì dalla porta.
Quanta rabbia nelle grida degli ufficiali!
Quanta amarezza nel pianto della vecchia!
Ho sentito le parole della donna
che perorava la sua causa davanti a loro:
“I miei tre figli sono alla frontiera di Yeh Ch’eng.
Da uno di loro ho ricevuto una lettera:
gli altri due sono morti in battaglia.
Chi sopravvive ha un orizzonte breve:
chi muore non tornerà mai più.
In casa non c’è più alcun adulto:
mio nipote è ancora al seno.
La madre di mio nipote è fuggita.
Sono vecchia, molto vecchia, le forze
svaniscono, eppure ti prego, segui gli ufficiali
quando torneranno questa notte.
Accetterò con entusiasmo l’incarico di servire Ho Yang
sono ancora in grado di preparare un pasto”.
La tenebra soffocava tra le lacrime.
All’alba, ripresi il mio cammino:
restò sola la venerabile vecchia.
Tu Fu
*
Guardando la luna dopo la pioggia
Le nuvole sono gravi e gridano:
ancora una volta vedo l’orizzonte
oltre i quattro lati della città.
Apri la porta. La luna si alza, cammina
come un rospo. Il suo chiarore è una brina
che si estende per diecimila li.
Il fiume sembra una catena piatta e lucente.
La luna, in cima, è un occhio bianco:
mostra il cuore abbagliante del mare.
Lo adoro, così, rotondo come un ventaglio
e ne canto fino all’alba.
Li Po
*
Proclamate la gioia di quest’ora dice l’Imperatore Ling
Il vento freddo si impenna. Il sole brilla lungo il vasto canale.
Il loto è rosa: si china alla luce, si spalanca la sera.
La meraviglia è in eccesso, un solo giorno non può contenerla.
Limpidi suoni d’arco, note fluide sulle fluttuanti rive: cantiamo la canzone
dell’amore perenne. Mille anni? Diecimila? Nulla può pareggiare questa gioia.
*
Calma serale
Il sole è tramontato.
La sabbia brilla.
Il cielo ci colpisce con i suoi bagliori.
Le onde tremano
e l’acqua fa chiacchierare le pietre.
Sul bianco sentiero della luna
una barca va alla deriva:
cerca l’ingresso del porto
dopo molte svolte e sventure.
Probabilmente, la neve
è caduta sopra i pendii
dei tenebrosi colli.
Acquapendente (Viterbo)-Va in scena al Teatro Boni “IO, ETTORE PETROLINI” di Giovanni Antonucci-
Acquapendente (Viterbo)-Il Teatro Boni sorge nella Tuscia viterbese, nel centro storico di Acquapendente, uno spazio teatrale -Lo spettacolo si propone di tracciare un ritratto non solo teatrale, ma anche umano e di costume del grande autore-attore, spesso confinato in un facile cliché di comico romanesco. Non è un caso che Petrolini mettesse in scena le sintesi futuriste e che Marinetti lo definisse “grande attore futurista”.
Io, Ettore Petrolini racconta l’uomo, il suo rapporto profondo con Roma, il suo orgoglio, la malinconia, il suo sguardo acuto sulle debolezze umane e la fiducia nella dignità delle persone. La commedia, scritta da un autore che ha curato un’importante edizione delle sue opere, coniuga il ritratto artistico e umano con quello dell’irresistibile narratore di facezie, barzellette e “colmi”, come li chiamava lui.
Riso e malinconia, realtà e memoria, verità e finzione si alternano nella pièce con l’obiettivo di riportare in scena, a settant’anni e più dalla morte, una figura inimitabile, sebbene oggi imitata spesso in modo superficiale, nella magistrale interpretazione di Antonello Avallone.
Teatro Boni-INFORMAZIONI Piazza della Costituente 9, Acquapendente, Italy
+39 334 161 5504
info@teatroboni.it
teatroboni.it
Acquapendente (Viterbo)-Il Teatro Boni sorge nella Tuscia viterbese, nel centro storico di Acquapendente, uno spazio teatraleò
Domenica 19 gennaio 2025, ore 17.30 IO, ETTORE PETROLINI di Giovanni Antonucci con Antonello Avallone Spettacolo con musiche dal vivo Biglietteria: 0763 733174 – 334 1615504 https://www.vivaticket.com/…/io-ettore-petrolini/250563
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