IL BARBIERE DI SIVIGLIA di Gioacchino Rossini-Trama, Libretto, Opera completa e Personaggi-
il barbiere di Siviglia è un’opera in due Atti di Gioachino Rossini su libretto di Cesare Sterbini tratto dalla commedia omonima di Beaumarchais. Il titolo originale dell’opera era Almaviva, o sia l’inutile precauzione.Prima di Rossini, Giovanni Paisiello aveva messo in scena il suo Barbiere di Siviglia nel 1782 (dieci anni prima della nascita di Rossini). Con quella stessa opera, Paisiello aveva riscosso uno dei maggiori successi della sua fortunata carriera.
Il precedente successo di Paisiello (uno dei maggiori rappresentanti dell’opera napoletana) faceva sembrare inammissibile che un compositore di ventitre anni – per quanto dotato – osasse sfidarlo.
Rossini in realtà non aveva nessuna responsabilità sulla scelta del soggetto. L’opera fu infatti scelta dall’impresario del teatro Argentina di Roma, il duca Francesco Sforza Cesarini; questi voleva commissionare a Rossini un’opera per l’imminente carnevale.
A quei tempi qualsiasi rappresentazione doveva scontrarsi con le forbici della censura pontificia. Per andare sul sicuro, l’impresario propose come soggetto “Il barbiere di Siviglia”, che fu subito approvato dai censori pontifici.
La prima rappresentazione ebbe luogo il 20 febbraio 1816 al Teatro Argentina a Roma e terminò fra i fischi. Il clima generale era di totale boicottaggio, dovuto ai sostenitori della versione dell’opera di Paisiello, favorito anche dall’improvvisa morte dell’impresario del Teatro Argentina.
Già dalla seconda recita, il pubblico acclamò l’opera di Rossini, portandola ad oscurare la precedente versione di Paisiello e diventando una delle opere più rappresentate al mondo.
Personaggi
Il Conte d’Almaviva – tenore
Don Bartolo, dottore in medicina, tutore di Rosina – basso buffo
Rosina, ricca pupilla in casa di Bartolo – mezzosoprano
Figaro, barbiere – baritono
Don Basilio, maestro di musica di Rosina, ipocrita – basso
Berta vecchia governante in casa di Bartolo – soprano
Fiorello, servitore di Almaviva – baritono
Ambrogio, servitore di Bartolo – basso
un ufficiale, un alcalde, o Magistrato; un notaro; Alguazils, o siano Agenti di polizia; soldati; suonatori di istrumenti
La scena si rappresenta in Siviglia.
ATTO I
Siviglia. La bella Rosina abita nella casa di don Bartolo, il suo anziano tutore. Don Bartolo vuole tenere Rosina con sè, per amministrarne il patrimonio. Intanto il Conte d’Almaviva, appena arrivato in città, si innamora della bella fanciulla e cerca il modo di avvicinarla; decide di presentarsi a lei sotto le mentite spoglie di Lindoro.
Lui organizza delle serenate sotto la finestra della fanciulla, tanto da destare le preoccupazione di don Bartolo; questi, per non essere costretto a rinunciare alla fortuna della ragazza, decide di chiederla in matrimonio, ma lei rifiuta.
Il Conte incontra Figaro, sua vecchia conoscenza, barbiere oltre che “factotum” nella casa di Don Bartolo. Figaro consiglia al Conte di presentarsi a Rosina facendo finta di essere un soldato ubriaco in congedo, con un permesso di soggiorno proprio in casa di don Bartolo. Nel frattempo Rosina affida a Figaro una lettera indirizzata a Lindoro.
Il maestro di musica di Rosina, don Basilio, sa della presenza in città del Conte; per favorire l’amico don Bartolo, gli suggerisce di calunniarlo per sminuirne la figura.
Secondo quanto pianificato con Figaro, il Conte di Almaviva fa irruzione nella casa di don Bartolo fingendosi un soldato ubriaco; Figaro gli ha anche procurato il falso permesso di soggiorno. Don Bartolo pur non riconoscendo nel soldato il Conte di Almaviva, cerca di allontanare il fastidioso rivale. Ne scaturisce una lite che richiama in casa i Gendarmi. Nella confusione generale (nel frattempo è entrato in casa anche Figaro) il Conte riesce a passare un messaggio a Rosina.
Per trarsi infine d’impaccio, il Conte rivela all’ufficiale delle guardie la sua vera identità; i soldati sono quindi costretti a lasciarlo andare senza arrestarlo.
ATTO II
Nella dimora di don Bartolo arriva don Alonso, sedicente insegnante di musica e sostituto di don Basilio; in realtà si tratta sempre del Conte di Almaviva con un nuovo travestimento.
Don Bartolo dubita delle sue reali intenzioni; don Alonso gli porge quindi la lettera di Rosina.
Intanto giunge Figaro, intenzionato a distrarre don Bartolo con la scusa della rasatura. Mentre il Conte cerca di spiegare la situazione a Rosina, irrompe Don Bartolo che lo caccia immediatamente.
Don Bartolo mostra a Rosina la sua lettera e le fa credere che il suo amato Lindoro sia in realtà un emissario del Conte.
Rosina – per dispetto – accetta infine la proposta di matrimonio del suo tutore. Don Bartolo chiama immediatamente il notaio per sugellare la loro unione.
In un ultimo disperato tentativo, il Conte e Figaro fanno irruzione nella camera di Rosina, usando una scala per entrare dalla finestra. Il Conte svela i suoi travestimenti a Rosina e le dichiara il suo amore e la sua volontà di sposarla; la bella Rosina accetta la proposta del Conte.
Proprio quando stanno per fuggire, i tre si accorgono che la scala fuori dalla finestra di Rosina, è stata tolta; è stato don Bartolo, che, sospettando la presenza di un estraneo in casa, è andato a chiamare le autorità. Memore della strana scena cui ha assistito, con il soldato ubriaco lasciato andare, non si fida della polizia. E’ corso dunque direttamente dal magistrato.
Nel frattempo, il notaio fatto chiamare da don Bartolo arriva in casa; Figaro e il Conte, approfittando della prolungata assenza del padrone di casa, convincono il notaio che il matrimonio che è stato chiamato a redigere sia quello tra il Conte e Rosina.
Quando don bartolo ritorna a casa il contratto di matrimonio è già stato siglato. Quando il Conte decide di rinunciare alla dote portata da Rosina, il non troppo disinteressato don Bartolo tira un sospiro di sollievo e benedice gli sposi.
Poesie di Maria Pia Quintavalla da MaledettiPoeti-
Maria Pia Quintavalla, nata a Parma, vive a Milano, è una delle voci più alte della Poesia italiana degli ultimi quarant’anni. Andrea Zanzotto la considerava nel 2000 un’autrice “che ha un posto di singolarissimo rilievo, di forte evidenza entro il quadro della ricerca poetica attuale.”
Narratrice e critica letteraria, la scrittrice e poetessa emiliana è laureata in Pedagogia. Dal 1983 collabora con l’Università Statale di Milano curando laboratori sulla Lingua italiana.
Ha pubblicato la sua prima raccolta di liriche, ‘Cantare semplice’, nel 1984. Da allora tutte le sue numerose sillogi sono state tradotte in diverse lingue, inglese, rumeno, serbo-croato, spagnolo, francese e tedesco, e prefate nelle edizioni originali da importanti poeti, come Nadia Campana, Maurizio Cucchi, Giancarlo Majorino, Andrea Zanzotto, Giampiero Neri e Franco Loi.
Quest’ultimo, nel 2005 ha accostato la ricerca poetica della Quintavalla a quella di una protagonista storica della letteratura italiana del ‘900, Amelia Rosselli: “La parola -afferma Loi- è rivelazione di sé e della propria esperienza nelle cause più profonde. Maria Pia sa ormai quale sia il cammino e come ci si debba applicare al passo. Mi viene in mente un altro percorso e un’altra fede nella taumaturgia della parola, quella di Amelia Rosselli. Anche in Maria Pia è sopravvenuta la resistenza alla corruzione e al dolore del vivere.”
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CARO PADRE
(Maria Pia Quintavalla)
Caro padre
dal cappello e cappotto infagottato,
come un uomo dell’ultima guerra
che fu soldato, maestro povero,
poi deportato; infine fu salvato
e ritornato, qui generò la sua secondogenita
uscita da un getto d’amore imprevisto,
un interruptus che mia madre non pensava,
facendola pregna –
Caro padre,
senza nessun foulard o corona,
si mantenne agli studi mentre lavorava,
che sgobbando ricordava
cosa è la fame –
ERA FIGLIA
Era figlia già quando nessuno conosceva,
era lombrico molle piccolo
nella tua mano, e silenziosa.
Ora che scappa e ride con le amiche
piano poi copia parole da poeta,
da una canzone, come un’orsa agile leggera;
dicono non ti somigli, e invece
piano, lei scrive in versi la sua notte,
si trucca gli occhi, ride. Si seduce.
L’immagine che guarda fissa è la sua vita,
non lo sai se è aperta
o chiusa al tuo orizzonte ma
decisa, scende dalla sua strada
in una sua radura…
Ogni mattina,
chiude piano le porte.
ESISTE LA DELIZIOSA
Esiste la deliziosa,
prossimità, non il perfetto amore.
E intanto
lunghi tragitti tratti
erosi da pianto, polvere
di sentieri assembrati angoli della mente
che stavano per sfollare e – sostano,
campi desertici
trasferimento, letto come strada
silenzio non ancora pace.
La Casa dodici dedicato alla dodicesima casa astrale, ultima, connessa al segno dei pesci
La Casa dodici è uno spazio ospitale,
tutte le struggenti grazie piovono
e segnano
di religiose dimore i rossi sogni
struggenti di sangue piovàno
esse parlano –
da soffitti immensi o a cielo aperto:
nella casa dodici
noi si entrerà aux splendides villes.
A volte le parole non servono
a descrivere
di epiche navigazioni, a cavalcare
la casa delle sciagure perché
in fondo essa dista miglia
e se più saggi, ce ne dimentichiamo,
le sue struggenti angosce.
Ma un cavallo puntato ad
est
verso il cielo, le ausculta
è diritto e corre
un cavallo più bianco è la sua mente
e corre più veloce del baleno
fu il passato –
ma nell’oceano possiamo alfine riposare,
disposti i musi dei cavalli all’eterno
dove sono rivolti,
le teste sui cuscini o alle ginocchia
dei nostri estatici compagni.
Ed ora non vedo più l’angelo sterminatore
che accompagnò la prima volta
che seppi di abitare, anch’io
la casa dodici –
casa dalle infinite e rutilanti procelle,
dove le barche progrediscono
nel non visto e temibile eco.
Ecco,
sono giovani sirene a farsi incontro
nella magnifica casa dodici,
di procellose promesse
e addormentati sogni a loro prova,
ma Lei è viva.
Le scalinate delle rose, a esempio
sono reali,
sono di un trono che abbandonammo,
divino, per sederci in basso
da pellegrini sempre più
piccoli. E che fare allora,
ritirare le allettanti promesse.
Nella casa dodici si procede
e si nuota come pesci
nell’infinito rotante delle lune.
*
Sono un nave libica
Sono una nave libica migrante
in rotta,
la sembro e vedo mentre mi parlano
qui dentro il tram serale,
code di cavallo rinverdite da mèche
mi scuotono
davanti ai gesti che parlano nel tram;
e i tram corrono circolarmente,
su circonvallazioni eterne
di periferia.
Ero una vita in tram,
ero una donna in treno e troppe vite insanamente,
chi spezzate, chi incapaci a parlarsi,
sordomute
ero una nave libica sferzata,
ogni giorno e ogni notte a viaggiare,
rifuggendo, e poi morire;
fiato di molle rabbia ragionata,
stortura del controllo sulle vite
trattate, e poi vendute
come la mia, migrante.
Per una vita di periferico abbandono,
io, tradotta di melma e nulla,
sgranata forma del mio nulla,
e della cenere che non guarisce.
Sembro una nave già affondata,
da anni senza più pensiero senza
sue parole, senza un suo cuore fluido
nero,
incattivita senza un piano bar una musica,
un silenzio dove
nelle formate storie riprodurre
il senso suono della vita.
*
SAUDADE 2020-2022
dal latino: solitas, solitatis = solitudine,
intenso desiderio di qualcosa di ASSENTE
in quanto perduto, o non ancora raggiunto
Assetati di giustizia
Gli assetati di giustizia non sanno scrivere
i comizi dell’amore;
dove rinascono parole la terra cresce
sul limen del paesaggio,
in case già disabitate –
(da quando tu sparisti, l’eterno tutto
qui insepolto, chiuso
in un pugno della mano).
Quello che fu distrutto
non fu per distrazione, ma per incuria
per assenza di tempo,
di battito del cuore, e intorno tante piccole vite –
le più vicine erano a lei lontane.
Gli assetati di giustizia deposero le colpe,
le ossessioni, le calmarono
in un composita solvantur
e dietro, la visione-fioritura,
le fattezze dell’amore.
*
Giorni come fucilazioni
Giorni come fucilazioni,
i lunedì come bolle d’aria
e restare là apneici, per giorni interi –
senza pensieri tortorelle, senza
più luminose della fronte, stelle
in una fucilazione imprevedibile,
di serenate attese.
Invece,
la vita fu accettata (tu, accettala
perché un dono),
cosi avrai la tua parte di appestata,
inebetita di anima viva,
solamente perché così si è vivi –
Essere felice per volere di una
figlia, è possibile.
Ecco la bontà della plastica, le dissi un giorno,
mostrandole il filmato ecologico
sulla deriva galoppata di monnezza,
nelle acque interne del pianeta si parlava
di cambi climatici
e Lei là, che si truccava gli occhi,
ad essi soli riconsegnava il mondo.
Ogni fare è potente, e valoroso
come un arco:
un soldato che difende la vita,
tutto questo è una figlia.
Mi piacerebbe scrivere prose religiose
per non ferirmi più,
per il volere di un dio sopra ogni cosa
dire che io e te siamo già un cosmo,
ripensarlo, e il grazie costruire.
Ma la gente non accoglieva i suoi tesori,
e quindi li stipava insieme.
Maria Pia Quintavalla, nata a Parma, vive a Milano I suoi libri: Cantare semplice, Tam Tam‘84, Lettere giovani Campanotto ’90, Il Cantare, Campanotto‘91, Le Moradas, Empiria‘96, Estranea(canzone)Manni 2000, Corpus solum, Archivi‘900, 2002, Album feriale Archinto 2005, Selected Poems, Gradiva 2008, N.Y. China, Effige 2010, I Compianti, Effigie 2013/ ‘15, Vitae, La Vita felice 2017, Quinta vez, Stampa2009, 2018, Estranea (canzone), ristampata e riveduta, Puntoacapo 2022. Cura dal 1985 la rassegna, Donne in poesia/Incontri con le poetesse italiane, e le sue antologie e sue rubriche, da Le Silenziosea a La giovinezza del canone. Ha curato Bambini in rima / La poesia nella scuola dell’obbligo, Atti su Alfabeta 1988, Coppie del ‘900 in poesia / Un canone italiano, Palatina 2018, Parma. Tra i premi: Cittadella, Alghero Donna, Nosside, Città S.Vito, Contini, Alda Merini, Pontedilegno, Città di Como, Europa in versi. In cinquina al Viareggio.Premio alla carriera a Cerreto d’Esi, Paesaggio interiore, 2023. Ultime antologie: Braci a cura di Arnaldo Colasanti, Bompiani 2020, La Poesia italiana degli anni ottanta, IV volume a cura di Sabrina Stroppa, UniTo, ed.Pensa. Tradotta: Certa, Une autre poésie italienne, Tubinga Università, Europa in versi etc).Compare nell’Atlante voci poesia, curato da Giovanna Iorio, e sue installazioni,(Londra,Praga, Italia). Redattrice Menabò, in Giuria Premio Terre d’ulivi. Collabora a Metaphorica. Conduce labs lingua italiana a Lettere, UniMi.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
4)Prof.Elio Guzzanti già Ministro della Sanità
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage:4)Prof.Elio Guzzanti già Ministro della Sanità – Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni-Murales Ospedale Spallanzani di Roma- Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; e ancora vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Prof. Elio Guzzanti (1920-2014)-Fonte –Il Sole24Ore
Il 2 maggio 2014 è deceduto a Roma all’età di 93 anni il Prof. Elio Guzzanti, già Ministro della Sanità. Il Prof. Guzzanti è stato tra i primi in Italia ad occuparsi ad alto livello di programmazione, organizzazione e gestione dei servizi ospedalieri e sanitari.
Ha trasferito la sua straordinaria esperienza prima clinica e poi organizzativa maturata, anche come sovrintendente sanitario dal 1976 al 1980 del Pio Istituto di Santo Spirito Ospedali Riuniti di Roma, nell’attività scientifica e poi nella legislazione sanitaria e nella pratica amministrativa.
Nel corso della sua lunga e brillante carriera è stato Direttore Sanitario degli Ospedali San Camillo, Santo Spirito ed Umberto I di Roma, componente del Consiglio Superiore di Sanità, Direttore dell’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali e Commissario ad acta per la Sanità del Lazio.
Modelli organizzativi sanitari attualmente di uso comune come i dipartimenti, i ricoveri in day-hospital e day-surgery, la preospedalizzazione e le dimissioni protette debbono essere fatti risalire in gran parte all’attività prima teorico-scientifica e poi di “letteratura grigia” con la quale il Prof. Guzzanti ha contribuito alla stesura di leggi sanitarie promulgate da vari governi.
Quando egli stesso fu chiamato alla responsabilità di Ministro della Sanità nel governo Dini dal 1995 al 1996 produsse una serie di atti di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la realizzazione dei modelli organizzativi di cui abbiamo parlato. Il suo ministero si è caratterizzato in particolare per l’introduzione in Italia del sistema DRG che non è soltanto un metodo di remunerazione per prestazione, ma anche un sistema di valutazione comparata di qualità e quantità delle prestazioni ospedaliere stesse.
Credo però che sia un dovere ricordarlo anche sul nostro Giornale Italiano di Cardiologia per i suoi contributi alla crescita nel nostro Paese dei settori della Cardiologia, Cardiologia Pediatrica e Cardiochirurgia. Fin dai primi anni ’80 infatti, prima con la presidenza del Prof. Stefanini, poi con quella del Prof. Donato, il Prof. Guzzanti è stato vice-presidente della Commissione Nazionale del Ministero della Sanità per la Cardiologia e Cardiochirurgia. Tale Commissione ha introdotto per la prima volta in Italia gli standard internazionali di attività e gestione per questi settori.
Sulla base di questa esperienza e in qualità di Sovrintendente Sanitario e Direttore Scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma il Prof. Guzzanti realizzò nel 1982 il primo Dipartimento Medico-Chirurgico di Cardiologia Pediatrica che vedeva l’attività integrata di cardiologi, cardiochirurghi e intensivisti formalizzata in procedure che prevedevano responsabilità specifiche. Questo Dipartimento Medico-Chirurgico, che è stato nei primi anni diretto dal Prof. Guzzanti stesso, ha rappresentato in Italia un modello organizzativo sia per le specialità cardiologiche che per quelle neurologiche e gastroenterologiche.
Il Prof. Guzzanti è stato un maestro per molte generazioni di direttori sanitari e manager della sanità. Il suo tratto umano, la sua ironia e la sua profonda cultura per tutti gli aspetti della medicina come scienza, ma principalmente come applicazione pratica, ne facevano una guida per chiunque entrava in contatto con lui. Tutti gli operatori sanitari e in particolare quelli del settore della Cardiologia e Cardiochirurgia del nostro Paese avranno sempre un debito di riconoscenza per il Prof. Elio Guzzanti.
Fonte –Giornale italiano di Cardiologia-Articolo di Bruno Marino-
Bruno Marino
U.O.C. Cardiologia Pediatrica
Dipartimento Attività Integrata di Pediatria
Sapienza Università di Roma
Elio Guzzanti, un padre putativo e un maestro- Fonte –Il Sole24Ore
di Giuseppe Ippolito (National Institute forInfectious Diseases Lazzaro Spallanzani)
È morto Elio Guzzanti, per me un padre, e per la sanità italiana, oltre che per le malattie infettive, un grande stratega. Avevo avuto la fortuna di incontrarlo all’inizio degli anni ’80 quando mi suggerirono di rivolgermi a Lui per avere suggerimenti per uno studio di incidenza sulle infezioni ospedaliere nei reparti di terapia intensiva. Lo studio l’avevo scritto come prova di ammissione a un corso negli Stati Uniti e volevo sapere se fosse realizzabile in Italia. Volevo presentarlo al Programma del Cnr sulle malattie da infezione, all’epoca diretto da Ferdinando Dianzani. Elio Guzzanti mi diede appuntamento una domenica mattina nel suo studio, mi ascoltò, s’informò sui miei programmi, cercò di sondare se ero conscio della difficoltà dell’avventura. Mi diede suggerimenti preziosi e si attivò per farmi incontrare le persone del mondo della rianimazione che potevano consentirmi di realizzare lo studio.
Da quel momento è diventato per me un punto di riferimento. Solo pochi giorni fa mi chiese di trovargli la Sua famosa circolare su Ebola del 1996, con la quale aveva definito la strategia nazionale contro le febbri emorragiche. Ero in partenza e avevo lasciato la copia della circolare al portiere, perdendo così l’occasione di salutarlo per l’ultima volta. Avevamo continuato a discutere del permanere della validità dei contenuti e di come una costante attenzione verso le malattie infettive sia la migliore linea di risposta per affrontare l’inatteso.
Era stato così che si era confrontato, nella seconda metà degli anni ’80, nella realizzazione del grande piano contro le malattie infettive alla comparsa dell’Aids. Erano anni terribili: l’incredulità e il preconcetto dominavano; i pazienti non avevano alcuna speranza; il personale sanitario era impaurito.
Con una grande attenzione e con un metodo stringente aveva iniziato a studiare il fenomeno con rigore scientifico e curiosità organizzativa, a valutare i bisogni assistenziali, a dare attenzione ai sentimenti e alle paure, a cercare un dialogo con le associazioni dei pazienti e le organizzazioni sindacali, gli scienziati puri, a visitare gli ospedali e le carceri. Sono fiero di averlo aiutato in questo lavoro, ho visto come gestiva il rapporto con i politici con sereno distacco, come affrontava persone e situazioni “difficili”. Non si arrendeva mai, era pronto al confronto, ma senza perdere mai di vista il proprio obiettivo.
Quando lo conobbi aveva già molte esperienze positive e difficili alle spalle, era il riferimento della programmazione sanitaria nazionale, della costruzione e della gestione degli ospedali. Per Lui non faceva differenza se era Pronto Soccorso, Cardiochirurgia, Rianimazione o Malattie infettive. Lui applicava un metodo che partiva da una conoscenza degli ospedali dall’interno, delle persone che ci lavorano e di quelli che ci vanno per farsi curare. Amava dire che gli ospedali erano fatti di tecnologie e di contatto umano, di insegnamento continuo, di cambiamento giorno per giorno.
Quando mi scelse come collaboratore per l’avventura del piano Aidsiniziammo una stretta frequentazione, soprattutto domenicale. Nel corso di tali incontri commentava i materiali prodotti, scrivendo a mano appunti con penne di più colori. Aveva letto sempre un lavoro nuovo, un nuovo modello di valutazione, dei dati di prevalenza. Di aggiustamento in aggiustamento, il piano prendeva corpo per coprire non solo la costruzione degli ospedali, ma anche la prevenzione, la ricerca, l’introduzione dell’innovazione.
Questo permise all’Italia di avere un piano organico, strutturale e finanziato, prima che la stessa Organizzazione mondiale della sanità redigesse il documento per la preparazione dei piani nazionali.
Che dire poi delle sue capacità di gestire il confronto nelle commissioni e nelle audizioni, alle quali arrivava preparato nei minimi dettagli, con un piano generale e un’exit strategy, senza mai perdere la calma, senza mai una parola di troppo. Anche quando si trovava a frenare posizioni intemperanti, incluse le mie, lo faceva con estremo garbo, cercando sempre di costruire, anche nelle difficoltà, nei dissidi, nelle posizioni contrastanti. Amava investire sui giovani e sul fatto che da tutti si poteva apprendere, ma prima di tutto dalla frequentazione delle biblioteche. Teneva rigidamente distinto il professionale dal personale e limitava al massimo gli eventi sociali e conviviali.
Ma era ed è stato fino all’ultimo sempre disponibile a letture critiche di documenti e a fornire suggerimenti o a scrivere piani. È questa la fase in cui le attività di Guzzanti si legano al destino dello Spallanzani, che lui vedeva come punto centrale dell’intero piano. Conosceva in dettaglio lo Spallanzani come Ospedale e la sua esperienza pregressa di medico impegnato sulle malattie infettive faceva il resto. Eravamo in un momento in cui sembrava che solo il nord Italia avesse ospedali, conoscenze e competenze uniche per affrontare l’epidemia. Non era vero. Già da circa 10 anni lavorava al progetto per la costruzione del nuovo Spallanzani e l’Aids gli dava la possibilità di portarlo a termine, grazie anche al senso di appartenenza e al desiderio di riscatto degli operatori tutti dell’Ospedale che con lui, e grazie a lui, vedevano la realizzazione di un miraggio.
Fu così che mentre era ministro, a metà degli anni ’90, a un consiglio dei ministri europei, si impegnò affinché ogni Paese europeo identificasse una istituzione nazionale per le malattie infettive e avviò la realizzazione presso l’Istituto del laboratorio Bsl4 e la trasformazione in Irccs.
Da allora ha sempre seguito con la massima attenzione le vicende dell’Istituto con un affetto da padre nobile che gioiva in maniera sincera e assolutamente disinteressata degli sviluppo dell’Istituto. Fino alla fine è stato lucido e lungimirante, ottimista anche quando sembrava che non ci fossero speranze. Con la sua morte l’Italia perde un grande uomo, io un padre putativo e lo Spallanzani un grande supporter.
Sento di poter dire che tutti quelli dello Spallanzani che lo hanno conosciuto, e anche quelli che ne hanno solo sentito parlare, condividano il profondo dolore per la perdita di un grande uomo e per me un grande maestro.
Specialist in respiratory diseases and in hygiene, he was director of the hospitals Santo Spirito, San Camillo and Policlinico Umberto I in Rome. From 1976 to 1984 and from 1991 to 1993 he was a member of the Italian Superior Council of Health. From 1985 to 1994 he was health director of the Bambino Gesù Children’s Hospital and from 1996 to 1998 he was director of the Agency for Regional Health Services.
Author of numerous publications on health organization, from 17 January 1995 to 17 May 1996 he was Minister of Health with the Dini Cabinet.
He was president of the scientific committee of the Cesare Serono Foundation. On 28 October 2009, following the resignation of the President of the Lazio Region, Piero Marrazzo, he was appointed by the Berlusconi Cabinet as Commissioner for Health in the same Region.
He was scientific director of the Institute for Scientific Hospitalisation and Care IRCCS Oasi di Troina (Enna).
È stato presidente del comitato scientifico della Fondazione Cesare Serono. Il 28 ottobre 2009, in seguito alle dimissioni del presidente della Regione LazioPiero Marrazzo, è stato nominato dal Governo Berlusconi commissario ad acta per la Sanità nella stessa Regione[1].
È stato direttore scientifico dell’Istituto di ricovero e Cura a Carattere Scientifico IRCCS Oasi di Troina (Enna).
Morte
È morto il 2 maggio 2014 all’età di 93 anni al Policlinico Gemelli di Roma, dove era ricoverato da qualche giorno[3].
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
1)Carlo Urbani -Medico italiano, fu il primo a identificare e classificare la SARS-
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage: Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; e ancora vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Carlo Urbani nasce a Castelplanio, in provincia di Ancona, il 19 Ottobre 1956. -Medico italiano, fu il primo a identificare e classificare la SARS.
Laureato in medicina all’Università di Ancona, si specializza in malattie infettive e tropicali a Messina. Attivo fin dalla gioventù in operazioni di tipo umanitario, alla fine degli anni ’80, quando era medico di base a Castelplanio, inizia a organizzare insieme ai colleghi viaggi in Africa, in luoghi in cui le popolazioni locali morivano per malattie curabilissime, come diarrea o crisi respiratorie. “Un numero impressionante di bambini muore per disidratazione da diarrea e per salvarli basterebbe qualche bustina di reintegratori da pochi centesimi di euro” – scrive diverse volte, tormentato da un paradosso di cui non si capacita.
Nel 1993 diventa consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo delle malattie parassitarie, e con tale incarico si reca numerose volte nel continente africano. Negli anni seguenti, con l’ingresso in Medici Senza Frontiere, opera in Cambogia al termine del regime dei Khmer Rossi per controllare le malattie endemiche tra la popolazione locale. In Cambogia Urbani resta per un anno, e trova sulla sua via – a partire dalle rive del Mekong – un Paese da ricostruire. Pesano le ferite del genocidio, le mine antiuomo che continuano a mutilare giovani e adulti, le ferite degli animi, il dramma dell’Aids. Con il genocidio, due milioni di persone su meno di 7 milioni di popolazione sono state trucidate dai seguaci di Pol Pot. “Sembra un immenso sacrario – annota Urbani – per me e la mia famiglia è stato come conoscere i sopravvissuti di Auschwitz”.
Nel 1999 Carlo diventa presidente di Msf Italia, con cui conduce una vera e propria battaglia per la diffusione dei medicinali essenziali a tutta la popolazione mondiale. Come riporta lo stesso Urbani in un’intervista ad Avvenire nel 2000, “Il 90% del denaro investito in ricerca sui farmaci è per malattie che riguardano il 10% della popolazione del pianeta. Solo lo 0,3% della ricerca è indirizzata verso le cinque principali cause di morte nel mondo”. Basti pensare alla Tbc: “ai giorni nostri la Tbc miete una vittima ogni 10 secondi. È la seconda causa di morte per malattie infettive negli adulti: uccide ogni anno 3 milioni di persone, l’80% delle quali ha un’età compresa tra i 15 e i 49 anni”. Il 95% di loro vive in Paesi a basso reddito, ma “solo 400mila sono potenziali clienti paganti: troppo pochi, dicono le industrie”. Ecco per Urbani la missione del medico-umanitario, impegnato non solo nella cura dei malati ma anche in contesti di povertà, genocidi e guerre civili: curare ma nel frattempo denunciare, testimoniare, far sapere.
Con questo impegno Urbani si reca a Oslo nel 1999, come parte della delegazione che riceverà il Premio Nobel per la pace a nome di Msf.
Nel luglio del 2000 arriva la svolta professionale della vita di Urbani: l’assunzione all’Oms come coordinatore delle politiche sanitarie contro le malattie parassitarie nel Sud-Est asiatico. Si tratta di una scelta radicale – per cui rinuncia anche il ruolo di primario del reparto di Malattie infettive all’ospedale di Macerata -, che porta Carlo e la sua famiglia a trasferirsi in Vietnam.
Nel febbraio 2003 l’ospedale francese di Hanoi contatta l’Oms per il caso di un paziente – mister Chen – che nessuno sa curare e che sta infettando il personale medico. Come accade quando qualcosa di preoccupante arriva ad Hanoi, lo staff dell’Oms decide di “chiamare Carlo”. Urbani quindi decide di recarsi di persona al capezzale di mister Chen, uomo d’affari americano proveniente da Hong Kong, senza inviare preventivamente i “suoi” medici. È il solo, nelle corsie dell’ospedale di Hanoi, ad accorgersi di essere di fronte a una nuova malattia: lancia così l’allarme al governo e all’Oms, riuscendo a convincerli ad adottare misure di quarantena. Non è facile per Urbani riuscire nel suo intento: la necessità di isolare immediatamente i pazienti e di monitorare tutti i viaggiatori va a scontrarsi contro gli interessi economici e di immagine del Paese. Alla fine, tuttavia, il prestigio e la credibilità che Urbani ha acquisito negli anni riescono a persuadere le autorità, che decidono di affidarsi alle sue prescrizioni e di iniziare le procedure di isolamento.
Pochi giorni dopo, mentre è in volo verso la Thailandia, Carlo avverte i primi disturbi: febbre, tosse, debolezza. Con una tragica autodiagnosi, teme di aver contratto il virus e una volta atterrato chiede di essere immediatamente ricoverato e posto in quarantena. Muore dopo due settimane, il 29 marzo 2003, raccomandando che il suo tessuto polmonare venisse utilizzato per la ricerca. Un mese dopo, il 28 aprile, il Vietnam annuncia di aver sconfitto la Sars, con un bilancio di 63 contagi e 5 morti – a differenza di altri Paesi, in cui il virus si è diffuso in modo più capillare.
Gli ufficiali medici dell’Oms riconoscono che, se non fosse stato per il tempestivo intervento di Urbani, la Sars avrebbe infettato più lontano e più velocemente. Non sapremo mai quante vite ha salvato con la sua.
Il metodo anti-pandemie da lui realizzato rappresenta, ancora oggi, un modello internazionale.
Dopo la sua morte, l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan lo ha voluto ricordare con queste parole: Il dottor Carlo Urbani ha dedicato la sua vita a proteggere e salvare la vita degli altri. È stato determinante nel garantire un’imminente reazione da parte della comunità internazionale alla Sindrome Respiratoria Acuta Severa, e questo era caratteristico della sua natura di professionista competente e sempre vigile. Se non avesse intuito che l’insorgere di quel virus era qualcosa di fuori dall’ordinario, molte più persone sarebbero cadute vittima della Sars. È la più crudele delle ironie che egli abbia perso la sua stessa vita ucciso dalla Sars, mentre cercava di preservare il prossimo dalla malattia. Il dottor Urbani lascia un esempio illuminante nella famiglia delle Nazioni Unite e nella comunità sanitaria di tutto il mondo. Per il suo contributo in prima linea nella lotta contro il virus lo ricorderemo come un eroe, nel senso più elevato e più vero del termine.
Biografia
Carlo Urbani nasce a Castelplanio, in provincia di Ancona, il 19 Ottobre 1956.
Già da giovane si dedica ai più bisognosi ed è una presenza costante nell’ambito parrocchiale: collabora a raccogliere le medicine per Mani Tese, promuove un Gruppo di solidarietà che organizza vacanze per i disabili, entra a fare parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale; suona inoltre l’organo e anima i canti. Il suo grande amore non è solo per il prossimo, ma anche per la bellezza, per la musica e per l’arte.
Il desiderio di prendersi cura delle persone sofferenti lo porta a scegliere gli studi di Medicina e la specializzazione in malattie infettive. Dopo la laurea, lavora in un primo tempo come medico di base, poi diviene aiuto nel reparto di malattie infettive dell’Ospedale di Macerata, dove rimane dieci anni. Nel frattempo sposa Giuliana Chiorrini. Insieme avranno tre figli: Tommaso, Luca e Maddalena. Sono gli anni in cui Carlo comincia a sentire più forte il richiamo ad assistere i malati dimenticati, trascurati dai paesi opulenti, dai giochi di potere, dagli interessi delle case farmaceutiche. Con altri medici organizza, dal 1988-89, dei viaggi in Africa centrale, per portare aiuto ai villaggi meno raggiungibili. Ancora una volta la sua comunità parrocchiale lo accompagna e lo sostiene con un ponte di aiuti alla Mauritania.
La conoscenza diretta della realtà africana gli rivela con chiarezza che le cause di morte delle popolazioni del Terzo Mondo sono troppo spesso malattie curabili – diarrea, crisi respiratorie – per le quali mancano i farmaci che nessuno ha interesse a fare giungere a un mercato così povero. Questa realtà lo coinvolge al punto che decide di lasciare l’ospedale, quando ormai ha la possibilità di diventare primario.
Nel 1996 entra a fare parte dell’organizzazione Médecins Sans Frontières e parte insieme alla sua famiglia per la Cambogia, dove si impegna in un progetto per il controllo della schistosomiasi, una malattia parassitaria intestinale. Anche qui rileva le forti ragioni sociali ed economiche del diffondersi delle malattie e della mancanza di cure: si muore di diarrea e di Aids, ma i farmaci per curare la infezione e le complicanze sono introvabili.
Nella sua veste di consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per le malattie parassitarie ha l’opportunità di ribadire ulteriormente che la causa primaria del diffondersi delle malattie è la povertà. Come Medico Senza Frontiere, l’interesse primario di Carlo è nella cura dei malati, tuttavia non può tacere sulle cause che provocano quelle sofferenze.
Nel gennaio del 2000 Carlo Urbani dichiarò al quotidiano Avvenire: “Io mi occupo come consulente dell’OMS delle malattie parassitarie. In tutti i consessi internazionali si ripete che la causa è solo una: la povertà. In Africa ci sono arrivato fresco di studi. E sono stato ‘deluso’ dallo scoprire che la gente non moriva di malattie stranissime: moriva di diarrea, di crisi respiratorie. La diarrea è ancora una delle cinque principali cause di morte al mondo. E non si cura con farmaci introvabili. Una delle ultime sfide che Msf ha accolto è la partecipazione alla campagna globale per l’accesso ai farmaci essenziali. Ed è lì che abbiamo destinato i fondi del Nobel.”.
Nell’aprile del 1999 viene eletto presidente di Msf Italia. In questa veste partecipa alla delegazione che ritira il premio Nobel per la pace assegnato all’ organizzazione.
Dopo la Cambogia, il suo impegno lo porta nel Laos, e quindi in Vietnam. Nelle ultime settimane di vita si dedica con coraggio alla cura e alle ricerche sulla Sars, la terribile malattia respiratoria che minaccia il mondo intero. E’ perfettamente conscio dei rischi che corre, tuttavia, parlandone con la moglie, osserva: “Non dobbiamo essere egoisti, io devo pensare agli altri”. All’inizio di marzo si reca a Bangkok per un convegno, nulla lascia intuire che abbia contratto il contagio. Dopo l’arrivo i sintomi si manifestano con forza e Carlo, tra i primi a occuparsi della malattia, capisce benissimo la propria situazione. Ricoverato in ospedale a Bangkok avverte la moglie di far tornare in Italia i figli, che vengono subito fatti partire. L’amore per il prossimo che lo ha accompagnato tutta la vita, lo fa rinunciare anche all’ultimo abbraccio per evitare ogni possibilità di contagio. La moglie gli resta vicina, ma nessun incontro diretto è più possibile. Dopo avere ricevuto i sacramenti, Carlo Urbani muore il 29 marzo 2003.
Le testimonianze che seguono sono inedite e ringraziamo quanti ce le hanno donato, perché contribuiscono ad una conoscenza più completa della figura di Carlo Urbani, della sua personalità così ricca, poliedrica eppur nel fondo tanto semplice e lineare, fondata sulla “passione” per la solidarietà concreta verso quanti soffrono, il più delle volte perché vittime di situazioni di violenza ed emarginazione.
La fede ha trasmesso in profondità nel suo animo un grande rispetto per ogni persona umana, a difesa della quale Urbani ha consacrato la sua intera esistenza, sia che si trattasse di un malato incontrato nelle corsie di un ospedale delle sue Marche, sia di un bambino o un anziano sofferente in Mauritania o Cambogia o Vietnam…
Una autentica, evangelica “passione“, per essere “accanto ai fratelli”, che Carlo voleva trasmettere a quanti, colleghi medici e operatori sociali, amici, studenti, mostravano di essere sensibili alle sue parole e al suo esempio.
Tutta la sua vita appare allora un “appello”… e tanti segni mostrano come molti – e in misura crescente – stanno rispondendo generosamente, perché più si diffonde la conoscenza della vita di Carlo Urbani, più sorge spontaneo l’apprezzamento e la volontà di impegnarsi a continuare la sua opera.
Testimonianza di Carlo Urbani
La disponibilità verso gli altri, il non tirarsi indietro di fronte alle difficoltà (anche a costo della propria vita), il rispetto delle diversità, sono gli aspetti che per me rendono più “vivo” il ricordo di mio marito.
La sua convinzione era che fare qualcosa per gli altri non è poi così difficile, basta credere che tutti gli uomini sono uguali ed hanno lo stesso diritto di aspirare alla propria felicità, e su questo ha basato le sue scelte di vita.
Scelte portate avanti fin da giovane, quando partecipava con entusiasmo ai campi di lavoro organizzati da Mani Tese, quando era l’animatore degli adolescenti del paese, per i quali organizzava incontri e campeggi, quando insieme ad altri coetanei progettava ed animava vacanze per portatori di handicap, basate sull’allegria e la voglia di stare insieme.
Scelte proseguite poi anche nell’ambito della sua professione, che in seguito ci hanno portato ai radicali cambiamenti di luoghi (Italia, Cambogia, Vietnam) ed abitudini di vita.
Il suo entusiasmo è stato per un certo senso “travolgente”: nei suoi primi viaggi all’estero è riuscito a coinvolgere le persone più “diverse” (con l’obiettivo del gusto per le scoperte ed il rendersi utile agli altri), fino poi ad arrivare a vivere con noi all’estero, scelta che per lui era “testimonianza di barriere abbattute”.
“Nella vita sono sempre più sorgente”, scriveva ad una sua amica suora (1) un anno fa, “la superficialità mi è divenuta intollerabile, l’indifferenza, mi fa quasi diventare violento. Si dice in genere che non esiste mai una situazione con il bianco e il nero ben distintiti, ma che si può trovare della ragione e del torto ovunque. Io invece, per una dolorosa passione e romanticismo, continuo a credere che si possa dire “questo è sbagliato o questo fa schifo” senza titubare. Occorre saper distinguere dove il BENE sta, e dove il MALE si annida. Essere disponibile è un sogno non poi tanto difficile da realizzare (basta volerlo), “tendere una mano” è un modo per avvicinarsi alle diversità e trarne ricchezza”.
Scriveva dalla Cambogia quando era membro di “Medici senza frontiere”: “Noi volontari siamo osservatori privilegiati che possono vedere l’orrore di fatti ed eventi che fanno della dignità umana un sanguinante e misero fardello. E poi raccontare, urlare, le privazioni dei diseredati, la lontananza degli esclusi, indicare in abusi e violenze i veri fenomeni contro cui è davvero difficile costruire argini e rifugi…“
Testimonianza di Elvia Carloni, già caposala del reparto malattie infettive presso l’Ospedale civile Umberto I di Ancona (2) .
Carlo Urbani era un uomo che non agiva d’impulso, in tutte le scelte era cosciente. In ospedale ad Ancona, quando era lo specializzando (3), faceva tante guardie mediche. I turni di servizio per gli specializzandi erano di tre o quattro ore a settimana, invece lui si fermava tutti i giorni, gratuitamente, per essere vicino agli ammalati. Quando lo si chiamava per qualche caso particolare, lui arrivava con il sorriso sulle labbra e diceva: “E allora?” Parlava con l’ammalato, lo tranquillizzava, lo incoraggiava, poi faceva la visita e dava la terapia.
Anche quando veniva chiamato di notte arrivava sempre con il sorriso sulle labbra e con il suo modo di fare gentile. Era di una disponibilità senza pari, cortese. Non era un tipo espansivo, ma dolce e comprensivo. Sempre disponibile nell’aiuto a tutti: ammalati, colleghi e personale sanitario.
Aveva due occhini grandi, bellissimi ed un sorriso che incoraggiava. Verso i colleghi era molto corretto e cortese, taceva se vedeva qualcosa di storto, ma poi prendeva provvedimenti, in modo discreto. Amava gli ammalati ed era profondamente toccato dagli ammalati terminali, gli facevano pena e per loro si adoperava in ogni modo.
Carlo ha fatto il liceo a Jesi, un giorno sapendo che io venivo da Filottrano , mi domandò se conoscessi una sua compagna di scuola del liceo. Gli dissi che era una mia nipote e che in quel periodo era molto sofferente a causa di una grave patologia della tiroide. Gli chiesi consiglio e lui mi disse che era cosa preoccupante, in quanto la malattia se non curata, poteva degenerare in tumore alla tiroide. E mi consigliò di convincerla a curarsi, di starle vicina. Si propose anche di farla venire in Ancona, ma lui non voleva assolutamente comparire per non far sentire a disagio la paziente. Allora si offerse di dare alla famiglia il nome di un bravo specialista di Roma e, volendo, di contattarlo lui direttamente. Finalmente la ragazza ha accettato di fare i controlli a Roma, si è curata, è guarita, si è sposata ed ha due bellissimi figli.
Essendo presidente regionale degli Infermieri Cattolici, il giorno dell’Immacolata, in occasione del tesseramento, invitai anche il dott. Urbani, che venne alla messa con due amici uno dei quali convinto comunista.
Il dott. Urbani conosceva la vita di San Giuseppe Moscati, il medico santo di Napoli, perché un giorno io stessa portai in reparto il libro di Papasogli, “Giuseppe Moscati, vita di un medico santo”. Il libro fu letto da entrambi e alla fine il dott. Urbani commentò: “E’ stato un bravo medico!” Molto probabilmente questa lettura suscitò in lui l’intenzione di seguirne la scia.
Il dott. Urbani non era un uomo di grandi energie fisiche, non era molto resistente, era magrolino, delicato, ma è riuscito a compiere grandi opere, per mezzo della grazia di stato, ossia di quei doni che il Signore ci dà a seconda della professione e in generale dello stato in cui ci troviamo, così come per esempio dà alle mamme che hanno figli piccoli la capacità di dormire poche ore a notte.
Questa testimonianza che rilascio non è tanto ad onore del dott. Urbani, che essendo molto umile non avrebbe apprezzato che si fosse parlato di lui, ma a ricordo dei figli, in particolare dei più piccoli. Il grande ha vissuto le esperienze che ha fatto insieme al padre e le ha vissute coscientemente da ragazzino maturo, i piccoli le hanno vissute come immagini sfuggenti senza poterne avere coscienza.
Mi chiamo Therese Nijem e sono nata a Nazareth, sono una consacrata appartenente all’Istituto Mater Misericordiae di Macerata (suore laiche). Sono affetta dalla sindrome di immunodeficienza congenita, un male terribile che mi ha costretto a lunghi ricoveri ospedalieri.
L’ultima volta accadde nel 1999, trascorsi ben nove mesi presso l’ospedale di Macerata, di cui tre o quattro presso il reparto di malattie infettive. Qui ebbi modo di conoscere il dottor Carlo Urbani. Un uomo che faceva seriamente il suo dovere, ma di poche parole. Con me, invece, che ero di natura timida, il dottore amava trattenersi a parlare e a volte confidarmi qualche piccolo segreto, con molta sorpresa degli altri ammalati.
Di quel periodo non riesco ad avere ricordi nitidi e dettagliati, ma ho molti flash. La malattia era gravemente degenerata tanto da portarmi al coma, dal quale non so come sono uscita. Soffrii molto in quei mesi, ma ebbi la fortuna di avere accanto a me la presenza dolce e consolante del Dott. Urbani. Un giorno, mentre ero preda a terribili sofferenze, arrivò il Dott. Urbani, al quale confidai che dovevo affrontare bene la sofferenza per offrirla al Signore. Il dottor Urbani mi disse: “Non solo voi ammalati, ma anche noi medici dobbiamo offrire con voi la sofferenza!“
Colpita da febbre con brividi, non riuscivo proprio a riscaldarmi, arrivò il Dott. Urbani che dolcemente mi sussurrò: “Non ti preoccupare se le coperte non ti scaldano, c’è Gesù dentro di te a scaldarti. Continuamente il mio fisico era sottoposto ad analisi per monitorare i valori del sangue, un giorno avevo tanta sete, mi lamentai con il Dott. Urbani per non poter soddisfare il mio bisogno di bere e lui mi disse: “Ma come? Tu che sei una consacrata non ti ricordi che pure Gesù in croce ha sofferto la sete e per dissetarlo i centurioni gli diedero l’aceto? Dunque, sopporta!” Qualche volta prima delle analisi mi chiedeva: “Therese, allora oggi non fai il tuo segno della croce? Non dici l’Ave Maria nel tuo cuore?”
Ci fu una volta in quei tragici mesi che scoraggiata gridai al dottore: “Dottore, voglio andare a casa!” E lui, con calma e con dolcezza mi disse: “Ricordati che il Signore vuole da te tante cose e che con la tua sofferenza dà l’occasione a noi medici di capire e trovare la cura per la malattia che ti ha colpito.”
Io non lavoro, non ho reddito, dunque non ho soldi a disposizione, un giorno vennero degli amici e mi regalarono 5.000 lire (l’euro ancora non era stato introdotto). Io fui felicissima perché avevo una gran sete e desideravo moltissimo un bicchiere di Coca Cola, chiesi al Dott. Urbani se la potevo bere, lui acconsentì. Diedi i soldi ad un familiare di un ammalato chiedendogli di andarmi a prendere al bar una bottiglia. Non rividi più né i soldi, né la Coca Cola! Più tardi, il Dott. Urbani mi chiese se avessi gustato la Coca Cola, raccontai con molto rammarico l’accaduto. Il giorno dopo, il Dott. Urbani arrivò accanto al mio letto, prelevò 10.000 lire dal suo portafoglio e me le diede, pregandomi di non raccontare nulla né ai medici, né agli infermieri. Io sorpresa, ma contenta, chiesi come avrei potuto sdebitarmi e lui mi disse: “Con preghiere per i miei figli!”
Conversando con lui gli raccontai della mia passione per le carte telefoniche e lui mi disse: “Quando andrò all’estero con MSF (Medici Senza Frontiere) ne porterò molte sia a te che a Rita.”
Un giorno mi sorprese a pregare e mi disse: “Noi medici lavoriamo e voi pregate, così sappiamo se facciamo bene il nostro lavoro!”
Spessissimo ero sottoposta a dolorosi prelievi per vedere la quantità di ossigeno presente nel sangue, un giorno mi opposi al prelievo, affermando: “Basta! Fa tanto male!” E lui in modo risoluto: “Therese, tu sai che c’è Gesù con te, ma l’ossigeno si vede solo con gli esami del sangue! Facciamo un patto: tu devi promettermi che obbedirai al primario come ubbidisci alla tua Superiora e da oggi in poi non rifiuterai più di fare le analisi.”
Prima di entrare in coma a causa di un ascesso al polmone, mentre stavo vomitando sangue lui mi accompagnò fino alla sala di rianimazione dicendomi: “Non ti lasceremo, rimarremo con te fino alla fine!“ Quando poi dopo molto tempo mi ripresi, ogni volta che mi vedeva mi diceva: “Mi hai fatto tribolare!” e poi spesso mi incoraggiava: “Se tu non avessi avuto la volontà di guarire dalla malattia, ora non saresti in vita, saresti già morta da tempo!”
Qualche volta quando mi veniva a visitare si fermava a fare quattro chiacchiere ed era il momento della confidenza, un giorno mi disse: “Mi piacerebbe vedere mio figlio divenire dottore come lo sono io: per amare gli ammalati, non per lavorare per i soldi!“
Quando, dopo essermi rimessa, gli comunicai che sarei ritornata in Israele per una visita, lui mi disse: “Prima di partire ti darò alcune cose nuove da portare in Israele per i bisognosi, ma ricordati Therese ciò che dice il Vangelo: ciò che fa la mano destra, la sinistra non lo deve sapere! Voi poveri e voi stranieri siete i primi nel mio cuore!
Ritornata all’ospedale per un controllo, annunciai al dottore che sarei partita per un soggiorno a Lourdes di due o tre settimane e lui, ricordando ciò che ero solita dire durante la mia dolorosa malattia, mi disse: “Io sono sicuro che tu non vai solo a pregare, ma anche per offrire la tua sofferenza!” e mi diede un’offerta per accendere un cerone aggiungendo: “Prega anche per la mia famiglia: per mia moglie ed i miei figli!”
Testimonianza di Don Mariano Piccotti, Parroco di S.Sebastiano a Castelplanio, Ancona (5) .
Conservo gelosamente una lettera che Carlo mi ha inviato dopo il primo tempo del suo trasferimento con la famiglia in Cambogia. Porta la data dell’11 febbraio 1997.
Scrive a me e a Suor Anna Maria Vissani (6) insieme, riconoscendoci suoi amici. “[…] Ho pensato di parlarvi insieme, per non far passare altro tempo, e perché tutto sommato siamo abituati a parlare insieme, ed in entrambi ho sempre trovato allo stesso tempo la calda attenzione dell’amico e la dolce acutezza dell’assistente spirituale.”
Per un parroco è questo un bel riconoscimento. Ma ancora più bello è il fatto riconosciuto in quest’altro passaggio: “Cosa sto facendo qui della mia Fede? Beh, qualche volta, magari incollati ad un ventilatore per il caldo torrido che c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera, ed ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione francese. La messa è molto piacevole, semplice, sentita, ed è bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo sempre come un concetto astratto, in realtà esiste in carne ed ossa, ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo.” La chiesa è cattolica! Questo significa che in ogni parte del mondo ti puoi trovare a casa. E questo per Carlo era una esperienza centrale.
Ancora più interessante è l’altro passaggio sulla fede. Dice: “Ma poi soprattutto nella Fede cerco in questo tempo la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell’uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei miei colleghi provenienti dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, la profonda povertà delle bidonvilles, le assurde lotte fratricide, e le carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali del mondo… tutto questo scoraggia un po’, e a volte vedere qualcosa di buono nell’altro, in chi ti è “prossimo”, diventa veramente difficile ed invita a chiudersi in se stessi. Ma i piccoli lumi che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma dolorante lasciano sperare, ed il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per morire poi su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte”.
Qui c’è tutto Carlo: nella fatica di cercare e nella speranza di trovare; nella tragica situazione che scoraggia e nella speranza dei piccoli lumi di quanti si prodigano. Ed è bellissima quella chiara allusione al Cristo Crocifisso. E’ la discrezione del credente, che preferisce esprimere con la vita quanto un predicatore direbbe con parole.
La lettera si conclude con il Natale, quello vero fatto di persone che vivono la situazione della Santa Famiglia. “Vi so vicini, ed a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta in un remoto villaggio, lontano, da tutto e da tutti, il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla… non credo che in altre scene avreste potuto vedere meglio rappresentato il mistero della natività di questa che ho visto a Sdau, piccolo villaggio su nel nord, due settimane fa.”
Ecco il Carlo che io porto in mente e sento vivo nel cuore. Di altri aspetti, della sua collaborazione con la Parrocchia e la diocesi, nel campo della promozione sociale e liturgica ed educativa, parlano benissimo i libri. La memoria di lui ci sproni a convertirci, a cambiare stile di vita, perché ormai la nostra famiglia è il mondo.
Note
1. Suor Anna Maria Vissani. Lettera del 2003. 2. Testimonianza rilasciata ad Elisabetta Nardi e a Luciana Vissani, il 29 giugno 2004. 3. Carlo Urbani stava allora specializzandosi in malattie infettive e tropicali. 4. Therese Nijem, suora laica appartenente all’istituto Mater Misericordiae. Testimonianza raccolta il 4 luglio 2004. 5. Intervista del 1° luglio 2004. 6. Vedi nota n.1.
-Giovanni COMISSO romanzo Storia di un patrimonio Editore Treves Milano 1933-
Articolo di Giansiro Ferrara scritto per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Giovanni Comisso nasce a Treviso il 3 ottobre 1895, figlio secondogenito di Antonio e Claudia Salsa. Il padre è uno stimato commerciante di prodotti agricoli. La madre appartiene alla buona borghesia cittadina. È sorella di due personaggi molto noti in città: l’avvocato Giovanni e il generale Tommaso Salsa, eroe della guerra di Libia, che morirà a Treviso il 21 luglio 1913.
-Biografia di Giovanni Comisso-
Autori: Luigi Urettini e Nicola De Cilia-
Associazione Amici di Giovanni Comisso
Giovanni Comisso nasce a Treviso il 3 ottobre 1895, figlio secondogenito di Antonio e Claudia Salsa. Il padre è uno stimato commerciante di prodotti agricoli. La madre appartiene alla buona borghesia cittadina. È sorella di due personaggi molto noti in città: l’avvocato Giovanni e il generale Tommaso Salsa, eroe della guerra di Libia, che morirà a Treviso il 21 luglio 1913.
Studente, Soldato a Caporetto e sul Grappa, Legionario a Fiume
Nel 1913 è studente al liceo classico “A. Canova”. In quell’anno Comisso conosce lo scultore Arturo Martini, di sei anni più vecchio. L’amicizia con il giovane artista proletario e bohémien è molto importante per la sua formazione. Per la prima volta ha esperienza di un mondo diverso da quello borghese nel quale era stato educato. «Egli allora mi parlava di infinito, della nostra vita umana nel limite del tempo, della necessità di arrivare alle grandi creazioni per sfidare le stelle e la nostra morte. Alle sue parole mi commuovevo fino al pianto e veramente per me egli era il Maestro, il fratello maggiore, il compagno più esperto che dissipava le grandi nebbie che ancora mi avvolgevano nella mia timida giovinezza». Nel 1914, bocciato agli esami di maturità, Comisso si arruola volontario per un anno al corso Genio telegrafisti di Firenze, con l’intenzione di riprendere gli studi al termine del servizio militare. Lo scoppio della Grande Guerra vanificherà i suoi progetti. Nel 1915, all’inizio della guerra, viene trasferito con il suo reparto prima a Cormons, poi a San Giovanni di Manzano. È impiegato come centralinista telefonico: il lavoro principale del reggimento, in quell’inizio di estate e di guerra, consiste principalmente nello stendere il filo telefonico, posandolo sui rami degli alberi lungo la strada. Nella primavera del 1916, esce a Treviso un esile libretto presso la Stamperia Zoppelli dal titolo ‘”Poesie”, curato da Arturo Martini che ha anche eseguito il ritratto di Comisso per la copertina. Secondo lo scultore, sono poesie di «spasimante sensibilità, nate sotto il segno di un’impeccabile purezza però vestite di ingenuità». I genitori di Comisso sono disorientati e imbarazzati, al punto da far ritirare l’edizione perché considerata “disdicevole” del buon nome della famiglia Nell’aprile del 1917 segue a Dolegnano prima, a Udine poi, un corso per diventare ufficiale del Genio telegrafisti. In settembre, nominato sottotenente, viene inviato nell’Alto Isonzo, presso Saga, vicino a Caporetto. In ottobre viene coinvolto nella ritirata. Riesce fortunosamente a fuggire insieme ai suoi soldati. Ripara con il suo reparto a Treviso, dove si era rifugiato il Comando di Divisione, e subito spedito sull’Asolone, zona Grappa. Nella primavera del 1918 è inviato sul Montello, e lì si troverà durante la Battaglia del Solstizio. A Paderno del Grappa, Comisso riceve il telegramma che annuncia l’armistizio, con i soldati impazziti per la gioia : «Da per tutto nella campagna si accendevano fuochi. Sull’alto dei monti, come la notizia si diffondeva, si vedevano razzi innalzarsi nel cielo e grandi fiammate come se gli artiglieri bruciassero la balestite e dalla pianura i riflettori tagliavano pazzamente la notte». Nel 1919 Comisso viene trasferito aFiume, con la compagnia del Genio telegrafisti. Nel febbraio, si iscrive alla facoltà di legge a Padova e frequenta a Roma (con poco profitto) un corso speciale per studenti ex combattenti. Conosce il poeta Arturo Onofri che aveva ammirato le sue poesie, e, suo tramite, entra negli ambienti intellettuali della capitale. Stringe amicizia con Filippo De Pisis, instaurando un sodalizio che durerà tutta la vita. «Dopo la mia amicizia con lo scultore Arturo Martini, questa era un’altra grande amicizia che veniva a deliziarmi e a legarmi alla mia passione per l’arte. Quel tempo era per me come per gli uccelli emigratori, quello che precede la grande trasvolata e in cui si cercano i compagni per vincere le difficoltà della rotta». In agosto ritorna a Fiume, presso il suo reparto, per disertare e unirsi alle truppe ribelli di d’Annunzio in settembre. Conosce Guido Keller, un aviatore, già della squadriglia di Francesco Baracca, ora “segretario d’azione” del “Comandante”: un bizzarro avventuriero, sempre alla ricerca di nuove emozioni con cui nascerà una profonda amicizia, destinata a segnare profondamente la vita di Comisso. «Lo riconoscevo superiore a me e capace di imprimermi un nuovo senso della vita. Moltissima mia infantilità e moltissima mia tendenza borghese, quasi superate colle mie esperienze di guerra, nella mia giornaliera vicinanza a quest’uomo audacissimo, si staccarono definitivamente da me». Durante l’estate del 1920, assieme a Guido Keller, naviga in barca a vela tra le isole del Quarnaro, provando emozioni che ispireranno le pagine più incantate de “Il porto dell’amore”. Assieme ad altri legionari, fonda il Movimento Yoga, anarcoide e con accenti antimodernisti, e l’omonima rivista. Sulla testata campeggia una croce uncinata (simbolo del sole) e la scritta: “Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione”. Settimanale, ne usciranno quattro numeri. Nel primo numero, si dichiara la necessità di introdurre «strane forme di vitalità in ogni movimento, in ogni ambiente, ecco il nostro programma. […] Amare i nostri vizi come le nostre virtù, come ci consiglia Nietzsche. Muoversi. Vivere. Distruggere. Creare. Come scopo. Non per un ideale, ma per esser ciò l’ideale».
Gli anni ’20 fra Chioggia e Parigi
Nel gennaio 1921, dopo il “Natale di sangue” Comisso abbandona Fiume e rientra a Treviso, incapace tuttavia di adattarsi alla vita piccolo-borghese. A febbraio si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Genova, senza alcun profitto. Frequenta il letterato Mario Maria Martini, amico di Guido Keller, contro il quale proverà una profonda antipatia. Questa esperienza gli ispira il romanzo Il delitto di Fausto Diamante (1933). A Treviso, siamo nel 1922, conosce Giulio Pacher, con cui stringerà un’amicizia – che presto diventa passione. Con lui, va a Chioggia in cerca dei marinai del Gioiello conosciuti a Fiume. Non li trova, ma passa insieme a Giulio una meravigliosa giornata. Tornerà in giugno, e verrà invitato a bordo del veliero dal capitano Gamba: iniziano i suoi viaggi “al vento dell’Adriatico”, da cui trarrà i racconti per il suo libro Gente di mare (1928). Comincia a fine anno a collaborare al quotidiano “Camicia Nera”, diretto dal suo amico, Pietro Pedrazza. Scrive articoli di letteratura, arte e politica. Nel 1923 si iscrive all’Università di Siena per portare finalmente a termine i suoi studi di giurisprudenza. Otterrà la laurea l’anno successivo 1924, con una tesi sui diritti d’autore. In estate percorre di nuovo l’alto Adriatico, le coste istriane e liburniche, le isole di Veglia, Arbe, Cherso, a bordo del bragozzo del capitano Gamba. Esce “Il porto dell’amore” (1924), in cui racconta la sua esperienza fiumana. Pubblicato da una tipografia trevigiana con i soldi ricavati dalla vendita di un impermeabile, ottiene i pareri favorevoli della critica. «Libretto carnale e febbrile, che avvampa e trascolora, è appena un libro ed è ancora una malattia. Arte legata al corso delle stagioni e alle temperie», si legge in una recensione di Eugenio Montale che lo farà conoscere nel mondo letterario. Continua la sua collaborazione con il quotidiano trevigiano che ora si chiama “L’eco del Piave”. Naviga durante l’estate con il bragozzo dei suoi amici pescatori chioggiotti tra le coste e le isole della Dalmazia, pubblicando alcuni racconti. Oramai si veste come un marinaio, lavora con loro e li aiuta nel contrabbando di vestiti e berretti. Nel 1926, grazie all’interesse suscitato da “Il porto dell’amore”, Comisso viene invitato da Enrico Somarè a lavorare a Milano, presso la Galleria d’arte “L’Esame” e l’annessa libreria. Qui ha l’occasione di conoscere gran parte degli intellettuali della metropoli lombarda, tra i quali Eugenio Montale, Giuseppe Antonio Borgese, Carlo Emilio Gadda. L’anno successivo va a Parigi, attratto dalla promessa del critico letterario fr: Valéry Larbaud di far tradurre il suo “Porto dell’amore. Il progetto non si realizza, ma rimane affascinato dalla città. Vi ritrova Filippo De Pisis, vive un tempo «di ebbri istinti». Con Filippo De Pisis frequenta i locali più ambigui, la gente più balzana. «Niente ci tratteneva, Parigi conservava ancora tutto l’aspetto caotico impresso dal dopoguerra, accentrando gente folle di ogni parte del mondo, che si sovrapponeva alla sua plebe già di per sé stravagante e miserabile. Frequentavamo le bettole più luride e vi conoscemmo un’umanità pietosamente macerata»’. Nel 1928, muore suo padre. Con i soldi dell’eredità ritorna a Parigi dove conduce vita «disordinata e frenetica», assieme a Filippo De Pisis. In ottobre, viene invitato dal quotidiano torinese “La Gazzetta del Popolo” a scrivere dei reportages sulla vita parigina. Pubblica una serie di articoli che verranno in seguito raccolti nel volume “Questa è Parigi” (1931). A fine anno esce “Gente di mare”, in cui sono raccolti i racconti ambientati a Chioggia, sul mare, sulle coste istriane e dalmate. Scrive Ugo Ojetti: «La freschezza primitiva, il silenzio del mare e delle coste deserte, gli odori e i sapori e i rari suoni che sotto l’altissimo cielo le porta il vento, la novità nella nostra letteratura di questi temi e di questi incanti: tutto mi piace e mi convince…»
I grandi viaggi in Nord Africa e in Estremo Oriente. La Casa di Campagna
E’ il 1929 quando ottiene il Premio Bagutta con “Gente di mare”. Sempre per “La Gazzetta del Popolo” compie viaggi in Nord Africa e nell’Europa del Nord. In dicembre come inviato speciale del “Corriere della Sera”, compie il Grand Tour in Estremo Oriente. Visita la Cina, il Giappone, la Siberia e la Russia, sino a Mosca. Il viaggio in Estremo Oriente dura sino a giugno del 1930. «Frequentavo loschi balli notturni e bische e postriboli e sempre col mio passo sicuro me ne uscivo a notte inoltrata senza neanche pensare di rasentare il minimo pericolo. Non credo fosse coraggio, ma un’incoscienza datami dall’accanita volontà di vedere». Nelle lettere che scrive alla madre esprime però anche la stanchezza per i lunghi viaggi e il desiderio di stabilirsi nella campagna veneta, per dedicarsi con tranquillità alla scrittura. In agosto pubblica “Giorni di Guerra”, che gli provoca qualche noia con la censura fascista. «Temperamento pieno, espansivo, disposto a godere di tutto e di tutti, comprensivo, avido e giocondo… libro di guerra così ricco, stipato di fatti visivi e trascritti, di impressioni, di sensazioni urgenti, improvvise, traboccanti», scrive Giuseppe Raimondi. In autunno, compera una casa e dei campi a Zero Branco, un paese nel trevigiano. Dopo tanto vagabondare vuole mettere radici nella campagna veneta. A Cortina ha anche conosciuto una giovane ragazza, Rachele, «la purezza e la semplicità, come se le nevi e l’aria di quel luogo si fossero trasfuse in lei», che vagheggia di sposare. Nel 1931 intensifica la sua collaborazione a “L’Italiano” di Leo Longanesi: i suoi articoli spaziano dal cinema sovietico alla “vitalità” e “sanità morale” dei contadini veneti. Esce “Questa è Parigi”. Negli anni successivi, usciranno altri libri: nel 1932 “Cina – Giappone” che raccoglie gli articoli del “Corriere della sera” e nel 1933 “Storia di un patrimonio”, romanzo ambientato a Onigo, tra i colli e il Piave. Nel 1934 ospita nella sua casa di campagna Bruno, un ragazzo figlio di pescatori chioggiotti, un’amicizia intensa e appassionata, che si concluderà non senza amarezze. Gli ispirerà il romanzo “Un inganno d’amore” (1942). L’anno successivo esce “Avventure terrene”, raccolta di racconti che in seguito confluirà nel Volume V delle opere col titolo “Il grande ozio”. Pubblica il romanzo “I due compagni”” (1936): dietro le vicende di uno dei due protagonisti, si nascondono le tragiche vicende del pittore Gino Rossi, ma nei personaggi del romanzo è possibile ravvisare i tratti di Arturo Martini, Nino Springolo e dello stesso Comisso. Nella primavera del 1937 viaggia lungo l’Italia, per più di ventimila chilometri per conto della “Gazzetta del Popolo”, in quella che definisce «una scoperta dell’Italia recondita». Viene inviato da “[èLa Gazzetta del Popolo]]” in Africa Orientale per documentare la nascita del nuovo Impero fascista. «Sono paesi disperati, scrive alla madre, dove gli italiani lavorano come cani. Asmara è una città squinternata, senza capo né coda, oscura come la mia campagna, con strade pessime, dove nessuno sa niente degli altri». Sempre su incarico de “La Gazzetta del Popolo”, nel 1939, si reca in Libia a visitare le colonie agricole fondate da contadini veneti, inviati dal fascismo per dissodare il deserto. Gli articoli, però, non soddisfano il governatore, perché ritenuti poco conformi al linguaggio giornalistico in voga.
Gli anni della seconda Guerra Mondiale e della crisi esistenziale
Nel 1940 comincia a collaborare a “Primato” la rivista culturale voluta da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale. Nei suoi articoli traspare l’angoscia per il tempo che scorre e l’avvicinarsi della vecchiaia, che lo portano alla “scoperta dei sentimenti”. Lo scoppio della guerra trova Comisso nella sua casa di Zero Branco, alle prese con un nuovo amore, il sedicenne Guido Bottegal, un irrequieto ragazzo trevigiano con velleità di poeta che verrà soprannominato “il fuggitivo” per le sue fughe improvvise. Pubblica i racconti di Felicità dopo la noia. La Mondadori pubblica Un inganno d’amore (1942), il romanzo sulla “scoperta dei sentimenti” al quale Comisso teneva particolarmente. La critica lo accoglie con molte perplessità. Ad aggravare la crisi psicologica dello scrittore contribuisce la sua passione per Guido, con esplosioni di gelosia, a causa di un personaggio inquietante come Sandro Pozzi, ex legionario fiumano, ora agente dei servizi segreti fascisti. Nel dicembre 1943, Comisso ritorna a collaborare con il “Corriere della Sera”, divenuto il più importante quotidiano della Repubblica Sociale. A dirigerlo viene chiamato Ermanno Amicucci, già direttore de “La Gazzetta del Popolo”. Nel 1944 Guido Bottegal, arruolato nella Marina Repubblicana, diserta dopo aver scritto una lettera in cui accusa il fascismo di aver tradito i giovani. Viene arrestato e portato nelle carceri di Venezia. Comisso cerca raccomandazioni per farlo scarcerare. Guido viene liberato, dopo aver fatto domanda, su consiglio di Pozzi, di entrare in un reparto combattente della R.S.I. e riprende i rapporti con Comisso. Nel bombardamento di Treviso del 7 aprile, la casa di famiglia in piazza Fiumicelli viene distrutta. La madre e la fedele governante Giovanna erano sfollate a Zero Branco e si salvano. Nel febbraio del 1945, Guido diserta e si rifugia sull’Altipiano di Asiago, a lavorare per i tedeschi nella Todt. Finirà fucilato dai partigiani dell’Altipiano che lo credono una spia. Comisso narrerà questi tragici avvenimenti in Gioventù che muore (1949). «E non cerco più amicizie dopo l’ultima per Guido che mi à così massacrato, illuso, deluso e stroncato». Comisso vive una crisi esistenziale, causata dalla tragica morte dell’amico e dalla sensazione, con l’affermarsi del neorealismo, di essere ormai superato come scrittore. Va spesso a Venezia, a trovare Filippo De Pisis. Collabora con Mario Pannunzio al “Risorgimento liberale” e con altri giornali. Scopre Giuseppe Berto, da poco rientrato dalla prigionia in Texas: è proprio Comisso a indirizzarlo a Longanesi con il manoscritto de Il cielo è rosso (1947), uno dei primi bestseller del dopoguerra. Nel 1947 pubblica con la Mondadori Capriccio e illusione: al centro del romanzo, il travagliato rapporto con Guido. Muore l’amico Arturo Martini e si propone di scriverne la biografia e raccogliere l’epistolario. Il romanzo Gioventù che muore, sulla tragica fine di Guido, viene pubblicato dalle edizioni del quotidiano “Milano-Sera” (1949) dopo essere stato rifiutato da ben tre editori.
Gli anni cinquanta e sessanta
Nel 1951 pubblica Le mie stagioni per le “Edizioni di Treviso”. L’anno successivo ottiene il premio Viareggio con il libro di racconti Capricci italiani. Nel 1953 Comincia la lunga collaborazione con “Il Mondo” di Mario Pannunzio, dove pubblicherà, l’anno successivo, in tre puntate, Il mio sodalizio con De Pisis, racconto di un’amicizia intensa e rafforzata dall’arte. Filippo De Pisis è ormai ricoverato in una clinica psichiatrica dove morirà il 2 aprile 1956 1954. Muore la madre a maggio. In estate, Comisso decide di mettere in vendita la casa e la campagna di Zero Branco e torna a vivere in città, in un appartamento in affitto. Al Convegno di S. Pellegrino Terme, Romanzo e poesia di ieri e di oggi – Incontro di due generazioni, Comisso presenta il giovane Goffredo Parise. Sarà l’inizio di una nuova amicizia; l’ultima veramente importante per lo scrittore trevisano. Nel 1955, il libro di racconti Un gatto attraversa la strada vince il Premio Strega. Si trasferisce in una nuova casa di proprietà, a Santa Maria del Rovere, prima periferia di Treviso. Annota nel diario: «Finalmente sono venuto ad abitare nella mia nuova casa… Vi trovo ancora il senso della campagna, della mia vita di Zero, pure essendo vicino alla città… Ecco un nuovo punto di partenza per la mia vita». Nel 1958 pubblica La mia casa di campagna. Scrive Guido Piovene: Il venetismo in lui… è un fatto di natura, paesaggio esterno ed interiore rappresentazione. Comisso ha dentro di sé gli assilli del Veneto come li ha il Veneto, che tende a evaderne in belle forme, armonie di colore; li contiene visceralmente, non ne fa oggetto di discorso intellettuale». Esce la raccolta di racconti Satire italiane (1960): un’osservazione puntigliosa di malesseri, ha scritto Nico Naldini, delusioni, ansie e antipatie tra tante descrizioni ironiche che diventano amare sulla natura tradita dall’uomo. «La nostra vita oggi è ridotta a questi estremi dai quali sono escluse serenità, bellezza e armonia». Esce presso Longanesi La donna del lago (1962), che si sviluppa intorno ai “delitti di Alleghe”, una serie di omicidi avvenuti tra il 1933 e il 1946. «Bisogna accettare questo mio libro come una semplice autobiografia, una delle tante biografie lunghe e brevi che fanno il complesso della mia opera narrativa». Sarà uno dei suoi maggiori successi editoriali e Mario Soldati cercherà di farne un film. E’ il 1964 quando esce Cribol per Longanesi, una storia scabrosa ambientata ancora tra il Piave e Onigo, un atto d’amore per la natura e le sue “leggi supreme”. In questi ultimi anni è tormentato da fastidi alla vista, ma scrive ancora, mentre è in corso di pubblicazione presso Longanesi l’opera omnia. Nel 1968 esce Attraverso il tempo, ultimo libro di racconti, lui vivo. «Sono un poco stufo di scrivere, ma è il mio respiro». In maggio, viene organizzato a Treviso un convegno su Comisso, con la presenza, tra gli altri, di Montale, Piovene, Parise e Pasolini. Qualche giorno prima, il critico Gianfranco Contini è passato a casa sua per rendergli omaggio. Il 21 gennaio 1969 Giovanni Comisso muore nell’ospedale della sua città.
Bibliografia essenziale
Al sud, Neri Pozza, 1996, a cura di Nico Naldini.
Amori d’oriente, Milano, Longanesi, 1947.
Approdo in Grecia, Bari, Leonardo Da Vinci, 1954.
Avventure terrene, Milano, Treves, 1935 .
Capricci italiani, Firenze, Vallecchi, 1952.
Capriccio e illusione, Milano, Mondadori, 1947.
Cina-Giappone, Milano, Treves, 1932.
Cribol, Milano, Longanesi, 1964.
Felicità dopo la noia, Milano, Mondadori, 1940.
Gente di mare, Milano, Treves, 1929.
Giorni di guerra, Milano, Mondadori, 1930.
Gioventù che muore, Milano, Milano-Sera, 1949.
I due compagni, Milano, Mondadori, 1936.
I sentimenti nell’arte, Venezia, Il Tridente, 1945.
Il delitto di Fausto Diamante, Milano, Ceschina, 1933.
Il porto dell’amore, Treviso, Vianello, 1924.
L’italiano errante per l’Italia, Firenze, Parenti, 1937.
La donna del lago, Milano, Longanesi, 1962.
La mia casa di campagna, Milano, Longanesi, 1958.
La Sicilia, Ginevra, Cailler, 1953.
Le mie stagioni, Treviso, ed. di Treviso, 1951
Mio sodalizio con De Pisis, Milano, Garzanti, 1954.
Opere, Mondadori, 2002 a cura di Rolando Damiani e Nico Naldini.
Poesie, Treviso, Longo e Zoppelli, 1916.
Questa è Parigi, Milano, Ceschina, 1931.
Satire italiane, Milano Longanesi, 1960
Storia di un patrimonio, Milano, Treves, 1933.
Un gatto attraversa la strada, Milano, Mondadori, 1954.
Un inganno d’amore, Milano, Mondadori, 1942.
Veneto felice, Longanesi 1984, a cura di Nico Naldini.
LA CENERENTOLA di Gioacchino Rossini – Trama, Libretto, Opera completa e Personaggi–
La Cenerentola, ossia La bontà in trionfo è un’opera lirica in due Atti di Gioachino Rossini su libretto di Jacopo Ferretti.Come suggerisce il nome, il soggetto dell’Opera è tratto dalla celebre fiaba di Charles Perrault; in realta, più ancora che alla favola, il testo del romano Jacopo Ferretti si rifà ad altri due libretti d’opera: “Cendrillon” di Charles Guillaume Etienne per Nicolò Isouard (1810) e “Agatina, o la virtù premiata” di Stefano Pavesi per Francesco Fiorini (1814).
Il riferimento principale però è quello alla favola di Charles perrault, soprattutto per ragioni morali: a differenza di alcune versioni più aspre e violente del racconto, lo scrittore francese enfatizzò nella sua favola gli elementi del perdono e della virtù. Valori molto vicini alla sensibilità del tempo e certamente graditi al vaglio Pontificio.
Sullo sfondo della vicenda, però, fa capolino una società degradata, calata a pennello nell’atmosfera romana di quegli anni, pervasa dalla corruzione, da una nobiltà decadente e scialacquante, da gravi disagi tra i ceti sociali più poveri.
Sotto le spoglie di un buonismo (obbligato dalla pesante censura pontificia), si intravede la lettura sarcastica di una fiaba amara più che zuccherosa.
La prima rappresentazione ebbe luogo il 25 gennaio 1817 al Teatro Valle di Roma. Il contralto Geltrude Righetti Giorgi (già la prima Rosina del Barbiere di Siviglia), interpretò il ruolo di Cenerentola.
Il debutto, pur non provocando uno scandalo paragonabile a quello del Barbiere di Siviglia, fu un insuccesso.
Solo dopo alcune recite, l’opera incontrò il favore del pubblico, diventando molto popolare, sia in Italia che all’estero.
Don Ramiro, principe di Salerno – tenore
Dandini, suo cameriere – baritono
Don Magnifico, barone di Montefiascone, padre di Clorinda e Tisbe – basso buffo
Clorinda, figlia di Don Magnifico – soprano
Tisbe, figlia di Don Magnifico – soprano
Angelina, sotto il nome di Cenerentola, figliastra di Don Magnifico – mezzosoprano
Alidoro, filosofo, maestro di Don Ramiro – basso
Dame che non parlano – comparse
Coro di cortigiani del Principe
ATTO I In un salone del decadente castello di don Magnifico
Le due figlie di don Magnifico, Clorinda e Tisbe, si pavoneggiano alla specchio. La figliastra di don Magnifico, Angelica (Cenerentola), da par suo canta lamentando la sua situazione. Le sorellastre la zittiscono proprio mentre entra in scena Alidoro (precettore del principe don Ramiro), sotto le false spoglie di mendicante. Il suo scopo è spiare le tre fanciulle e riferire al principe i loro comportamenti, Il principe è infatti in cerca di una moglie alla sua altezza.
Il falso mendicante viene maltrattato da Clorinda e Tisbe; solo Angelica lo aiuta, dandogli di nascosto un po’ di caffè. Mentre Alidoro se ne va, alcuni cavalieri segnalano l’arrivo a castello del principe. Le fanciulle vanno prontamente a svegliare don Magnifico; egli raccomanda alle fanciulle di fare una buona impressione sul principe.
A seguire entra il principe don Ramiro, vestito da paggio; egli ha infatti scambiato le vesti con il servo Dandini, per spiare di nascosto le fanciulle.
Tra il principe in incognito e la giovane Cenerentola scocca subito l’amore.
Entra in scena Dandini, insieme ala famiglia reale, in pompa magna. Nessuno dei presenti si accorge dello scambio di persona attuato dai due. Dandini mantiene la messa in scana, lusingando le sorelle con fare civettuolo. Cenerentola chiede al padre il permesso di andare alla festa organizzata dal principe a cui tutti si stanno recando, ma egli le nega con sdegno il permesso.
Alidoro comprende l’animo gentile della giovane Cenerentola e decide di aiutarla.
Nel palazzo reale, donRamiro e Dandini (ancora con le vesti scambiate), parlano con le figlie di don Magnifico e decidono di metterle alla prova: Dandini (vestito da principe) informa che una ragazza sarà sua sposa, mentre la sorella andrà a don Ramiro. Nessuna delle due giovani accetta il corteggiamento del finto servo.
Una strana ragazza, vestita elegamentemente e con il volto celato, giunge a castello: si tratta di Cenerentola, vestita per l’occasione dal fido Alidoro.
Don Magnifico e le figlie, per un attimo, colgono una somiglianza tra la giovane misteriosa e Cenerentola; i loro dubbi vengono però subito smentiti.
Dandini intanto richiama gli invitati a tavola.
ATTO II
Don Magnifico riconosce senza ombra di dubbio Cenerentola nella giovane donna con il volto celato, ma è sicuro che il principe sceglierà o Clorinda o Tisbe. L’anziano barone confida anche alle due ragazze che ha potuto farle vivere nella ricchezza, appropriandosi e sperperando il patrimonio di Angelina.
Cenerentol dal canto suo, rifiuta infastidita le proposte di Dandini, dicendogli di essere innamorata del suo “paggio”; queste parole riempiono di gioa don Ramiro, il quale riceve un braccialetto da Cenerentola, dicendogli che se veramente vuole amarla, dovrà cercarla e restituirglielo. La giovane ragazza fugge, mentre Ramiro è più che mai deciso a ritrovarla.
Dandini rivela a don Magnifico di essere in realtà il servo del principe; don Magnifico, adirato e indignato, se ne va. Nel frattempo Cenerentola, tornata a casa, ripensa alla magia di quella sera alla festa. I suoi pensieri vengono interrotti dal ritorno a casa di don Magnifico e le sorellastre, irati per la rivelazione.
Inatnto un violento temporale (e il provvidenziale aiuto di Alidoro), fanno in modo che la carrozza del principe si rompa proprio davanti il palazzo di don Magnifico.
Don Magnifico non demorde, è ancora intenzionato a far sposare al principe una delle sue figlie; chiede quindi a Cenerentola di porgere una sedia al regale ospite. Cenerentola porge una sedia a Dandini, ma il barone le svela lo scambio di abiti, rivelando la vera identità di don Ramiro. I due giovani si riconoscono immediatamente, mentre i parenti sfogano la loro ira contro Cenerentola.
Dandini e don Ramiro la difendono, reclamando vendetta verso la famiglia di lei. L’animo nobile e gentile di Cenerentola la spinge a chiedere la grazia al principe per la sua famiglia, nonostante le tante angherie subite, rendendo il perdono la sua unica vendetta.
Mentre i due promessi sposi si riuniscono, arriva anche Alidoro, tutto contento per la sorte capitata alla giovane Angelina.
Divenuta ormai principessa, Cenerentola concede il perdono ai suoi familiari, i quali sottolineano la sua nobiltà d’animo affermando che nessun trono sia veramente degno di lei.
Poesie di Antonio Porta- Poeta e scrittore vicentino –
Versi e biografia di Antonio Porta (Vicenza, 1935 – Roma, 1989).Scrittore, poeta ed accademico, oltre che manager delle case editrici Rusconi, Bompiani e Feltrinelli ed autore-conduttore di programmi di Radio Rai, l’autore veneto è stato precursore e protagonista della Poesia sperimentale degli anni ’60.
“Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne molte” diceva a proposito della sua ricerca creativa.
Spiega il critico Leonardo Bizzarri: “Porta era uno dei più celebri rappresentanti di quel gruppo di poeti che furono definiti Novissimi (tra gli altri c’erano Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani e Nanni Balestini) e che contribuirono non poco al rinnovamento del linguaggio poetico, rivoluzionandolo completamente e, come avvenne nel caso dei futuristi, lasciando spesso sconcertato il pubblico della poesia, per via di arditezze e sperimentazioni inimmaginabili. Il suo debutto letterario non fu però affatto caratterizzato da tentativi o da esperimenti poetici atti a stravolgere la base del fare poetico tradizionale”.
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BUIO CONTRO BUIO
(Antonio Porta, pseudonimo di Leo Paolazzi)
Buio contro buio
la scrittura come un lume lontano
o invece si apre al presente
e respiro di nuovo
e ho voglia di anticanto
poesia dell’antimateria.
I PUNTI DI SOSPENSIONE
Vedere solo si vede quello che si vuole
una foto sbiadisce poco a poco
e un volto, poi la figura intera scompaiono.
Dov’erano tracce di felicità, attimi
ora un grigio sbiadisce e se resiste
qualcosa, un sorriso molto tirato,
stupisce chi lo osserva
e la memoria rifiuta di saltare l’ostacolo.
Ma per capire fino in fondo che cosa
significa una cancellazione occorre
sentirsi cancellati, quando un’ombra
non è più un’ombra, un fiato, un vapore,
nel trionfo dei punti di sospensione…
QUELLO CHE È RIMASTO
Quello che è rimasto,
quello che resiste,
là sotto, tu lo vedi,
airone, sotto le montagne di macerie,
dentro i crateri delle bombe,
sotto le colline d’immondizia,
lí dove resiste, continua,
rinasce la semplice vita,
ultima, dimenticata, dileggiata
rimossa, ridotta a poltiglia
nella mente degli uomini,
la semplice vita,
il nascere e morire
rinascere e volare via,
aprirsi, amare,
quello che è vivo, amore,
sotto la semina dell’odio.
[Da I rapporti (1958-1964)]
Aprire
1.
Dietro la porta nulla, dietro la tenda,
l’impronta impressa sulla parete, sotto,
l’auto, la finestra, si ferma, dietro la tenda,
un vento che la scuote, sul soffitto nero
una macchia più scura, impronta della mano,
alzandosi si è appoggiato, nulla, premendo,
un fazzoletto di seta, il lampadario oscilla,
un nodo, la luce, macchia d’inchiostro,
sul pavimento, sopra la tenda, la paglietta che raschia,
sul pavimento, sopra la tenda, la paglietta che raschia,
sul pavimento gocce di sudore, alzandosi,
la macchia non scompare, dietro la tenda,
la seta nera del fazzoletto, luccica sul soffitto,
la mano si appoggia, il fuoco della mano,
sulla poltrona un nodo di seta, luccica,
ferita dal chiodo, il sangue sulla parete,
la seta del fazzoletto agita una mano.
***
Rapporti umani
XI
“Della mia vita, in un certo giorno,
non seppi più nulla, soltanto quello
che rivelò il barbiere domandando dei
miei figli e m’accorsi di non averne mai
saputo, guardandomi bene negli occhi sopra
la schiuma e i riflessi del rasoio.
Uscii e impolverai le scarpe tra le
pietre, e proseguii, le stringhe
slacciate, sulla via di casa, il
gocciolìo del sudore: entrando qualcosa
accadde, non ricordo; dietro il portone,
immobile tra i cristalli, l’ostilità di
mia moglie e mi chiesi chi era.
Per togliere la polvere, chinato, si recidevano
le stringhe, la fronte mi sanguinava, tra i
cristalli spezzati, le stringhe tra i capelli,
e premevo, frugando tra le schegge, scrivendo
nella polvere, la lingua mi si tagliava,
lambendo, il sangue colava dagli occhi, sulle tempie,
i figli non sanno nulla…”
***
[Da Week-end]
Utopia del nomade, Movimenti (2)
ricchezza prima sono mani e intelligenza
la seconda ricchezza avvicina l’altro da sé
può ritornare in luoghi uguali transumante
mutare itinerario ripetere il giro della terra
torna verso la fine in un luogo stabilito al principio
***
Utopia del nomade, Movimenti (6)
la città si chiama Immagine non ha limiti
né centri può specchiarsi in sé stessa
luogo dove incontrarsi non è dunque
una città ma punto di protezione
porticati o tende luogo vegetale e animale
luogo di acque e coltivazioni uomini
vi s’incontrano o lasciano come vogliono si manifesta
il pensiero linguaggio che va preso alla lettera
sistema di piani e curve per scendere e salire
dietro a donne dietro a figli e animali
non esiste proprietà del suolo
***
i piedi affondano nella terra molle
i piedi si dimenticano dentro la terra molle
smemorato si allontana con le stampelle di legno
le gambe cedono a una svolta del sottobosco
qui il suolo rifiorisce tutto a tappeto
c’è una testa appoggiata al davanzale
una lingua si sporge per sete
stracolmo di inganni
paese di Primavera
ricordate
***
[Da Invasioni]
è l’uragano della primavera
fischi di uccelli e schiocchi di foglie
travolge la dimensione del tempo
è uno specchio che s’infrange dentro un altro specchio
in quel buco l’uragano passa
soffia sempre più forte
occhi incantati lo guardano
ancora un guizzo nel regno dei pesci
e nuotiamo in un silenzio d’acquario.
Ne hai dunque paura? Oh no,
amico mio, pieno di gioia
vuoto di spiegazioni
colmo di ira
io sono
***
Per caso mentre tu dormi
per un involontario movimento delle dita
ti faccio il solletico e tu ridi
ridi senza svegliarti
così soddisfatta del tuo corpo ridi
approvi la vita anche nel sonno
come quel giorno che mi hai detto:
lasciami dormire, devo finire un sogno
***
[Da Il giardiniere contro il becchino]
Airone (frammento da)
quando il mio essere si fa opaco lo distendo
ai tuoi piedi, airone
io disteso come prateria
invasa dalle acque dai semi
opposto ai buchi luminosi dello stellato
come in attesa di essere ancora luce
all’alba quando il conflitto si placa e si racchiude
in un uovo minuscolo
dove già pulsa il cuore di un usignolo
dove batte il minuscolo mio cuore neonato
come milioni di altri muscoli nascosti
potenti macchine da guerra che avanzano
che scuotono la cintura della terra
e misurano ogni altro respiro.
***
[da Yellow]
Buio contro buio
la scrittura come un lume lontano
o invece si apre al presente
e respiro di nuovo
e ho voglia di anticanto
poesia dell’antimateria.
Le poesie di Antonio Porta-Scritto Roberto Nespola-Settembre 5, 2018
: le vie del canto sono (in)finite
Il neutro non seduce, non attira: in ciò sta la vertigine della sua seduzione a cui non si sfugge. E scrivere significa mettere in gioco questa seduzione senza seduzione, esporvi il linguaggio e liberarlo con un atto di violenza che lo abbandona di nuovo ad essa fino alla parola frammentaria: sofferenza della vuota frammentazione.
Maurice Blanchot, La conversazione infinita
Un canto dell’anti-lirico, quello del Porta de “I rapporti” – un contrappunto che fluisce silente da una trama polifonica sottesa, dalla giustapposizione di segmenti iconici ed icastici slegati solo sintatticamente, come isolati in uno sguardo al microscopio. Una vivisezione di momenti come i fotogrammi di cui parla Bergman: “Nessuna altra arte è come il cinema. Va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna. Un nulla del nostro nervo ottico, uno shock, ventiquattro quadratini illuminati al secondo e tra di essi il buio”. E proprio di cinesi si tratta, e di buio, anche se scleroticamente frammentata: un (som)movimento drammatico, drammatico in quanto profondamente dialettico, che scandisce l’ansimare dell’esserci, dello stare-al-mondo. E tale canto si muove, in controluce, profilato ed intrecciato da questi spazi di buio; un canto fatto di corpo e sangue. Un canto affatto etereo o anodino.
Anche il gioco furiosamente modulare del Porta successivo, poi, quello delle raccolte più sperimentali (Cara, Metropolis, Week-end), a differenza di ciò che accade invece nei testi omologhi di Balestrini, non esautora affatto l’espressività del testo, non taglia il cordone ombelicale tra significazione ed espressività: l’oggettivo a tutti i costi e il discontinuo feroce sono solo mezzi per aprire delle crepe nel linguaggio abusato dai media e dall’uso quotidiano, per aprire delle brecce da cui far fuoriuscire il secretum oscuro e contraddittorio dell’espressione. Per non dire ambiguo.
Successivamente, in “Passi passaggi” le immagini cominciano e dilatarsi e a disciogliersi, a disorientarsi nel labirinto dell’atto vocale. Che sia in forma di lettera, voce differita, o del consueto diario, voce interiore, o ancora di teatro smesso di scena, la vocalità in cerca di concrezione è il trait d’union di questi testi. Il canto diventa voce: documento dell’indocumentabile.
È come se, per Porta, nel profondo nodo del reale, esperire ed esperienza fossero due vuoti, uno specchio contro specchio; come se l’esperienza fosse un fare il vuoto nella propria esistenza (un vuoto che ci appare falsamente come pienezza) e questo vuoto diventasse poi la cassa di risonanza di tutte le sensazioni dell’esistere, il luogo dove farle risuonare.
Snudare il linguaggio, metterne alla berlina i nervi scoperti, per riconquistare il canto, taglio dopo taglio, goccia di sangue dopo goccia di sangue. Un canto che, però, non potrà mai essere pieno, estasi, purezza, un oltre: un canto vuoto, anzi, sempre nuovamente dilaniato. È questo ciò che l’immagine dell’Airone, la sua ultima immagine, attesta, svettando in un’unione di cielo e terra.
Dall’ottobre 1936 ha vissuto a Milano, dove ha compiuto studi regolari. Giocatore di tennis, ha vinto la Coppa Lambertenghi nel 1950. Nel novembre 1960 si è laureato in lettere moderne all’Università Cattolica, con una tesi intitolata La poesia di D’Annunzio verso il 900. Rapporti con alcuni poeti, relatore Mario Apollonio (110/110).
Dal 1956 al 1967 ha lavorato per la casa editrice Rusconi e Paolazzi s.p.a., Milano, nel settore periodici (Gioia, Gente, Rakam) e nel settore libri (per le edizioni de Il Verri) con compiti di coordinamento anche per quel che riguarda la produzione industriale. Sempre per lo stesso gruppo editoriale si è occupato in prima persona della gestione del quotidiano sportivo romano Corriere dello Sport – Stadio per circa tre anni. Nel 1968 è stato assunto dalla casa editrice Bompiani, Milano, in qualità di direttore amministrativo e assistente di Valentino Bompiani. Nel 1972 è nominato direttore generale delle case editrici Bompiani, Sonzogno, Etas libri, per assumere poi la direzione editoriale della sola Bompiani. Nel 1977 è passato alla casa editrice Feltrinelli in qualità di dirigente, a fianco del consigliere delegato e direttore generale.
Ha lasciato la carica di dirigente nel 1981 per dedicarsi soprattutto al lavoro di scrittore, pur continuando a svolgere lavoro di tipo culturale presso la Cooperativa Intrapresa e la Cooperativa Alfabeta, nel cui ambito ha partecipato all’ideazione e organizzazione dei convegni: “Il senso della letteratura”, Palermo, novembre 1984, “Stabat Nuda Aestas. D’Annunzio e la poesia oggi”, Viareggio, ottobre 1985, “Ricercatori & Co.”, Viareggio, febbraio 1987 e le manifestazioni di “Milanopoesia” 1984, 1985, 1986 e 1988.
Antonio Porta è stato tra i fondatori e collaboratori delle riviste Tabula, rivista trimestrale di letteratura, primo numero 1979, ultima data di uscita 1981, Cavallo di Troia, trimestrale della Cooperativa scrittori e Lettori, primo numero inverno 1981. Era il direttore responsabile e attivo redattore della rivista Alfabeta, mensile di cultura edito a Milano in cooperativa, fondato nel 1979 e La Gola, rivista del cibo e delle tecniche di vita materiale, fondato nel 1982, co-direttore insieme ad Alberto Capatti.
È stato critico letterario de Il Giorno dal 1972 al 1978 e dal 1979 in poi al Corriere della Sera; ha collaborato con Tuttolibri, Panorama, e L’Europeo, “L’Unità” e un breve periodo al Il Sole 24 Ore; dal 1988 con scritti civili e di opinione ha collaborato regolarmente con Sette (supplemento del sabato del Corriere della Sera). Con scritti teorici sulla pubblicità ha collaborato a Target, Comunicare e Strategia, poi raccolti in volume e pubblicati da Lupetti Editore nel 2003.
Ha lavorato per la RAI nel gennaio-marzo 1987 e nell’ottobre-dicembre dello stesso anno come autore e conduttore del settimanale “Settantaminuti” in onda il sabato mattina su Radiodue. Nel 1988 ha curato la presentazione del settimanale Prima di cena, tra speranza e nostalgia, in onda su Radiodue.
È stato membro del consiglio di amministrazione della Fonit Cetra S.p.A. dal 23 luglio 1985. È stato poi confermato consigliere per la Nuova Fonit Cetra S.p.A. il 27 luglio 1987.
L’8 dicembre 1989 il Comune di Milano gli ha conferito l’Ambrogino d’oro alla memoria con la seguente motivazione:
«Il suo vero nome è quello di Leo Paolazzi, ma con quello d’arte di Antonio Porta aveva raggiunto statura internazionale di poeta. La sua origine lombarda si è presto rivelata nella forte tensione espressionistica dello stile e nell’apertura a interessi che ne hanno fatto un fautore tenace del coinvolgimento politico e civile. Appartato e schivo, ha instancabilmente operato per dare lustro alla cultura della sua città e immetterla sempre di più in un flusso internazionale di cultura.»
Dal 1963 al 1967 prende parte attiva alla redazione della rivista di punta della nuova avanguardia Malebolge a Reggio Emilia. In quegli stessi anni Porta si dedica alla poesia visiva, partecipando ad alcune mostre a Padova, Milano, Roma, Londra. La sua opera più strettamente legata a questa esperienza è Zero, pubblicata in edizione numerata nel 1963. È stato fondatore e collaboratore della rivista Quindici, giornale di cultura del Gruppo ’63. Primo numero ottobre 1966, pubblicato fino a tutto il 1969.
Nel 1968 è andato in scena a Roma nel Teatro del Porcospino Non sono poi tanto bestie. Ha tradotto La Marge (Il Margine) di André Pieyre de Mandiargues, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1968; Journal Particulier (Settore Privato) di Paul Léautaud (la prima parte), con lo pseudonimo Emilio Liviano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1968; in collaborazione con Marcelo Ravoni ha tradotto i Poeti Ispanoamericani contemporanei, dalle prime avanguardie ai poeti d’oggi (Universale Economica Feltrinelli, Milano 1970), Premio Argentario; Le Voleur (Il ladro di talento) di Pierre Reverdy, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1972.
Nel 1977 ha raccolto il proprio lavoro poetico edito (La palpebra rovesciata, I Rapporti, Cara, Metropolis (finalista Premio Viareggio), Week-end) e inedito dal 1958 al 1975, nel volume Quanto ho da dirvi (Feltrinelli, Milano). Ha inoltre pubblicato due romanzi, Partita (Feltrinelli, Milano 1967 e poi Garzanti, Milano 1978) e l’apocalitticoIl re del magazzino (Mondadori, Milano 1978, poi San Marco dei Giustiniani, Genova 2003 e Lampi di Stampa, Milano 2008), e un testo teatrale La presa di potere di Ivan lo sciocco (Einaudi, Torino 1974) messo in scena dal Teatro Artigiano di Cantù il 12 febbraio 1974 a Milano, Teatro Uomo, con la regia di Sergio e Marzio Porro. Testo ripreso da altre compagnie in varie parti d’Italia. Ha curato con Giovanni Raboni, l’antologia Pin Pidin, poeti d’oggi per i bambini, (Feltrinelli, Milano, 1978) e Poesia degli anni settanta Antologia di poesia italiana dal 1968 al 1979, con introduzione e note critiche (Feltrinelli, Milano 1979, quattro edizioni). Nel 1980 ha pubblicato Passi passaggi (Mondadori, Milano), poesie 1976-1979. Nel 1981 una serie di racconti Se fosse tutto un tradimento (Guanda, Milano). Nel 1982 ha raccolto le poesie della serie “brevi lettere”, 1976-1981, con il titolo L’aria della fine (Lunarionuovo, Catania, Premio Gandovere – Franciacorte, poi San Marco dei Giustiniani, Genova 2004 con allegato CD audio Bande sonore). Sempre nel 1982 ha pubblicato Emilio, poemetto per fanciulli, (Emme, Milano, poi con nuovo testo inedito scritto a partire dalle illustrazioni di Altan della prima edizione, Nuages, 2002). Lo stesso anno è tornato al teatro con la messa in scena a Milano di Fuochi incrociati (a cura e con Paolo Bessegato e Caterina Mattea). Per la RAI, terza rete, con la regia di Gianni Jannelli ha contribuito alla realizzazione del film per la TV, La poesia che dice no, unico attore Paolo Bessegato. Nel 1984 è uscito Invasioni (Mondadori, Milano), poesie 1980-1983, che ha avuto il premio Viareggio e il premio Città di Latina. Nel 1985 esce Nel fare poesia (Sansoni, Firenze), una antologia personale dal 1958 al 1985, con una sezione di inediti (Essenze), accompagnata da scritti di metodo sul proprio lavoro. Nel gennaio del 1985 debutta al Teatro Ridotto di Venezia “Penultimi sogni di secolo”, un suo testo di drammaturgia poetica curato insieme con Carmelo Pistillo, attore protagonista Luigi Pistillo. Si occupa ancora di teatro (nel 1985 Michele Perriera ha messo in scena a Palermo l’atto unico Pigmei, piccoli giganti d’Africa) e nell’ottobre dello stesso anno è andato in scena a Milano, con la Compagnia Stabile del Teatro Filodrammatici La stangata persiana, da Persa di Plauto, con la regia di Alberto e Gianni Buscaglia. Ha completato la stesura di una nuova opera: La festa del cavallo, poema per teatro, uscita nelle Edizioni Corpo 10, Milano. Nell’autunno 1987 è uscita da Mondadori la traduzione di Edgar Lee Masters Spoon River Anthology e presso Crocetti Editore Melusina, una ballata e diario. Nel marzo 1988, sempre da Mondadori, è uscito Il giardiniere contro il becchino (poesia), che ha ottenuto il Premio Carducci, Premio Acireale, Premio Stefanile, Premio Arcangeli.
Nel 1990 è andato in scena La festa del cavallo al Teatro Verdi di Milano, con la regia di Alberto e Gianni Buscaglia. Nel luglio 1994 nell’ambito degli “Incontri con il Teatro Classico”, curata dall’Associazione teatrale Campania grandi classici, a Salerno è andata in scena l’elaborazione drammaturgica dal poemetto Salomè, poi dal 15 al 27 febbraio 2000 al Teatro dell’Arsenale, Milano. Dal 1990 sono stati pubblicati Partorire in Chiesa, racconto, Libri Scheiwiller, Milano, 1990; Il Progetto Infinito a cura di Giovanni Raboni, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991 che raccoglie una scelta di testi critici sulla letteratura; Los(t) angeles, romanzo inedito, Vallecchi Editore, Firenze, 1996; Poesie 1956-1988, antologia a cura di Niva Lorenzini, Oscar Mondadori, 1998; Poemetto con la madre e altri versi, copertina di Emilio Tadini, Book Editore, 2000; Yellow, poesie inedite a cura di Niva Lorenzini e con note di Fabrizio Lombardo, Mondadori, Milano, 2002. La traduzione di Amelia Rosselli, Sonno-Sleep (1953-1966) con in appendice la corrispondenza tra i due poeti, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2003. Tutti gli scritti sulla pubblicità sono stati raccolti nel volume Lo specchio della seduzione, Lupetti, Milano, 2003. Nel marzo 2009 le raccolte di poesia edite in vita sono state pubblicate in un unico volume col titolo Tutte le poesie, Garzanti Libri, Milano. A settembre 2010 Manni Editori, Lecce ha raccolto tutti i racconti nel volume La scomparsa del corpo.
Poesie di Antonio Porta sono presenti in tutte le principali antologie della poesia italiana del ‘900, a partire da quella di Edoardo Sanguineti, Poesia italiana del Novecento, Einaudi Editore, 1969, per arrivare a quella di Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del novecento, edita da Mondadori nel 1978. Nell’archivio sono conservate numerose opere terminate da Antonio Porta e ancora oggi inedite in volume: poesie, teatro, racconti, traduzione di poesie di Trakl e molti altri materiali che sono costantemente rese disponibili agli studiosi.
Opere
Calendario, Schwarz, Milano, 1956, firmata come Leo Paolazzi
La palpebra rovesciata, Azimuth, Milano, 1960
I novissimi, Edizioni de il verri, Milano, 1961
Zero, edizione numerata, in proprio, Milano, 1963
Aprire, poesie, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1964
I rapporti, poesie, Feltrinelli Editore, Milano, 1966
Partorire in chiesa, racconto, Libri Scheiwiller, Milano, 1990
La mia versione del canto V dell’inferno dantesco, a cura di Daniele Oppi, Raccolto Ed., cascina del Guado, 1991. Con una litoserigrafia di Gianfranco Baruchello – 230 copie numerate e firmate
Il Progetto Infinito, a cura di Giovanni Raboni, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991 (distribuito da Garzanti)
Los(t) angeles, romanzo inedito, Vallecchi Editore, Firenze, 1996
Poesie 1956-1988 a cura di Niva Lorenzini, Oscar Mondadori, Milano, 1998
Emilio, poemetto per tutti, nuovo testo scritto a partire dalle illustrazioni di Altan, Nuages Edizioni, Milano, 2002
Yellow, poesie inedite, a cura di Niva Lorenzini, Mondadori, Milano, 2002
Lo specchio della seduzione. L’arte della pubblicità, raccolta degli scritti sulla pubblicità e tre sceneggiature pubblicitarie, organizzato da Rosemary Liedl Porta, Lupetti, Milano, 2003
Il re del magazzino. Romanzo, introduzione di Stefano Verdino, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2003
L’aria della fine. Brevi lettere 1976, 1978, 1980, 1981, prefazione di Niva Lorenzini, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2004
Tutte le poesie (1956-1989), a cura di Niva Lorenzini, Garzanti, Milano, 2009
La scomparsa del corpo, tutti i racconti, Manni Editori, Lecce, 2010
Piercing the Page: Selected Poems 1958-1989, Edited with an introduction by Gian Maria Annovi and an essay by Umberto Eco, Otis – Seismicity, Los Angeles, 2012
Poesie in forma di cosa, poesie visive di Leo Paolazzi/Antonio Porta, a cura di Rosemary Liedl P. con un testo di Mario Bertoni, Edizioni del Foglio Clandestino, Sesto San Giovanni, 2012
Abbiamo da tirar fuori la vita. Scritti per “Sette” e per il “Corriere della Sera” (1988-1989), a cura di Daniele Bernardi, Edizioni Cenobio, Lugano 2013
Perché tu mi dici: poeta? (per un teatro di poesia), a cura di Carmelo Pistillo, Antonio Porta e Fabio Jermini, La Vita Felice, Milano, 2015
Una poesia, con un frammento di cartografia di Veronica Azzinari, Officina del giorno dopo, Monte Sant’Angelo, 2020.
Note
^Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci.it. URL consultato il 9 agosto 2019 (archiviato dall’url originale il 18 febbraio 2015).
Laura Conti- Madre dell’ecologia italiana è stata partigiana, medico, politica Deputata PCI, scrittrice-
Nata a Udine il 31 marzo 1921, Laura Conti è stata partigiana, medico, politica, scrittrice e ambientalista che, attraverso il suo lavoro rivolto su più fronti, ha inciso un solco nel Novecento italiano, contribuendo allo sviluppo dell’etica ambientale in Italia e alla nascita delle narrazioni ecologiche. A causa dell’impegno antifascista della famiglia, è costretta più volte a cambiare dimora, fino a stabilirsi a Milano, e dopo aver terminato le scuole superiori si iscrive alla facoltà di medicina. Nel 1944, però, sente il bisogno di partecipare alla Resistenza entrando nel “Fronte della gioventù” con un incarico di propaganda presso le caserme: un attivismo che le costa l’arresto e la deportazione nel Campo di transito di Bolzano, un’esperienza dalla quale, qualche decennio più tardi, nascerà La condizione sperimentale (1965), opera nella quale ripercorrerà quei momenti; mentre la sua prima opera narrativa, Cecilia e le streghe, uscirà nel 1963. Rientrata a Milano, si laurea in Medicina e si specializza in Ortopedia, ma fin da subito continua nella sua attività politica, prima nel Psi e poi nel Pci, riuscendo, tra il 1960 e il 1970, a diventare consigliera alla Provincia di Milano, poi alla Regione Lombardia, e infine ad essere eletta alla Camera dei Deputati. Durante il suo impegno politico si occupa di tematiche femministe e ambientali, svolgendo un ruolo importante nella gestione della catastrofe ambientale che colpì Seveso nel 1976, trattata anche attraverso la pubblicazione di un saggio, Visto da Seveso (1977), e di un romanzo come Una lepre con la faccia di bambina (1978): la sua idea di politica ambientale la porta a elaborare un metodo di lavoro che l’accomuna ad una ricercatrice, convinta dell’importanza di sostenere le decisioni politiche che possano poggiarsi su solide basi scientifiche. Nella notte del 25 maggio 1993 muore a Milano per un malore improvviso.
(a cura di Andrea Pardi)
Nata a Udine il 31 marzo 1921, ha vissuto a Trieste dove la famiglia aveva un’azienda commerciale che persero, a seguito del loro impegno antifascista. Si trasferirono prima a Verona e poi a Milano.
Non sono una scienziata, ma una studiosa dei problemi ecologici. Pur trovando affascinante lo studio, penso che sia importante anche agire ed operare. Per questo motivo ho deciso di fare politica: non basta studiare, bisogna anche darsi da fare.
Laura Conti, madre del movimento ecologista italiano, è stata partigiana, medica, ambientalista, scrittrice, politica eco-femminista. Ha fondato Lega per l’Ambiente, poi diventata Legambiente.
Ha scritto ventisei libri e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali, soprattutto per L’Unità.
Dotata di una grande potenza di scrittura, ha da sempre avuto un’attenzione particolare per i problemi dell’inquinamento ambientale.
Il suo pensiero contiene un dettagliato programma politico, mai attuato da nessuno, al cui centro risiede la tutela dei patrimoni genetici delle specie viventi.
Appassionata di natura e biologia sin da bambina, venne folgorata dalla lettura della biografia di Marie Curie che ne ispirò le scelte di studio.
Frequentava la facoltà di Medicina quando, nel 1944, è entrata a far parte del Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. Giovane partigiana, col rischioso compito di fare propaganda nelle caserme, venne presto arrestata e detenuta, prima a San Vittore e poi rinchiusa nel Campo di transito di Bolzano, da cui riuscì miracolosamente a tornare. È l’unico caso che si ricordi in cui un’internata sia riuscita a far avere al giornale l’Avanti (che allora usciva clandestino) un articolo di denuncia sui campi di sterminio, ripreso poi anche da Radio Londra.
Quella forte esperienza fece spostare il suo interesse sull’impatto dell’ambiente sul corpo umano, soprattutto quello delle donne che le fece continuare la lotta politica e avvicinarsi al femminismo.
Dopo essersi laureata in medicina ha svolto servizio all’Inps, attività che le ha permesso di osservare gli strani effetti di certi ambienti industriali sulla salute di operai e operaie.
Ha militato nelle file del Partito Socialista e, dal 1951, in quello Comunista. Ha ricoperto l’incarico di consigliera della provincia di Milano per dieci anni e per altri dieci della regione Lombardia.
Segretaria della Casa della Cultura, ha fondato e diretto l’Associazione Gramsci. Nel 1980, ha partecipato alla fondazione della Lega per l’ambiente la famosa associazione ecologista che promuove attività concrete per la salvaguardia della natura e i suoi abitanti, di cui è stata presidente del Comitato scientifico.
Il suo primo libro è stato Cecilia e le streghe, con cui nel 1963 ha vinto il premio Pozzale. Romanzo che prende le mosse da un misterioso incontro fra due donne, nelle strade deserte di Milano in una sera di mezz’agosto e in cui affronta con toni poetici i temi della malattia, della morte, del dolore, della fede e dell’eutanasia, affrontando pienamente le pieghe del rapporto fra medico e paziente.
Sempre sull’esperienza nel lager, nel 1965, ha scritto il romanzo La condizione sperimentale.
È salita alla ribalta nazionale con la catastrofe di Seveso del 1976, provocata dalla fuoriuscita di una nube tossica contenente diossina da un’industria chimica. Per il suo ruolo di consigliera regionale, si era recata immediatamente sul luogo del disastro per seguire da vicino gli abitanti e, in particolare, le donne incinte a cui, per il rischio di malformazione dei neonati, venne eccezionalmente concessa la possibilità di abortire. Diritto raggiunto da tutte le donne soltanto due anni dopo.
Con le pubblicazioni Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina la sua popolarità ha varcato i confini nazionali e i suoi studi hanno ispirato, nel 1982, la direttiva sui rischi di incidenti connessi con determinate attività industriali della Comunità Europea, chiamata Direttiva Seveso.
Tra i libri che ha scritto ci sono anche Che cos’è l’ecologia,Questo pianeta e La fotosintesi e la sua storia capolavoro scientifico scritto per le scuole superiori, il cui tema centrale è l’aria e la storia della formazione dell’ossigeno.
Dopo aver ricevuto il Premio Minerva per il suo percorso scientifico e culturale, nel 1987 è stata eletta alla Camera dei deputati col partito dei Verdi.
È morta il 25 maggio 1993 a Milano.
Il suo archivio è stato lasciato alla Fondazione Micheletti di Brescia.
In sua memoria sono state compiute varie iniziative pubbliche, il Comune di Milano l’ha riconosciuta come Cittadina benemerita e le ha intitolato un giardino pubblico, Bolzano, invece, le ha dedicato una strada e sono stati scritti vari libri sulla sua vita e il suo importante contributo.
Laura Conti ha mostrato quanto possa incidere l’ambiente di lavoro sulla salute e quanto sia importante occuparsi di ecologia applicata nelle fabbriche e nelle periferie urbane.
La sua attività di divulgatrice è stata una vera missione politica.
Una donna che abbiamo il dovere di non dimenticare.
Fonte- una donna al giorno
Valeria Fieramonte-La via di Laura Conti
Ecologia, politica e cultura a servizio della democrazia
Una biografia di Laura Conti che racconta la sua storia di impegno politico, che la vide giovane partigiana durante la Resistenza, prigioniera nel campo di concentramento di Bolzano e poi attiva nelle battaglie per i diritti umani, che percorre la passione e la dedizione alla scienza, alla medicina, alla biologia, all’ecologia, che dà conto del suo lavoro intenso di scrittrice e divulgatrice con 26 libri pubblicati e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali.
Laura Conti ha vissuto intensamente il proprio tempo, la sua storia individuale si è scontrata e intrecciata con gli eventi della Storia di tutti: la guerra, la resistenza, la ricostruzione, le speranze e l’impegno per edificare una società migliore per tutte e tutti, ma ha anche visto molto più lontano, individuando, grazie alla sua peculiare genialità sui temi ambientali, a un pensiero lucido, originale, limpido, alcuni temi che sarebbero diventati di grande importanza molti anni dopo, e che sono rilevantissimi per noi oggi. Come il grande tema dell’ambiente (celebri i suoi reportage e le sue battaglie a seguito del disastro ambientale di Seveso del 1976, quattro leggi della Comunità Europea in questo ambito sono ispirate da lei), della responsabilità del genere umano nei confronti del pianeta Terra, dello sviluppo sostenibile, o come il tema dell’educazione delle giovani generazioni, della
necessità della formazione di un’umanità più consapevole e libera.
Valeria Fieramonte scrive questo racconto in modo partecipe e appassionato tanto da riuscire a restituire quel senso della inestricabiltà della vita concreta di ciascuno: le scelte di vita, la politica, gli studi, i romanzi, i saggi, le esperienze più difficili, i successi e i riconoscimenti, le relazioni si susseguono in questo testo in un unico e coinvolgente flusso, come se quella vicenda umana del passato diventasse parte del nostro vivere di oggi. Alla fine questo notevole personaggio del Novecento ci sembra che potrebbe esserci vicina come una amica cara che conosciamo bene e di cui andiamo orgogliose.
Laura Conti riposa ora nel Famedio tra i milanesi e le milanesi illustri. La sua storia personale e il suo pensiero illuminato costituiscono un patrimonio prezioso che questo libro vuole contribuire a restituire a tutti e tutte.
Valeria Fieramonte, giornalista freelance in campo scientifico, laureata in filosofia all’Università Statale di Milano, ha lavorato in numerose testate, tra cui il «Corriere della Sera» («Corriere Salute»), «Le Scienze» e «Salve». Ha scritto con Giovanna Gabetta Sesso, amore e gerarchia. Pensieri liberi su differenze di genere e potere, 1998 e curato, in Lo snodo dell’origine, il saggio sul pensiero di Lynn Margulis. È membro dell’Ugis (Unione giornalisti scientifici italiani) e dell’Eusja (Associazione dei giornalisti scientifici europei). Nel dicembre 2015 è stata corrispondente per «La nuova ecologia» dal Congresso COP 21 di Parigi. Questo libro su Laura Conti, un tempo sua amica, è frutto di lunghi anni di studio sulla sua vita e sul suo pensiero.
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<<Tutti coloro che conobbero Katherine Mansfield negli anni della sua breve vita, ebbero l’impressione di scorgere una creatura più delicata degli altri esseri umani: una ceramica d’Oriente, che le onde dell’oceano avevano trascinato sulle rive dei nostri mari.>>Fonte-Maledetti Poeti
*Elegiaco profilo della scrittrice e poetessa Katherine Mansfield (Wellington, 1888 – Fontainebleau, 1923) tracciato da Pietro Citati nel romanzo biografico edito da Rizzoli nel 1980, ‘Vita breve di Katherine Mansfield’.
Figura chiave del movimento modernista, l’autrice neozelandese interpretò in modo autentico l’esortazione avanguardista di Ezra Pound a rinnovare la narrativa e la poesia, modulando la sua voce originale soprattutto nei racconti brevi.
Spiega la traduttrice Franca Cavagnoli, che ha curato per Mondadori nel 2006 la sua opera omnia in prosa: “Katherine Mansfield scrive con mani lievi: accenna, allude, sceglie con grazia gli aggettivi. È volutamente vaga -uno degli aggettivi prediletti della scrittrice neozelandese- perché preferisce che il significato rimanga sospeso, per così dire, aleggi impalpabile sulle cose”.
Scomparsa a soli 34 anni a causa della tubercolosi, la sfortunata narratrice trascorse gran parte della sua breve esistenza in Inghilterra, dove si trasferì all’età di 14 anni. Qui entrò in contatto con gli artisti che orbitavano nel Bloomsbury Group, divenendo amica tra gli altri di D. H. Lawrence e Virginia Woolf.
A Londra ebbe anche relazioni affettive anticonformiste per la società puritana dell’epoca, a causa delle quali fu diseredata dalla madre: si legò sentimentalmente ad almeno due donne e, nel 1909, sposò il maestro di canto George Bowden, da cui divorziò prestissimo.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita in varie nazioni, alla vana ricerca di una cura per la sua malattia, componendo un bellissimo epistolario per comunicare a distanza con i suoi conoscenti.
Tra le lettere, spicca l’accorata missiva indirizzata nel luglio 1919 alla pittrice Dorothy Brett, in cui confidava: “O Vita, misteriosa vita, che cosa sei tu? Forster dice: un gioco. Io sento ad un tratto come se da tutti quei libri venisse un clamore di voci. Sì, i libri parlano, specialmente i poeti. Come sono belli i salici, come sono belli, come piove il sole su di essi, le minuscole foglie si muovono come pesciolini. Oh sole, risplendi per sempre! Mi sento un po’ ebbra, mi sento come un insetto caduto nel cuore d’una magnolia.”
SOLITUDINE
(Kathleen Mansfield Beauchamp, nota come Katherine Mansfield)
Ora è la Solitudine, e non il Sonno,
che viene la notte a sedersi vicino al mio letto.
Distesa come una bimba stanca attendo il suo passo,
e la guardo spegnere la luce con un soffio lieve.
Salendo immobile, non si volge né a destra né a sinistra,
ma stanca, stanca abbassa il capo.
Anche lei è vecchia, anche lei ha combattuto tanto
da meritare la corona d’alloro.
Nella triste oscurità lenta rifluisce la marea
e s’infrange sull’arido lido, inappagata.
Soffia un vento insolito: poi il silenzio.
Sono pronta ad abbracciare la Solitudine,
a prenderle la mano, ad aggrapparmi a lei,
aspettando che l’arida terra si imbeva
della terribile monotonia della pioggia.
VOCI NELL’ARIA
Infine arriva, il raro istante,
quando, senza alcun motivo,
le flebili voci dell’aria
suonano sopra il mare e il vento.
Il mare e il vento obbediscono
e sospirano, si lamentano in doppia nota
di contrabbasso, si accontentano di ideare
un accordo per quelle piccole gole –
Le piccole gole cantano e si ergono
verso la luce con disarmante disinvoltura
e una specie di magico, dolce stupore
le intontisce mentre si ascoltano –
Eccole, le piccole voci: l’ape, la mosca,
la foglia che fa tip tap, il baccello che si
spacca, la brezza che piega gli aghi d’erba,
lo squillo ripido e acuto dell’insetto.
Le poesie della grande scrittrice anglo-neozelandese Katherine Mansfield (1888-1923) sono ora per la prima volta riunite ed ordinate insieme alle prose liriche a cura e nella traduzione di Maura Del Serra. Questi testi poetici formano l’intenso e multiforme “discanto”, l’officina autobiografica della sua opera, affidata alla rara e precoce perfezione dei celebri racconti brevi, invidiati dall’amica-rivale Virginia Woolf e capisaldi del modernismo europeo. Di Katherine Mansfield si possono leggere anche Tutti i racconti editi da Newton Compton (Roma, 2012, 2a edizione), sempre per la cura e la traduzione di Maura Del Serra.
Le quattro liriche che riproduciamo qui sono tratte dall’ottimo volume Katherine Mansfiled,
Poesie e prose liriche, a cura di Maura Del Serra, Pistoia, Petite Plaisance, 2013.
SLEEPING TOGETHER
Sleeping together … how tired you were! …
How warm our room … how the firelight spread
On walls and ceiling and great white bed!
We spoke in whispers as children do,
And now it was I – end then it was you
Slept a moment, to wake – “My dear,
l’m not at all sleepy”; one of us said …
Was it a thousand years ago?
I woke in your arms -you were sound asleep –
And heard the pattering sound of sheep.
Softly I slipped to the floor and crept
To the curtained window, then, while you slept,
I watched the sheep pass by in the snow.
O flock of thoughts with their shepherd Fear
Shivering, desolate, out in the cold.
That entered into my heart to fold!
A thousand years … was it yesterday
When we, two children of far away,
Clinging close in the darkness, lay
Sleeping together? … How tired you were! …
DORMENDO INSIEME
Dormendo insieme … com’eri stanco!
Com’era calda la stanza … e come si spargeva
La fiamma del camino su pareti e soffitto
E sul gran letto bianco!
Come i bimbi, a bisbigli parlavamo,
E a vicenda, svegliandoci da un attimo di sonno –
Uno di noi diceva: “Caro, proprio non dormo”…
Era mille anni fa? Io mi svegliai
Fra le tue braccia – dormivi profondo –
E udii lo zampettare di un gregge. Scivolai
Giù dal letto e raggiunsi la finestra e le tende,
E, mentre tu dormivi, guardai il gregge passare
[nella neve svanendo.
O gregge di pensieri col pastore Spavento,
Che in desolato brivido dal gelo di fuori
Mi entrasti in cuore per avvilupparlo!
Mille anni … ma non era ieri quando noi, due
Bimbi stranieri, stretti nel buio giacevamo
Dormendo insieme? … Com’eri stanco! …
********************
SEA SONG
I will think no more of the sea!
Of the big green waves
And the hollowed shore,
Of the brown rock caves
No more, no more
Of the swell and the weed
And the bubbling foam.
Memory dwells in my far away home,
She has nothing to do with me.
She is old and bent
With a pack
On her back.
Her tears all spent,
Her voice, just a crack.
With an old thorn stick
She hobbles along,
And a crazy song
Now slow, now quick
Wheezes in her throat.
And every day
While there’s light on the shore
She searches for something,
Her withered claw
Tumbles the seaweed;
She pokes in each shell
Groping and mumbling
Until the night
Deepens and darkens,
And covers her quite,
And bids her be silent,
And bids her be still.
The ghostly feet
Of the whispery feet
Tiptoe beside her.
They follow, follow
To the rocky caves
In the white beach hollow…
She hugs her hands,
She sobs, she shrills,
And the echoes shriek
In the rocky hills.
She moans; it is lost!
Let it be! Let it be!
I am old. I’m too cold
I am frightened … the sea
Is too loud … it is lost,
It is gone … Memory
Wails in my far away home.
CANTO DEL MARE
Non voglio più pensare al mare!
Alle grandi onde verdi
E alla concava spiaggia,
Alle grotte di roccia bianca –
Non più, non più pensare
Al flutto e all’alga,
Al ribollir di schiuma.
Vive nella mia casa lontana la Memoria,
Non ha niente a che fare con me.
È vecchia e curva,
Ha un fagotto
Sulle spalle.
Sparse tutte le lacrime,
La voce, un roco schiocco.
Con un vecchio bastone
Spinoso avanza zoppicando,
E una pazza canzone
Ora lenta, or veloce
Le ansima in gola.
Ed ogni giorno
Finché la spiaggia è in luce
Cerca qualcosa,
Il suo artiglio appassito
Fruga le alghe marine;
Fruga in ogni conchiglia,
Brancolando borbotta
Finché la notte
Cala oscura all’intorno
E tutta la ricopre
E le impone silenzio
Ed immobilità.
I piedi fantasmatici
Delle onde mormoranti
Le camminano accanto sulle punte.
La seguono, la seguono
Nelle grotte rocciose
Della concava spiaggia
Bianca … Stringe le mani,
Singhiozza, stride via,
E gli echi urlano erranti
Per i colli rocciosi.
Si lamenta: tutto è perso!
Sia come sia! Sia come sia!
Sono vecchia, agghiacciata,
E spaventata … Il mare
Rimbomba troppo … è perso,
Scomparso … La Memoria
Là geme, nella mia casa lontana.
**********************
SANARY
Her little hot room looked over the bay
Through a stiff palisade of glinting palms
And there she would lie in the heat of the day
Her dark head resting upon her arms
So quiet so still she did not seem
To think to feel or even to dream.
The shimmering blinding web of sea
Hung from the sky and the spider sun
With busy frightening cruelty
Crawled over the sky and spun and spun
She could see it still when she shut her eyes
And the little boats caught in the web like flies.
Down below at this idle hour
Nobody walked in the dusty street
A scent of dying mimosa flower
Lay on the air but sweet – too sweet.
SANARY
La sua calda stanzetta guardava sulla baia
Oltre una palizzata erta di palme lucenti,
Là nell’afa del giorno lei si andava a sdraiare,
La testa bruna tutta reclina sulle braccia,
Così immobile e quieta che neppure sembrava
Pensare né sentire, e nemmeno sognare.
La ragnatela accecante del mare
Giù pendula dal cielo brillava, e il ragno-sole
Con spaventosa crudeltà affannata
Strisciava sopra il cielo e filava e filava-
Lei lo vedeva anche ad occhi serrati
Con le barchette-mosche prese dentro la rete.
E giù, nell’indolenza di quest’ora,
Nessuno nella strada polverosa passava,
Un profumo morente di fiore di mimosa
Ma dolce, troppo dolce, fermo in aria alitava.
***********************
ET APRÈS
When her last breath was taken
And the old miser death had shaken
The last, last glim from her eyes
He retired
And to the world’s surprise
Wrote these inspired, passion-fired
Poems of Sacrifice!
The world said:
If she had not been dead
(And buried)
He’d never have written these.
She was hard to please.
They’re better apart
Now the stone
Has rolled away from his heart
Now he’s come into his own
Alone.
ET APRÈS
Quando il respiro estremo ebbe esalato
E la vecchia rapace morte ebbe predato
L’ultima luce dagli occhi di lei,
Lui si appartò
E con sorpresa del mondo
Queste Poesie del Sacrificio scrisse
Ispirate, roventi di passione!
Se lei non fosse morta
(E seppellita), il mondo disse,
Lui non le avrebbe mai scritte.
Lei era ostica, stanno
Meglio divisi –
Ora il masso
Gli è rotolato via dal petto
Ora è padrone di se stesso,
Solo.
Biografia di Katherine Mansfield scritta da Elena Petrassi- Fonte Enciclopedia delle donne
Per diventare Katherine Mansfield la piccola Beauchamp impiegò tutta la sua breve e intensa vita, continuando a usare una miriade di nomi, ognuno dei quali legato a uno stato d’animo, a una relazione, a una percezione dell’essere. Così in Katherine convivevano Kass, Katie, K.M., Mansfield, Katherine, Julian Mark, Katherine Schönfeld, Matilda Berry, Katharina, Katiushka, Kissienka, Elizabeth Stanley e infine Tig, la tigre sposata con John Middleton Murry.
Nata in una famiglia dell’alta borghesia di Wellington – genitori, un fratello, tre sorelle, una zia e una nonna – visse un’infanzia agiata e colma di meraviglia che diventerà forse l’unico centro della sua vita e la fonte stessa dell’ispirazione artistica. L’infanzia sarà trasfigurata, mai declinata al passato, ma sempre raccontata in un eterno presente. Le piccole protagoniste Lottie e Kenzia di Preludio ogni giorno traslocano nella nuova casa, il sole della baia di Crescent sorge in eterno e Bertha Young in Felicità, continua a scintillare all’unisono con il suo piccolo, perfetto mondo, simboleggiato da un pero fiorito che, alla fine, sarà anche il simbolo della finzione e delle maschere dietro cui la vita vera si nasconde.
Ma come fu la vita di Katherine? Di certo una vita dolorosa, solitaria, audace e anti-conformista, segnata dall’esilio e dalla malattia e da un desiderio mai esaudito di un focolare domestico, di una vita da donna come tutte le altre; una vita segnata dalla contraddizione, poliedrica e febbricitante. «Ho sempre avuto una furia isterica di vivere, l’isteria è una grande ispiratrice. Detesto le ore grigie, amo i giorni che passano all’orizzonte come nubi di tempesta». Fu una scrittrice perseguitata dalle furie, come scrive una delle sue biografe Claire Tomalin. E fu anche «Un essere segreto fino in fondo a me stessa» come scriveva all’amica di tutta la vita Ida Baker.
Lasciò la Nuova Zelanda una prima volta nel 1903 per andare a Londra a completare gli studi.
Scrisse nel suo diario durante il viaggio «Indipendenza, risolutezza, uno scopo fermo, il dono della discriminazione, chiarezza mentale. Ecco le doti indispensabili». Ma le furie non le permisero altro che il dono della chiarezza e la costrinsero a non potersi fermare in nessun luogo. Completati gli studi al Queen’s College fece ritorno in Nuova Zelanda solo per scoprire che non poteva più vivere nella terra natale.
Proprio in quella fase della sua vita scoprì la sua vocazione di scrittrice. Il ritorno a Londra nel 1908 fu l’inizio della sua vita bohémienne. Una relazione amorosa appassionata la legò al giovane musicista Garnet Trowell, ma venne osteggiata dalla famiglia di lui. Troncata questa storia d’amore, in maniera precipitosa, e anche misteriosa, si unì in matrimonio con il maestro di canto George Bowden, maggiore di lei di undici anni. Il matrimonio durò soltanto un giorno e subito dopo la madre di Katherine, Annie Beauchamp, la condusse in Baviera anche con la speranza di interrompere la relazione amorosa con Ida Baker. I racconti della raccolta In a German Pension, nascono da quel soggiorno ma anche dall’incontro con i libri di Anton Cechov, l’unico scrittore con il quale forse si confrontò per tutta la vita. La pubblicazione del primo libro la fece entrare in contatto con la rivista letteraria «Rhythm» dove incontrò l’uomo più importante, il futuro marito, biografo e curatore letterario, il critico e scrittore John Middleton Murry. La loro relazione attraversò fasi altalenanti, fu costellata di grandi distacchi durante i quali l’amore ardeva più forte e i progetti per il futuro comune si moltiplicavano. Quando lei iniziò a soggiornare in Costa Azzurra a causa dei problemi polmonari, scriveva a John di Villa Pauline a Bandol dove risiedeva: «Se tu verrai, ho trovato per noi, una minuscola villa che mi pare, a suo modo, quasi perfetta. È isolata, in un piccolo giardino a terrazze, è esposta a mezzogiorno e prende il sole da mattina a sera. Ha una veranda di pietra e una piccola tavola rotonda dove possiamo sederci per mangiare e lavorare. Una graziosa piccola cucina con pentole e padelle e un grande bricco per il caffè».
Quello trascorso a Villa Pauline fu il periodo più felice della sua vita, al punto che anni dopo scrive in una lettera a un amico «Quando scrivo mi sento così vicina al mio io-scrittore, al mio “Pauline” io-scrittore…». È proprio in quel primo soggiorno che Katherine scrisse alcune delle sue pagine più belle, tra cui Preludio, il racconto che verrà poi pubblicato dalla Hogarth Press, la casa editrice di Virginia Woolf. È John a sottolineare che Katherine, nel suo continuo scrivere lettere, era una donna innamorata non solo del marito ma di tutti, una donna in profonda connessione con la bellezza e il dolore del mondo, con la disperazione e la speranza che mai veniva meno. Il dolore fu per la Mansfield la strada per giungere a una più chiara visione e una più piena accettazione della vita.
«Bisogna sottomettersi. Non resistere. Accogliere il dolore. Essere come sommersi. Accettarlo pienamente. Farne parte della propria vita… Nella vita, qualunque cosa venga realmente accettata, subisce poi un mutamento.»
Il dolore e l’esilio furono la sua condizione esistenziale, il marito così ne scrisse nel lungo ritratto che le ha dedicato nel suo libro Katherine Mansfield and other literary portraits «Viveva in esilio dal paese natale e questo è un fatto materiale. Ricreò il paese natale e questo è un fatto spirituale. Il paese che lei ha ricreato non è però la Nuova Zelanda, ma un paese universale, la terra dell’innocenza, quella cui tutti gli spiriti aspirano. Cercava una casa: ma quello che non trovò in Nuova Zelanda non riuscì a trovarlo in nessun altro paese al mondo o forse lo ha trovato in tutti. Per lei casa significava la sicurezza dell’amore di “essere in una qualche via per la pace, colma di felicità”».
Negli anni in cui cercava la propria voce di scrittrice, ebbe il privilegio di conoscere e frequentare alcuni tra i più grandi scrittori e pensatori inglesi dell’epoca. Oltre a Elizabeth Von Arnim, sua cugina, fu legata da profondi rapporti di amicizia con D.H. Lawrence, Bertrand Russel, Lady Ottoline Morrel e Virginia Woolf. Nel 1916, all’inizio della loro frequentazione, la Woolf restò scioccata dalla maniere allo stesso tempo dure e ordinarie della Mansfield e la trovò «sgradevole, ma energica e totalmente prIva di scrupoli», come riporta la Tomalin nella biografia di Katherine che invece ne è fatalmente attratta: «L’amo infinitamente… Ho sentito per la prima volta l’estranea, fremente, scintillante qualità del suo spirito – e per la prima volta ho avuto l’impressione di incontrare una di quelle donne di Dostoevski, la cui innocenza è stata ferita» scrive all’amica comune Ottoline. Quando nell’agosto del 1917 Katherine raggiunge Virginia nella residenza di Asheham, le due scrittrici fanno una lunga passeggiata in collina, contemplando i cardi, le farfalle e gli aerei che solcano il cielo… Dopo la visita Katherine scrisse una lunga lettera di ringraziamenti, dove esaltò le qualità della Woolf e sottolineò le ambizioni simili che entrambe nutrivano nei confronti della letteratura e nella loro vita di scrittrici. Nel 1918 durante un soggiorno a Mentone, il ritorno a Villa Pauline è fonte di una tremenda disillusione. Tutto è cambiato, il tempo è tremendo, nessuno la riconosce. La malattia è ormai conclamata e la trascina verso la morte implacabile come “un enorme uccello nero”. Nel maggio dello stesso anno finalmente Katherine e John si sposano e continuano le peregrinazioni da un paese all’altro cercando sia la salute che una maggiore profondità e pienezza della scrittura. Nelle pagine bellissime che le dedica nel suo libro Da una stanza all’altra così scrive Grazia Livi: «La chiave di volta del suo lavoro è l’esperienza. L’esperienza intesa come contatto immediato col reale. Sentita alla stessa maniera dei poeti: non tanto per il contenuto in sé, quanto per la sua indicibile qualità, che è spia folgorante e elusiva della profondità della vita. Anche lei, come Joyce, come la Woolf, aspira ad afferrarla, elaborando un sentimento del momento di essere, o del momento reale. Ma con una differenza. Il momento della Mansfield non ha una tonalità concettuale, né spirituale, ma solo intuitiva, e vuole esprimere solo una sorta di adesione pura, un puro trasferirsi nell’altro e nella situazione, con assoluta sincerità, con assoluta limpidità».
«Senza emozione la scrittura è morta» sentenzia in una recensione nella rivista «Athenaeum» Katherine stessa. Ma cosa significava scrivere per lei? A più riprese annotava nel diario che scrivere significava riportare in vita il fratello morto in guerra, salvare dall’oblio l’infanzia comune, adempiere «a un dovere verso quel tempo felice… quando eravamo vivi tutti e due… adesso desidero scrivere del mio paese fino al completo esaurimento dei miei mezzi… ho bisogno di tenere una specie di diario minuto da pubblicare un giorno. Non romanzi, non racconti a tesi, nulla che non sia semplice e chiaro… Sento il mio lavoro come una passione: è la mia religione, il mio mondo, la mia vita». Il suo scrivere era luminoso, la sua intenzione di cogliere il momento, riuscita. Di certo i suoi racconti risentono dell’influenza di Cechov che lei tradusse lungamente, al punto che una sua traduzione di un racconto inedito venne pubblicata come se fosse un suo racconto originale. Ma la tensione e la concentrazione, la capacità di raccontare con poche immagini un luogo come fosse una persona, uno stato d’animo come un temporale sono solo suoi. La Mansfield aveva un dono originale che anche Virginia Woolf le invidiava: i suoi personaggi sono vivi, i dialoghi brillanti, le descrizioni vivaci. E tutto il suo tessuto narrativo è così personale che anche Pietro Citati nel suo famoso libro Vita breve di Katherine Mansfield, attinge a piene mani dalla sua scrittura per creare il personaggio Mansfield.
I successivi soggiorni in Cornovaglia, a Ospedaletti, a Mentone e poi di nuovo Londra fruttano i nuovi racconti Felicità, La giornata di Reginald Peacock, Istantanee, Je ne parle pas français, Veleno. Nel 1920 esce Felicità, il secondo libro di racconti ma non ne è contenta. A Mentone, Villa Isola Bella, è più rilassata e fiduciosa nei propri mezzi e nella possibilità di una guarigione.
Ancora la Livi sottolinea: «La verità è che la creatività, per affiorare, ha bisogno di un presente privo di tensioni, fatto di maglie lunghe e invarianti».
Nel 1921 è di nuovo in Svizzera con il marito in una realizzazione del suo caldo sogno domestico che Villa Pauline aveva provvisoriamente incarnato. Ma è di nuovo un’illusione, uno stato momentaneo dell’essere. Nel 1922 si recò a Parigi per provare una nuova terapia e lì entrò in contatto con Gurdjeff e fu attratta dalla sua dottrina esoterica. Lo raggiunse a Fontainebleau dove incontrò anche la vedova di Cechov. Lì risiedeva nella stanza piccola e fredda che le era stata destinata e trascorse molte ore nella stalla a respirare l’alito delle mucche che vi erano ricoverate. Non si lamentò, non desiderò null’altro che essere lì a osservare la nuova realtà che la circondava. Tra le ultime parole che scrisse in russo su un taccuino che sempre l’accompagnava leggiamo: carta, cenere, legna. Così come il ciclo della carta che nasce dal legno e finisce in cenere, Katherine Mansfield brillò nelle sue ultime ore e si spense all’improvviso la sera del 9 gennaio 1923. Al suo funerale c’erano solo il marito, le sorelle, Ida e Orage, il suo primo editore.
L’epitaffio sulla sua tomba è una citazione dall’ Enrico IV di Shakespeare: «Ma io vi dico, mio sciocco signore, che da questa ortica, da questo rischio, cogliamo il fiore della sicurezza».
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Katherine Mansfield
Katherine Mansfield, Tutti i racconti, 5 voll., Adelphi 1979
Katherine Mansfield, Epistolario, Il Saggiatore 1971
Grazia Livi, Da una stanza all’altra, Garzanti 1984
Claire Tomalin, Katherine Mansfield, a secret Life, Viking 1987
Pietro Citati, Vita breve di Katherine Mansfield, Rizzoli 1980
Kathleen Jones, Katherine Mansfield: the Storyteller, Penguin 2010
Referenze iconografiche: Kathrine Mansfield nel 1912. Fonte: http://www.katherinemansfield.net/life/briefbio1.htm. Immagine in pubblico dominio.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
2)Caio Mario Coluzzi Bartoccioni-Biologo-
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Biografia du Caio Mario Coluzzi Bartoccioni-Biologo
Biologo italiano (Perugia 1938 – Roma 2012). Introdotto allo studio scientifico dal padre (noto malariologo), ancora liceale ha pubblicato il suo primo contributo sulla resistenza al DDT dei vettori italiani di malaria (1956). Durante la formazione universitaria e post-universitaria in Malariologia, Genetica e Parassitologia ha continuato le ricerche sugli insetti responsabili della trasmissione e negli anni è giunto a riconoscere sei specie gemelle di zanzara Anopheles (arrivando a identificarne l’intero genoma). Nominato professore ordinario di Parassitologia alla Sapienza di Roma (1982, Facoltà di Medicina e Chirurgia), è stato direttore del Centro Collaboratore per l’Epidemiologia e il Controllo della Malaria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Nel 2008 gli è stato consegnato il BioMalPar Life Award dal gruppo istituito dalla Commissione Europea per la biologia e la patologia del parassita della malaria; nel 2009 C. è diventato membro ordinario dell’Accademia dei Lincei.
Figlio dell’epidemiologo umbro Alberto Coluzzi, e di Anna Wimmer, educatrice tedesca di Passavia, ebbe come sorella l’attrice Francesca Romana Coluzzi. Visse i primi anni con la famiglia in Albania, dove il padre era stato inviato per svolgere attività di ricerca e lotta antimalarica dall’Istituto di MalariologiaEttore Marchiafava, durante il periodo di occupazione italiana. In seguito agli eventi legati all’Armistizio di Cassibile, il 14 ottobre 1943 la famiglia fece ritorno a Perugia, per poi trasferirsi alla fine del 1945 nella Casa delle Palme, una grande casa di campagna sita nella frazione di Monticelli, acquistata dal padre per insediarvi la famiglia, ed affittata dallo Stato Italiano per crearvi congiuntamente un laboratorio sperimentale di indagini malariologiche.
Dopo la laurea in Scienze Biologiche, si è sposato il 14 luglio 1963 con Adriana Sabatini, ricercatrice in Parassitologia all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, con la quale ha portato avanti una fruttuosa collaborazione scientifica per anni, e dalla quale ha avuto una figlia, Barbara Coluzzi Bartoccioni, nata a Roma l’8 giugno 1970.[1]
È stato diagnosticato affetto da un Parkinson rigido nel 1994, ed è morto di polmonite ab-ingestio dopo una decina di anni da quando era rimasto immobilizzato in sedia a rotelle a causa della rottura a distanza di poco tempo di un femore dopo l’altro. Nel frattempo la malattia era stata più accuratamente diagnosticata come una paralisi sopra-nucleare progressiva, in base all’esame della RMN.
Contributi scientifici
Iniziato alla ricerca scientifica in giovane età dal padre Alberto (la sua prima pubblicazione risale ai tempi del Liceo classico), è stato autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche. Le ricerche di Mario Coluzzi hanno intanto messo in evidenza gli effetti disastrosi del DDT sull’equilibrio degli ecosistemi (laghetti e simili), quindi anche di medicinali quali la clorochina sull’insorgenza di fenomeni di resistenza del plasmodio responsabile della malaria nella zanzaraAnopheles, vettore della malattia.
Importanti sono i suoi contributi sulla genetica dei vettori malarici, che lo hanno portato al riconoscimento dell’esistenza di sei specie gemelle del genere Anopheles, ciascuna in possesso di diversa capacità di contribuire alla diffusione della malattia, che possono distinguersi solo in base all’esame intanto con microscopio ottico dei cosiddetti “cromosomi giganti”, presenti in particolare nelle ghiandole salivari per permettere la produzione rapida di un’abbondante quantità di saliva (che viene iniettata alla puntura per impedire la coagulazione del sangue, che poi è quella che produce la caratteristica reazione di prurito e nella quale si trovano eventualmente i plasmodi responsabili della malaria). Collegato a questo lavoro è l’ipotesi da lui avanzata negli ultimi anni, su una speciazione tuttora in atto nel complesso Anopheles gambiae, che è stata successivamente confermata da studi di biologia molecolare. Un’altra linea di ricerca originale importante è stata quella sull’origine e diffusione della forma di malaria che può rivelarsi fatale per l’Homo sapiens, dovuta all’opera di diverse specie di Anopheles divenute spiccatamente antropofile circa 6 000 anni fa, in concomitanza con il passaggio dell’Homo sapiens da arboricolo ed allevatore a coltivatore prevalentemente stanziale, dando inizio al processo che avrebbe portato all’espansione e diffusione attuale della malattia nella popolazione umana.
Le sue ricerche genetiche hanno poi portato alla pubblicazione dell’intero genoma dell’Anopheles e del Plasmodium. All’attività di Coluzzi si deve poi la creazione di una scuola scientifica, che conta decine di importanti scienziati, e la promozione e direzione di importanti collaborazioni scientifiche internazionali con paesi in via di sviluppo, per la lotta alla malaria, soprattutto in area sub-sahariana, finanziati dal Ministero degli affari esteri e dall’Istituto Pasteur-Fondazione Cenci Bolognetti. In particolare, è stato dedicato alla sua memoria il nome di una specie identificata in seguito nell’Africa sub-sahariana, l’Anopheles coluzzii.
Gli studi di Mario Coluzzi sui siti riproduttivi del vettore malarico Anopheles gambiae, costituiti da piccoli ed effimeri accumuli temporanei di acqua dolce, hanno mostrato come non sia acriticamente estensibile, all’Africa subsahariana, il modello sinergico che vede, nel mondo occidentale, le pratiche e lo sviluppo agricolo quali importanti elementi di contrasto alla riproduzione del vettore. In ambiente subsahariano, al contrario, i fattori di trasformazione ambientale indotti dall’uomo (deforestazione, irrigazione, desalinizzazione delle aree costiere), hanno il solo effetto di moltiplicare i siti e le opportunità riproduttive del vettore, incrementando la trasmissione del parassita.
^ Jeffrey R. Powell, Nora J. Besansky, Alessandra della Torre, Vincenzo Petrarca, Mario Coluzzi (1938–2012), in Malaria Journal, vol. 13, n. 1, 22 gennaio 2014, pp. 10, DOI:10.1186/1475-2875-13-10. URL consultato il 25 febbraio 2024.
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