-Neri Pozza Editore-Traduzione di Laura Testaverde
Sinossi del libro di Mieko Kanai –Natsumi è una casalinga come tante. Un marito, due figli, un appartamento moderno a Tokyo, scelto per la bella esposizione a sud e a est, in un palazzo vicino al parco e con piscinetta per bambini. La sua vita è un rincorrersi di lavatrici, conversazioni con le amiche, discussioni con i vicini, visite al supermercato o ai genitori, incombenze familiari o scolastiche. Natsumi non ha una preoccupazione al mondo, eppure dentro, sotto la facciata composta e ordinata, il suo io freme e ribolle. Nel suo palazzo borghese, nella sua vita borghese dove niente succede mai e succede tutto, ecco allora che subentrano minuzie, ansie più o meno futili. Riflessioni sui turni dei lavori domestici, una straordinaria capacità mnemonica da casalinga per la collocazione delle merci sugli scaffali, la seduzione della società dei consumi che crea interminabili desideri: tutto questo fluisce nel monologo interiore della protagonista, riempie un vuoto che si sospetta esistenziale e poi ingloba anche il lettore, che si ritrova incapace di porre confini fra sé stesso e Natsumi, risucchiato in una vertigine da cui non si solleva e in cui però nemmeno mai cade. Con una lingua mimetica, limpida e iridescente, Mieko Kanai porta alla luce la tranquillità e la crudeltà che coesistono fianco a fianco in ogni vita ordinaria. Una lieve vertigine è la voce che parla ininterrottamente nella nostra testa ma è anche studio sul matrimonio, sulla genitorialità, sull’essere donne, sulla lotta fra l’immagine che proiettiamo e ciò che, nel foro interiore, pensiamo di noi stessi. Un capolavoro della letteratura giapponese contemporanea.
«Come per Mrs Dalloway, Una lieve vertigine precipita il lettore nella mente di una donna alla ricerca di un senso nel mondo che la circonda, mentre viene bombardata da un tumulto di stimoli, impressioni, ricordi, preoccupazioni, obblighi». The New York Times
«La scrittura di Mieko Kanai è uno dei punti più alti della letteratura giapponese. I dettagli che danno forma al presente, le ripetizioni quotidiane, i ricordi che improvvisamente ci sommergono, le voci degli altri: tutto è descritto con uno stile sinuoso e cangiante». Hiroko Oyamada
«Le ultime pagine di Una lieve vertigine sono puro suono e, man mano che acquistano slancio, finiscono per assomigliare a quelle dell’Ulisse». The Spectator
Breve biografia di Mieko Kanai, nata nel 1947, è scrittrice, poetessa, critica letteraria. Ha pubblicato una trentina di romanzi e raccolte di racconti e suoi saggi sono apparsi su giornali e riviste giapponesi per quasi cinquant’anni. Nel 1967, all’età di vent’anni, ha ricevuto il Dazai Osamu Prize e nel 1968 il Gendaishi Techo Prize per la poesia. Una lieve vertigine nel 2024 è entrato nella longlist del Warwick Prize for Women in Translation.
Dalla Pinacoteca Podesti di Ancona in mostra ai Musei Capitolini di Roma le Opere di:
Tiziano/Lotto/Crivelli/Guercino- dal 25 /11/2024 -30/03/2025-
Roma Capitale-Dalla Pinacoteca Podesti di Ancona ai Musei Capitolini in mostra la maestosa Pala Gozzi (1520), capolavoro assoluto di Tiziano Vecellio insieme ad altre 5 celebri opere, tutte di carattere religioso e provenienti dalla Pinacoteca Podesti di Ancona, saranno eccezionalmente esposte, per la prima volta a Roma, in occasione del prossimo Giubileo, dal 26 novembre nelle sale di Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini.
6 prestigiose tele – delle quali 5 pale d’altare di grandi dimensioni e una piccola ma lussuosa tempera su tavola – saranno protagoniste di un percorso espositivo che racconta l’importanza della collezione della Pinacoteca Podesti e, in filigrana, la ricchezza della città dorica committente dei maggiori artisti italiani fra Cinquecento e Seicento.
Si potranno quindi ammirare la Circoncisione dalla chiesa di San Francesco ad Alto, opera di Olivuccio Ciccarello, interprete principale del rinnovamento della pittura anconetana che fiorì fra Trecento e Quattrocento; la preziosa Madonna con Bambino di Carlo Crivelli, icona della collezione dorica e somma realizzazione del pittore veneto che visse e operò nelle Marche; la Pala dell’Alabarda di Lorenzo Lotto, per la chiesa di Sant’Agostino, in cui si esplicita l’emozionante talento del pittore veneziano, esule a più riprese nella regione. Ancora di Tiziano sarà esposta la monumentale Crocifissione realizzata per la chiesa di San Domenico in cui l’artista esplora la tragedia e la sofferenza umana. Chiude la rassegna l’imponente Immacolata di Guercino, in cui la delicata figura della Vergine si staglia su un paesaggio marino il cui modello potrebbe essere la baia di Ancona.
Con questa mostra si intende avviare un percorso di valorizzazione nazionale della collezione anconetana, con lo scopo di restituire ai cittadini e ai visitatori lo spaccato di un periodo cruciale della storia del gusto, del collezionismo e della museologia nella città marchigiana. Un lavoro che proseguirà con il riallestimento della Pinacoteca Civica Podesti, aperta nel dopoguerra dall’allora soprintendente Pietro Zampetti, con le opere salvate dai bombardamenti da un altro grande protagonista della storia della tutela, Pasquale Rotondi, l’eroico direttore del Palazzo Ducale di Urbino a cui si deve la salvaguardia del patrimonio artistico nazionale negli anni tumultuosi del secondo conflitto mondiale.
La mostra romana, con questa importante esposizione delle pale d’altare della città dorica, oltre a testimoniare la sacralità e l’importanza che assunse l’arte adriatica del ‘500, anticipa gli eventi culturali previsti per il prossimo Giubileo.
Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni culturali, con il patrocinio di Giubileo 2025 – Dicastero per l’Evangelizzazione, la mostra è organizzata da Arthemisia in collaborazione con Comune di Ancona, Ancona Cultura, Pinacoteca Civica di Ancona, Regione Marche e Palazzo Ducale di Urbino – Direzione Regionale Musei Nazionali Marche ed è curata da Luigi Gallo, Direttore della Galleria Nazionale delle Marche e da Ilaria Miarelli Mariani, Direttrice della Direzione dei Musei Civici della Sovrintendenza Capitolina. Servizi museali di Zètema Progetto Cultura.
Donatella Bisutti è nata nel 1948 a Milano, dove vive. E’ giornalista professionista. Ha collaborato in particolare alla collana I grandi di tutti i tempi (Mondadori) con volumi su Hoghart Dickens e De Foe e ha tenuto per otto anni una rubrica di poesia sulla rivista Millelibri (Giorgio Mondadori editore). Nel 1984 ha vinto il Premio Montale per l’inedito con il volume Inganno Ottico (Società di poesia Guanda,1985). Nel 1990 è stata presidente della Association Européenne pour la Diffusion de la Poésie a Bruxelles. Di poesia ha poi pubblicato Penetrali (Boetti & C, 1989), Violenza (Dialogolibri, 1999), La notte nel suo chiuso sangue (ed. bilingue, Editions Unes, 2000), La vibrazione delle cose (ed. bilingue, SIAL, 2002), Piccolo bestiario fantastico (viennepierre edizioni, 2002), Colui che viene (Interlinea, 2005, con prefazione di Mario Luzi), Rosa alchemica (Crocetti, 2012). E’ in via di pubblicazione a New York l’antologia bilingue The Game tradotta da Emanuel di Pasquale e Adeodato Piazza Nicolai (Gradiva Publications, New York). La sua guida alla poesia per i ragazzi L’Albero delle parole, è stata costantemente ripubblicata e ampliata dal 1979 e attualmente edita nella collana Feltrinelli Kids (2002). Il saggio La Poesia salva la vita pubblicato nei Saggi Mondadori nel 1992 è negli Oscar Mondadori dal 1998. Nel 1997 ha pubblicato presso Bompiani il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri. Fra le traduzioni il volume La memoria e la mano di Edmond Jabès (Mondatori, 1992), La caduta dei tempi di Bernard Noel (Guanda, 1997) e Estratti del corpo di Bernard Noel (Mondatori, 2001). Il suo testo poetico L’Amor Rosa è stato rappresentato come balletto al Festival di Asti con musica del compositore Marlaena Kessick. Ha curato per Scheiwiller l’edizione postuma delle poesie di Fernanda Romagnoli, dal titolo Il Tredicesimo invitato e altre poesie (2003). E’ nel comitato di redazione della rivista Poesia di Crocetti per cui cura la rubrica Poesia Italiana nel Mondo, nella redazione delle riviste Smerilliana e Electron Libre (Rabat, Marocco), tiene una rubrica di attualità civile, Il vaso di Pandora, sulla rivista Odissea e una rubrica di interviste La cultura e il mondo di oggi sulla rivista di Renato Zero Icaro. Collabora a diversi giornali e riviste, tra cui l’Avvenire, Letture e Studi Cattolici, Fonopoli, Leggendaria, La Clessidra, Semicerchio. Dirige la rivista Poesia e Spiritualità. E’ membro dell’Associazione Culturale Les Fioretti a Saorge in Francia. Tiene corsi di scrittura creativa per adulti, corsi di aggiornamento per insegnanti anche a livello universitario e laboratori di poesia per le scuole. Ha ideato e dirige la collana di poesia autografata A mano libera per le edizioni Archivi del ‘900 in cui sono apparsi finora testi di Luzi, Spaziani e Adonis. E’ tra i soci fondatori di Milanocosa.
POESIE
da INGANNO OTTICO
Vivendo Contro il vetro
il disegno di un respiro
– prima e dopo, invisibile.
Paura Non della morte, ma
della metamorfosi
– accettare di privarsi di sé
come acqua che si lasci versare
e prende forma da ciò che la contiene
e corre via – e l’assorbe la terra
ed è e non è più – senza pena, forse
eppure non va persa.
Lenta, arrischiata
ogni cosa matura
per un attimo
di colma beatitudine
poi trabocca
come l’acqua di un vaso
fugge la pienezza.
Canzone d’amore cannibale So che ti ritroverò
non potrai sfuggirmi
mia è l’immaginazione
catturato come un insetto e trafitto
immobilizzato spaventato rassegnato
comunque sarai
lì
farò di te quello che non vorrai
con calma mi appresterò a divorarti
l’amore non lascia niente sul piatto
neanche le chele.
Ti avrò mangiato e succhiato
svuotato
– non vorrei tuttavia che tu soffrissi
vorrei che godessi anche tu
della felicità immensa
dì essere cibo.
Conoscenza La conoscenza avviene per semplificazione Non è un aggiungere, ma un togliere, fino alla
perfetta trasparenza. Lasciare depositare in fondo al vaso i detriti, il pulviscolo inutile che
si è mescolato all’acqua trasportando il vaso da una parte all’altra della stanza. Anche
vivere non è aggiungere tempo al tempo accumulato, ma sottrarre l’eccedenza del tempo
fino alla perfetta consumazione Anche in questo caso il pulviscolo inutile viene depositato
in un vaso.
da PENETRALI
Natura morta Fuori nevica.
Una brocca
sul tavolo ha rosse trasparenze.
Sbucci piano la mela.
Ti tenta l’avventura
di quella buccia lucida
che avvolge
la luce della stanza.
Ogni oggetto
ha una sua consistenza inutile,
così rassicurante,
Il piatto dì lucida ceramica
se l’inclini
riflette un cielo nitido
di calce bianca.
Anniversario dei morti Tu che con braccia severe
mi allontanavi
e mi atterrivi con storie di fantasmi
ora t’affacci timida da sopra il muro
per timore di essere scacciata.
Nevica
e i tuoi piedi freddi in una
vaga foschia lasciano impronte.
Inconsolata mi tendi
la mano, ché la speranza è anche dei morti.
Così madre bambina percorri i viali
tu che dominavi, incerta,
finalmente un sorriso
sulla chiusa falce delle labbra.
Ma nevica e la giornata
volge alla sua fine – nemmeno questa volta
apportando il perdono
o l’oblio.
Su un quadro di Nolde al Museo di Copenaghen L’avvampare del rosso e dei giallo
con selvaggia delizia
l’Orco divora i suoi bambini
amando sé nella carne e nel sangue.
La bellezza è forse una
più intensa voracità
al centro della vita?
Intorno a lava incandescente
gli smorti colori della cenere.
Quando l’occhio
cessa di essere abbagliato
allora scopre le viole – dopo
soltanto dopo.
Schive e affollate –
una corona alla luce.
Cancellano l’aggressività delle corolle.
Silenziosamente trasformano la sconfitta in vittoria,
nude e luminose di buio.
Ora non vedi che queste. Le sole
a muoversi: il movimento
percorre il quadro. Non più una tela cosparsa di colore,
ma una pagina che si sfoglia.
Alcune sono aperte, altre si inclinano, altre ancora si chiudono al vento che le investe.
Sono l’ombra dei fiori luminosi, diversa dall’offerta della vita:
piuttosto, ciò che essa sottrae,
il velato splendore
i loro gambi, lacci.
Vivono una straordinaria animazione:
curiose, tumultuose, si muovono
in diverse direzioni
Fuggono quella pennellata grigia:
il turbine che sopravviene.
Soggette al vento, quindi
Capaci di servirsene,
di sottrarsi
alle insidie dei cervi e delle lepri.
Poi noti il loro centro giallo
un astro minuscolo nel buio:
la luce è il seme.
Solo alla fine scopri che le margherite
nella gloria apparente del loro rosso e giallo
arretrano.
Ammassate contro il vaso lanciano
grida di terrore e i petali sono braccia
levate a proteggere i volti
paonazzi di polline, teste
che saranno tagliate.
Ti accorgi che
anche le viole sono piegate e vinte,
si stanno reclinando nel vaso,
muoiono.
da COLUI CHE VIENE
La notte lo ti amo ti amo gridi non sai a chi
ed esci nel buio a cercarti
in luoghi perduti di merci e di anime
dove ti circonda una siepe di uomini
e un’alta siepe di muri
e tu con quel grido senza vedere nulla
che mastichi e inghiotti fermo a un angolo dì strada
io ti amo a chi non sai balbetti
perché tu non sei e dici
sì a chiunque
allora sei prostituta e drogato, spacciatore e ladro
non per amore dell’uomo
ma per orrore dell’uomo
allora senti quell’antica voglia di uccidere
temendo di frugare nella tua stessa carne.
Il viandante Come una vela sospinto sulla strada
finché viene il crepuscolo
e il vento cade come un’onda grigia.
Gli alberi hanno pelame dì animali
le loro cime velano le stelle
e il cuore del bosco si allontana dentro il bosco
da ogni suo punto si dipartono strade
eppure il centro è sempre nell’attesa
di un silenzio più fitto e più sospeso
dove non si è formata la parola.
da VIOLENZA
Anche nell’orrore
la rosa.
La rosa di sangue.
Pulizia Uccidere da lontano
Senza toccare.
Evitare il contagio.
Lavarsi le mani
sporche di sangue.
Lavarsi le mani
nel sangue.
*
Gli angeli
con vesti di filo spinato
Gli angeli dalle lingue strappate.
Gli angeli senza grido.
*
Di ossa facciamo spade.
Armi.
Da un teschio uno scudo rotondo
INEDITI
Eros
Pauroso, che ti nascondi in grembo ad una vecchia
e preferisci i libri al libro inesauribile del corpo,
allo sfogliare gli strati della pelle
fino alla nudità paonazza di Eros, lo scorticato.
Avevo un cappello di pelo di lupo
E nei tuoi occhi la luce era un riso
Che non cessa di gorgogliare in gola.
Da allora molte volte mi è parso di vedere assai più chiaro
ma più spesso sono stata un cieco abbandonato
in uno spiazzo vuoto.
Hai portato via la mia vita
dimmi dove.
Non è con te – tu non l’avevi cara
non è con me – che non ho più palato né odorato.
Dimmi dove l’hai condotta, sola e nuda.
E ancora trema
per te, la condannata.
L’albero dei cachi Primo viaggiatore L’albero dei cachi si sviluppa
contro il cielo dell’ultima stazione.
sulla nudità dei rami
la bassa traiettoria dei soli invernali.
Per loro l’albero ha rinunciato
alla sontuosa lucentezza delle foglie.
Si concentra nel miele del pensiero.
Secondo viaggiatore Albero dì un eden spoglio, nel sogno ha ottenuto
di riportare l’inverno all’estate.
Nulla indica più chiaramente
che la vita non nasce dalla necessità
ma dal sovvertimento
e la bellezza è il frutto dell’immaginazione.
Se Se un cavallo fosse solamente un cavallo
e non tutti i terrori che fremono nella sua coscia rotonda
o la tempesta che scuote la criniera
se non fosse l’occhio visionario e folle
che cela il segreto dell’acqua
o la coda imperiale nella sua forma arcuata
a sferzare lo schiavo
se esso non fosse un’oscura montagna
sotto di te
ma – come è – un animale timoroso e irruente
pronto a valersi di ogni astuzia
per essere libero e giocare
e tu sapessi amarlo con tenerezza
ma non seriamente –
quando si impenna sulla sabbia
gli assesterai un colpo deciso nei fianchi
spingendolo fra le onde.
Lo sguardo Il gatto
apparve dal fondo dei giardino
leccò un po’ dalla ciotola
poi sedette immobile
lo sguardo diritto fisso
le sue pupille nelle mie pupille
senza ringraziare né chiedere
solo guardare.
Ed io fui intera nelle sue pupille
interamente dentro quello sguardo
senza giudizio senza attesa
quietamente fui.
Il libro a Aldo Palazzeschi Dal fondo del tempo si leva
la nera figura che addita
la colpa e misura la pena.
Qual’era la colpa?
Di essa si è persa memoria.
La nera figura non sa
solo il custode del libro lo sa
il libro col nero sigillo
nel libro sta scritto e il passato
non è mai cancellato.
Ah potessi quel libro sfogliare
lasciare
al suo posto
un bianco senza futuro.
Ah non fossi mai nata
io sono la non amata.
Voce io senza voce
voce cieca
voce accecata
io senz’occhi
io muta e cieca
io afona
voce strozzata
voce che strozza
io parola
senza voce senz’occhi
io parola vibrante
a tastoni gemendo
voce impalata
gola
agnello impalato
io nuda
esco fuori
su tacchi
altissimi
corpo nudo
bellissimo
io
bellissima
sfido lo sterminio
parlo
di me parto
io danzo
e canto
il mondo mi vede.
Nascita Tu uscita dal buio e dal dolore
verso la vita
e la tua lontana morte
verso un tuo non richiesto dolore
e sofferenza e rischio
e inevitabile pena
ma anche gioia e pienezza
nel maturare del frutto
appeso al ramo
nella perfetta sfera
carne affonderà i denti
golosa la vita.
Ballata della nascita e della morte Separata da quel ventre
di umori e succhi
che fu la mia casa
e volendo dimenticare mi rifiuta
pezzetto di carne sanguinosa
piombo
nel precipizio oscuro della notte. Ti capovolgi e ruoti precipitando fra le stelle perfori la chiusa volta celeste nel cunicolo del sangue e delle feci pezzetto di carne sporca ora puoi solo esplorare il buio e perderti. La notte non ha appigli non sai se precipiti o sali e le tue dita battono sul vetro quando dal nero abisso d’acqua affiori a respirare. Tu non sei nulla. Proiettata fuori da quel corpo che ora ad altri si dà il tuo solo legame è con ciò che odi.
Ed ora questo grande corpo morto davanti a me
ha lasciato l’ormeggio
allontanandosi immenso
quella parte di me che è morta.
——–Aprite questa bara
——–ancora non ho conosciuto il mondo.
——–Questo corpo che mi è stato caro
——–dovrà dunque disfarsi?
Per A ung San Suu Kyi prigioniera Dalla chiusa corteccia germogliando
senza braccia né mani
senza gambe né piedi
tu parli o silenziosa
giorno per giorno
della morte
fai cibo.
Chi farà tacere il silenzio?
Chi fermerà ciò che non si muove?
Ti hanno rinchiusa,
non sapevano di farti seme.
Natività di Rennes. Crisalide strettamente avvolta
Da fasce
Ancora tutta avvolta nel sogno del parto
Partorita dalla nuda
verticalità del rosso
che ancora tutta la sommerge
come chiaro sangue
il rosso
il rosso
il rosso.
Non sappiamo ancora.
Nel buio del grembo fosti intero
ed ora
in un buio papavero di luce
sei la crisalide.
Ancora non sappiamo.
Orizzontale
traspare
dentro il suo cuore rosso
tinge la chiara veste che nasconde il seno
rigida
vuota
che da un suo punto oscuro tesse
l’attesa della stoffa
l’attesa di quel rosso.
Fonte – ITALIAN POETRY
l sito www.italian-poetry.org funziona correntemente dal 2000. Era nato l’anno precedente, dopo una serie di incontri e di confronti con la Poetry Society americana, ai cui criteri di severa selezione si ispira, antologizzando la poesia italiana moderna e contemporanea dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri, a partire dai poeti nati nei primi anni del XX secolo e attivi nei decenni successivi.
Il sito ha totalizzato più di 14 milioni di visualizzazioni nei primi quindici anni di vita ed è indicizzato quale primo risultato di Google per “poesia italiana”.
Il nuovo logo del sito, introdotto nel 2014, all’insegna di Montale, Quasimodo e Ungaretti, rimanda simbolicamente alla grande avventura della poesia italiana contemporanea dal principio del Novecento fino ad oggi.
Un racconto intimo, ironico, fatto di piccoli gesti e parole quotidiane
Roma – al Teatro India la compagnia Teatrodilina porta in scena Meno di due, scritto e diretto da Francesco Lagi, con Anna Bellato, Francesco Colella, Leonardo Maddalena dal 26 novembre al 1° dicembre al Teatro India. Fedele alla sua linea drammaturgica di ricerca sui meccanismi che regolano le relazioni umane colte nelle contraddizioni della società contemporanea, Francesco Lagi costruisce un racconto intimo, ironico, fatto di piccoli gesti e parole quotidiane. Interpreti un gruppo di attori che si muovono all’unisono nelle pieghe del testo così da costruire drammaturgie di personaggi umanissimi, che non hanno paura di svelarsi teneri e divertenti nella loro insicurezza.
«Alcune migliaia di anni fa qualcuno disegnava sulle pareti di una grotta. Lasciava segni di animali, di insetti e di mammiferi. Poi disegnava un fuoco. E intorno al fuoco il ritratto di due persone. Sembra l’immagine di un rito magico, religioso, propiziatorio. Quelle due persone ballano. Forse pero? parlano. Sicuramente gesticolano. Tentano di dirsi delle cose, provano a conoscersi. E alcune migliaia di anni dopo eccole li? quelle due persone, che ci provano ancora – dichiara l’autore del testo e regista Francesco Lagi. – Li ritroviamo oggi, un uomo e una donna che si incontrano per la prima volta. Dopo essersi scritti, mandati foto, conosciuti a distanza per alcune settimane, forse mesi. Hanno deciso di vedersi per davvero, lui per raggiungere lei ha fatto un lungo viaggio, entrambi sono pervasi da una leggera trepidazione. La loro giornata fra chiacchiere al bar, silenzi, viaggi in macchina e piccole delusioni. Un’escursione in una grotta millenaria, una partita a bowling, un selfie venuto un po’ così. In mezzo a un nuvolone carico di pioggia si affaccia in lontananza una tiepida luce».
I personaggi sono due persone adulte (interpretate da Anna Bellato e Francesco Colella), con delle storie alle spalle, alcune delusioni e qualche ferita, ma che oggi sono pronti a rimettersi in gioco e a cercare una relazione che li completi e che li renda felici. Li troviamo nell’attimo esatto in cui si conoscono per davvero, assistiamo al dischiudersi di due che iniziano a conoscersi di fronte a noi, siamo testimoni del primo movimento reale, vivo, fra di loro. Fino all’arrivo di un terzo personaggio incomodo e inatteso (interpretato da Leonardo Maddalena), che spariglia e chiude il cerchio sul mistero dell’amore, dove uno più uno non genera per forza un due.
Meno di due
scritto e diretto da Francesco Lagi
con Anna Bellato, Francesco Colella, Leonardo Maddalena
disegno sonoro Giuseppe D’Amato
scene Salvo Ingala – costumi Ilaria Ladislao – luci Martin E. Palma
illustrazione Antonio Pronostico – foto di Manuela Giusto
uno spettacolo di Teatrodilina
residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t.
Produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi
Orari spettacolo: tutte le sere ore 21.00 I domenica ore 17.00 I durata spettacolo: durata 70 minuti
Informazioni, orari e prezzi
Fondazione Teatro di Roma _www.teatrodiroma.net
Teatro India Lungotevere Vittorio Gassman, 1 (già Lungotevere dei Papareschi) – Roma
Biglietteria: tel. +39 06 877 522 10 – biglietteriaindia@teatrodiroma.net
Biglietti spettacolo: €18, ridotto €12
Orari spettacolo: tutte le sere ore 21.00 I domenica ore 17.00
Durata spettacolo: 70 minuti
Giunto alla sua 37° edizione e sin dal 1986 sotto la direzione di Maurizio D’Alessandro, torna il Festival Liszt di Albano Laziale (RM) dal 10 novembre al 22 dicembre 2024: ideato e organizzato dagli Amici della Musica Cesare De Sanctis con la partecipazione della Regione Lazio, la rassegna si estende quest’anno ad alcune delle più suggestive location dei Castelli Romani, tra Albano Laziale, Castel Gandolfo, Grottaferrata, e anche Roma.
I concerti si terranno infatti in luoghi di grande valore storico e artistico, quali Palazzo Savelli e la Chiesa Cattedrale di San Pancrazio ad Albano Laziale, l’Abbazia Greca di San Nilo a Grottaferrata, la Chiesa Pontificia di San Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo, e Palazzo Falconieri di Roma, sede dell’Accademia d’Ungheria che per la prima volta ospita una delle tappe della rassegna, dando ancor più risalto ad uno degli eventi musicali più prestigiosi d’Europa, grazie alla partecipazione di solisti, pianisti, ensemble da camera e orchestre di livello e richiamo internazionale e ad un importante supporto delle istituzioni. Questi luoghi, intrisi di storia e bellezza, offrono scenari di grande fascino che esaltano l’esperienza estetica e spirituale, proiettandoci in una dimensione dovearte, natura e storia si fondono armoniosamente. Il Festival diventa così un viaggio non solo nella musica, ma anche nella riscoperta di un patrimonio culturale che continua a ispirare e incantare.
Il programma di quest’anno si struttura attorno a tematiche che riflettono l’eredità musicale e culturale di Liszt, uno dei più grandi virtuosi del pianoforte di tutti i tempi, portando gli spettatori in un viaggio attraverso tre percorsi. “Echi e virtuosismi d’opera nell’epoca di Liszt” presenterà trascrizioni e fantasie tratte da opere celebri, sottolineando l’influenza del teatro musicale nella produzione lisztiana, “Diari di viaggio” è un omaggio ai luoghi e ai paesaggi europei che ispirarono Liszt e altri compositori e “La meglio gioventù” è un viaggio musicale che esplora le opere dei grandi compositori della Mitteleuropa.
Numerosi gli appuntamenti con protagonisti di spicco della classica, a partire da Bruno Canino, leggenda del pianoforte, ex direttore musicale della Biennale di Venezia e ex docente alla Hochschule di Berna, in Duo con Alessio Bidoli, virtuoso violinista dall’età di 7 anni e fine interprete dalle grandi doti artistiche ed espressive, (10 novembre alle ore 18 presso Palazzo Savelli di Albano Laziale) e il rinomato pianista Roberto Cappello, che a 6 anni ha esordito in pubblico presso la prestigiosa Konzerthaus di Vienna, con all’attivo oltre 2000 concerti, acclamato Premio Busoni e ospite di lunga data del Festival.
Presente anche Maurizio D’Alessandro, direttore artistico dello storico festival nonché clarinettista di fama internazionale che ha suonato in festival prestigiosi e con orchestre di spicco come la l’Orchestra Sinfonica MAV di Budapest, ed ensemble come Philharmonia Chamber Players, che si esibirà con János Balázs, tra i più osannati pianisti contemporanei, artista pluripremiato che fa parte della scena concertistica ungherese dall’età di 16 anni e interprete apprezzato del repertorio lisztiano sulle orme del leggendario Cziffra (17 novembre alle ore 18 presso Palazzo Savelli di Albano Laziale). E ancora il Quartetto Chagall, gruppo di archi che ha ottenuto importanti riconoscimenti tra cui il Golden Award, due premi speciali al IX Concorso Internazionale di Svirél (Slovenia) e il Primo Premio al XXX Concorso “Lilian Caraian”(24 novembre, ore 19, presso la Cripta Chiesa Pontificia San Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo) e il Trio Carnaval, giovani musicisti provenienti dai corsi di perfezionamento dell’Accademia di S. Cecilia che si sono esibiti su palcoscenici di prestigio come il Palazzo Ducale di Mantova, la Real Academia de Espana di Roma, la Società Letteraria di Verona o La Biennale di Venezia (19 dicembre alle ore 19 presso Cripta Chiesa Pontificia San Tommaso da Villanova di Castel Gandolfo).
Il Festival Liszt di Albano Laziale celebra inoltre i grandi anniversari con tre appuntamenti di rilievo: il centenario della morte di Giacomo Puccini, con l’esecuzione della Messa di Gloria eseguita dall’Orchestra Cento Città- Istituzione Concertistico-Orchestrale del Lazio, Coro Ruggero Giovannelli e Coro Harmonia Vocalis diretti da Claudio Maria Micheli (30 novembre, ore 19.30 presso la Cattedrale di San Pancrazio di Albano Laziale), il centenario della celebre Rhapsody in Blue di George Gershwin eseguita da Roberto Cappello (8 dicembre, ore 18, presso l’Abbazia di San Nilo a Grottaferrata),e un concerto sinfonico – ancora eseguito dall’Istituzione Orchestrale del Lazio diretta da Claudio Micheli – interamente dedicato a Ludwig van Beethoven (15 dicembre, ore 19.30 presso la Chiesa Cattedrale San Pancrazio di Albano).
La rassegna musicale, nata per ricordare il rapporto che Franz Liszt ebbe con Albano Laziale già nell’estate del 1839 durante il suo primo viaggio in Italia, ha ospitato nel corso delle edizioni prestigiosi nomi del concertismo internazionale, oltre a studiosi e musicologi, chiamando a raccolta più di 100 pianisti, quasi 60 archi, 17 orchestre, 24 direttori, più di 30 tra attori e cantanti, e più di 20 tra cori, quartetti e ensemble, e continua a coinvolgere giovani talenti e nomi storici della scena musicale mondiale.
Il Festival è ideato e organizzato dall’Ass. Amici della Musica Cesare De Sanctis Festival Liszt Albano ETS con la direzione artistica di Maurizio D’Alessandro e oltre alla partecipazione della Regione Lazio, è realizzato con il contributo del Comune di Albano Laziale per i concerti a Palazzo Savelli; con la collaborazione del Comune di Grottaferrata, della Parrocchia Pontificia di S. Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo e della Diocesi di Albano. Partner istituzionali, che conferiscono all’evento una portata internazionale e accademica, sono l’Accademia d’Ungheria, l’Università e Museo Ferenc Liszt di Budapest, la Liszt Akademie di Schillingsfürst e il Cziffra Festival.
Albano Laziale – Palazzo Savelli – Chiesa Cattedrale di S. Pancrazio Castel Gandolfo – Chiesa Pontificia di S. Tommaso da Villanova Grottaferrata – Abbazia Greca di S. Nilo Roma – Accademia d’Ungheria presso Palazzo Falconieri
dal 10 novembre al 22 dicembre 2024
Ingresso libero per tutti gli appuntamenti, tranne per il 10 e 17 novembre
Per info: www.festivalisztalbano.it | 333 434.78.20. Biglietto unico per le date del 10 e 17 novembre € 12, info e prevendita: info@drinservice.com | 069364605.
Amália da Piedade Rebordão Rodrigues cantante e attrice portoghese-
Amália da Piedade Rebordão Rodrigues, IPA: [ɐˈmaliɐ ʁuˈðɾiɣɨʃ] (Lisbona, 23 luglio 1920 – Lisbona, 6 ottobre 1999), è stata una cantante e attrice portoghese. È considerata la miglior esponente del genere canoro noto come fado e, a livello internazionale, riconosciuta come la voce del Portogallo, attiva per sessant’anni. La sua salma è stata inumata nel Pantheon nazionale tra altre personalità che hanno dato lustro al suo Paese.
Nasce in una famiglia numerosa di poveri immigrati dalla regione della Beira Baixa nel quartiere operaio di Alcântara, in un imprecisato giorno del 1920, nella “stagione delle ciliegie”. Il suo stato civile infatti riporta come data di nascita il 23 luglio, ma la cantante festeggiò sempre il compleanno il 1º luglio. Fu allevata dai nonni materni e frequentò solo tre anni di scuola elementare, iniziando presto a lavorare come venditrice di arance, poi in una pasticceria di Lisbona. Intanto cantava da sola, sognando malinconicamente le storie che riusciva a vedere al cinema e modificando e rielaborando testi e musiche secondo la propria sensibilità.
Poco a poco si fa notare per la sua voce in piccole manifestazioni locali alle quali prende parte facendosi chiamare col cognome della madre, Rebordão. A diciannove anni, con la complicità di una zia, riesce a farsi ascoltare dal proprietario di un famoso locale di Lisbona, cominciando una carriera che la porta quasi subito a livelli altissimi di notorietà (e di cachet). Sposa immediatamente, contro il parere dei familiari, Francisco Cruz, un operaio che si diletta con la chitarra e dal quale si separerà tre anni dopo (si risposò quindici anni dopo e per tutta la vita, con l’ingegnere brasiliano César Séabra che morì qualche anno prima di lei) e diventa famosa come Amália Rodrigues, a Alma do Fado (Amália Rodrigues, l’anima del Fado). In un anno è già pagata venti volte più dei maggiori artisti del momento ed è vedette del teatro di rivista e del cinema, ma per i primi sei anni della carriera non incide neanche un disco, per l’opposizione del suo agente, che lo ritiene controproducente.
Henri Gobard–L’alienazione linguistica- Prefazione di Gilles Deleuze-
Editore –Giometti & Antonello-Macerata
Quarta
Henri Gobard-L’alienazione linguistica-… E dire che ci sono professori d’inglese che parlano inglese per parlare inglese e che così si guadagnano da vivere: siamo a Ionesco! Che d’altronde ha trovato la sua ispirazione geniale in un celebre manuale d’inglese. Questi manuali in fondo ci dicono: prima imparate a parlare, dopo potrete dire qualcosa! Non capiscono nulla del processo di acquisizione del linguaggio: si parla solo se prima si ha qualcosa da dire: SENZA DESIDERIO NON C’È PAROLA.
Risvolto del libro di Henri Gobard-L’alienazione linguistica-Questo pamphlet è una preziosa e avvincente analisi dell’elemento in cui tutti noi, in quanto umani, inconsapevolmente ci muoviamo, e che determina forse più di ogni altra cosa le nostre idee, e quindi le nostre azioni: il linguaggio. Il fuoco della polemica è rivolto in maniera feroce contro l’egemonia della lingua anglo-americana, ma la questione è ben più ampia: come si instaura il potere, in tutte le sue forme, all’interno del linguaggio? In che modo, noi umani, abitiamo il linguaggio, e in che modo possiamo renderci refrattari alle forme di potere che se lo contendono? L’analisi «tetraglossica» di Gobard ci offre nuovi e sorprendenti strumenti per rispondere a tali domande, proponendoci di pensare il linguaggio come un ambiente a più dimensioni, almeno quattro appunto, in cui si dispiega la nostra esistenza fin dai primissimi passi. Tutto ciò in uno stile che si fa beffe della saggistica accademica. Come scrive Gilles Deleuze nella sua prefazione, «Gobard non procede in alcun modo come un comparatista. Procede come un polemista o una sorta di stratega, preso egli stesso in una situazione. Si colloca in una situazione reale in cui le lingue si affrontano concretamente». E ancora: «Gobard ha un nuovo modo di valutare i rapporti del linguaggio con la Terra. In lui ci sono un Court de Gébelin, un Fabre d’Olivet, un Brisset e un Wolfson, che ancora resistono: per quale avvenire di linguistica?».
Nota biografica
Di Henri Gobard sappiamo che fu allievo all’École des Hautes Études, per divenire poi professore al dipartimento di psicologia e di inglese all’Università di Parigi VIII-Vincennes, sin dalla sua fondazione nel 1968. Fu membro fondatore dell’Istituto di ricerche sociolinguistiche (IRSOL). Membro del premio Nietzsche di Taormina fondato dall’associazione internazionale di studi e ricerche su Nietzsche, vi tenne nel 1976 una conferenza sul tema Blake e Nietzsche. Nel 1974 sviluppò presso l’Università di Friburgo un primo modello dell’analisi tetraglossica che avrà compimento nella sua opera qui tradotta. Ha pubblicato due libri: L’alienazione linguistica (1976), La guerra culturale (1978). Il modello di indagine del linguaggio sviluppato da Gobard ebbe una influenza decisiva sulle teorie di Guattari e Deleuze che hanno luogo in Kafka. Per una letteratura minore. I suoi interessi sull’aspetto complessivo della lingua in relazione alla psiche e alla società lo hanno portato all’inizio degli anni sessanta ad interessarsi in un primo momento all’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper, con cui poi polemizzò nei suoi libri-pamphlet del decennio successivo, nonché a tradurre le opere dell’antropologo e psicanalista Georges Devereux, di cui insieme a Tina Jolas ha curato varie traduzioni di opere presso Gallimard e Flammarion.
Giornata contro la violenza sulle donne: la poesia africana
Rivista L’Altrove
Giornata contro la violenza sulle donne -la poesia africana-I dati riferiscono che nel mondo il 35% delle donne ha subito una forma di violenza. In Africa questi dati salgono ancora di più. Si parla del più del 50%; in alcuni Paesi come il Kenya, l’Etiopia, la Tanzania o il Sudafrica i casi di violenza sulle donne sono all’ordine del giorno, un uomo su quattro ha commesso un reato sessuale.
La povertà dilagante, la cultura, gli usi e i costumi di queste genti rendono la situazione ancora più drammatica. Essere donne in Africa significa essere private di qualunque cosa, della propria libertà, della propria femminilità, della propria dignità e soprattutto della propria vita.
La violenza assume diverse forme: discriminazioni, abusi, matrimoni forzati e precoci, mutilazioni genitali, malattie.
Le disuguaglianze di genere, l’analfabetismo obbligato, rendono le violenze ancora più diffuse e insensate. Le donne che non hanno un lavoro o un istruzione dipendono ancora di più dai loro mariti e vengono maggiormente sottomesse alla loro volontà.
Ancora oggi molte bambine vengono date in sposa prima che compiano la maggiore età e si ritrovano presto madri, ferite, scoraggiate e senza futuro. Sposandosi da bambine devono anche subire una delle pratiche più crudeli e atroci che una donna possa affrontare: la mutilazione. Più di duecento milioni di bambine e donne tuttora in vita hanno subito mutilazioni genitali. Le conseguenze delle mutilazioni genitali femminili sono diverse: infezioni, rapporti sessuali dolorosi, ripercussioni psicologiche, persino la morte della donna.
Ogni violenza porta con sé altra violenza.
A raccontarla ci pensano le poetesse. È una sola voce potente quella che ci arriva dallo Stato Africano. A portarla nel nostro Paese è l’iniziativa chiamata Afro Women Poetry, un progetto ambizioso che vuole far conoscere al pubblico italiano e internazionale l’Africa vissuta dalle donne. Le poetesse esprimono bene le violenze di genere di cui sono vittime; tra loro Mariska Araba Taylor-Darko, Maame Afia Konadu Sarpong e Line Zokro descrivono la brutalità della violenza domestica.
Sono poesie di facile lettura, che, nella loro semplicità di forma, provocano nel lettore tristezza e rabbia. Sono testi narrativi, lunghi monologhi liberatori, che somigliano alla spoken word poetry, la parola-poesia parlata, recitata e quasi urlata.
Sì, in questi versi è possibile sentire anche il grido di ogni donna africana, di richiesta d’aiuto, di ribellione.
Alcune poesie scelte per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne:
Picchiare per amore
Il tuo pugno mi ha colpito in viso Sono rimasta sotto shock Senza muovermi né urlare La prima volta che è successo Dicesti che mi picchiavi perché mi amavi
Mi hai incolpata Non ricordo d’aver sbagliato Il tuo gioco d’azzardo e le bevute Il tuo andare a donne, il flirtare I tuoi problemi e preoccupazioni Era tutta colpa mia Dicevi che mi picchiavi perché mi amavi
Ti ho chiesto perché lo facevi “Mi hai costretto tu!” hai detto “Devo correggerti, amore mio” “Ti amo, per questo ti picchio”
Non sapevo l’amore fosse così Forse nessuno me l’aveva detto Pensavo l’amore fosse amare e prendersi cura Risate e felicità Non questo: paura ed essere picchiata “per amore”
Sono invecchiata nel cuore Il mio amore si è trasformato in paura e odio Vivevo solo nel terrore di quel pugno in faccia Perché non me ne sono andata, perché? La vergogna di affrontare il mondo di dire la verità Perché ti amavo Perché mi minacciavi Dicevi di amarmi, per questo mi picchiavi Mi addormentavo piangendo, in silenzio Perché lui non mi sentisse e non arrivasse un altro pugno in viso
È amore questo? Un pugno in faccia Devo aver sognato l’altro amore Quello delle stelle del cinema Quello dei libri Cosa ho fatto per meritarmi questo? Questo pugno “d’amore” in faccia
La mano che mi colpisce mi accarezza Non riesco ad andare via Né a dire cosa ho nel cuore Nessuno deve conoscere la mia vergogna Giaccio maltrattata e morta dentro Aggrappata a te, non per amore ma per paura Mentre temo il mattino perché avrò un altro pugno in faccia Mi chiederai, mentre io mi farò scudo “Sei sveglia?” E sussurrerai tra i baci “Ti picchio perché ti amo”
Di Mariska Araba Taylor-Darko.
Traduzione di Serena Piccoli
Non voglio sposarmi mai
Non voglio sposarmi Svegliarmi ogni mattina e vedere la faccia di mia mamma dipinta di sonori schiaffi dai palmi di papà, fa male all’anima Le cingeva il collo con le mani per prenderle la vita Dio sa quanto l’ha picchiata
Mio papà non mangia cibo stantio e mio papà è quel tipo pulito, sempre in ordine preciso, curato, il classico uomo alla moda di Bristol così la mamma ha dovuto lasciare il lavoro mollare la sua vita e fare lavori a domicilio: pompini, effusioni da letto sfruttando leve e controluce cucinare e pulire
Ogni notte lui abusava sessualmente di lei in svariati modi fino a toglierle il fiato, incessantemente Quello stesso fiato che le toglieva la mattina dopo picchiandola anche se aveva fatto tutto bene Mia madre era solo un manichino che indossava ferite come sciarpe e calci invece di camicie
Io, piccola bimba, sbirciavo tra i due cardini della porta per guardare la mamma che implorava che la lasciasse stare Quel che vedevo nei suoi occhi erano solo ferite nell’anima Mia madre cadeva in ginocchio e pregava come se Gesù dovesse prendere il posto di papà Piangeva e urlava a Dio di prendersi le sue pene o la sua vita Piangeva sempre
Quando la mamma disse che stava andando via tutto ciò che papà rispose fu “Ciao, Felicia” Non gli importava che lei stesse andando via Dopo tutto era solo un perfetto nessuno che nessuno era triste di veder partire Ma poi mia madre non è poi mai partita e questo per i suoi figli
Mia madre non ha sposato un uomo ha sposato la violenza Girata e rigirata come una trottola Era al suo servizio tutto il giorno e comunque la notte le squarciava la cervice L’amore era andato e lei aveva perso la fiducia e la capacità di parlare, a forza di nascondere le prove delle due azioni, eppure lui non si pentiva
Il suo corpo era una mappa Ogni linea un sentiero, una strada di classe una via verso una città Ogni città, un ricordo d’amore e dolore Il suo amore era un rapper e lei era tutto il suo pubblico I segni dei suoi pugni erano sofferenze d’amore nascoste Il corpo, l’ego, l’amore, lo spirito e l’anima di lei erano un mucchio di cicatrici incasinate
Non voglio mai sposarmi A volte mi chiedevo perché rimanesse. Ma se solo il dolore non facesse male se si potesse tornare indietro nel tempo senza rimpianti L’uomo di cui si era innamorata era cambiato era diventato uno squilibrato Ha lasciato che lui avesse il coltello dalla parte del manico e che stabilisse ogni quanto le fosse permesso di non poterne più di lui
Tutto questo mi cambiò Mi girava nella testa di giorno, di notte e proprio non trovavo pace La mia famiglia veniva presa in giro la gente spettegolava perché il matrimonio dei miei era diventato un incontro di boxe
Lei aveva perso il suo gusto per la moda il suo stile erano maniche lunghe occhiali scuri e trucco pesante Notti lunghe di chiacchiere piene di risate erano ora un disastro Ma mia madre non si è mai arresa
Mio padre era un cocainomane e quando lei si lamentava lui la prendeva a schiaffi e urlava “Me ne sbatto di quello che pensi!” Quindi un’altra guancia bluastra e un labbro rotto perché lei aveva cercato di distoglierlo dall’ennesima sniffata Fu troppo tardi quando realizzò che i suoi cieli blu erano diventati grigi e i suoi ricordi erano svaniti
Mia madre era incinta eppure mio padre la forzava a fare sesso con lui Stavano facendo a botte quando lei cadde dal settimo gradino E con la vista appannata, è rotolata giù giù, giù e ancora più giù fino a che la sua vita non si è spenta Era morta
Che gran dolore fu pensare che era l’ultima volta che vedevo mia madre E tutti continuavano a dire “va tutto bene”, “lui cambierà” “le cose andranno meglio” Mia madre è ora due metri sottoterra e io non so cosa sente Non può neanche sapere quanto mi manca né vedere come sto crescendo male e non c’è nessuno che mi dica “Ama, andrà tutto bene”
Sono stata stuprata più volte Sono diventata una dannata Mio fratello ora è un tossicodipendente e io una ninfomane perché non c’è nessuno con cui parlare e nessuna madre da cui andare Mio padre, mio padre è in prigione per droga Se solo potesse capire la bellezza della resilienza Se solo potesse capire la bellezza della resilienza non soffrirebbe le conseguenze di questo seguito grottesco ‘Mi dispiace’ ora è soltanto una parola
Fidatevi, c’è stato un tempo prima delle guerre un tempo prima delle cicatrici un tempo in cui per lei lui non era che dolce e adorabile un tempo in cui non si era accorta del difetto della sua stella candente C’è stato un tempo in cui lei era il suo mondo, la sua casa
Quando le promesse dovevano arare l’amore tra di voi perché hai consentito a te stessa di essere così acerba?
Non voglio mai sposarmi… con un uomo come mio padre
Innamorarsi di un violento è come vivere in un sacchetto di plastica Ti sembra di avere abbastanza aria per respirare ma sai per certo che morirai Allora prenditi un momento e ricordati che non c’è fretta per il matrimonio Prenditi tempo per trovare te stessa e migliorarti Le relazioni e i matrimoni di successo non prosperano di solo amore, ma di vera amicizia Non voglio mai sposarmi con un uomo come mio padre.
– Questo lavoro mi è stato ispirato dai fatti accaduti nella famiglia di una cara amica.
Di Maame Afia Konadu Sarpong
Traduzione di Serena Piccoli
L’amore
C’era una volta l’amore Un sentimento divenuto così raro che ogni cuore lo chiama con tutto se stesso C’era una volta l’amore E finalmente un giorno l’amore è venuto a lei Amore benedetto amore delirio amore commovente In nome di questo amore il suo cuore è rimasto sordo Sordo quando le si diceva che il suo era pesante, pesante per troppi sentimenti cattivi Rispondeva, io lo amo, non c’è amore senza dolore E durante questi giorni feroci In queste notti pungenti in un sanguinoso silenzio Ha sopportato la sua violenza In amore ci si mette in coppia per costruire e vivere insieme Lui preferisce distruggerla e ridere quando lei trema All’inizio era splendente e gioviale Colpo dopo colpo è sfiorita e divenuta pallida Le sue illusioni sul loro idillio sono scomparse Ormai nella sua vita accumula bile I suoi occhi sono un torrente inesauribile La sua vita un castello di sabbia Le sue promesse delle favole In amore ci si mette in coppia per rendersi felici Ma lui preferisce coprirla di lividi Un atto disumano non è quando un cane fa del male ad un altro cane È sicuramente un linguaggio che ogni cuore capirà L’amore non è mai stato compagno della violenza Se vivi questo calvario Sappi che hai il diritto di dire sì Sì a un cambiamento radicale Sì all’amore…
Sibilla Aleramo Poesie, lettere a Dino Campana e Biografia-
Nota-Quello fra Dino Campana e Sibilla Aleramo fu un amore tanto intenso quanto breve e tormentato. La loro relazione durò poco più di un anno, tra il 1916 e il 1917. La Aleramo era una donna bellissima e una scrittrice già nota (Una donna era uscito nel 1906 suscitando scalpore per la sua impronta femminista); Campana era un uomo solitario, malato, spesso aggressivo. Il loro amore fu disperato e folle, ma necessario.
Sibilla Aleramo Poesie
Ritmo
Ritrovata adolescenza, gioia del colore, occhi verdi di sole sul greto, scheggiato turchese immenso de l’onde, biondezza di cirri e di rupi, rosea gioia di tetti, colore, ritmo, come una bianconera rondine l’anima ti solca.
*
Son tanto brava
Son tanto brava lungo il giorno. Comprendo, accetto, non piango. Quasi imparo ad aver orgoglio quasi fossi un uomo. Ma, al primo brivido di viola in cielo ogni diurno sostegno dispare. Tu mi sospiri lontano: «Sera, sera dolce e mia!» Sembrami d’aver fra le dita la stanchezza di tutta la terra. Non son più che sguardo, sguardo sperduto, e vene.
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Nuda nel sole
Nuda nel sole per te che dipingi sto immobile, il seno soltanto ritmando la vita gagliarda del cuore. Come un cielo soave d’aurora è per te questa mia forma lucente, un prato un’acqua una solitaria fiorita di petali, tralci di vigna in festività. E adori, e fervente le dolci dita su la tela conduci. Nuda nel sole ed immobile, frammento di natura, ti miro orante ed oprante. Da te invasa da te riassorbita, sei tu che mi divinizzi o la mia divinità è che ti crea, artista, arte, spirito? Tacitamente il seno respira.
*
Charità notturna
Chiarità notturna, volo d’ore bianche, disteso cielo, tendo la mia mano che vi stringe, e v’offro, v’offro. Ci veda qualcuno. Non me, ma sola la mia mano che vi tiene, ore fruscianti, grande sereno, spiaggia d’astri.
*
Brucio la mia vita
S’io mi muovo, s’io mi sollevo, tutto svanisce, tutto s’aggela. Ma s’io resto così distesa, gli occhi chiusi, le labbra aureolate di brace, l’ardore della mia palma sul battito della mia gola, io brucio la mia vita, brucio la mia vita, il mio sangue si consuma nelle mie vene, io sento che si consuma solo nel ricordo d’un altro sangue, d’una voluttà data e provata, dell’amore lontano che forse non ritroverò.
*
Morte, m’hai sentita?
Morte, m’hai sentita? Nella notte ti ho invocata, piangendo e fors’anche ridendo per sedurti t’ho chiamata, ultima luce, speranza di due braccia accoglienti, un nome ancora da invocare, morte, madre, sorella, amata, una che mi prenda, una che mi voglia…. Ed eri lontana. Bianca e bella s’io ti pensavo su altri reclina, s’io t’imaginavo intenta a baciar altri, altri certo non più di me dolenti, oppur creature felici, morte, m’hai sentita s’anche non sei accorsa? Nessuno certo t’implorava quanto me, o cara quanto fu cara la vita, e tu chi sceglievi in vece mia? Ma forse, forse da lontano hai trasalito…. E ora non ti chiamo più. Stormi mi ventano dietro la fronte, aliante mondo inespresso del mio pensiero, parole che furono visioni e ch’io ancora non dissi, amore che tutti comprende i ruinati amori e li risolleva…. Verità della mia vita, incompiuta missione che nell’alba mi riappare, ch’era il miracolo, ed io forse l’ho tradita…. E forse, o morte, non venuta al mio richiamo delirante mi raggiungerai nel fervore del ripreso canto, troncherai nella mia gola il canto, un giorno chiaro…. Ch’io mi rammenti allora, ch’io mi rammenti come eri bella, come eri bella questa notte, morte, su le fronti che invece di me baciavi.
*
Da Assisi
Sul colle una sta, sola, dinanzi a questo, nodo silente del mondo. Vento scende verde d’argento. Ode respiro d’assenti acque. Cantici cari dissennati ascolta, di sorrisi sorgivi, di baci ariosi, volatili delizie, e le tiene, quasi creature in grappolo, sola ne lo svariar de le luci, fra le braccia o tra l’ali, rondine e sorella, che nulla si sperda di nessuna primavera.
*
In quest’alba
In quest’alba, ricche le vene di melodia e dolenti, che tutti aduno e mesco i desideri eterni, uno, d’una rosa bianca sul cespo, solo m’avanza incontro al giorno, e il giorno è di gennaio, oh giardino che non vedrò!
*
Anche quest’ore
Passeran quest’ore di spasimo come passarono le mille di gioia. O fiore che avrei voluto soltanto baciare, o petto dolce dove imploravo festosamente la morte, ma quest’ore che vivo di strazio son più generose ancora dell’altre gridanti felicità. Mi tendo a te che ho colpito, da lontano mi tendo più pulsante di quando ridevamo nudi nel sole, la fronte più affocata, insaziata. Dono d’angoscia gemente che pur anche si dissolverà, lungo di febbre ansito verso la tua pena…. Tutti i miei capelli per addormirti da lungi!
*
Una risata
Una risata. Forse un giorno la sentirò prorompermi dalla gola: giorno di gran sole, risata sopra il mondo, e poi due braccia che mi sollevino ansante verso la prima stella della sera.
*
Sibilla Aleramo
E’ IL LAVORO
OGGI L’AURORA
Entro il mio cuore
la tortura, oh tutta la tortura
del mondo patita
geme ch’io in parole la redima,
e io perdutamente balbetto,
il mio cuore ancora in sé sente
le infinite morti
da uomini inferte a uomini,
gli anni trascorrono
e sempre nel ricordo l’orrore
e sempre l’insostenibile vergogna
e sempre in me il gemito,
vano gemito anziché parole,
e il terrore che anche il più grande canto
vano pur esso sarebbe,
che mai l’ascolterebbe
se nuovamente domani sul mondo
la tortura infierisse
infanzia e vecchiaia insiem cancellando
e tutte le speranze?
Speranza aurora!
Chi guarda ancora l’aurora?
Mio cuore, tu lo sai!
E non è per essa che ancor batti?
Tanti e tanti e tanti,
vicino a te e lontano
ogni dì s’alzano e non armi impugnano,
o forse armi sono,
martelli, vanghe, libri
e vanno con questi lor vivi arnesi,
la terra è tutta un cantiere,
ogni dì è lavoro,
quanto lavoro su la terra intera,
da secoli da millenni
curvo era sino a ieri
ma ora di sé è fiero
s’anche duramente ancor soffre e lotta,
ben saldo nel voler mai più
guerre né torture,
nel volere il mondo
trasformato in fraterno giardino,
oh mio cuore, più non devi gemere,
abbi fede, tu vedi,
è il lavoro oggi l’aurora!
poesia di Sibilla Aleramo
“Le mie mani”
Le mie mani,
ricordando che tu le trovasti belle,
io accorata le bacio,
mani, tu dicesti,
a scrivere condannate crudelmente,
mani fatte per più dolci opere,
per carezze lunghe,
dicesti, e fra le tue le tenevi
leggere tremanti,
or ricordando te
lontano
che le mani soltanto mi baciasti,
io la mia bocca piano accarezzo.
Sibilla Aleramo (da ‘Poesie‘, Mondadori, 1929)
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta “Rina” (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960), è stata una scrittrice, poetessa e giornalista italiana.
lettera di Sibilla Aleramo a Dino Campana
Ecco la bellissima lettera che Sibilla scrisse all’amato:
Villa La Topaia, Borgo San Lorenzo , 7 – 8 agosto 1916
Notte — Possa tu riposare, mentre io ardo così nel pensiero di te e non trovo più il sonno, e sono felice.
M’hai promesso di farti rivedere ancor più bello, mia bella belva bionda.
Come passerai questi giorni e queste notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa.
Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezza anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta fede, Dino. Mi sento ancora così forte, per questo scambio del nostro sangue.
Sibilla Aleramo
Nota-Quello fra Dino Campana e Sibilla Aleramo fu un amore tanto intenso quanto breve e tormentato. La loro relazione durò poco più di un anno, tra il 1916 e il 1917. La Aleramo era una donna bellissima e una scrittrice già nota (Una donna era uscito nel 1906 suscitando scalpore per la sua impronta femminista); Campana era un uomo solitario, malato, spesso aggressivo. Il loro amore fu disperato e folle, ma necessario.
Sibilla Aleramo,Lettera a Dino Campana, (6 Agosto 1916).
Lo so, è un altra epoca, altro sentire, quì l’umanità si attacca alle tende,si consuma di tisi, assapora attimi persi, è il tempo in cui gli amori erano per sempre perche un solo bacio impegnava metà della vita, ed ogni momento passato insieme era chirurgicamente intagliato nei cuori.
Perché non ho baciato le tue ginocchia? Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a piedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca. Tornare. Come una bambina, questa del ritratto a dieci anni. Non quella che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio disperato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le querce, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima… Tu che tacevi o soltanto dicevi la tua gioia. Sentivi che la visione di grandezza e di forza si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro. E non ho baciato le tue ginocchia. I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo. Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata così lontano. Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu non hai bisogno di me! È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino, Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore? Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è così forte. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Scrivimi!
13 GENNAIO 1960 moriva SIBILLA ALERAMO
Come spesso accade, la sua attività letteraria ha origine da una situazione personale difficile: nel periodo della sua adolescenza la madre, in preda alla depressione e a causa dei conflitti con il padre, tentò il suicidio. Si salvò, ma fu presto internata nel manicomio di Macerata, dove rimase fino alla sua morte.
Un altro fatto fu decisivo per la giovane Maria: a quindici anni subì una violenza sessuale da parte di un impiegato della fabbrica diretta dal padre e presso cui lei stessa lavorava come contabile. Ne scaturì, come era usuale all’epoca e lo sarebbe stato fino al 1981, un matrimonio “riparatore”. La convivenza si rivelò subito insopportabile e nonostante l’amore per suo figlio Walter nato nel 1895, cadde in una profonda depressione, tanto da tentare, come sua madre, il suicidio.
È a questo punto che inizia ad affacciarsi l’attività letteraria come ancora di salvezza. A partire dal 1897 inizia a pubblicare articoli su vari giornali di ispirazione femminista e socialista. A Milano le fu affidata la direzione del settimanale socialista “L’italia femminile”, collaborando con intellettuali come Giovanni Cena, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao. Certamente queste attività la portarono ad una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti e ad acquisire il coraggio necessario a lasciare il marito e il figlio per essere finalmente libera.
È in questo frangente che, trasferitasi a Roma e iniziata una relazione con Giovanni Cena, iniziò a scrivere quello che sarebbe stato uno dei primi libri femministi apparsi in Italia. Una donna, questo il titolo del romanzo, fu pubblicato nel 1906 e racconta la sua vita dall’infanzia fino alla decisione di abbandonare la famiglia, in nome di un’emancipazione femminile, ancora troppo spesso negata.
“Come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinchè continui a baloccarsi come nell’infanzia?”
Per Una donna Maria utilizzò per la prima volta lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, che le suggerì il compagno Giovanni Cena, ispirato dalla poesia Piemonte di Carducci («e l’esultante di castella e vigne / suol d’Aleramo», vv. 31-32: Aleramo era il nome di una potente famiglia medievale piemontese).
Da allora questo divenne il suo nome non solo nella letteratura, ma anche nella vita quotidiana.
Terminata la storia con Cena ebbe numerose altre relazioni, anche di carattere omosessuale. Ma fu probabilmente il legame con Dino Campana il più passionale e allo stesso tempo il più tormentato. Fu una storia d’amore e di follia, che precipitò a seguito del disagio psichico del poeta, a causa del quale fu rinchiuso in manicomio. Della relazione abbiamo testimonianza grazie alle poesie che i due amanti si scrivevano e si dedicavano, ma soprattutto grazie alle lettere che si inviavano.
Proprio dalla loro fitta corrispondenza epistolare ho preso questo testo:
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perchè io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Con il nostro sangue e con le nostre lacrime facevamo le rose
Che brillavano un momento con il sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose.
Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio) nacque ad Alessandria il 14 agosto 1876. Trascorse un’adolescenza molto triste a causa della malattia mentale della madre; ancora giovanissima, fu costretta ad un matrimonio “riparatore” con un collega di lavoro che l’aveva violentata. La nascita del figlio Walter (1895) sembrò portare un soffio di gioia nella sua infelice vita coniugale; tuttavia, non bastò a riempire i vuoti della sua esistenza. Dopo un tentativo di suicidio, Rina cominciò a cimentarsi nella scrittura, nella quale trovò, oltre alla sua vocazione, anche il riscatto dall’esistenza gretta e stereotipata a cui le convenzioni sociali l’avevano sempre costretta.
Su varie riviste – come Gazzetta letteraria, L’Indipendente, Vita moderna, Vita internazionale – pubblicò soprattutto articoli di argomento femminista e socialista: questo suo impegno la portò ad avvicinarsi a Giorgina Craufurd Saffi, con la quale tenne una fitta corrispondenza. Punti nodali del suo impegno per l’emancipazione femminile furono la lotta contro la prostituzione e la campagna per il diritto di voto alle donne; si attivò, in tal senso, per promuovere manifestazioni, sezioni di movimenti femminili ed altre iniziative. Diresse inoltre il settimanale milanese L’Italia femminile,nel quale tenne una rubrica di discussione con le lettrici e ricercò la collaborazione di intellettuali progressisti come Giovanni Cena, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao; nello stesso periodo conobbe Anna Kuliscioff e Filippo Turati.
Nel 1901 le tensioni familiari, ormai divenute insostenibili, la spinsero ad abbandonare il marito e il figlio. L’anno successivo si trasferì a Roma, dove si legò sentimentalmente a Giovanni Cena e cominciò a collaborare con la Nuova Antologia. Nel 1906 diede alle stampe il suo romanzo autobiografico Una donna, nel quale descrisse minutamente il suo difficile percorso di vita dall’infanzia fino alla rottura del matrimonio. L’opera mirava ad affermare il diritto di tutte le donne ad una vita libera e consapevole, contro le costrizioni e le umiliazioni imposte dall’ideologia del sacrificio, uno dei valori-cardine della società borghese dell’epoca. In quell’occasione, fu proprio Cena a suggerirle lo pseudonimo Sibilla Aleramo, che sarebbe poi diventato il suo nome nell’arte e nella vita.
Il successo del libro concise con un profondo cambiamento nell’autrice, che rivide progressivamente le sue posizioni sul femminismo. Più che sulla parità fra i sessi, infatti, il suo impegno si concentrò da quel momento in poi sulla rivendicazione e sull’espressione della diversità femminile.
Dopo la fine della relazione con Cena, Sibilla cominciò a condurre una vita errabonda e bohémien; si avvicinò al Movimento Futurista, nonché ad altre avanguardie artistiche e letterarie. Destarono scandalo le sue numerose relazioni amorose; una delle più complesse, quella con Dino Campana, incontrato durante la prima guerra mondiale. Indipendente e anticonformista, Sibilla sfidò non solo la società perbenista del tempo, ma anche molti ambienti intellettuali, che la tennero in dispregio per i suoi costumi sessuali eccessivamente disinvolti.
Nel 1936 sembrò trovare un punto di riferimento stabile in un giovane studente, a cui restò legata per un decennio. Nel secondo dopoguerra, si iscrisse al Partito Comunista Italiano e svolse un’intensa attività politica e sociale, collaborando, fra l’altro, all’Unitàe alla rivista Noi donne. Morì a Roma il 13 gennaio del 1960, dopo una lunga malattia.
Sibilla Aleramo ci ha lasciato una ricca produzione letteraria tra romanzi, liriche, collaborazioni giornalistiche e diari. Tra gli scritti di maggior spicco, oltre al già citato Una donna, i romanzi Il passaggio (1919) e Il Frustino (1932), le raccolte poetiche Momenti (1921), Selva d’Amore (1947) e Luci della mia sera (1956). La sua figura di donna e di artista ha impresso solchi profondi nella cultura e nella memoria: lo testimoniano non solo le tante strade intitolate a suo nome in tutto il territorio italiano, ma anche l’interesse che la sua vicenda ha saputo ispirare a critici, studiosi, scrittori e artisti. Grande, in particolare, è stata nei suoi riguardi l’attenzione del cinema italiano, attraverso le due pellicole Inganni (1985) e Un viaggio chiamato amore (2002).
Le dieci poesie proposte sono tratte da Momenti, prima opera in versi della Aleramo. L’anelito alla libertà vi si esprime in uno stile innovativo, essenziale e nondimeno elegante, che intreccia in modo singolare carnalità e lirismo: una poesia di immagini, tutta fuoco e immediatezza, nella quale elementi del tardo Romanticismo, del Decadentismo e della Scapigliatura vengono rielaborati alla luce della nuova coscienza femminista e antiborghese. Vi si avverte la propensione dell’autrice nei confronti delle avanguardie letterarie, che l’eterogeneità dei temi e la rottura con gli schemi tradizionali della metrica e del verso rendevano congeniali alla sua sensibilità nervosa e al suo anticonformismo.
Donatella Pezzino
Sibilla Aleramo
Pseudonimo di Rina Faccio, nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876. Presto si stabilisce con la famiglia a Civitanova Marche dove sposa a quindici anni un giovane del luogo.
Nel 1901 abbandona marito e figli iniziando, come lei stessa amava dire, la sua “seconda vita”. Conclusa una relazione sentimentale con il poeta Damiani inizia una vita errabonda che la avvicina a Milano e al movimento futurista, a Parigi e ai poeti Apollinaire e Verhaeren, infine a Roma e a tutto l’ambiente intellettuale ed artistico di quegli anni (qui conosce Grazia Deledda). Durante la prima guerra mondiale incontra Dino Campana e con lui inizia una relazione complessa e tormentata.
Al termine della seconda guerra mondiale si iscrive al P.C.I. e si impegna intensamente in campo politico e sociale. Collabora, tra l’altro, all’«Unità» e alla rivista «Noi donne».
Muore a Roma nel 1960, dopo una lunga malattia. Opere principali: Una donna (1906), considerato il primo libro femminista apparso in Italia; Il passaggio (1919);Momenti (1920); Andando e stando (1920); Amo, dunque sono (1927); Gioie d’occasione (1930); Il frustino (1932); Orsa minore (1938); Dal mio diario (1945);Selva d’amore (1947); Il mondo è adolescente (1949); Aiutatemi a dire (1951); Luci della mia sera (1956).
Roma Capitale- Lo Studio Varroni- Antoni Muntadas –
Roma Capitale-Lo Studio Varroni / Eos Libri d’Artista è lieto di annunciare la mostra Muntadas / Edizioni 1971 – 2024, a cura di Piero Varroni, che aprirà venerdì 22 novembre 2024.
Verrà esposto un cospicuo corpus antologico di materiale documentativo dei principali temi affrontati da Antoni Muntadas nel corso della sua lunga carriera artistica; un’indagine trasversale del suo percorso creativo dai primi anni Settanta ad oggi.
Muntadas considera la pratica dell’arte come una forma di conoscenza, esperienza critica e impegno. Negli anni ha coerentemente indagato criticamente i fenomeni prodotti dalle varie forme di globalizzazione navigando tra discipline diverse e territori intermedi, tra arte, scienze sociali e sistemi di comunicazione, in quello che lui ha definito “paesaggio mediale”, riferendosi alla continua espansione dei mass media nello spazio pubblico e nella vita privata.
Con i suoi progetti esplora le connessioni, le tensioni nelle questioni sociali, politiche e di comunicazione all’interno di determinati contesti; analizza quindi i canali di informazione e i meccanismi del potere, della censura, della manipolazione del consenso e il modo in cui vengono veicolati nella divulgazione di contenuti.
Per Muntadas la percezione richiede coinvolgimento: “percepire è digerire, risponde all’idea che lo sguardo è l’inizio di una percezione, la quale deve essere legata non solo ai sensi ma anche al coinvolgimento personale, politico e sociale”. Egli fa della realtà una “traduzione” non solo visuale ma linguistica, culturale e mediale.
Realizza i suoi progetti affidandosi a diversi media, come fotografia, video, pubblicazioni, Internet, installazioni e interventi in spazi urbani.
Per la mostra è stato realizzato un libro d’artista in 24 copie, oltre a un nuovo numero di RivistaFoglio (n. 8) monografico su Muntadas, con testi editi di Laura Cherubini, Modesta Di Paola, Cecilia Guida, Beatriz Herràez, Roberto Pinto, e, testi inediti di Giovanni Fontana e Daniela Vasta.
Biografia
Antoni Muntadas (Barcellona, 1942), vive a New York dal 1971.
Ha insegnato e tenuto seminari presso varie Istituzioni in Europa e negli Stati Uniti, tra cui l’École Nationale Supérieure des Beaux-arts di Parigi; L’École Supérieure des Beaux-Arts di Bordeaux e Grenoble; l’Università della California di San Diego; il San Francisco Art Institute; la Cooper Union di New York; l’Università di San Paolo e l’Università di Buenos Aires.
Ha partecipato a residenze d’artista ed è stato professore in diversi centri di ricerca e di formazione, tra cui il Visual Studies Workshop di Rochester; il Banff Centre di Alberta; l’Arteleku a San Sebastián; lo Studio National des Arts Contemporains – Le Fresnoy, e la Western Sydney University.
È stato Professor in practice presso il Visual Arts Program della School of Architecture del MIT di Cambridge (1977-2014). Attualmente è professore allo IUAV di Venezia.
Muntadas ha ricevuto vari premi e sovvenzioni da Istituzioni come la John Simon Guggenheim Memorial Foundation; la Rockefeller Foundation; il National Endowment for the Arts; il New York State Council on the Arts; l’Ars Electronica di Linz; il Laser d’Or di Locarno; il Premio Nacional d’Arts Plàstiques assegnato dalla Generalitat de Catalunya e il Premio Nacional de Artes Plásticas 2005. Nel 2009 ha ricevuto il Premio Velázquez per le Arti Plastiche, assegnato dal Ministero della Cultura spagnolo.
Ha esposto in diversi musei, tra cui il MoMA di New York; il Berkeley Art Museum in California; il Musée d’Art Contemporain di Montreal; il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid; il Museo de Arte Moderno di Buenos Aires; il Museu de Arte Moderna di Rio de Janeiro e il Museu d’Art Contemporani di Barcellona. Per quanto riguarda la sua presenza in eventi internazionali, è da sottolineare la partecipazione alla VI e alla X edizione di Documenta a Kassel (1977, 1997); alla Whitney Biennial of American Art (1991) e alla 51ª Biennale di Venezia (2005), nonché a quelle di San Paolo, Lione, Taipei, Gwangiu e L’Avana.
A tutt’oggi non si contano le centinaia di partecipazioni a mostre personali e collettive per il mondo: dal Kunstverein di Stoccarda, alla Gallerie d’art Contemporain SBC di Montreal; dal museo d’Arte Moderna di Instambul, alla Estação Pinacoteca di San Paolo del Brasile; dalla Fundação Calouste Gulbenkian di Lisbona al Jeu de Paume di Parigi; dal Center for Art, Design and Visual Culture della University of Maryland, Baltimora, all’OCAT di Shanghai; dal Three Shadows Photography Art Center di Pechino, Cina, al Total Museum di Seul, Korea, ecc, ecc.
Tra le gallerie private ricordiamo soltanto due recenti mostre presso Joan Prats di Barcellona e Michela Rizzo di Venezia
Studio Varroni
Piero Varroni è titolare dello Studio Varroni – Eos Libri d’Artista e fondatore dell’Associazione Culturale Eos. È impegnato da molti anni nella ricerca sperimentale dell’arte legata alla letteratura e alla poesia, con l’intento di avvicinare i vari linguaggi per un’ideale unità delle arti.
Lo Studio Varroni è diventato negli anni un luogo di “messa in opera” delle idee, dove l’Opera diventa narrazione plurale, esperienza e condivisione in più voci, tra arte, poesia e filosofia.
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