Sortie cinéma: La bella estate, par la réalisatrice italienne Laura Luchetti-
Le dernier long métrage de Laura Luchetti, “Le bel été”, sort en salles en France le 27 novembre. Il a été bien accueilli notamment au Locarno Film Festival et au Festival Cinemed. Il s’agit de l’adaptation cinématographique du bref roman éponyme écrit par Cesare Pavese en 1940, publié seulement neuf ans plus tard dans un recueil qui comporte deux autres nouvelles. C’est un récit d’apprentissage de la liberté, du désir, de la sensualité, brillant aussi par la qualité de sa reconstitution du Turin de 1938 et de ses milieux bohèmes. Ce film a été tourné entièrement dans le Piémont, à Turin mais aussi dans la région des lacs d’Avigliana et de Carignano.
Mention spéciale aux deux excellentes actrices principales, à la fois retenues et émouvantes: Yile Yara Vianello et Deva Cassel.
Résumé: Turin, 1938. Ginia (Yile Yara Vianello), une jeune fille de la campagne plutôt réservée, est venue s’établir en ville pour travailler dans un atelier de couture où elle se montre particulièrement créative. Elle habite avec son frère Severino (Nicolas Maupas) qui fait des études tout en travaillant. Un dimanche, au milieu d’un groupe de jeunes gens, elle fait la connaissance d’Amelia (Deva Cassel), une jeune femme très belle et très libre, qui pose nue pour des artistes. Elles deviennent amies. Ginia est troublée par cette femme. Amelia l’introduit dans le milieu bohème et Ginia sent s’éveiller sa sensualité. Elle aimerait se libérer du carcan de son éducation, devenir aussi libre qu’Amelia, franchir le pas en suivant ses pulsions. Elle tombe amoureuse d’un jeune peintre, Guido (Alessandro Piavani) et se laisse séduire, après une résistance intérieure et des remords mal dissimulés. C’est le début d’un amour désespéré, plein d’attentes et d’illusions vaines, destiné à se consumer dans le bref instant d’une saison.
Extrait du dossier de presse, quelques mots de Laura Luchetti:
«Le roman de Pavese, écrit il y a environ quatre-vingt-cinq ans, m’a parlé dès la première lecture. Il m’a immédiatement semblé universel, moderne. Ginia, une jeune femme qui se cherche, qui a peur de ne pas être à la hauteur, rencontre une autre jeune femme, Amelia, qui l’entraîne dans un monde nouveau, plein de tentations, de chimères et de fragilité, un monde bohème, libre, insolent, sans tabous: le monde de l’art, de la représentation. Car le film est aussi un film sur la représentation, sur le désir d’être vue à travers les yeux d’un autre, d’être immortalisée, donc d’exister. Ginia poursuit cette illusion dans les années 1930 de la même manière qu’une fille d’aujourd’hui veut avoir sa photo sur les médias sociaux, être admirée, et être enfin quelqu’un.»
LE 27 NOVEMBRE AU CINÉMA
Drame / 101 min / Italie / 2023
Langue: Italien
Sous-titres : Français
Avec Yile Yara Vianello (Ginia), Deva Cassel (Amelia), Nicolas Maupas (Severino), Alessandro Piavani (Guido), Adrien Dewitte (Rodrigues)
Michèle Gesbert est née à Genève. Après des études de langues et secrétariat de direction elle s’installe à Paris dans les années ’70 et travaille à l’Ambassade de Suisse (culture, presse et communication). Suit une expérience associative auprès d’enfants en difficulté de langage et parole. Plus tard elle attrape le virus de l’Italie, sa langue et sa/ses culture(s). Contrairement au covid c’est un virus bienfaisant qu’elle souhaite partager et transmettre. Membre-fondatrice et présidente d’Altritaliani depuis 2009. Coordinatrice et animatrice du site.
Laura Luchetti trae da Pavese un elegante e sentito romanzo di formazione ambientato negli anni ’30.-Recensione di Tommaso Tocci
Torino, 1938. Venuta in città a lavorare assieme al fratello Severino, la giovane Ginia fa la sarta in un atelier di moda. Durante l’estate conosce la misteriosa Amelia, di poco più grande, che fa la modella per vari pittori della città. Attraverso Amelia, Ginia conoscerà tra gli altri i pittori Rodrigues e Guido, innamorandosi di quest’ultimo e chiedendosi come sarebbe se anche lei si lasciasse disegnare.
È al terzo lungometraggio come regista – a cinque anni da Fiore gemello – che Laura Luchetti incontra il Cesare Pavese della novella “La bella estate”, trovando un felice matrimonio di temi tra quelli a lei cari e quelli da riscoprire nell’opera che il romanziere firmò originariamente nel 1940.
Romanzo di formazione al femminile ambientato nella Torino dell’immediato pre-guerra, storia d’amore celata e di rapporto fiorente con il proprio corpo e il proprio desiderio, La bella estate inquadra con maturità il racconto della giovinezza inquieta, dandogli anche una veste formale elegante e dal sapore classico.
Nel creare la versione in immagini della prosa di Pavese, Luchetti confeziona un film sull’insidioso processo di farsi oggetto dello sguardo altrui, impresa ancora più ardua quando non si conosce (ancora) la propria identità, come nel momento transitorio dello sbarco nell’età adulta.
La giovane Ginia è una ragazza di campagna che degli adulti sa poco, nonostante viva “da grande” assieme al fratello e senza i genitori. L’incontro con la figura di Amelia, nella sua perfezione esoterica che sorge dall’acqua, la sconvolge a tal punto che per avvicinarsi a lei – e a un’idea di se stessa – deve affidarsi a una miriade di tramiti: gli specchi, gli spicchi di vetrata dietro a una tenda, il lavoro in atelier sugli abiti e sulle clienti, lo sguardo maschile del pittore che sembra crudelmente l’unico ad aver diritto sul corpo della donna. Nel frattempo cresce sottopelle l’inquietudine, discreta eppure fervente, con la paura che quell’estate finisca per sempre, seppellita dalla neve e dai discorsi del Duce alla radio.
Con l’aiuto di ottimi costumi e del fascino austero di Torino, Luchetti tratteggia un dramma d’epoca di spessore e dei personaggi pieni di dignità umana anche quando si ritrovano alla deriva.
Per il suo film più ambizioso ritaglia un ruolo intrigante alla giovane Deva Cassel, la quale usa il suo divismo “di nascita” per trasformarsi in avatar incrollabile e oggetto di desiderio, e ancor di più per la protagonista sfrutta il mestiere già forgiato di Yile Vianello, (ben) cresciuta nel cinema di Alice Rohrwacher. Cuore del film, la sua Ginia è un crocevia impazzito di maturità e innocenza, paure e slanci temerari, sentimenti e sensi di colpa.
Città del Vaticano-Incognito-Progetto sull’autoidentificazione di un artista di strada
Città del Vaticano-Da sabato 30 novembre- sino all’8 dicembre 2024 la Residenza San Pietro Canisio in Vaticano ospita la mostra Incognito, ideata e curata da Leila Leam, fotografa, classe 1988. Nove artisti, tra i maggiori esponenti della street art italiana, sono stati chiamati a prendere parte a questo progetto, con l’obiettivo di mostrare il loro volto, meno noto rispetto ai loro lavori. Proprio con questo intento la curatrice spiega come sia nata l’idea della mostra: Incognito è un progetto sull’autoidentificazione di un artista di strada, il cui lavoro è visto quotidianamente sui muri da migliaia di persone e da altrettante sui social, ma la cui personalità rimane in INCOGNITO. Alessandra Carloni, Croma, Elia Novecento, Giusy Guerriero, Maupal, Mr. Klevra, Marco Rea, Ale Senso e Uman, sono i nomi degli artisti che porteranno in mostra il loro volto, un autoritratto su sfondo nero, realizzato su tele di grandi dimensioni (2,40 x 2 mt), accompagnato da un ritratto fotografico realizzato dalla curatrice stessa. In mostra si potranno vedere anche i video dei backstage.
Come sottolinea ancora la curatrice – Uno dei momenti più difficili è stato proprio quello di convincere l’artista, che rimane nell’ombra del suo lavoro, a realizzare il suo ritratto. Penso che questo progetto abbia molto a che fare con la fiducia. Ecco perché per ogni servizio fotografico, ho sentito un’enorme responsabilità. Penso di essere riuscita a catturare quella cosa sfuggente che trasmette lo stato interiore del mio “eroe” e la sua creatività senza perdere me stessa e il mio stile.
Il progetto è nato tre anni fa da un’idea di Leila Leam che, arrivata a Roma dalla Russia, rimane da subito colpita dalle molteplici opere di street art presenti in città, in contrasto ma, allo stesso tempo in armonia, con i grandi capolavori di arte moderna e antica. Da qui l’idea di conoscere e di far conoscere al pubblico anche il volto di quest’altra Roma.
Durante il periodo della mostra sarà inoltre possibile, su prenotazione, prendere parte ad una sessione fotografica con la fotografa, a fronte di una donazione all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. ORARI DI APERTURA:
lunedì 2.12 11.00-16.00
martedì 3.12 11.00-16.00
mercoledì 4.12 11.00-16.00
giovedì 5.12 15.00-20.00
venerdì 6.12 15.00-20.00
sabato 7.12. 15.00-20.00
domenica 8.12 12.00-15.00
I poeti vanno in giro col viso pitturato di nero. ( Breve elogio dei futuristi russi)
Breve elogio dei futuristi russi-Che errore stupefacente! Mi ero dimenticato che la poesia non è fatta per essere letta in silenzio, sul divano, a letto, in metropolitana. Così, piuttosto, si sorseggiano i romanzi: con sussiego borghese o con sovreccitazione urbana, comunque con quella posa lì. La poesia va ascoltata, ballata, gridata: essendo la quintessenza della vita, la poesia va vissuta. Oh… i poeti declamano i loro versi, aggiornando la voce, compiaciuta, recitano; ma la poesia è l’esegesi di una battaglia, non accondiscende, non ristora l’anima, non rincuora gli afflitti. La poesia, voglio dire, non è questione di ugola né di portamento; la poesia, lampo liturgico, pretende l’intero corpo del poeta, che sia travisato, svaligiato, vagliato, malato, inerme, rabbioso.
Resto un inguardabile ingenuo, e mi sorprende – ne leggo nel memorabile studio di Angelo Maria Ripellino su Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia – ricordare che i poeti russi, cavalcando la Rivoluzione – anzi: preparandola con atti teatrali, dunque politici, di genio – sfoggiavano la loro poesia addobbandosi in fogge eccentriche. Pitturandosi il viso. Questo continua a folgorarmi. Si pitturavano il viso. Come guerrieri, come lottatori nordici, come sciamani, adepti di una qualche religione dissepolta lì per lì, tra la carneficina dei miti d’Asia. Così andava in giro, per dire, Davyd Burljuk, pioniere del futurismo alla russa: “redingote da cantore del Sinodo e l’occhialino; il suo viso era dipinto a inchiostro di China: sulla guancia sinistra il profilo d’un cammello, opera di Sar’jan, e sulla destra misteriosi segni cabalistici, simili a onischi”.
Majakovskij, di solito, amava i cappotti lunghi, a volte verniciati di giallo, e dare spettacolo con il viso dipinto di rosso: una volta, sulle guance, si era fatto dipingere una tigre, stilizzata, un’altra un cobra, aggrovigliato nell’atto di puntare la preda. A vederlo, doveva fare paura – la poesia, in effetti, tra decalogo e urlo, nasce per incutere timore. Era il febbraio del 1914 e i futuristi russi s’impegnavano a boicottare il tour di Filippo Tommaso Marinetti. Velemir Chlebnikov – che sul petto s’era fatto disegnare il profilo di Manas, eroe dell’epica kirghisa – aveva scritto un volantino che imponeva ovunque. Diceva così: “Oggi altri indigeni e la colonia italiana sulla Nevà per considerazioni personali cadono ai piedi di Marinetti, tradendo il primo passo dell’arte russa sulla via della libertà e dell’onore, e costringono l’Asia a chinare il suo nobile collo sotto il giogo dell’Europa”. La polemica, per così dire, affonda nei meandri della storia russa – basta leggere cosa scrive Dostoevskij dell’Europa canaglia, covo di Baal, della ‘missione’ della Russia e del suo legame necessario con l’Asia (ora in: La bellezza salverà il mondo. Pensieri. Aforismi. Polemiche, De Piante, 2021) –, qui trova nuova carica eversiva, tra clown e gladio. Intanto, “il Maciste russo” – tale V. Gol’cšmidt –, atleta futurista “disperatamente audace”, dicono i cronisti del tempo, “si gettava in mare a capofitto, a mo’ di rondine, da un’altissima rupe, gridando: Viva Vladimir Majakovskij!”. Tutto – anche le giornate dell’ottobre ’17 – era teatro (tutt’altro che teatrale): dipingersi il viso significava svelarsi. Celato il viso, contraffatto, finalmente il poeta può essere se stesso.
Mascherati, i poeti russi smascheravano le ipocrisie dell’era, dell’uomo. Dietro ogni travisamento traluceva una verità di indecente delicatezza. La poesia era un acceleratore di vita. Di Velemir Chlebnikov, sulla cui “esistenza sbandata, prodiga, inerme” circolavano leggende, andato in Persia al seguito delle truppe rosse inebriato dal sentore d’Asia, si dice che “avviluppatosi in un sacco, vendette camicia e calzoni per comprarsi da mangiare ma, incontrata una povera, le diede tutto il denaro che aveva guadagnato”. Finì letteralmente nudo, nei suoi ultimi giorni, con indosso una pelliccia che lo tramutava in qualcosa tra il povero Cristo e il re barbaro in esilio, dimentico del regno. “In Chlebnikov il disinteresse assumeva un carattere di vera abnegazione, di martirio per l’idea poetica”, disse di lui Majakovskij. Chlebnikov fu poeta eccezionale e stralunato: in Italia ha trovato eccellenti interpreti in Ripellino e in Paolo Nori; non è semplice trovare i suoi libri. Mendico di tutto, fa ancora paura a molti, la sua bibliografia è clandestina, appena improvvisata, chissà.
Tra i futuristi russi affascina, per stranezza e folgore, la storia di Vasilij Kamenskij, “gioviale e fanciullesco”, “esuberante pioniere del volo”. Nato a Perm’ nel 1884, su una barca – così almeno amava dire, girovago della menzogna –, orfano a cinque anni, cresciuto da zii che commerciavano sul fiume Kama, Kamenskij abbandonò la scuola a sedici anni, si fece rivoluzionario, azionò scioperi, fu spedito in esilio, prima a Istanbul poi a Teheran. Burljuk, che si dilettava pure come pittore, lo raffigura con enormi occhi azzurri, a precipizio, una chioma di riccioli biondi, baffi, labbra da donna, mento importante; pare un Apollo russo. Ossessionato dalla velocità e dal volo, divenne pilota: le sue evoluzioni sul monoplano Blériot XI rasentano la leggenda; un incidente, nel 1911, mise fine alle sue ambizioni celesti. Fu amico di Chlebnikov, fu il più estremo tra i futuristi, promotore di un linguaggio funambolico, isterico, narciso, tutto corpo e poco testo. Ecco un paio di poesie del 1914:
La chiamata dell’aviatore
Cacofonia di anime
Ffrrrrrrrrrr
Sinfonia motoria
Sono io – Sono io –
Lirico-lottatore-futurista
Pilota-aviatore
Vasilij Kamenskij
Elastico propellente
Che monta in cielo
E lascia come biglietto da visita
Una penzolante civetta morta
Mi spiace per lei
Mantello da tango cucito a mano
e calze
con pantaloni.
*
La mia preghiera
Mio Dio:
Pietà di me
Dimenticami.
Ho pilotato un aereo
E ora sono in un fosso.
Voglio crescere
Come edera velenosa.
Amen.
*
Tango con mucche
La vita è più breve del cigolio di un passero
come un cane che nuota
su una lastra di ghiaccio
in mezzo al fiume a primavera
con allegria di latta, lattescente,
miriamo al destino.
…………..
bene, allora VAI al DIAVOLO
SENZA CORNA né FERRI
voglio ballare da solo
un TANGO con le mucche
e attraversare su ponti distillati
le lacrime di gelosia dei tori
le lacrime della RAGAZZA scarlatta.
L’epica finì presto. Il futurista Kamenskij proponeva – ad esempio nel romanzo “La capanna di fango”, 1910 – un clamoroso ritorno ai boschi; Majakovskij lo convinse che lo scintillio di Mosca era ‘amazzonico’. Stordito dalla Rivoluzione, che imbracciò, come molti, certo di una rivolta dello spirito, continuò a perpetuare formule linguistiche ormai inaccettabili agli occhi della burocrazia rossa. Si fece anarchico, preferì l’abisso. Nel 1931 pubblicò una biografia eccentrica, Il cammino di un entusiasta, tradotta da Sellerio nel 1989, ora fuori catalogo. Nel ’48, un ictus fiacca Kamenskij, che ne emerge paralizzato. Ripellino gli dedica un brandello mirabile: “Oggi, benché paralitico, Kamenskij dipinge gioiosi pastelli che raffigurano con lo stile fanciullesco della sua poesia d’allora spiagge, navi, barche, cacciatori, aeroplani, anatre fra canneti. E con ottimismo straziante afferma d’aver ancora vent’anni”.
Pare il ritratto di un’epoca: il poeta ‘rivoluzionario’, ora paralitico, eppure per sempre giovane, che dipinge un mondo ideale, a pastello, di aerei e cacciatori. Kamenskij pare uno di quei disadatti usciti da una strofa di Rimbaud. Il cammeo di Ripellino ha il genio della biografia di un santo: c’è sentore di miracolo, una luce arcana e blu, lì dentro.
Fonte-Pangea • Rivista avventuriera di cultura & idee è un progetto di Associazione Culturale Pangea- Direttore editoriale: Davide Brullo.
SINOSSI- Il libro Tullia Romagnoli Carettoni nell’Italia repubblicana-è stata partigiana, insegnante, funzionaria dell’Udi, dirigente socialista, senatrice dapprima con il Psi poi con la Sinistra indipendente, figura di spicco in vari organismi nazionali e internazionali. La sua biografia permette di ripercorrere i primi tre decenni della storia repubblicana: la transizione postfascista, il miracolo economico, le riforme mancate e quelle varate dal centro-sinistra, le battaglie per i diritti civili degli anni Settanta; ma anche la Guerra fredda, il processo di decolonizzazione, il movimento internazionale delle donne. A partire dal suo archivio personale, il volume restituisce il profilo di una “socialista autonoma” che, in Italia e nel mondo, si è battuta per intrecciare universalismo e differenze.
In copertina: Tullia Carettoni, da poco eletta senatrice del Psi (1963 ca). AUFN, TRC/I, busta 38, fasc. 1.
INDICE
Introduzione
1. Storia politica, questioni di genere, biografia
2. Costruire un archivio, costruire una memoria: il fondo Tullia Romagnoli Carettoni
3. Attraverso le sue carte: una lunga transizione postfascista
1. Tra le giovani donne della nuova Repubblica
1. Da Tullia Romagnoli a Tullia Carettoni
2. Partigiana combattente
3. «Tornata a valle», la Resistenza continua
4. Con Rodolfo Siviero: il recupero delle opere d’arte trafugate
5. Scuola e famiglia: l’impegno nell’Udi
6. «Candidata della pace» alle elezioni del 1948
7. Il “pellegrinaggio politico” in Urss e in Cina
8. Gli anni Cinquanta: tra modernità e tradizione
2. Nella stanza dei bottoni
1. Napoli, 1959. Nella Direzione del Psi
2. Dalla Scuola al Movimento femminile socialista
3. La “questione femminile” negli anni del centro-sinistra
4. Nel salotto delle Tribune politiche
5. 1963: l’ingresso a Palazzo Madama
6. Verso la stagione dei diritti civili
7. La Commissione Franceschini per i beni culturali
3. “Socialista autonoma” nella Sinistra indipendente
1. Conflittualità sociale e immobilismo parlamentare: l’uscita dal Psi
2. Una scuola per l’infanzia
3. Con Parri, per l’unità delle sinistre
4. Dagli Affari esteri alla Vicepresidenza del Senato
4. Nel mondo. I diritti umani
1. Contro la “guerra americana”: l’Issoco e il Comitato Italia-Vietnam
2. La tutela internazionale dei diritti umani: America Latina, Africa e Medioriente
3. L’Italia, la Cee e i paesi fascisti europei
4. Sulla linea della distensione
5. 1975: Anno internazionale della donna
5. In Italia. I diritti civili
1. In difesa del divorzio
2. La “lex Tullia” antireferendum
3. La riforma di famiglia e la “legge per le divorziate”
4. Aborto: problemi e leggi
5. Per il controllo delle nascite
6. Una legge «ipocrita ma necessaria»: la 194/1978
6. Per l’abrogazione della causa d’onore
1. 25 aprile 1976: il contributo della Resistenza alla libertà femminile
2. La protezione sotto attacco
3. La tutela dell’uguaglianza nel ddl 4/1976
4. Lo smantellamento della proposta
5. Il dibattito su delitto d’onore e matrimonio riparatore
6. L’infanticidio per causa d’onore
7. «Un gioco perfido di contro luci»
8. La legge 442/1981
Epilogo
1. Al Parlamento europeo (1979-1984)
2. La Presidenza dell’Istituto italo-africano (1980-1996)
3. All’Unesco (1984-2005)
4. Attraverso i confini
Indice dei nomi
AUTORE–Paola Stelliferi ha insegnato Storia delle donne e di genere all’Università degli Studi di Padova ed è stata assegnista di ricerca all’Università degli Studi Roma Tre. Fa parte della Società italiana delle storiche, per la quale è stata membro del consiglio direttivo nazionale. È autrice di Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere (Bup, 2015), di saggi di ricerca sulla storia dell’aborto nell’Italia repubblicana e sulla storia e la memoria dei femminismi.
EDITORE
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Rivista Atelier-Fotografia di Lena Leander Kaschnig
Luca Tommasi (Bari, 1991) è Architetto e Dottore di ricerca in Composizione Architettonica e Urbana. Cura l’identità visiva della libreria Millelibri – Poesia & altri mondi. Ha pubblicato una raccolta di haiku e piccole tirature di libri d’arte.
molti i semi molti i fiori morto il bel canto il culto continua ma fuori dalla finestra dentro le campane suonano in cella aorta ferrata trasporto ver sacro
*
La notte come un telo potrebb’esser ampio lenzuolo e non l’avvicendarsi delle piccole ombricole che nel suono si fanno uova nate
una macchina si è affranta sul marciapiede di mattina l’asfalto è tutto specchio
un vecchietto aveva forse scritto una carezza sul viso a una carcassa sembrava come dire il rosso a un uomo di fango.
*
Ocra essere un tubero come l’oro dal terriccio inavvicinabile quando vicino alla morte e coi corni viola senz’ossa diventare tutto frutto oppure come faceva il nonno a casa si chiama cucumarazzo farsi cibo senza pelle e figli superare acerbo la maturità, fresco.
*
COSÌ POTRÒ GUARDARTI LE FESSURE
Qualcuno avrebbe potuto mettere i fiori nel vaso della ricotta come a dire terra espungimi mostra fuori l’approvvigionamento
non si va dove una casa è come la casa la cintola ammira lo spazio cerimoniale appunta il trionfo sopra l’omero vittoria della vita rudimento.
*
Tra un po’ sarà finito il tempo della calendula la persiana rafferma un rettangolo spanciato quadro urbano dell’agosto fatto acqua il suono è lontano – lo si ascolta dalla schiena la finestra è aperta, guarda al mezzo: sarà smessa l’ora che noi in un poco avemmo in dote.
Luca Tommasi (Bari, 1991) è Architetto e Dottore di ricerca in Composizione Architettonica e Urbana. Cura l’identità visiva della libreria Millelibri – Poesia & altri mondi. Ha pubblicato una raccolta di haiku e piccole tirature di libri d’arte.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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Il Pittorialismo -scuola fotografica di Oscar Rejlander ed Henry Peach Robinson
Il Pittorialismo di Oscar Rejlander ed Henry Peach Robinson vengono considerati come dei precursori di una scuola fotografica che conobbe il suo momento di massimo splendore tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che ricopre un ruolo di capitale importanza per lo sviluppo delle tecniche analogiche di post-produzione: il “Pittorialismo”. L’obiettivo dei fotografi pittorialisti era di elevare il mezzo fotografico alla stessa dignità artistica della pittura e della scultura. In quegli anni, infatti, la maggior parte degli artisti “visivi” considerava la fotografia come un mero strumento di riproduzione meccanica della realtà, sprovvista quindi di ogni dignità creativa. I Pittorialisti intendevano dimostrare che la produzione di un’immagine fotografica richiedeva abilità tecniche e senso estetico del tutto paragonabili a quelle di qualsiasi altra forma d’arte. I fotografi che parteciparono attivamente allo sviluppo e alla vita di questa corrente gravitavano intorno a due “club” fotografici, in qualche modo retti e indirizzati da due figure di straordinaria importanza: il “Photo-Club de Paris”, sorto per volere del pittore e fotografo francese Robert Demachy (1859-1936), e l’associazione americana “Photo-Secession”, che aveva il suo promotore nel grande Alfred Stieglitz (1864- 1946).
Pittorialismo
Nella storia della fotografia, termine usato (talora con connotazione negativa) per indicare la tendenza di molti fotografi dell’Ottocento a imitare canoni estetici propri della pittura al fine di conferire dignità artistica alle proprie opere. Più in particolare, il complesso movimento (che si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento in Europa, per poi estendersi agli Stati Uniti) nel quale, in opposizione al diffondersi della fotografia amatoriale e puramente documentaria, veniva proposta una fotografia ‘pittorica’, teorizzando e affermando (con opere eseguite con grande perizia tecnica e sensibilità artistica, sia nella ripresa sia nella stampa) la piena validità e autonomia estetica dell’immagine fotografica, ritenuta degna di occupare un posto di primo piano nelle arti grafiche.
Bruna Bertolo e Ornella Testori- L’ufficiale in bicicletta-
Editore NEOS- Torino
Il caso di Lucia Boetto Testori rievocato in un libro , L’ufficiale in bicicletta ,dalla figlia Ornella-Particolarmente coinvolgente è quando una figlia racconta la vita dei suoi genitori: in questo libro* è quella di una mamma straordinaria, Lucia Boetto Testori, che fu giovanissima protagonista della Resistenza antifascista nel Cuneese, non solo trasportando sulla sua bicicletta esplosivi, ma come “ufficiale-ispettore”, tenendo i collegamenti tra i partigiani e i dirigenti del Cln di Torino, e compiendo anche imprese rischiosissime con gli Alleati inglesi, paracadutati in aiuto degli “Autonomi” di Enrico Martini “Mauri”, per cui fu insignita di una medaglia di bronzo al Valor militare.
Ornella Testori – che nella sua professione si è occupata di biologia e medicina, in particolare quella nucleare, conducendo studi sulla tiroide – rievoca con precisione e anche humour le spericolate azioni di Lucia ragazza, non solo come le ha ascoltate dalla sua viva voce, ma approfondendole con una precisa documentazione, mentre un affresco che inquadra più propriamente gli avvenimenti è presentato nella prima parte del libro, in un’attenta e ampia ricerca della storica Bruna Bertolo e le prefazioni di Luciano Boccalatte e di Nino Boeti.
Fu Frida Malan che mi fece conoscere Lucia, che io vedevo sempre con lei, Bianca Guidetti Serra e Gisella Giambone nelle manifestazioni partigiane, in particolare quando erano invitate a qualche dibattito dai movimenti delle donne, e loro quattro rappresentavano concretamente l’ampio schieramento politico e ideologico della Resistenza: Frida, i “GL” nell’ala socialista, Bianca, quella azionista poi vicina al Pci, Gisella quella garibaldina derivante dal padre Eusebio, ucciso al Martinetto, e Lucia quella liberale degli “Autonomi”. A quel filone di pensiero si riferivano sia Lucia sia il marito Renato Testori – annota la figlia Ornella – e moltissimi antifascisti cuneesi che poi divennero partigiani nelle file degli Autonomi e di “Giustizia e Libertà”: «crociani ed einaudiani, un poco gobettiani», e giustamente polemizza con quella vulgata riduttiva della narrazione «Antifascismo-e Resistenza-solo comunista». Una vulgata, appunto, perché le ricostruzioni storiche fanno giustizia di questa «appropriazione indebita» – come la chiama Ornella – presentando invece un variegato quadro “plurale”.
Con questo intento io intervistai Lucia, nel mio libro dedicato alla vita vissuta di “testimoni della Resistenza”, in particolare delle valli valdesi, che mi onoro di aver conosciuto personalmente, costituendo un grande lascito per tutti (“… Eppur bisogna andar…”, Claudiana, 2006). Serbo il ricordo di una signora elegante, che conservava una serena bellezza, non scalfita dalle dure vicende patite, ma rievocate con misurata passione (l’eccidio di Boves, gli ebrei in fuga dalla Francia chiusi nei vagoni piombati come antefatti dolorosi e choccanti della sua “presa di coscienza”, la disfatta della IV Armata che si rovesciava nel Cuneese), e che raccontava straordinarie vicende, la più straordinaria di tutte quella della “bandiera del Corpo dei Volontari della Libertà” (che infatti dà il titolo all’intervista) che lei portò arrotolata intorno al corpo a Torino, perché doveva sfilare al corteo della Liberazione il 6 maggio 1945. Lucia non poté partecipare al corteo, pare perché il marito Renato Testori non la svegliò in tempo: la bandiera sfilò portata dal partigiano siciliano Vincenzo Modica, “Petralia”, che aveva l’altro braccio al collo, ferito.
Da questa significativa vicenda di “non esserci”, dopo tanto operare e rischiare, inizia simbolicamente quell’occultamento del ruolo delle donne nella Resistenza dal dopoguerra in poi, e l’allontanamento dalla vita politica per farne solo mogli e madri: ci è voluto il ruolo delle storiche femministe degli anni ’70-’80 per riscoprirle. E l’intervista si chiudeva con un amaro ricordo: tanti anni dopo, in una manifestazione del 25 Aprile, Lucia desiderava toccare la bandiera che aveva portato a rischio della vita, ma, decorata di medaglia al valore, la bandiera era scortata con tutti gli onori, e Lucia non poté avvicinarsi. Questo epilogo segna simbolicamente il percorso di tante donne oscure, dimenticate, che invece hanno combattuto “senza armi” come Lucia, per costruire il nostro presente: Senza il lavoro delle donne – ho sentito riconoscere da tanti partigiani – la Resistenza non avrebbe potuto sopravvivere.
* Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta. Torino, Neos, 2023, pp. 127, euro 17,00.
Articolo di Piera Egidi Bouchard-
Fonte Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Descrizione del libro di Monica Ferrando «Bruna sono ma bella, / o figlie di Gerusalemme, / come le tende di Chedar, / come i padiglioni di Salma»: cosí i versi del Cantico dei Cantici (I, 5-6). Perché questa bellezza bruna piena di mistero, in cui avviene l’elezione di Israele a Sposa di Dio, è stata ripudiata? Perché la poesia del Cantico, invece di stagliarsi come impenetrabile testimonianza di un’elezione «erotica» è stata sostituita da una teologia dell’elezione avanzata da un’altra religione? Queste sono le domande da cui muove questo agile libro in cui Monica Ferrando mostra come il crescente dominio economico-tecnologico del mondo, non solo del mondo umano ma anche di quello naturale, è avvenuto attraverso un capovolgimento del paradigma biblico dell’elezione. Un capovolgimento in cui il paradigma teologico della predestinazione, dell’imperscrutabilità dell’elezione divina, ha permesso ai gruppi dominanti dei cristiano-protestanti, luterani e calvinisti di vantare un preteso primato su ebrei e cristiani greci e latini. I prescelti sono divenuti gli appartenenti a un certo tipo umano (bianco) e a una certa classe (alta) i quali, grazie a un estorto messianismo fondato sul privilegio di razza, di censo e di cultura, hanno edificato un sistema tecnico ed economico che si arroga il diritto sovrano e patriarcal-maschilista di decidere al posto della divina varietà dell’umano e dell’umanità nel suo complesso.
RECENSIONI
«Per secoli i gruppi dominanti dei cristiano-protestanti, luterani e calvinisti, forti di un monoteismo teologico cui avrebbero dato crescente legittimazione politica, hanno vantato un preteso primato su ebrei e cristiani greci e latini».
AUTORE
Breve biografia di Monica Ferrando ha pubblicato vari studi di filosofia e pittura. Ha curato le edizioni italiane di Triade e de I nomi degli Dei di Hermann Usener, di Ercole al bivio di Erwin Panofsky e di La pittura e lo sguardo di Avigdor Arikha (Neri Pozza, 2016). Dirige la rivista on-line «de pictura» www.quodlibet.it/riviste/testata/80. Ha pubblicato L’oro e le ombre (Quodlibet, 2015).
Paola Agosti,Benedetta Tobagi-Covando un mondo nuovo-
-Giulio Einaudi editore-
Il libro di Benedetta Tobagi e Paola Agosti-Questa splendida raccolta di fotografie degli anni Settanta è il frutto di una selezione a quattro mani di Paola Agosti, autrice degli scatti, testimone e interprete unica di un’epoca, e Benedetta Tobagi, che ora ridà loro voce, con grande immediatezza e piglio narrativo, raccontandoci quella che è stata definita la sola rivoluzione riuscita del Novecento, ovvero quella delle donne. All’alba del decennio l’Italia è un Paese plurale, dove convivono ragazze in minigonna e signore nerovestite con lo scialle in testa, battagliere avvocate e altrettanto battagliere operaie e contadine. Plurali sono anche le anime del movimento femminista, sia per i diversi rapporti che intrattengono con i vari partiti sia per quale ritengono la sfera giusta su cui concentrare gli sforzi. A Roma la via prediletta è quella dell’azione politica, a Milano prevale il tentativo di liberarsi attraverso i gruppi di autocoscienza. Nonostante le differenze, però, le grandi lotte del decennio vengono portate avanti a ranghi uniti, in primis quella per il diritto all’aborto. Oltre a illustrare e narrare tutto questo, Agosti e Tobagi trasmettono l’incredibile vitalità e creatività del movimento delle donne negli anni Settanta, che si manifestano negli slogan, come quello che dà il titolo al libro, nei pupazzi che portano ai cortei, nelle pratiche di self help e nei girotondi. La gioia di una stagione dirompente che ha conquistato alcuni dei diritti di cui godiamo oggi, una fonte di ispirazione tuttora valida.
«Tenere insieme liberazione individuale e collettiva, l’impegno per una profonda trasformazione ed evoluzione personale e al tempo stesso per un cambiamento radicale della società, per renderla piú giusta, aperta, umana, perché l’una e l’altra cosa possono accadere davvero soltanto insieme: è una nota di fondo che dagli anni Settanta si è travasata nel femminismo intersezionale contemporaneo, e mi pare possa essere uno degli elementi piú preziosi che il movimento delle donne porta in dote al XXI secolo».
Benedetta Tobagi- Pavia – L’autrice di Covando un mondo nuovo parteciperà all’incontro Una liberazione individuale e collettiva, alle ore 21 presso il Collegio nuovo (via Abbiategrasso, 404). Conduce l’incontro Marina Tesoro. L’incontro si tiene in presenza e in remoto. È obbligatoria la registrazione al seguente link entro il 2 dicembre per la partecipazione in presenza; entro il 3 dicembre, ore 18.30 per chi desidera collegarsi da remoto. L’evento è trasmesso anche in diretta Facebook su @collegionuovopavia.
La sua vita, caratterizzata dall’inquietudine e dalla nevrosi, finì con il suicidio a 38 anni.
Le sue poesie, dimenticate per anni, corrono sul filo dell’ironia e di una voluta semplicità.
Sara Teasdale nacque l’8 agosto 1884. Sua madre era Mary Elizabeth Willard e suo padre John Warren Teasdale. Era la figlia minore di una famiglia di due fratelli e una sorella.
Sara era di costituzione fragile e fu spesso ammalata. Visse pertanto protetta in seno alla sua famiglia fino all’età di nove anni sviluppando un mondo immaginario all’interno del suo universo solitario. A 10 anni i suoi genitori infine decisero di permetterle di uscire e di entrare in contatto con l’esterno. Solo all’età di 14 anni stette abbastanza bene per iniziare la scuola ma non ottenne alcun diploma.
La prima poesia della Teasdale fu pubblicata sul Reedy’s Mirror, un giornale locale, nel 1907. La sua prima raccolta di poesie, “Sonetti e altre poesie”, fu pubblicata quello stesso anno. La seconda raccolta di poesie, “Elena di Troia e altre poesie”, fu pubblicata nel 1911. Furono bene accolte dalla critica, che ne elogiò la maestria lirica e il soggetto romantico.
Negli anni 1911-1914, la Teasdale fu corteggiata da alcuni uomini, tra cui il poeta Vachel Lindsay, che era molto innamorato di lei. Tuttavia, non avendo la sensazione che egli le avrebbe potuto garantire una sufficiente tranquillità economica e stabilità familiare, la Teasdale preferì invece sposare Ernst Filsinger, che era stato un ammiratore della sua poesia per un certo numero di anni, il 19 dicembre 1914.
La terza raccolta di poesie della Teasdale, “Fiumi verso il mare”, fu pubblicata nel 1915 e fu un best seller, ristampato più volte. Un anno dopo, nel 1916 si trasferì a New York con suo marito, dove risiedettero in un appartamento dell’Upper West Side di Central Park West.
Nel 1918, la sua raccolta di poesie “Love Songs” (uscita nel 1917) vinse tre premi: il premio di Poesia della il Premio Pulitzer 1918 per la poesia e il premio annuale della Società di Poesia d’America.
Ernst Filsinger era spesso via di casa a lungo per affari la qual cosa causò molta solitudine per la Teasdale. Nel 1929, la Teasdale si trasferì in Missouri per tre mesi in modo da soddisfare i criteri per ottenere il divorzio. Di questo non volle informare Filsinger e lo fece solo su insistenza dei suoi avvocati. La cosa scioccò e sorprese Filsinger.
Dopo il divorzio, la Teasdale ritornò a New York City, andando ad abitare a soli due isolati di distanza dalla sua vecchia casa in Central Park West. Tuttavia ne approfittò per riprendere la sua amicizia con Vachel Lindsay, che era ormai sposato con figli.
Nel 1933, si suicidò con un’overdose di sonniferi. Il suo amico Vachel Lindsay si era suicidato due anni prima. È sepolta nel cimitero di Bellefontaine a St. Louis.
NOTTE DI GIUGNO
*
Oh Terra, quanto sei cara stanotte,
Come posso dormire mentre intorno
Aleggia odore di pioggia e lontano
La voce dell’oceano parla alla spiaggia.
Terra, mi hai dato tutto quel che ho,
Ti amo, ti amo, oh che cosa ho
Io che possa darti in cambio — se non
Il mio corpo dopo che sarò morta?
A Song To Eleonora Duse In “Francesca da Rimini “
Oh would I were the roses, that lie against her hands,
The heavy burning roses she touches as she stands!
Dear hands that hold the roses, where mine would love to be,
Oh leave, oh leave the roses, and hold the hands of me!
She draws the heart from out them, she draws away their breath,—
Oh would that I might perish and find so sweet a death!
A November Night
There! See the line of lights,
A chain of stars down either side the street —
Why can’t you lift the chain and give it to me,
A necklace for my throat? I’d twist it round
And you could play with it. You smile at me
As though I were a little dreamy child
Behind whose eyes the fairies live. . . . And see,
The people on the street look up at us
All envious. We are a king and queen,
Our royal carriage is a motor bus,
We watch our subjects with a haughty joy. . . .
How still you are! Have you been hard at work
And are you tired to-night? It is so long
Since I have seen you — four whole days, I think.
My heart is crowded full of foolish thoughts
Like early flowers in an April meadow,
And I must give them to you, all of them,
Before they fade. The people I have met,
The play I saw, the trivial, shifting things
That loom too big or shrink too little, shadows
That hurry, gesturing along a wall,
Haunting or gay — and yet they all grow real
And take their proper size here in my heart
When you have seen them. . . . There’s the Plaza now,
A lake of light! To-night it almost seems
That all the lights are gathered in your eyes,
Drawn somehow toward you. See the open park
Lying below us with a million lamps
Scattered in wise disorder like the stars.
We look down on them as God must look down
On constellations floating under Him
Tangled in clouds. . . . Come, then, and let us walk
Since we have reached the park. It is our garden,
All black and blossomless this winter night,
But we bring April with us, you and I;
We set the whole world on the trail of spring.
I think that every path we ever took
Has marked our footprints in mysterious fire,
Delicate gold that only fairies see.
When they wake up at dawn in hollow tree-trunks
And come out on the drowsy park, they look
Along the empty paths and say, “Oh, here
They went, and here, and here, and here! Come, see,
Here is their bench, take hands and let us dance
About it in a windy ring and make
A circle round it only they can cross
When they come back again!” . . . Look at the lake —
Do you remember how we watched the swans
That night in late October while they slept?
Swans must have stately dreams, I think. But now
The lake bears only thin reflected lights
That shake a little. How I long to take
One from the cold black water — new-made gold
To give you in your hand! And see, and see,
There is a star, deep in the lake, a star!
Oh, dimmer than a pearl — if you stoop down
Your hand could almost reach it up to me. . . .
There was a new frail yellow moon to-night —
I wish you could have had it for a cup
With stars like dew to fill it to the brim. . . .
How cold it is! Even the lights are cold;
They have put shawls of fog around them, see!
What if the air should grow so dimly white
That we would lose our way along the paths
Made new by walls of moving mist receding
The more we follow. . . . What a silver night!
That was our bench the time you said to me
The long new poem — but how different now,
How eerie with the curtain of the fog
Making it strange to all the friendly trees!
There is no wind, and yet great curving scrolls
Carve themselves, ever changing, in the mist.
Walk on a little, let me stand here watching
To see you, too, grown strange to me and far. . . .
I used to wonder how the park would be
If one night we could have it all alone —
No lovers with close arm-encircled waists
To whisper and break in upon our dreams.
And now we have it! Every wish comes true!
We are alone now in a fleecy world;
Even the stars have gone. We two alone!
“I Know The Stars”
I KNOW the stars by their names,
Aldebaran, Altair,
And I know the path they take
Up heaven’s broad blue stair.
I know the secrets of men
By the look of their eyes,
Their gray thoughts, their strange thoughts
Have made me sad and wise.
But your eyes are dark to me
Though they seem to call and call—
I cannot tell if you love me
Or do not love me at all.
I know many things,
But the years come and go,
I shall die not knowing
The thing I long to know.
“If I Must Go”
IF I must go to heaven’s end
Climbing the ages like a stair,
Be near me and forever bend
With the same eyes above me there;
Time will fly past us like leaves flying,
We shall not heed, for we shall be
Beyond living, beyond dying,
Knowing and known unchangeably.
A Ballad Of The Two Knights
Two knights rode forth at early dawn
A-seeking maids to wed,
Said one, “My lady must be fair,
With gold hair on her head.”
Then spake the other knight-at-arms:
“I care not for her face,
But she I love must be a dove
For purity and grace.”
And each knight blew upon his horn
And went his separate way,
And each knight found a lady-love
Before the fall of day.
But she was brown who should have had
The shining yellow hair —
I ween the knights forgot their words
Or else they ceased to care.
For he who wanted purity
Brought home a wanton wild,
And when each saw the other knight
I ween that each knight smiled.
A Boy
OUT of the noise of tired people working,
Harried with thoughts of war and lists of dead,
His beauty met me like a fresh wind blowing,
Clean boyish beauty and high-held head.
Eyes that told secrets, lips that would not tell them,
Fearless and shy the young unwearied eyes—
Men die by millions now, because God blunders,
Yet to have made this boy he must be wise.
A Cry
Oh, there are eyes that he can see,
And hands to make his hands rejoice,
But to my lover I must be
Only a voice.
Oh, there are breasts to bear his head,
And lips whereon his lips can lie,
But I must be till I am dead
Only a cry.
Her voice is like clear water
That drips upon a stone
In forests far and silent
Where Quiet plays alone.
Her thoughts are like the lotus
Abloom by sacred streams
Beneath the temple arches
Where Quiet sits and dreams.
Her kisses are the roses
That glow while dusk is deep
In Persian garden closes
Where Quiet falls asleep.
A Little While
A little while when I am gone
My life will live in music after me,
As spun foam lifted and borne on
After the wave is lost in the full sea.
A while these nights and days will burn
In song with the bright frailty of foam,
Living in light before they turn
Back to the nothingness that is their home.
A Maiden
Oh if I were the velvet rose
Upon the red rose vine,
I’d climb to touch his window
And make his casement fine.
And if I were the little bird
That twitters on the tree,
All day I’d sing my love for him
Till he should harken me.
But since I am a maiden
I go with downcast eyes,
And he will never hear the songs
That he has turned to sighs.
And since I am a maiden
My love will never know
That I could kiss him with a mouth
More red than roses blow.
A Song Of The Princess
The princess has her lovers,
A score of knights has she,
And each can sing a madrigal,
And praise her gracefully.
But Love that is so bitter
Hath put within her heart
A longing for the scornful knight
Who silent stands apart.
And tho’ the others praise and plead,
She maketh no reply,
Yet for a single word from him,
I ween that she would die.
A Maiden
Oh if I were the velvet rose
Upon the red rose vine,
I’d climb to touch his window
And make his casement fine.
And if I were the little bird
That twitters on the tree,
All day I’d sing my love for him
Till he should harken me.
But since I am a maiden
I go with downcast eyes,
And he will never hear the songs
That he has turned to sighs.
And since I am a maiden
My love will never know
That I could kiss him with a mouth
More red than roses blow.
A Minuet Of Mozart’s
Across the dimly lighted room
The violin drew wefts of sound,
Airily they wove and wound
And glimmered gold against the gloom.
I watched the music turn to light,
But at the pausing of the bow,
The web was broken and the glow
Was drowned within the wave of night.
A Prayer
When I am dying, let me know
That I loved the blowing snow
Although it stung like whips;
That I loved all lovely things
And I tried to take their stings
With gay unembittered lips;
That I loved with all my strength,
To my soul’s full depth and length,
Careless if my heart must break,
That I sang as children sing
Fitting tunes to everything,
Loving life for its own sake.
A Winter Bluejay
Crisply the bright snow whispered,
Crunching beneath our feet;
Behind us as we walked along the parkway,
Our shadows danced,
Fantastic shapes in vivid blue.
Across the lake the skaters
Flew to and fro,
With sharp turns weaving
A frail invisible net.
In ecstasy the earth
Drank the silver sunlight;
In ecstasy the skaters
Drank the wine of speed;
In ecstasy we laughed
Drinking the wine of love.
Had not the music of our joy
Sounded its highest note?
But no,
For suddenly, with lifted eyes you said,
“Oh look!”
There, on the black bough of a snow flecked maple,
Fearless and gay as our love,
A bluejay cocked his crest!
Oh who can tell the range of joy
Or set the bounds of beauty?
A Winter Night
My window-pane is starred with frost,
The world is bitter cold to-night,
The moon is cruel, and the wind
Is like a two-edged sword to smite.
God pity all the homeless ones,
The beggars pacing to and fro.
God pity all the poor to-night
Who walk the lamp-lit streets of snow.
My room is like a bit of June,
Warm and close-curtained fold on fold,
But somewhere, like a homeless child,
My heart is crying in the cold.
Advice To A Girl
No one worth possessing
Can be quite possessed;
Lay that on your heart,
My young angry dear;
This truth, this hard and precious stone,
Lay it on your hot cheek,
Let it hide your tear.
Hold it like a crystal
When you are alone
And gaze in the depths of the icy stone.
Long, look long and you will be blessed:
No one worth possessing
Can be quite possessed.
After Death
Now while my lips are living
Their words must stay unsaid,
And will my soul remember
To speak when I am dead?
Yet if my soul remembered
You would not heed it, dear,
For now you must not listen,
And then you could not hear.
After Parting
Oh I have sown my love so wide
That he will find it everywhere;
It will awake him in the night,
It will enfold him in the air.
I set my shadow in his sight
And I have winged it with desire,
That it may be a cloud by day
And in the night a shaft of fire.
Alchemy
I lift my heart as spring lifts up
A yellow daisy to the rain;
My heart will be a lovely cup
Altho’ it holds but pain.
For I shall learn from flower and leaf
That color every drop they hold,
To change the lifeless wine of grief
To living gold.
Alone
I am alone, in spite of love,
In spite of all I take and give—
In spite of all your tenderness,
Sometimes I am not glad to live.
I am alone, as though I stood
On the highest peak of the tired gray world,
About me only swirling snow,
Above me, endless space unfurled;
With earth hidden and heaven hidden,
And only my own spirit’s pride
To keep me from the peace of those
Who are not lonely, having died.
Anadyomene
The wide, bright temple of the world I found,
And entered from the dizzy infinite
That I might kneel and worship thee in it;
Leaving the singing stars their ceaseless round
Of silver music sound on orbed sound,
For measured spaces where the shrines are lit,
And men with wisdom or with little wit
Implore the gods that mercy may abound.
Ah, Aphrodite, was it not from thee
My summons came across the endless spaces?
Mother of Love, turn not thy face from me
Now that I seek for thee in human faces;
Answer my prayer or set my spirit free
Again to drift along the starry places.
April
The roofs are shining from the rain.
The sparrows tritter as they fly,
And with a windy April grace
The little clouds go by.
Yet the back-yards are bare and brown
With only one unchanging tree—
I could not be so sure of Spring
Save that it sings in me.
April Song
Willow in your April gown
Delicate and gleaming,
Do you mind in years gone by
All my dreaming?
Spring was like a call to me
That I could not answer,
I was chained to loneliness,
I, the dancer.
Willow, twinkling in the sun,
Still your leaves and hear me,
I can answer spring at last,
Love is near me!
Arcturus
ARCTURUS brings the spring back
As surely now as when
He rose on eastern islands
For Grecian girls and men;
The twilight is as clear a blue,
The star as shaken and as bright,
And the same thought he gave to them
He gives to me to-night.
At Midnight
Now at last I have come to see what life is,
Nothing is ever ended, everything only begun,
And the brave victories that seem so splendid
Are never really won.
Even love that I built my spirit’s house for,
Comes like a brooding and a baffled guest,
And music and men’s praise and even laughter
Are not so good as rest.
Day And Night
IN Warsaw in Poland
Half the world away,
The one I love best of all
Thought of me to-day;
I know, for I went
Winged as a bird,
In the wide flowing wind
His own voice I heard;
His arms were round me
In a ferny place,
I looked in the pool
And there was his face—
But now it is night
And the cold stars say:
“Warsaw in Poland
Is half the world away.”
The Inn Of Earth
I came to the crowded Inn of Earth,
And called for a cup of wine,
But the Host went by with averted eye
From a thirst as keen as mine.
Then I sat down with weariness
And asked a bit of bread,
But the Host went by with averted eye
And never a word he said.
While always from the outer night
The waiting souls came in
With stifled cries of sharp surprise
At all the light and din.
“Then give me a bed to sleep,” I said,
“For midnight comes apace”—
But the Host went by with averted eye
And I never saw his face.
“Since there is neither food nor rest,
I go where I fared before”—
But the Host went by with averted eye
And barred the outer door.
Biografia
Sara Teasdale nacque l’8 agosto 1884. Sua madre era Mary Elizabeth Willard e suo padre John Warren Teasdale. Era la figlia minore di una famiglia di due fratelli e una sorella.
Sara era di costituzione fragile e fu spesso ammalata. Visse pertanto protetta in seno alla sua famiglia fino all’età di nove anni sviluppando un mondo immaginario all’interno del suo universo solitario. A 10 anni i suoi genitori infine decisero di permetterle di uscire e di entrare in contatto con l’esterno. Solo all’età di 14 anni stette abbastanza bene per iniziare la scuola ma non ottenne alcun diploma.
La prima poesia della Teasdale fu pubblicata sul Reedy’s Mirror, un giornale locale, nel 1907. La sua prima raccolta di poesie, “Sonetti e altre poesie”, fu pubblicata quello stesso anno. La seconda raccolta di poesie, “Elena di Troia e altre poesie”, fu pubblicata nel 1911. Furono bene accolte dalla critica, che ne elogiò la maestria lirica e il soggetto romantico.
Negli anni 1911-1914, la Teasdale fu corteggiata da alcuni uomini, tra cui il poeta Vachel Lindsay, che era molto innamorato di lei. Tuttavia, non avendo la sensazione che egli le avrebbe potuto garantire una sufficiente tranquillità economica e stabilità familiare, la Teasdale preferì invece sposare Ernst Filsinger, che era stato un ammiratore della sua poesia per un certo numero di anni, il 19 dicembre 1914.
La terza raccolta di poesie della Teasdale, “Fiumi verso il mare”, fu pubblicata nel 1915 e fu un best seller, ristampato più volte. Un anno dopo, nel 1916 si trasferì a New York con suo marito, dove risiedettero in un appartamento dell’Upper West Side di Central Park West.
Nel 1918, la sua raccolta di poesie “Love Songs” (uscita nel 1917) vinse tre premi: il premio di Poesia della il Premio Pulitzer 1918 per la poesia e il premio annuale della Società di Poesia d’America.
Ernst Filsinger era spesso via di casa a lungo per affari la qual cosa causò molta solitudine per la Teasdale. Nel 1929, la Teasdale si trasferì in Missouri per tre mesi in modo da soddisfare i criteri per ottenere il divorzio. Di questo non volle informare Filsinger e lo fece solo su insistenza dei suoi avvocati. La cosa scioccò e sorprese Filsinger.
Dopo il divorzio, la Teasdale ritornò a New York City, andando ad abitare a soli due isolati di distanza dalla sua vecchia casa in Central Park West. Tuttavia ne approfittò per riprendere la sua amicizia con Vachel Lindsay, che era ormai sposato con figli.
Nel 1933, si suicidò con un’overdose di sonniferi. Il suo amico Vachel Lindsay si era suicidato due anni prima. È sepolta nel cimitero di Bellefontaine a St. Louis.
Influenze
La poesia “Verranno le dolci piogge” della sua raccolta “Fiamma e Ombre” del 1920 ispirò una famosa storia breve con lo stesso nome di Ray Bradbury.
(EN)
«There will come soft rains and the smell of the ground,
and swallows circling with their shimmering sound;
and frogs in the pools singing at night,
and wild plum trees in tremulous white;
robins will wear their feathery fire,
whistling their whims on a low fence-wire;
and not one will know of the war,
not one will care at last when it is done;
not one would mind,
neither bird nor tree,
if mankind perished utterly;
and Spring herself, when she woke at dawn,
would scarcely know that we were gone.»
(IT)
«Verranno le dolci piogge e l’odore di terra,
e le rondini che volano in circolo con le loro strida scintillanti;
e le rane negli stagni che cantano di notte,
e gli alberi di susino selvatico che fremono di bianco;
i pettirosso vestiranno il loro piumaggio infuocato,
fischiettando le loro fantasie su una bassa recinzione in rete metallica;
e nessuno saprà della guerra,
nessuno presterà attenzione infine quando sarà avvenuto;
nessuno baderebbe,
né uccello né albero,
se l’umanità scomparisse completamente;
e la Primavera stessa, al suo risveglio all’alba,
si renderebbe conto appena che noi ce ne siamo andati.»
I poemi di Teasdale “La Nuova Luna”, “Solo nel Sonno” e “Stelle”, divennero pièce corali di Ēriks Ešenvalds, compositore lettone, per Musica Baltica. “Stelle” è divenuto molto famoso per l’uso di bicchieri di cristallo per ottenere il suono calmante delle “stelle”.[1][2]
Nel 1994, fu accolta nella St. Louis Walk of Fame.
Nel 2010, le opere di Sara Teasdale sono state per la prima volta pubblicate in Italia, con la traduzione di Silvio Raffo.
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