Rita Levi-Montalcini, non si vergognava di mostrare al mondo le sue debolezze, tanto da chiamare la sua autobiografia “Elogio dell’imperfezione”.
Vedeva l’imperfezione come parte integrante della natura umana e come un elemento necessario per la crescita personale.
La sua esperienza di vita, che la vide costretta a fuggire dall’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e ad affrontare difficoltà d’ogni sorta nella sua carriera, la portò a sviluppare una profonda consapevolezza dei propri limiti: la filosofia di vita di una persona molto umile e modesta.
Dietro questa modestia nascondeva una volontà d’acciaio, che l’ha portata ai risultati che conosciamo tutti.
Ha lasciato scritto:
«La mancanza di complessi, una notevole tenacia nel perseguire la strada che ritenevo giusta e la noncuranza per le difficoltà che avrei incontrato nella realizzazione dei miei progetti, lati del carattere che ritengo di aver ereditato da mio padre, mi hanno enormemente aiutato a far fronte agli anni difficili della vita.>>
Figlia di genitori, molto colti, di origini sefardite, si formò nella sua Torino, studiando medicina.
Ebbe come compagni universitari due futuri Nobel, Salvador Luria e Renato Dulbecco. tutti e tre alla scuola dell’istologo Giuseppe Levi, il padre di Natalia Ginzburg.
Sin da subito si dedicò agli studi sul sistema nervoso, studi che avrebbe proseguito per tutta la vita.
Laureatasi nel 1936 si specializzò in neurologia e psichiatria, fu incerta se dedicarsi alla professione medica o portare avanti le ricerche in neurologia.
In seguito alle leggi razziali del 1938 la Levi-Montalcini, fu costretta a emigrare.
Nel marzo del 1939, insieme alla famiglia, andò Belgio, per un po’, fu ospite dell’istituto di neurologia dell’Università di Bruxelles
Il giorno prima di Natale, sempre con la famiglia tornò in auto a Torino, dove, allestì un laboratorio domestico nella sua camera da letto.
Poco dopo la raggiunse Giuseppe Levi, scappato dal Belgio, invaso dai nazisti. Rita fu orgogliosa si avere il suo Professore come suo primo assistente. Il loro obiettivo era quello di comprendere il ruolo dei fattori genetici e di quelli ambientali nella differenziazione dei centri nervosi.
Ma, il pesante bombardamento di Torino da parte delle forze aeree angloamericane nel 1941, rese indispensabile abbandonare la città. Si rifugiò in una villa delle colline astigiane, dove ricostruì il suo mini laboratorio e riprese gli esperimenti.
Nel 1943 l’invasione dei tedeschi costrinse la famiglia ad abbandonare il loro rifugio ormai insicuro.
Iniziò un pericoloso viaggio che si concluse a Firenze dove sopravvissero rimanendo nascosti e separati, cambiando spesso abitazione.
Nell’agosto 1944 i tedeschi lasciarono Firenze e Rita prestò servizio come medico presso il Quartier Generale anglo-americano, occupandosi di malati di malattie infettive.
E’ qui che si accorse di un suo grande difetto come medico, quel lavoro non era adatto a lei. Non riusciva ad avere il necessario distacco personale dal dolore dei pazienti.
Terminata la guerra, nel 1945 tornò a Torino dove riprese gli studi accademici sempre grazie all’aiuto di Giuseppe Levi.
Nel 1946 il biologo Viktor Hamburger, i cui studi erano stati oggetto di verifica negli esperimenti condotti con Levi durante il periodo della guerra, la invitò a Saint Louis, presso il Dipartimento di zoologia della Washington University.
Innestando in embrioni di pollo frammenti di speciali tumori, poté osservare il prodursi di un “gomitolo” di fibre nervose.
Nel dicembre 1951 presso la New York Academy of Sciences, presentò l’ipotesi di un agente promotore della crescita nervosa. La sua tesi che cercava di spiegare la differenziazione dei neuroni e la crescita di quelle fibre nervose, ipotizzava l’esistenza di fattori di crescita capaci di controllare questa differenziazione.
La tesi venne approfondita con nuovi esperimenti, condotti nel 1952 con la coltura in vitro all’Università di Rio de Janeiro. Infine giunse la scoperta del fattore di crescita nervoso: una proteina che gioca un ruolo essenziale nella crescita, che fu chiamata Nerve Growth Factor (NGF).
Nel 1956 venne nominata professoressa associata e nel 1958 professoressa ordinaria di zoologia presso la Washington University di Saint Louis. Nonostante inizialmente volesse rimanere in quella città solo un anno, vi lavorò e vi insegnò fino al suo pensionamento, avvenuto nel 1977.
Nel 1986 ricevette il Nobel per la medicina insieme al biochimico Stanley Cohen. Nella motivazione del premio si legge: «La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo».
La scienziata ha devoluto una parte dell’ammontare del premio alla comunità ebraica, per la costruzione di una nuova sinagoga a Roma. Nel 1987 ricevette dal Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan la National Medal of Science, l’onorificenza più alta nel mondo scientifico statunitense.
Lavorò assiduamente anche in Italia: fondò un gruppo di ricerche e diresse il Centro di Ricerche di neurobiologia creato dal CNR a Roma. Si ritirò da questo incarico solo “per raggiunti limiti d’età”.
Nominata senatrice, è stata la più anziana della storia repubblicana italiana. In occasione del compimento dei cento anni ebbe modo di dichiarare:
“Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”.
Rita Levi-Montalcini è morta il 30 dicembre 2012, alla veneranda età di 103 anni.
Le sue ceneri sono state tumulate nella tomba di famiglia nel settore ebraico del cimitero monumentale di Torino.
Pierre Antonetti-La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante-
Editore Rizzoli-Articolo di Giovanni Teresi
Descrizione del libro– di Pierre Antonetti –La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante -Articolo di Giovanni Teresi:Innanzitutto, non era la Firenze della Cupola del Brunelleschi, di Palazzo Pitti, del Campanile diGiotto o di Palazzo Strozzi. Era una delle città più popolose d’Italia (nel 1280 contava già tra i quarantamila e i cinquantamila abitanti),ma non aveva ancora dei monumenti architettonici imponenti; il centro cittadino era un complesso intrico di viuzze, case addossate le une sulle altre, botteghe, fondaci e botteghe, dominate dall’alto dalle case torri delle famiglie più importanti della città, costruite soprattutto per difendersi dai frequenti attacchi delle famiglie rivali.
La città ovviamente era piena di chiese,che tuttavia non avevano le dimensioni delle successive costruzioni. Tra le tante, ce ne sono tre molto legate a Dante: la prima è ovviamente il Battistero di San Giovanni, la chiesa cittadina per antonomasia, dove Dante era stato battezzato e dove, come racconta lui stesso nella Divina Commedia, aveva salvato un bambino rompendo una fonte battesimale (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XIX,vv. 16-21: “Non mi parean men ampi né maggiori/ che que’ che son nel mio bel San Giovanni,/ fatti per loco d’i battezzatori; / l’un de li quali, ancor non è molt’anni,/ rupp’io per un che dentro v’annegava:/e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.” ).
Dante Alighieri
La seconda è la Badia fiorentina, una delle chiese più vecchie di Firenze, dove Dante andava spesso a messa, la quale viene citata nel XV Canto del Paradiso da Cacciaguida, l’avo di Dante, come la chiesa vicina alle vecchie mura della città, dal cu campanile si odono ancora i battiti delle ore canoniche ( Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, C. XV,vv. 97-99: “Fiorenza dentro da la cerchia antica,/ ond’ella toglie ancora e terza e nona,/ si stava in pace, sobria e pudica.”).
La terza e ultima chiesa è la chiesa di Santa Margherita,una piccola chiesetta vicino la (presunta) casa di Dante, dove la leggenda vuole che sia la chiesa in cui il Poeta abbia incontrato per la prima volta Beatrice, che andava di solito lì a pregare.
“Se mai continga che ‘l poema sacro/
al quale ha posto mano e cielo e terra,/
sì che m’ha fatto per molti anni macro,/
vinca la crudeltà che fuor mi serra/
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,/
nimico ai lupi che li danno guerra;/
con altra voce omai, con altro vello/
ritornerò poeta, e in sul fonte/
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
Con questi versi, nei quali il poeta spera un giorno di poter tornare nella sua Firenze e ricevere la corona d’alloro nel suo “bel San Giovanni”, ha inizio il XXV Canto del Paradiso, una delle tre Cantiche della Divina Commedia di Dante Alighieri.
In questo capolavoro della letteratura mondiale, tra i tanti argomenti di cui si tratta, si parla molto spesso di Firenze, la patria ingrata del Poeta, da cui nel 1301, con la falsa accusa di baratteria, venne esiliato a vita.
Nonostante la rabbia di Dante verso quel popolo ingrato che l’aveva ingiustamente cacciato, Dante rammenta spesso la sua città natale, sia rimpiangendola, sia più spesso criticandola, per le sue continue lotte intestine e per la corruzione del governo e del popolo fiorentino, avido, invidioso e lussurioso; basti pensare, per esempio, a tutte le discussioni che Dante ha con i vari fiorentini incontrati durante il viaggio ultraterreno (Farinata degli Uberti, Brunetto Latini, Forese Donati,Ciacco), dove tutte le imperfezioni dei fiorentini vengono chiaramente fuori, e alla celebre invettiva del XXVI Canto dell’Inferno, nel quale il poeta inveisce contro Firenze, diventata famosa anche all’Inferno per la presenza di cinque suoi cittadini nella VII Bolgia del VIII Cerchio,dove sono puniti i ladri (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XXVI,vv. 1-3: “Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,/ che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande!”).
Oltre ai guelfi e ai ghibellini, nelle strade di Firenze c’erano donne che calzavano zoccoli in legno altissimi su strade trafficate e fangose, banchi di cambiatori, sarti, rigattieri, medici, barbieri e ciarlatani che vendevano droghe miracolose. L’autore Pierre Antonetti, nel suo testo, ci racconta diffusamente la tipica giornata del contadino. Si entra nei meccanismi delle magistrature, nei segreti delle corporazioni di artigiani, e si scopre come venivano combinati fidanzamenti e matrimoni. Proprio in questo periodo ha inizio il grande sviluppo artistico di Firenze, che oltre alle rime di Dante si concretizza con gli affreschi di Giotto e i primi disegni per il progetto del Duomo.
Alessandro Sacchi-UN PROGETTO GLOBALE DI LIBERAZIONE- Paolo di Tarso interpella la chiesa di Roma-
Descrizione del libro di Alessandro Sacchi-La lettera inviata da Paolo ai cristiani di Roma è forse il documento che più ha influito non solo sull’autocoscienza cristiana ma anche sulla cultura europea. In essa l’Apostolo approfondisce i valori della fede, dell’amore e della speranza, sui quali si basa un progetto di liberazione che coinvolge non solo una comunità religiosa ma tutta la società. Oggi appare più che mai necessario cogliere soprattutto il messaggio di speranza che Paolo ci ha lasciato, perché da esso dipende la possibilità stessa di immagine un futuro migliore per il quale vale la pena impegnarsi.
Alessandro Sacchi Un progetto globale di liberazione Gabrielli editori Verona
PREFAZIONE
Soprattutto però la lettura e la comprensione del testo paoli- no risultano particolarmente difficili in quanto Paolo è vissuto in un tempo per noi remoto e in un contesto storico-culturale molto diverso dal nostro. Egli infatti condivide con il mondo bi- blico e con tutto il mondo antico una visione mitologica secondo cui le sorti di questo mondo si decidono in un ambito superiore, abitato da una o più divinità e/o da esseri appartenenti alla sfe- ra divina. È in questo mondo superiore che si cerca, mediante racconti di carattere mitologico, la spiegazione delle origini di questo mondo e di quanto capita in esso. Oggi invece, in forza della mentalità scientifica ormai invalsa nel mondo moderno, si è portati a ricercare la spiegazione degli eventi di questo mondo risalendo alle loro cause, senza fare riferimento a entità superiori.
Per queste ragioni un semplice lavoro di esegesi difficilmente potrà aiutare il lettore moderno ad apprezzare il contributo che Paolo ha dato al pensiero religioso e anche a rendersi conto dei malintesi di cui è stato occasione. Se si vuole che il suo scritto dica qualcosa all’uomo moderno, è necessario ricostruire il suo ambiente d’origine, l’eredità che Paolo ha ricevuto dalla prima generazione cristiana circa la figura di Gesù, lo scontro che ha sostenuto con i sostenitori di altre interpretazioni del nascente cristianesimo, prima fra tutte quella dei giudaizzanti che faceva capo addirittura alla chiesa di Gerusalemme; inoltre non bisogna dimenticare che la cultura greca, in cui Paolo era immerso, ha esercitato un notevole influsso sul suo pensiero. Infine è necessa- rio tener presente che lo scopo della sua lettera non è dottrinale ma pastorale e quindi tende non tanto a formulare tesi accade- miche quanto piuttosto a risolvere problemi contingenti alla luce della fede comune.
Tenendo conto di queste difficoltà, mi sono proposto di non fare semplicemente un commento esegetico alla lettera e neppu- re entrare nel dibattito su singoli punti dello scritto. Lo scopo che mi sono prefisso è invece quello di situare la lettera all’in- terno del tessuto culturale in cui ha avuto origine e di proporne una rilettura che tenga presente le istanze del mondo moderno. A tal fine, ho ritenuto opportuno abbandonare la forma solita del commento che segue rigidamente la successione dei testi. Mi è sembrato più utile invece raggruppare i brani in cui si affronta
PREFAZIONE – 15
prevalentemente lo stesso tema in modo da esaminarne lo sfon- do culturale e i rapporti con la più antica tradizione riguardante Gesù di Nazaret, al fine di metterne in luce le implicazioni per i credenti di oggi. Quando si tratta di passaggi controversi, scelgo l’interpretazione che mi sembra più probabile, accennando ma- gari a una possibile alternativa o indicando in nota una fonte di ulteriore documentazione.
Nel c. I del volume presento il contesto storico-culturale della lettera. In esso abbozzo anzitutto una sintesi della storia e del- la letteratura biblico-giudaica, presentando poi i vangeli sinotti- ci, nei quali sono riportate le più antiche tradizioni riguardanti Gesù di Nazaret, e i momenti più salienti dell’attività di Paolo prima dell’invio della lettera. Naturalmente in questo primo ca- pitolo darò semplici indicazioni che il lettore potrà approfondire facendo ricorso alle fonti da me indicate e alle informazioni che attualmente si possono recuperare senza difficoltà anche in inter- net. Ciò vale soprattutto per la letteratura giudaica di cui certa- mente molti lettori sono all’oscuro.
Nel c. II affronterò più direttamente l’origine e i contenuti della lettera, tenendo conto delle informazioni che Paolo stesso fornisce nella cornice (prologo ed epilogo) della lettera stessa. Seguono due capitoli (cc. III e IV) nei quali delineo l’immagine di Dio e della legge mosaica a cui rispettivamente Paolo e Gesù si riferiscono sullo sfondo delle concezioni tipiche del mondo biblico-giudaico, con qualche riferimento alla cultura ellenistica. A questo punto affronterò il tema nevralgico del peccato (c. V); successivamente, dopo un capitolo riservato alla figura di Gesù nel cristianesimo primitivo(c. VI), esaminerò il tema della giu- stificazione mediante la fede (c. VII). Negli ultimi tre capitoli metterò a fuoco rispettivamente il pensiero di Paolo circa la vita secondo lo Spirito (c. VIII), la sua riflessione sul mistero di Israe- le (c. IX) e infine le esortazioni riguardanti la vita quotidiana dei credenti (c. X). Come conclusione tenterò una breve sintesi del messaggio della lettera all’interno di una cultura, la nostra, che non è più quella del suo autore (c. XI).
Al termine del volume riporto una bibliografia nella quale sono elencati per esteso i titoli delle opere citate nel testo. Per lo scopo che mi prefiggo, faccio riferimento quasi esclusivamente a
16 – PREFAZIONE
scritti in lingua italiana, nei quali il lettore può trovare la fonte di una particolare interpretazione oppure strumenti che aiutino ad approfondire un tema o un concetto specifico. Nelle note a piè di pagina mi limito a indicare in modo abbreviato i titoli delle ope- re utilizzate. Gli articoli che fanno parte di una raccolta di scritti dello stesso autore saranno segnalati solo in nota con il riferimen- to alla fonte da cui sono ripresi, il cui titolo è citato per esteso nella bibliografia. Alcune opere utilizzate in questo volume sono reperibili anche in internet: mi limito a segnalarle, lasciando al lettore il compito di ritrovarle facendo uso dei normali motori di ricerca. Per il testo della lettera mi servirò della traduzione uffi- ciale della CEI (2008), segnalando eventuali divergenze di inter- pretazione.
Per le sue caratteristiche, questo lavoro è rivolto soprattutto a quanti affrontano per la prima volta lo studio della lettera ai Ro- mani e non hanno ancora una sufficiente conoscenza della cul- tura e della letteratura biblico-giudaica di cui essa fa parte: non solo quindi agli studenti dei seminari e degli Istituti di scienze re- ligiose e ai catechisti, ma anche a tutti coloro che sono interessati a una lettura critica della Bibbia.
CONTESTO STORICO-CULTURALE
La lettera ai Romani è uno scritto che nasce all’interno della religione e della cultura giudaiche, in quanto sia il mittente che i destinatari facevano parte di un movimento che, nel giudaismo, si rifaceva a Gesù di Nazaret, riconosciuto come il Messia (Cri- sto) annunziato dai profeti. Per questo i suoi seguaci sono stati chiamati «cristiani» (cfr. At 11,26), un appellativo che è stato at- tribuito loro per designare non l’appartenenza a una diversa re- ligione ma semplicemente l’adesione a un gruppo giudaico nel quale le Scritture ebraiche erano lette alla luce dell’insegnamento di Gesù, considerato come il Messia (gr. Cristo) di Israele.
Per affrontare in modo fruttuoso lo studio di questo antico documento è necessario perciò anzitutto avere un’adeguata co- noscenza del giudaismo, che ai tempi di Paolo non si presen- tava ancora come una realtà omogenea, ma raccoglieva nel suo seno numerosi movimenti con caratteristiche diverse e a volte contrastanti. Siccome sia Paolo che i destinatari della sua let- tera si rifacevano all’insegnamento di Gesù, è anche necessa- rio conoscere i tratti caratteristici della sua persona come sono stati ricordati e trasmessi dai suoi primi discepoli. Infine è op- portuno indicare qual è stato il percorso che ha portato Paolo, all’interno di un’intensa attività come propagatore del vangelo di Gesù, a elaborare le idee che esprime nella sua lettera ai Ro- mani, l’ultima delle sette che, secondo la critica moderna, sono sicuramente autentiche (1Tessalonicesi, 1-2 Corinzi, Filippesi, Galati, Filemone, Romani).
Le origini del giudaismo
Nella Bibbia l’origine di quella realtà etnica, politica e religiosa chiamata giudaismo viene fatta risalire a un gruppo di pastori se- minomadi che riconoscevano come loro progenitore, Giacobbe, chiamato anche Israele, i cui discendenti si chiamavano perciò
18 – I. CONTESTO STORICO-CULTURALE
«figli d’Israele»1. A essi veniva attribuito anche, specialmente da stranieri, il nome di «ebrei». Il nome «giudei» subentra invece in un periodo successivo, determinato dalle vicende storiche di questo popolo.
Il periodo monarchico
Nella Bibbia ebraica si racconta che Giacobbe era nipote di Abramo, che da Ur dei Caldei, in Mesopotamia, era emigrato con i suoi greggi nella terra di Canaan, una regione attualmente chia- mata Palestina2, che Dio aveva promessa a lui e ai suoi discendenti. Giacobbe, con i suoi dodici figli, era disceso in Egitto a motivo di una carestia; lì i suoi figli si erano moltiplicati e avevano dato ori- gine a dodici tribù. Il loro sviluppo però aveva suscitato i timori degli egiziani, che li avevano ridotti in schiavitù; il loro Dio però era intervenuto in loro aiuto e li aveva liberati per mezzo di Mosè il quale li aveva condotti, attraverso il deserto, fino ai confini della terra promessa3. A Mosè era succeduto Giosuè che li aveva guidati alla conquista di tutto questo territorio. Per un certo periodo essi erano stati governati da capi improvvisati, i giudici, finché si erano organizzati in un regno prima sotto il re Saul e poi sotto Davide e suo figlio Salomone, al quale è attribuita la costruzione di un gran- de tempio a Gerusalemme dedicato al loro Dio. Sotto il figlio di Salomone, Roboamo, il regno si era diviso, dando origine a due re- gni spesso rivali: quello situato nel Nord della regione con capitale Samaria, portava il nome di Israele, mentre l’altro, più a Sud, la cui capitale era Gerusalemme, aveva preso nome da uno dei figli di Giacobbe/Israele, Giuda. Mentre il regno di Israele ha registrato diversi sovrani, quello di Giuda è stato governato senza interruzio- ne dalla dinastia di Davide.
1 Per la storia di Israele così come è narrata nella Bibbia cfr. il mio Israele racconta la sua storia. Per un tentativo di ricostruire la storia reale di questo popolo cfr. per esempio M. LiveRani, Oltre la Bibbia (vedi bibliografia).
2 Il nome Palestina deriva dai filistei, i quali anticamente occupavano la regione costiera. Esso è stato usato solo a partire dal II sec. d.C. dalle auto- rità romane, le quali applicarono a tutta la regione a sud della Mesopotamia il nome di Syria-Palaestina.
3 L’uscita dall’Egitto viene situata dagli studiosi verso il 1200 a.C., sempre che si tratti di un evento storico, cosa spesso negata dagli studiosi.
CONTESTO STORICO-CULTURALE – 19
Nel 722 a.C. il regno di Israele, più esposto alle invasioni pro- venienti dal Nord, cadde sotto i colpi dell’Assiria, che allora era la potenza dominante in Mesopotamia: Samaria venne distrutta e parte della sua popolazione fu deportata. Il regno di Giuda riu- scì invece a sopravvivere ancora per circa un secolo e mezzo; ma nel 587 a.C. i babilonesi, che da poco erano subentrati agli assiri nel controllo della regione, conquistarono e rasero al suolo Ge- rusalemme, distrussero il tempio che vi aveva costruito Salomone e deportarono in Mesopotamia molti dei suoi abitanti. Termina così il periodo monarchico della storia d’Israele.
Il Dio adorato nei due regni era una divinità etnica, chiamata con un nome la cui pronunzia è andata perduta a motivo dell’a- bitudine, invalsa fra i suoi adoratori, di sostituirlo con Adonay (Signore). Di esso sono rimaste quattro consonanti Y H W H (sa- cro tetragramma), pronunziate oggi, in base a una ricostruzione comunemente accettata, Yahweh4. Durante il periodo monarchi- co, non era esclusa l’esistenza delle divinità di altri popoli a cui occasionalmente si ricorreva quando ciò era ritenuto necessario. Particolare attrattiva esercitava Baal, il dio della pioggia e della fertilità, di cui gli israeliti avevano particolare bisogno per la loro attività agricola. Contro questa mentalità sincretistica si scaglia- vano gli antichi profeti i quali minacciavano, come conseguenza, terribili castighi da parte di yhwh5.
continua
ALESSANDRO SACCHI, presbitero del Pontificio Istituto Missioni Estere, ha conseguito il Dottorato in scienze bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico con una tesi diretta dal P. Stanislas Lyonnet dal titolo: «Il problema della “legge naturale” nell’esegesi di Rom 2,14-16», pubblicata successivamente presso le Edizioni Paoline con il titolo «Paolo e i non credenti. Lettera ai Romani 2,14-16.26-29» (Paoline Ed. Libri 2008). Ha svolto il suo insegnamento presso lo Studio Teologico-Missionario del suo Istituto, l’Università Cattolica del S. Cuore e il Seminario Regionale di Hyderabad (India). Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Tiene un sito web denominato www.nicodemo.net orientato soprattutto allo studio delle letture della liturgia domenicale.
Poesie di Titos Patrikios- “Tempo assediato – Πoλιορκημένος χρόνος” -Fallone Editore – anteprima dalla rivista «Atelier»-
Titos Patrikios (Atene, 1928) ha coltivato da sempre la poesia, esercitando nel contempo l’attività politica: esperienze intense, anche drammatiche, affrontate con onestà intellettuale e vigile spirito critico. Costantemente impegnato nel sostegno dei diritti civili, ha al suo attivo, oltre a numerosi racconti e traduzioni, diversi saggi letterari, sociologici e giuridici. La sua produzione poetica è raccolta nei volumi Ποιήματα Α’, 1943-1959 (2017), Ποιήματα Β’, 1959-2017 (2018) e Ο δρόμος και πάλι (2020). Fra le traduzioni italiane più recenti della sua opera si ricordano: Poesie scelte, a cura di V. Rotolo; La strada di nuovo, a cura di D. Puliga.
Titos-Patrikios-
Raccolta di 12 poesie curata e tradotta da Maria Caracausi
Non sono nato uomo compiuto,
giorno per giorno cresceva la mia vita
germogliando come un albero.
Non sono nato eroe,
giorno per giorno cresceva la mia vita
dentro paure stravinte.
Sono giunto vicino a voi con timore e speranza
ho cercato di diventare come volevate
per combattere insieme l’ingiustizia.
Tuttavia non mi curo più del vostro parere
fin quando cercheremo responsabili
fin quando metteremo a nudo la menzogna.
Non mi curo più del perdono di nessuno.
VIII
Πολιορκημένος χρόνος
Νομίζαμε πὼς γνωριζόμαστε καλά.
Μὰ ὅταν τὰ κουρασμένα ροῦχα μας ἀρχίσανε νὰ πέφτουν
χωρὶς προσχήματα οὔτε ἀνταλλάξιμη παραφορὰ
καὶ μεῖναν τὰ κορμιά μας ἀπροσποίητα
φάνηκε καθαρὰ πόσο μακρὺς ἦταν ὁ δρόμος
πόσο ἦταν ὁ χρόνος μας πολιορκημένος, κι ἐμεῖς
δυὸ ἄνθρωποι συνηθισμένοι, περίπου ἀπροσπέλαστοι.
Παρίσι, Μάρτης 1962
Tempo assediato
Pensavamo di conoscerci bene.
Ma quando i nostri indumenti stanchi cominciarono a cadere
senza pretesti né scambievole irruenza
e rimasero i nostri corpi senza finzione
apparve chiaramente quanto fosse lunga la strada
quanto il nostro tempo fosse assediato, e noi
due persone comuni, quasi inaccessibili.
Parigi, Marzo 1962
XII
Τὰ παιδικά μας χρόνια
Ἄν, ὅπως λένε, πατρίδα μας
εἶναι τὰ παιδικά μας χρόνια
τότε εἶναι μιὰ πατρίδα
ποὺ συνεχῶς ἀπομακρύνεται
ποὺ μόνο σὰν ἀνάμνηση
ὅλο καὶ πιὸ θαμπὴ μᾶς μένει.
Ἴσως καλύτερα νὰ ψάξουμε
γιὰ μιὰ πιὸ σταθερὴ πατρίδα.
Gli anni della nostra infanzia
Se, come si dice, la nostra patria
sono gli anni della nostra infanzia
allora è una patria
che continuamente si allontana
che solo come ricordo
resta per noi sempre più opaca.
Forse meglio cercare
una patria più stabile.
Nei versi di Patrikios la memoria assorbe in sé il ricordo per farne cosa ulteriore. Il passo ben fermo sulla terra pianeggiante, la Grecia e l’eco della guerra, la giustizia quale punto cardinale di una ricerca lunga quanto la vita, ma anche l’amore declinato al plurale, un’affezione che è duplice nella sfumatura semantica, e l’infanzia, legata alla patria e ai nomi, che determinano e stabiliscono le forme, persino i modi. Qui c’è la storia dell’individuo che non si incastra perfettamente con la storia della collettività, poiché l’uomo col suo vissuto e la sua integrità ha valore superiore a quello delle folle, che per loro natura non hanno volto né identità. Qui c’è l’uomo che attraversa la Storia e ci sono le storie dell’uomo che sovrasignificano il tempo.
Fallone Editore
La Fallone Editore è una casa editrice indipendente fondata nella primavera del 2017, pugliese per tassonomie geografiche, e radicata nella storia e nella cultura millenarie di questa terra, ma proiettata su una linea d’azione nazionale, sia per la distribuzione del prodotto editoriale che per l’eterogeneità degli autori che pubblica.
Tra i segmenti di suo interesse, non solo prosa e poesia, pilastri della Letteratura, ma anche saggistica, letteratura per l’infanzia, scienze ermetiche e pubblicazioni a carattere vario, che spaziano dalla cinotecnica alla musicologia, passando per le arti figurative, la culinaria, la fumettistica e la botanica (per maggiori dettagli si rimanda al progetto editoriale).
Se è vero, come forse è vero, che ‘il talento fa quello che vuole e il genio quello che può’ [C.B.], una casa editrice non può che essere una fucina, luogo in cui si forgia e si è forgiati al fuoco sacro del talento – che è dono di nascita e perciò divino – aristocraticamente elitario e perciò antidemocratico – indimostrabile, se non nell’evidenza di sé, e perciò innegabile.
Se è vero, come certamente è vero, che un libro non è soltanto un oggetto, per quanto bello possa essere, ma ‘è anche un luogo oscuro di sfoghi e di rimozioni, dove si combatte un duello senza pietà, con la sola scelta di guarire o morire’ [G. Bufalino], la scrittura è un attraversamento di sé, un disvelamento delle ombre che richiede coraggio: chiede passi fermi e sguardo alto.
In questi passi, i primi, in questo sguardo alto come il cuore, nasce la Fallone Editore.
di Enrica Fallone
Piazza Marconi n.3 – 74121 Taranto
Per contattare la Fallone Editore è possibile utilizzare l’apposito modulo di contatto ovvero inviare un’email a uno dei seguenti indirizzi, a seconda della richiesta che si desidera inoltrare:
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Articolo diVenceslav Soroczynski– Libro di Franz Kafka “Il Processo”·Sognando un tribunale internazionale contro i crimini di guerra che agisca prima che sulle strade di mezzo mondo si asciughi il sangue degli innocenti, mi rigiro fra le mani questo imponente libretto di 170 pagine. Thomas Bernhard, in Estinzione, dice che uno dei pochi autori di lingua tedesca che non scrive come un impiegato è Kafka (che, guarda un po’, faceva proprio l’impiegato). E che il suo libro migliore è questo. Bernhard aveva ragione o no? Non posso rispondere, perché autori tedeschi non ne ho letti molti – però La morte a Venezia non sembra proprio scritto da un impiegato – ma una cosa la posso affermare: se è tanto che non avete un incubo e volete procurarvene uno bello definito, articolato, insistente, di quelli che la mattina dopo non si dimenticano, leggete “Il processo”.
Franz Kafka, “Il processo”, 1925-
Il processo è una metafora di quella frustrazione e di quell’angoscia connaturate agli uomini che devono vivere in una civiltà nella quale il singolo non conosce il suo nemico, non conosce il suo destino né chi l’ha ordito e non ha strumenti per esercitare i propri diritti e per difendersi. E, forse, non conosce nemmeno la propria psiche, dunque è vittima di tutto ciò che va oltre la propria coscienza. Nello sfondo – che si pure si fa protagonista – del romanzo, ogni elemento è ostile al protagonista: ogni relazione, ogni evento, ogni istituzione, ogni collega, ogni sottoscala.
La metafora è costruita raccontando tutto ciò che non funziona nella giustizia, nelle sue procedure ufficiali, nelle prassi, nei locali in cui si celebra, negli uomini che la subiscono e in quelli che la esercitano. Naturalmente, tutto è un po’ esagerato – e, infatti, pare che l’Autore e i suoi amici ridessero mentre il primo leggeva ad alta voce ai secondi il testo – ma non troppo, se siete stati ascoltatori di Radio Radicale negli anni Ottanta e, ahinoi, anche dopo. Io non riesco proprio a ridere in nessuna pagina: ho anzi i brividi mentre il signor K. è costretto a vivere esperienze assurde, frustranti e schiaccianti, che facilmente possiamo figurarci nel nostro mondo contemporaneo, di cui le fantasie di Kafka paiono soltanto un’approssimazione per eccesso.
Il protagonista, che peraltro non è uno spacciatore dei giardinetti, ma il procuratore di una banca, viene arrestato a casa sua da due persone che non sono nemmeno poliziotti. Le quali, mentre aspettano che lui si vesta, gli mangiano la colazione e non gli dicono neppure perché sono andati a prenderlo. L’accusa, inoltre, non viene mai dichiarata, quindi il sospettato si dibatte come un pesce in fin di vita, che non ha neanche capito se il pescatore aveva veramente fame o lo sta suppliziando per mero sadismo. Ogni tanto, qualcuno gli chiede se è innocente e lui risponde sì, ma naturalmente anche questa risposta può essere sbagliata, visto che non si sa di cosa è accusato e… chi può dire di essere innocente di qualsivoglia reato?
E non è tutto, visto che non è individuato neanche il pubblico ministero e tantomeno il giudice, e che il tribunale è insediato in un luogo indegno e plurimo, che assume in ogni sede un aspetto diverso e sempre meno solenne. I brani in cui il povero K. visita i palazzi di giustizia sono davvero un brutto sogno e non è neanche il peggiore, ché le ultime pagine sono ancora più oscure e penose. Tanto per darvi un’idea, io le ho lette con 31 gradi centigradi eppure sentivo addosso quel freddo brutto che si sente solo quando si ha davvero paura – ché ne ho letti di libri horror da ragazzo, ma pochi erano spaventosi come questo. Dracula, L’esorcista e Shining, al confronto, sono storielle per spaventare i bambini, poiché se pochi di noi hanno visto vampiri demoni e morti viventi, tutti hanno visto tribunali in centro città, pubblici ministeri in televisione e raccomandate di colore verde nelle mani del postino.
Citiamo solo di passaggio l’avvocato di K., che non si capisce bene riceva i clienti dal suo letto, perché maltratti i suoi assistiti, perché non riferisca esattamente lo stato del processo e perché pare non avere alcuna strategia difensiva. In più pare che tenga a servizio una ragazza che si innamora così facilmente dei clienti. Il sospetto è che lo stesso avvocato non capisca molto di quello che sta facendo, né di ciò che sta facendo il tribunale. Merita invece d’essere studiato attentamente il complesso delle reazioni e relazioni del povero K., spaventato dalla propria vicenda, incapace di reagire freddamente, tardo nelle contromisure di contenuto logico. Sembra che egli, da un lato, prenda di petto la sua disgrazia per sciogliere subito i dubbi che causano la sua incriminazione e, dall’altro, si muova troppo di lato, faccia giri troppo larghi, sbagliando completamente strategia.
Sembra che tutti ne sappiano più di lui sul mondo, sugli uomini, sulle regole che governano ogni meccanismo, sul suo stesso processo. E che egli vaghi sempre nel corridoio sbagliato, che varchi sempre il cancello proibito, che si affidi solo a personaggi di dubbio peso. Le emozioni che questa lettura suscita si situano in un punto equidistante fra l’inquietudine e l’oppressione psicologica. Quindi, questa volta, non so se consigliarvi la lettura, non vi conosco abbastanza e non me la sento. Fate voi. Ma, se avete deciso di cominciare, vi consiglio di attendere la prossima stagione calda: se non sarà ancora finita la guerra permanente che pare mossa dalla necessità del caos e della distruzione, invece di scegliere fra la pace e il condizionatore, avrete Il processo come terza opzione.
Andrea Appiani primo pittore di Napoleone in Italia: un maestro da riscoprire-Articolo di Andrea Ciavattone-
Paris-3 avril 2025 Una mostra da vedere dedicata al pittore lombardo Andrea Appiani (1754-1817), aperta dal 16 marzo al 28 luglio 2025, al Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e Bois-Préau, avenue du château de Malmaison, 92500 Rueil Malmaison.
Quante volte abbiamo ammirato le opere di Jacques-Louis David, maestro del neoclassicismo, che celebrano Napoleone Bonaparte come condottiero e imperatore di Francia. Passeggiando tra le sale del Museo del Louvre, possiamo osservare capolavori che esaltano la figura del celebre generale francese, il cui dominio ha ridisegnato la cultura, la politica e la società europea.
Fu proprio con la vittoria nella battaglia di Ponte Lodi, il 10 maggio 1796, che Bonaparte entrò trionfante a Milano, dove conobbe il pittore Andrea Appiani che fu sia affrescatore che pittore di cavalletto. Soprannominato “le peintre des grâces”, Appiani era apprezzato dai suoi contemporanei per i dipinti commemorativi e allegorici, e i ritratti.
Formatosi sotto la guida del maestro Antonio de Giorgi, Appiani si specializzò nella decorazione di teatri, chiese e palazzi, come nel caso della decorazione presso Palazzo Reale di Milano, il cui intervento fu purtroppo distrutto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Andrea Appiani, primo pittore di Napoleone
Nel 1805 Appiani fu nominato primo pittore del Regno d’Italia, dando inizio a una prolifica produzione di opere dedicate a Napoleone. Tra queste un meraviglioso ritratto, datato 1805, in cui sono presenti tutti gli elementi iconografici che esaltano la figura di Napoleone, non più come primo console o condottiero militare, ma come Re d’Italia, essendo stato incoronato a Milano il 26 maggio 1805.
Appiani Andrea – Ritratto maschile. Olio su tavola, 20,5 x 14 cm. Il pittore Andrea Appiani riesce a carpire in questo ritratto uno sguardo intenso ed espressivo di un personaggio vestito nobilmente e con tipica capigliatura dell’epoca. Lo sfondo in tono con l’abito
Leggendo questo passaggio si nota la grande abilità di Appiani nel dipingere Napoleone nella sua nuove veste politica e sociale :
“Napoléon, de trois-quarts vers la droite, porte le «petit habillement», semblable à celui porté au sacre à Notre-Dame, mais brodé sur velours vert au lieu du velours pourpre […]. Si le regard est ailleurs et la bouche un peu trop sévère, l’attention portée au traitement des mains est intéressante: la droite serrant le manteau pour lui donner ce pli qui équilibre la composition, la gauche posée ouverte sur la couronne de roi d’Italie livrée par le joaillier Marguerite”.
Andrea Appiani, primo pittore di Napoleone
Per valorizzare la sua abilità artistica, il Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e Bois-Préau ha organizzato la prima grande retrospettiva dedicata a lui. La mostra, intitolata Andrea Appiani (1754-1817). Primo pittore di Napoleone in Italia, è aperta dal 16 marzo al 28 luglio 2025 e ripercorre la sua evoluzione stilistica attraverso cinque sezioni espositive tematiche e cronologiche: dalla carriera prenapoleonica agli splendori di Napoleone, dai ritratti pubblici e privati, fino alle decorazioni ad affresco e alla sua eredità artistica.
L’obiettivo è riscoprire il ruolo che questo artista ha avuto per la cultura italiana e per i legami con la Francia, restituendogli il posto che merita tra i grandi maestri del neoclassicismo. Passeggiando all’interno della mostra, lo spettatore potrà riscoprire un artista dalla grande abilità tecnica, utilizzata per la celebrazione del potere sociale, politico e militare di Napoleone.
Sono Andrea Ciavattone, un neolaureato italiano in Storia e critica dell’arte di 24 anni che ha deciso di intraprendere una nuova avventura in Danimarca. Qui, immerso in una realtà vivace e stimolante, ho trovato un’accoglienza calda e un ambiente che mi ha spinto a esplorare nuove prospettive. Con una formazione accademica in ambito artistico, ho scelto di raccontare la mia cultura e le mie radici, concentrandomi in particolare sull’arte italiana del XX secolo. Il mio obiettivo è condividere con voi la bellezza e la ricchezza di un patrimonio artistico che continua a influenzare il panorama culturale globale. Nei miei articoli, cercherò di coinvolgervi in un viaggio attraverso le opere e i protagonisti che hanno segnato la storia dell’arte, stimolando la vostra curiosità e approfondimento.
Andrea Appiani un maestro da riscoprire-Biblioteca DEA SABINA
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Andrea Appiani
Andrea Appiani Nato a Milano il 31 maggio 1754 da Maria Liverta Jugali e Antonio medico, era destinato a seguire la carriera del padre. Ma verso i quindici anni, nel 1769-70, per manifesta vocazione venne messo alla scuola privata di Carlo Maria Giudici, pittore e scultore di vaglia, che, alla fine del suo insegnamento, lo affidò al famoso frescante Antonio De Giorgi all’Accademia ambrosiana. Frequentò poi lo studio di M. Knoller, approfondendo la tecnica ad olio e studiò anatomia all’Ospedale maggiore con Gaetano Monti, scultore e suo intimo per tutta la vita. Con la morte del padre affrontò un periodo di nera miseria e di attività spuria buona a toutfaire, dai fiori su seta alle decorazioni per carrozze, ai figurini per spettacoli. Pure, nata nel 1776 l’Accademia di Brera, seguì liberamente i corsi di G. Traballesi, col quale rimase in amicizia. In questo periodo strinse amicizia anche con G. Piermarini, con l’Aspari e, soprattutto, coi Parini (ci restano un ritratto a matita del poeta, eseguito dall’A., ora nel Museo Poldi Pezzoli, e un frammento di un’ode del Parini all’amico pittore: frammento 207 in Parini, Tutte le opere, I, Firenze 1925, p. 513), con Giocondo Albertolli; più tardi con Vincenzo Monti e col Foscolo.
La prima opera certa, l’affresco coi Santi Gervasio e Protasio per la chiesa di Caglio, fu iniziato nel settembre 1776 e finito nel gennaio del 1777. Lavori di bozzettista e scenografo alla Scala sotto la direzione del Galliari – ne rimane solo il ricordo – gli permisero di uscire lentamente dalle strette del bisogno e dall’oscurità. Del 1778-79 sono le quattro tempere con il Ratto di Europa per il conte Ercole Silva. Tra il ’78 e l’83 dipinse una Natività per la Collegiata di S. Maria ad Arona (1782) e affrescò nel palazzo Diotti, ora prefettura di Milano, e nella chiesa parrocchiale di Rancate, mentre la sua attività stagionale come scenografo lo portò a Firenze su invito di Domenico Chelli.
Il quinquennio tra l’86 e il ’90 comincia con il progetto architettonico dell’altar maggiore del duomo di Monza (costruito nel 1798) e prosegue con affreschi a Milano in palazzo Busca alle Grazie, in palazzo Litta Arese, in casa Orsini Falcò (via Borgonuovo 11) in collaborazione col Traballesi, in palazzo Greppi (via S. Antonio 12), intervallati da ritratti e quadri sacri tra i quali una Cena in Emmaus, finita solo nel ’96 per la congregazione degli osti (Milano, Galleria Civica di Arte Modema), per culminare con il fondamentale ciclo delle Storie di Psiche nella Rotonda della Villa reale di Monza (1789).
Appiani Andrea – Ritratto maschile. Olio su tavola, 20,5 x 14 cm. Il pittore Andrea Appiani riesce a carpire in questo ritratto uno sguardo intenso ed espressivo di un personaggio vestito nobilmente e con tipica capigliatura dell’epoca. Lo sfondo in tono con l’abito
Nel 1790 l’A. sposò Costanza Bernabei, già sua allieva. Il lustro successivo è sostanzialmente assorbito dalla grossa impresa degli affreschi in Santa Maria presso San Celso a Milano, che il pittore, ormai eminente su tutti, aveva fatto precedere, nel 1791, da un viaggio di nove mesi per studio a Parma, Bologna, Firenze e Roma.
Un periodo di riposo in casa Moriggia a Balsamo – ove dipinse affreschi, le cui parti superstiti sono oggi conservate nella villa Ghirlanda di Balsamo Cinisello – e gli affreschi a Milano in casa Stanga, oggi Radice Fossati (via Cappuccio 12), precedono di pochi mesi l’intensa attività del periodo cisalpino. Entrato di colpo con un ritratto a matita, capolavoro tuttora esistente (AUano, Accademia di Belle Arti), nelle grazie del ventisettenne Bonaparte, venne incaricato di presiedere la commissione delle requisizioni artistiche (eviterà poi l’incarico per sopraggiunta malattia) e di disegnare medaghe, testate, allegorie repubblicane per proclami, brevetti, carte ufficiali; questo non gli impedirà di dipingere numerosi ritratti agli illustri del momento, né di affrescare in casa Castiglioni, Wilcrek, Castelbarco, Silvestri (qui ancora col Traballesi) e nell’attuale collegio di S. Carlo col Chelli.
Massone già da prima della Rivoluzione, durante il periodo napoleonico fece parte della loggia milanese Amalia Augusta, e fu anche guardasigilli del Grande Capitolo generale della massoneria ital
Con l’intero corpo insegnante dell’Accademia di Brera fu chiamato dal Piermarini a collaborare alle decorazioni per la “festa della Federazione” del 21 messidoro dell’anno VI (9 luglio 1797), che con eccezionale magnificenza inaugurò la Repubblica cisalpina. Nello stesso anno Napoleone gli regalò una casa sul Naviglio di S. Marco, già di quei frati, valutata quarantamila lire milanesi. Del 1799 è il capolavoro di questo periodo: gli afrreschi con le Storie di Apollo in casa Sannazzaro poi Prina (conservati in parte a Brera e nella Gall. Civica d’Arte moderna). Fu nominato ai comizi di Lione e nel 1801 si recò a Parigi ad assistere in qualità di membro dell’Istituto all’incoronazione di Napoleone, ricevendo accoglienze trionfali; a Parigi e Versaffles dipinse numerosi ritratti della famiglia dell’imperatore e di personalità della corte. Nel 1802 venne nominato commissario generale delle Belle Arti con 1.500 lire annue, di cui nel 1809 chiederà l’aumento (in qualità di commissario, nel luglio 1802, richiamò l’attenzione delle autorità sulla necessità di restaurare il Cenacolo di Leonardo). Per la festa nazionale della Repubblica italiana, del 26 giugno 1803, l’A. progettò un circo romano, che fu eseguito in legno nel Foro Bonaparte. Sempre nel 1803 eseguì i ritratti per casa Melzi e forse iniziò la vasta creazione dei trentacinque monocromi coi Fasti napoleonici già in Palazzo reale (ora distrutti). Del 1804 è il cartone dell’Apoteosi di Napoleone, che fu molto lodato dalla commissione (Traballesi, Monti e Bossi) che gliene aveva affidato l’incarico; la vasta attività e la grande fama raggiunta lo fecero nominare primo pittore del re d’Italia con 15.000 lire annue, cavaliere della Legion d’Onore e della Corona ferrea e membro dell’Accademia di Brera, preposto alla creazione di quella Pinacoteca.
Andrea Appiani
Nonostante le molte cariche e l’intensa attività nel Palazzo reale di Milano (affreschi nelle sale del Trono, dei Principi, delle Cariatidi e nella sala rotonda, oggi in gran parte perenti), l’A. dipinse in quegli anni quadri per i Litta, per G. B. Sommariva, per casa Galetti, per la chiesa di Oggiono, e ritratti aulici e di privati. Il Parnaso, nella volta di una sala della Villa reale di Milano, del 1812, è la sua ultima opera di grande respiro. Colpito da insulto apoplettico nell’aprile del 1813, vegetò sino all’8 nov. 1817.
Riconoscendone la grandezza, la critica ha concluso per un A. giovanile ancora legato alle grazie del Settecento e successivamente vivo solo quando riesce a mantenerle operanti sotto i castigati ritmi neoclassici con la sincerità dell’impegno decorativo e la dolcezza dei trapassi di colore, per aggiungere subito che, fuori da quell’influsso, egli irrimediabilmente decade. Tale giudizio, profondamente errato e frutto dei paradigmi dellaJeazione romantica, va radicalmente rivisto. L’A. dipende dagli schemi pittorici settecenteschi soltanto perché li rinnova e li trascende profondamente, senza per questo indulgere a quelle forme che teorie e dottrine, dal Mengs al Winckehnann, suggerivano agli artisti del suo tempo. Egli rimane sempre fuori della polemica neoclassica; il suo neoclassicismo non si forma su teorie oltremontane, del resto non ancora giunte a Milano agli inizi della sua attività, o su bianchi calchi di antica statuaria, ma sui meditati esempi del primo Rinascimento padano, risolvendo con essi i propri modemi problemi. Già nelle quattro tempere del Ratto di Europa (Milano, raccolta Biandrà di Reaglie), sobrie e pur cantanti negli sfondi, con le figure di una maniera un poco secca ma viva, dai netti profili, dal colore campito, tenero ma sicuro, è in nuce l’A. migliore e si fanno palesi nel ritmo, nell’atmosfera, nel soggetto stesso quei suggerimenti, specie da Bemardino Luini, accolti e rinnovati da uno spirito originale e moderno. Su questa via nasceranno gli affreschi con le Storie di Psiche e di Giove (Monza, Villa reale), le Storie di Apollo (Milano, già in casa Sannazzaro), il Parnaso (Milano, Villa reale), e le tele dell’Olimpo (Milano, Pinacoteca di Brera) e della Toeletta di Giunone (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo): le molte mitologie in cui egli persegue un sogno di bellezza che sia insieme nella natura e nella tradizione artistica. Mitologie che non esprimono, né lo vogliono, sentúnento, pensiero, passione alcuna né moto, ma semplicemente manifestano un classico stato di grazia. Su questa linea di depurata armonia e di nitore compositivo, appaiono meno decantate, meno neoclassiche starei per dire, le mitologie ove il vibrare dei sentimenti preme sulla serenità del núto, come l’Ercole e Deianira (Milano, raccolta Albasini Scrosati), e più aperte, più piacevoli e in un certo senso più vive, ma anche più illustrative e meno sublimate altre come il Carro di Apollo (Milano, Brera).
Andrea Appiani
Quest’ultimo ha un’affinità ritmica più che strettamente compositiva con l’Apoteosi di Napoleone già nella volta della sala del trono nel Palazzo reale di Milano. Pittura encomiastica e perciò regolarmente bistrattata, nella quale, viceversa, l’A. fuse in lirica e sincera creazione la sua lunga esperienza e i suggerimenti che la sua arte aveva via via appreso, dopo che dal Luini, da Leonardo e Correggio e Raffaello. Come, del resto, egli sapesse trascendere l’incarico ufficiale era anche palese nelle trentacinque tele a tempera monocroma che tomo tomo il salone delle Cariatidi rievocavano i Fasti napoleonici da Montenotte a Friedland in una specie di fascia continua, ove il ritmo compositivo del finto bassorilievo, l’armonica fusione di antico e modemo, il compenetrarsi della cronaca vissuta, del costume e della vita attuali con la dignità epica, col senso eroico e con le reminiscenze classiche avevano una modulazione alta come in David, ma più armonicamente italiana. Di queste tempere, distrutte come la volta della sala del trono, dalle incursioni aeree del 1943, restano precise e vive incisioni, eseguite intorno al 1810 da Giuseppe Longhi, Francesco e Giuseppe Rosaspina, Michele Bisi e Giuseppe Benaglia.
La celebre tela con l’Incontro di Giacobbe e Rachele (Alzano Maggiore, basilica di S. Martino 1795-1805 ca.) rivela equilibrio trala biblica e solenne monumentalità della storia sacra e la tenerezza rattenuta dell’idillio; gli Evangelisti e i Dottori nei pennacchi e nelle lunette della cupola di Santa Maria presso San Celso, un centinaio di figure solide e grandiose in cui i ricordi del Rinascimento e del manierismo primo sembrano giungere sino alle soglie di una severa eloquenza barocca, costituiscono la più alta pittura sacra del neoclassico italiano.
Sull’eccellenza dei ritratti dell’A. concordarono antichi e moderni per la perfetta aderenza, il disegno preciso e pur morbido e i rari trapassi di colore. Ritrattistica della quale, però, sfuggì il merito maggiore, quello di averci dato per prima e senza enfasi lo specchio di quella società, un modulo di vita nuovo che si traduce in pittura, come appare evidente confrontandola coi notevoli, ma ancora irrimediabilmente settecenteschi ritratti di un Knoller o di un Mengs. P, la luce del nobile volto di G. B. Bodoni sorgente dall’uliva e nero del busto (Parma, Pinacoteca nazionale), è la testa arruffata e viva di P. Landriani (Milano, Museo teatrale alla Scala); sono i ritratti di Napoleone Primo Console, del Melzi, della Belgioioso d’Este (Bellagio, villa Melzi), del Vallardi, (Milano Accademia di Brera) e del Monti (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Modema), che ci danno la misura della potenza espressiva dell’A., della sua capacità di fare di un volto un tipo, di riflettere in un viso un’epoca.
Andrea Appiani
Se, concludendo, l’A. non fu un genio, egli non fu comunque mai un accademico. Per lui il canone è termine vivo di un linguaggio e non pura dottrina, e la mitologia sostanza intima dell’arte, ed egli la porta nella sua opera con straordinaria forza di convinzione e assoluta sincerità. Per questo la conquista del suo linguaggio neoclassico fu personale e autonoma, frutto di una sua visione della bellezza, di un suo concetto delle necessità dì uno stile. Unico pittore italiano dell’epoca di fama europea, dominatore indiscusso della pittura neoclassica, non lasciò né allievi né seguaci, ma solo un’altissima fama, che l’ondata romantica volle sommergere. Innovatore vero dell’arte, ma non per le apparenze che i contemporanei elogiarono, egli ci dà la misura della pittura neoclassica non secondo la dottrina, ma secondo la sua vitale essenza, come solo oggi si può capire. I contemporanei lo dissero riccamente umano, di vasta cultura e musicista finissimo.
Altre opere: Corteo di Bacco fanciullo (bozzetto di sipario), Milano, Museo teatrale alla Scala; Venere e Imeneo, Pavia, Civica Pinacoteca Malaspina; Autoritratto, Firenze, Uffizi; Autoritratto, Wano, Brera; Ritratto della contessa Maria di Castelbarco Visconti Litta (l’inclita Nice), Milano, raccolta Castelbarco Albani; Ritratto di Ugo Foscolo, Milano, Pinacoteca di Brera; Ritratto del generale Desaix, Ritratto della signora Regnault, Versailles, Musée National; Ritratto di Anna Maria Porro Lambertenghi, Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna; Ritratto della cantante Catalani, Firenze, raccolta Galletti di S. Ippolito; Ritratto della contessa Margherita Grimaldi Prati, Treviso, Museo Civico; Ritratto della signora Angiolini, Ritratto di una signora Rua, Milano, Ambrosiana; Ritratto di Marianna di Santa Cruz, Roma, Accademia di S. Luca; Ritratto di Sigismondo Ruga e di Paola Ruga detta la Rugabella, Crema, raccolta Vimercati Sanseverino.
Era suo nipote l’omonimo pittore nato nel 1817 dal figlio Costanzo. Allievo dal 1833 al 1837 in Roma del purista Tommaso Minardi e successivamente, a Milano, dello Hayez all’Accademia di Brera, fu mediocre artista e, per di più, schiacciato dall’ombra del grande avo. Stilisticamente oscillò tra un purismo di maniera e un manierato romanticismo. Il suo nome sopravvive in opere povere e in fuggevoli cenni dei contemporanei. Dipinse gli immancabili quadri storici (Corradino di Svevia sul patibolo, il Ritrovamento di Mosè alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna in Roma), freddi ritratti e decorò a fresco palazzi e la chiesa di Bolbeno. Morì a Milano il 18 dic. 1865.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Cartella Pittori: Appiani; Descrizione dell’opera a fresco eseguita nel 1795 nel tempio di S. Maria presso S. Celso in Milano dal pittore A. A., Milano 1803; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal pittore A. A. nella sala del trono del Palazzo Reale di Milano, Milano 1809; A. Brucellini, Carme per gli egregi dipinti a buon fresco nel Palazzo Reale di Milano, Milano 1809; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal pittore A. A. nella sala dei Principi…, Milano 1810; Descrizione del dipinto a buon fresco eseguito nella Villa Reale di Milano dal sig. Cavalier A. A., Parma 1811; G. Berchet, Allocuzione ai funerali di A. A., Milano 1817; G. P. [Giulio Perticari?], Sulla morte del Cavalier A. A., Milano 1818; A. Lissoni, Dialogo di Parini e A. agli Elisi, Milano 1818; D. Anesi, Le glorie pittoresche: Dialogo dei celebri pittori Bossi e A., Milano 1818; I. Fumagalli, Elogio di A. A., Milano 1818; Catalogo delle pitture, dei cartoni e dei disegni più ragguardevoli del defunto cavalier A. A. e di varie altre Pitture, stampe e libri figurati esistenti presso gli eredi, Milano 1818; F. Martini-R. Bonfadini, I fasti del primo Regno Italiano. Dipinti di A. A. incisi da vari, Milano s. d.; G. Longhi, Elogio storico di A.A., Milano 1818; M. Bisi, Incisioni delle opere del Pittore A. A., Milano 1820; B. Parea, Epitome delle vite dei dieci sommi italiani illustri nelle arti e nelle scienze tolti ai viventi nel corrente secolo, Milano 1827; G. Berretta, Le opere di A. A. Commentario, Milano 1848; Id., Battaglie e Fasti di Napoleone, composti e dipinti a chiaroscuro dal celebre cav. A. A., Milano 1848; G. De Castro, Il mondo segreto, VI, Milano 1864, p. 105; F. Martini-R. Bonfadini, Battaglie e fasti di Napoleone dipinti a bassorilievo in tela dal cav. A. A., Milano 1896; L. Auvray, Inventaire de la collection Custodi conservée à la Bibliothèque Nationale, in Bulletin Italien, III(1903), pp. 308 ss.; IV (1904), pp. 152 ss.; C. Ricci, La Pinacoteca di Brera, Bergamo 1907, pp. 13, 14, 30, 34, 36, 55, 75, 92, 162 (per l’opera dell’A. come commissario delle Belle Arti); G. Nicodemi, La pittura milanese dell’età neoclassica, Milano 1915, pp. 88-126; A. Zappa, A. A. e l’arte neoclassica, Milano 1921; G. Nicodemi, Ritratti di Napoleone, in Rass. d’arte, VIII (1921), pp. 145-151; A. Neppi, A. A., Bergamo 1932; R. Soriga, Le società segrete, l’emigrazione politica, i primi moti per l’indipendenza, Modena 1942, pp. 30, 48 s.; G. Nicodemi, A.: trentaquattro disegni, Milano 1944; M. Borghi, I disegni di A. A. nell’Accademia di Brera, Milano 1948; G. Natali, Il Settecento, Milano 1950, p. 89; E. Lavagnino, L’arte moderna, Torino 1956, I, pp. 229-237; A. Ottino Della Chiesa, L’età neoclassica in Lombardia (catalogo della mostra), Como 1959, pp. 33-39, 94-113; G. Allegri Tassoni, Una fraterna amicizia: A. A. e G. Bodoni, in Aurea Parma, XLIII (1959), pp. 22-28; A. Rameri, Una lettera dell’A. e la datazione di un celebre ritratto, in La Martinella di Milano, XIII (1959) (in estratto pp. 3-7); S. Samek Ludovici, La pittura neoclassica, in Storia di Milano, XIII, Milano 1959, pp. 548 ss. e Passim; U.Thieme-F. Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, II, pp.40 s.; Encicl. Ital., III, pp. 757-759. Per A. A. iunior v.: A. Caimi, Arti del disegno in Lombardia, Milano, 1862, p. 60; L. Malvezzi, Le glorie dell’arte lombarda, Milano 1882, p. 284; G. De Sanctis, T. Minardi e il suo tempo, Roma 1900, p. 155; E. Ovidi, Tommaso Minardi e la sua scuola, Roma 1902, pp. 107, 265-67; G. Nicodemi-M. Bezzola, La Galleria d’Arta Moderna di Milano, Milano 1935, I, pp. 16-17; P. Pecchiai, I ritratti dei benefattori dell’Ospedale Maggiore di Milano, Milano 1927, nn. 227, 250; U. Thieme-F.,Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, II, p. 42.
Gabriele Guercio -Arte o decadenza.Dilettanti professionisti maestri-Editore Quodlibet-
Descrizione del libro di Gabriele Guercio– Immaginare l’arte come evento che sfida la decadenza significa pensare a una potenza che non è mai confinata al presente, che non si limita alla sua contemporaneità. L’arte, radicata nel momento storico in cui nasce, possiede tuttavia una forza che la trascende, rinnovandosi continuamente. Non è solo testimonianza del tempo, ma resistenza alla sua caducità. In essa, il presente si dissolve per fare spazio a un essere sottratto al divenire.
A cominciare dagli anni Ottanta, il mondo dell’arte sembra vivere all’insegna del business e ammettere tra le proprie fila prevalentemente gli artisti favoriti dal mercato, definiti qui come “professionisti”. La carenza di criteri accertabili dei fenomeni artistici, un tempo ritenuti riconducibili al mistero della creatività, appare ora colmata nelle aleatorie negoziazioni tra gli artisti e i loro comprimari nel sistema, tra l’opera e il campo della sua fruizione, tra il mondo dell’arte e gli altri ambiti. L’arte come creazione umana capace di dare forma e vita a quel che prima non c’era ha perso di credibilità. Eppure, una tale perdita è addirittura propizia al tipo di prestazione richiesta all’artista in un contesto dominato dall’affarismo turbocompresso. Si potrebbe ipotizzare, quindi, una vera e propria decadenza? Questa è una delle domande che guidano il saggio di Gabriele Guercio. Per rispondere, vengono riesaminate le figure di dilettante, professionista e maestro, analizzando la loro evoluzione storica nella pratica artistica moderna. Ripercorrendo le traiettorie dell’arte otto-novecentesca da cui ha preso avvio la caduta, l’autore suggerisce modelli per tentare di riparare il danno. Il testo si estende dal Romanticismo ai giorni nostri, trattando una vasta gamma di artisti, critici e storici dell’arte. In particolare, sono presenti affondi rivolti alle opere di alcuni contemporanei come Jeff Koons, Maurizio Cattelan, Charles Ray, Sophie Calle, Francis Alÿs e Anselm Kiefer, contrapponendo casi che suggeriscono un processo di dipendenza e declino, a casi che sembrano indicare persistenti forme di autonomia.
Gabriele Guercio-Arte o decadenza.Dilettanti professionisti maestri
Indice
Introduzione. Una decadenza in atto?
1. L’arte come business dell’arte
1. Torpore e assenza di sorpresa
2. Il cattivo infinito del business
3. Un transnazionalismo spurio
4. Cinque caratteristiche del declino?
4.1. Strategie di infiltrazione; 4.2. Né originale né replica; 4.3. La finzione dell’impostura; 4.4. Il contenuto come passe-partout; 4.5. Lo charme dell’interminabile;
5. Horror vacui e (ri)mediazioni
6. Di là da venire
2. Le verticalità perdute
1. Verità e impasse, apici e derive
2. L’instabilità del professionista
3. C’era una volta
4. Virtù e miserie della creatività generica
5. Il canto del cigno
6. Avvistamenti e perdita
7. Evitare i rimpianti, estendere il ricordo
3. Identità in fuga
1. Dilettanti e maestri
1.1. Perché i dilettanti; 1.2. Perché i maestri
2. La triade come sintomo
4. La lunga durata
1. Troncare il nodo gordiano
2. Cinque contrapposti
2.1. L’ignoto che appare; 2.2. Un’affluenza di colori; 2.3. Attraverso lo specchio; 2.4. La fecondità del contenimento; 2.5. Il memorabile e il detrito
3. Un valore irrinunciabile
5. Un quadro di probabilità
1. Tre virtù da riconsiderare
1.1. Coesistenze in atto; 1.2. La soglia dell’adimensionale; 1.3. Rudimenti per una critica della natalità delle opere
2. Al pari di una realtà
3. Una mente e un cuore ospitali
Ringraziamenti
Elenco delle illustrazioni
Indice dei nomi
L’autore Gabriele Guercio
Gabriele Guercio è uno storico dell’arte e saggista. Tra i suoi libri ricordiamo Art as Existence. The Artist’s Monograph and Its Project (2006), The Great Subtraction (2012) e L’arte non evolve. L’universo immobile di Gino De Dominicis (2015), Antidestino. Quattro esempi dell’arte italiana 1965-1983 (2022). Per Quodlibet ha pubblicato Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione (2017), Opere d’arte e nuovi inizi (2021) e Arte o decadenza (2025).
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Mompeo (Rieti)- va in scena nella sala Fabrizio Naro la commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
Mompeo (Rieti)-Articolo di Giulia Mininni– La commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi” è il nuovo appuntamento per sabato 5 aprile a Mompeo. Nell’ambito della rassegna” A porte aperte” diretta da Renato Giordano va in scena nella sala Fabrizio Naro del castello la commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”. Dopo molti e importanti concerti torna a Mompeo la prosa con uno spettacolo comico e divertente. E’ risaputo che una donna insoddisfatta prima o poi escogita un piano di evasione. Ma se le donne sono cinque? Si può essere certi che il piano sarà diabolico.
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
E lui avvolto dal velo ingannatore distratto dai piaceri della carne, alimentato dalle lusinghe, incantato da quelle mitiche eroine, ottenebrato dal proprio smisurato ego, forse non ricorda più che il mondo materiale non è altro che…illusione. Questa in sintesi la storia. Dimmi ciò che vuoi affronta i temi della liberazione femminile e della ribellione alle aspettative sociali. Le quattro protagoniste, attraverso il supporto della loro psicologa, trasformano le loro insicurezze in forza, dando vita a un crescendo che sfocia in una rivincita inaspettata. Nel cast tra gli altri Ilaria Pierandrei nel ruolo della terapeuta, Silvia Organtini è la casalinga trascurata, che si trasforma da donna sottomessa a mantide . Il personaggio maschile, intrappolato nel suo ruolo è Marco Tavani. La ripetitività degli approcci del seduttore seriale diventa un tratto distintivo dello spettacolo, con scene musicali e siparietti. Il finale , in cui le donne si liberano dalle catene patriarcali, offre una riflessione leggera ma significativa sul ruolo della donna e della sua emancipazione. Un mix di umorismo e di spunti di riflessione.
“Dimmi ciò che vuoi. Una commedia sentimentale scorretta!” Regia e testo di Anna Fraioli. Con Noemi Antonini, Francesca Grande, Wanda Orlando, Ilaria Pierandrei, Martina Sbarra, Marco Tavani.
Sabato 5 aprile sala Fabrizio Naro del Castello, ore 18,00.Ingresso gratuito.
Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato.
Il mio cuore
Il mio cuore è una rossa macchia di sangue dove io bagno senza possa la penna, a dolci prove
eternamente mossa. E la penna si muove e la carta s’arrossa sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so che questo sangue ardente a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà uno schianto stridente… … e allora morirò.
Imagine
La rondine di mare che ieri, mia dolente, volava sopra il lago, con l’alucce sgomente,
erra sempre e la sorte del suo tenero volo? brutal piombo la colse, e cadde, morta, al suolo?
o pur, libera, dopo lungo palpito d’ale, giunse all’immenso, azzurro Oceano natale,
ove ne l’aria, ondeggiano esalazioni amare?… A me, vedi, la piccola rondinella di mare,
stanca, che sfiorava, con l’aluccia sua lieve, l’onde del lago, troppo, per i suoi voli, breve,
a me sembra il tuo cuore instancabile, ardito, cuore di donna, cuore acceso d’infinito,
cuor nostalgico in preda al doloroso senso di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!
Rime del cuore morto
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso come il cuore di Cristo, ora sei morto; t’accoglie non so più qual triste orto odorato di mammole e d’incenso.
Uomini, io venni al mondo per amare e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti vostri e ho cantato tutti i vostri canti! Io fui lo specchio immenso come il mare.
Ma l’amor onde il cuor morto si gela, fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano! Come un’antenna fu il mio cuore umano, antenna che non seppe mai la vela.
Fu come un sole immenso, senza cielo e senza terra e senza mare, acceso solo per sé, solo per sé sospeso nello spazio. Bruciava e parve gelo.
Fu come una pupilla aperta e pure velata da una palpebra latente; fu come un’ostia enorme, incandescente, alta nei cieli fra due dita pure,
ostia che si spezzò prima d’avere tocche le labbra del sacrificante, ostia le cui piccole parti infrante non trovarono un cuore ove giacere.
Tutta l’anima, tutte le pure
Tutta l’anima mia, tutte le pure gioie godute nella giovinezza; ogni mia più soave tenerezza, tutte le mie speranze malsecure
nelle loro precoci sepolture, l’eterna immensurabile tristezza che il mio cuore dissangua ma non spezza offerte alle mortali creature.
Anima, come vano, come vano l’amor tuo, come triste il disinganno.
Desolazione del povero poeta sentimentale
I
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l’aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente, ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.
Un bacio
Oh, un bacio, un bacio lieve su la tua bocca rossa, un bacio breve, breve piccolo, senza scossa.
Senza che il core possa tremar… no, non lo deve non vo’ che tu per l’ossa senta un brivido lieve…
che faccia il volto esangue… . . . . . . . . .
Oh, un bacio di morente sulla bocca, permetti?
Su quella bocca ardente che pare un fior di sangue trionfante tra i mughetti!
“Io non sono un peota”: i versi di Corazzini, il bimbo che voleva morire articolo di Eraldo Affinati-31 agosto 2021-Fonte il Riformista
Sergio Corazzini
«Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?». Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato. Un altro conto è scandirli in un soffio leggero, nella calura stagnante in mezzo alle zanzare, come è capitato a me dentro l’ottavo colombario al cimitero del Verano (ossario 25, fila II), dove sono conservati i suoi poveri resti. Nel lungo corridoio oscuro, illuminato soltanto dai fiochi raggi provenienti dai lucernai, il volto adolescente del ragazzo splendeva ancor più del solito, nell’unica famosa fotografia che ancora oggi lo ritrae, in ogni manuale del crepuscolarismo, quello stato d’animo sconsolato e malinconico, fra organetti, conventi, suore, cortili, ospedali e sagrestie, individuato per la prima volta da Antonio Borgese nel 1910, il colletto inamidato fin sulla gola, col cravattino stretto sotto il gilet, come usava ai primi del Novecento, il ciuffo di capelli ben pettinato sulla fronte alta, lo sguardo fermo, determinato, rivolto verso il baratro del futuro.
Mi ero deciso a rendere questo omaggio al fanciullo più celebre della letteratura italiana, così diverso da Guido Gozzano in quanto, a differenza sua, privo di vezzi e orpelli, dopo averne riletto i testi appena riproposti in una piccola, preziosa, commovente, meritoria edizione di Internopoesia, a cura di Alessandro Melia: Io non sono un poeta (pp. 156, dodici euro). Andare in libreria, comprare il testo, ritrovare subito il vecchio, mai sopito, incanto di Toblach: «Le speranze perdute, le preghiere / vane, l’audacie folli, i sogni infranti, / le inutili parole de gli amanti / illusi, le impossibili chimere, / e tutte le defunte primavere…», prendere lo scooter e, sfidando le temperature più alte dell’anno, puntare deciso verso l’antico Tiburtino scalcinato, nella città dei morti dispersa fra le circonvallazioni vorticanti, era stato per me un tutt’uno.
«Perché, tu che sai tutto di Roma, / lo chiamate così quel vostro cimitero / con quel nome spagnolo che significa estate?», si chiedeva Vittorio Sereni in una delle sue poesie più belle, Verano e solstizio? La stessa domanda tornava a ronzarmi in testa mentre entravo dal portone principale lasciandomi alle spalle il monumento funebre di Goffredo Mameli, morto nel 1849 nella difesa di Roma, anche lui a soli 21 anni. Ormai il suo inno lo cantano tutti, ma chi rammenta più la vita di questo giovane ardimentoso? Eppure è stato proprio il paladino risorgimentale a spingermi idealmente verso Sergio Corazzini, nato in una famiglia benestante, abitavano in via dei Sediari 24, dietro Piazza Navona, falcidiata dalla tubercolosi e presto travolta dalla più cruda indigenza. Il suo talento lirico si rivelò immediatamente.
A soli sedici anni, già collaborava ai giornali dell’epoca: Il Marforio, Il Rugantino, Il Capitan Fracassa. Attorno a lui si formò un cenacolo di amici, che si riunivano al Caffé Aragno, per i quali il più ispirato coetaneo rappresentò un riferimento carismatico, sia in vita che, ancor più, dopo la morte: una stella cometa che, agli albori del ventesimo secolo, brillò solo per poco nel fondo smagato delle loro sontuose adolescenze. Ricordiamo Fausto Maria Martini, Alberto Tarchiani, Remo Mannoni, Giuseppe Caruso, Giorgio Lais, Auro d’Alba, Giuseppe Altomonte e Guido Milelli. Nomi perduti, volati via come foglie, simili a quelli che decifro nei loculi posti intorno a Sergio: Maddalena Antonelli, Renzo Francia, Antonio Gregori, Gustavo Benedetti, Rinaldo Casadei, Maria Macciocchi, scomparsi tutti in giovanissima età, alcuni addirittura bambini.
“Per chi ricorda Sergio Corazzini”, leggo inciso sul marmo. La sua voce era bianca, fosforica. Egli pare sempre che ci voglia raccontare qualcosa d’importante, si capisce dall’adozione della seconda persona, eppure non ha nulla da dire, se non l’assenza, il vuoto, l’esilio qui, non in un altrove, no, proprio sulla nostra terra: «Sono un fanciullo triste che ha voglia di morire». Quando nell’agosto 1905, in una lettera diretta a Aldo Palazzeschi, scrive: «Il letto bianco e triste che mi accoglie da venti giorni è divenuto il mio trono di questo mondo», non sta recitando. Spirerà l’anno dopo, senza aver ricavato alcuna utilità dal ricovero al sanatorio di Nettuno. I luoghi che frequentò restano fra le nostre dita come una manciata di coriandoli fuori stagione: la tabaccheria di famiglia in Via del Corso, nella stessa strada dove lavorò all’ufficio della compagnia di assicurazioni La Prussiana; le chiese sperdute che amava visitare nei pomeriggi ombrosi e solitari: San Saba, Sant’Urbano, Santa Prassede, San Luca, la Ferratella a San Giovanni.
Ma come dimenticare il Dialogo di marionette, fra De Chirico e il Sogno di una notte di mezza estate, in cui vengono messi a confronto una piccola regina dal cuore di legno e il suo grazioso amico, nello scenario offerto dal balcone di cartapesta, mentre il re dorme? Alla richiesta di sciogliere i lunghi capelli d’oro, lei risponde: «Poeta! non vedete che i miei capelli sono di stoppa?». Lui, dopo qualche battuta, sentenzia: «Siete ironica… Addio!».
Forse un solo poeta può essere posto accanto a Sergio Corazzini: San Francesco. Quasi che nel fondo della semplicità giacesse il segreto di un’arte antica, la bottega artigiana da cui è uscito, come un volo di colombe dal cilindro, il verso novecentesco. È bello leggere i bigliettini che qualche spirito puro continua a depositare sotto i fiori della sua tomba: «Sergio mio, come vedi ogni tanto corro da te in cerca di conforto per la mia anima tormentata…» Così, mentre esco dalla necropoli, tornano a risuonare dentro di me gli ultimi memorabili versi della Morte di Tantalo, nel punto in cui il poeta, con piglio eroico, rompe le catene del tempo: «Andremo per la vita errando per sempre».
Il nonno di Sergio, Filippo Corazzini (sposato con Albina Pera), fu avvocato e funzionario della Dataria Pontificia. In qualità di avvocato, difese il Cardinal Lorenzo Nina, Segretario di Stato Pontificio sotto Papa Leone XIII, a seguito di rivalse di alcuni privati su alcuni beni confiscati dallo Stato all’ex collegio Sistino. Secondo il libro biografico su Sergio Corazzini di Filippo Donini, si disse che i Corazzini fossero imparentati (però non si hanno documenti a tal riguardo e il poeta pare non averne fatto mai menzione) con l’eroe carducciano Eduardo Corazzini, originario di Pieve Santo Stefano, morto per le ferite riportate durante la campagna romana nel 1867.
Per questo la famiglia Corazzini, che si dice romana e papalina, in realtà potrebbe avere origini toscane. Sergio, appartenente ad una famiglia minata dalla tubercolosi (la madre, Carolina Calamani, era cremonese), frequentò qualche anno di scuola elementare a Roma e in seguito, dal 1895 al 1898, si trasferì a Spoleto con il fratello Gualtiero e frequentò il Collegio Nazionale. Ma, a causa delle difficoltà finanziarie in cui si ritrovò la famiglia, il padre Enrico, dimessosi da impiegato al Registro della Dataria Pontificia, fu costretto a ritirare i figli dal collegio.
Sergio continuò il ginnasio a Roma, ma non poté frequentare il liceo perché dovette cercare lavoro presso una compagnia di assicurazioni, “La Prussiana”, per aiutare la famiglia. La compagnia di assicurazione aveva sede in una vecchia casa in via del Corso e la stanza di Sergio era buia e triste, con una finestra ad inferriate che dava sul cortile. Si possono trovare numerosi riferimenti a questo luogo nei versi di Soliloqui di un pazzo. Il passare da una vita agiata alla povertà, dovuta alle errate speculazioni in borsa e al libertinaggio del padre, cambiò completamente le condizioni spirituali del poeta che da questo momento non ebbe certo vita felice (la madre era ammalata di tisi, il fratello Gualtiero morirà della stessa malattia, il fratello Erberto perirà in un incidente d’auto in Libia e il padre morirà in un ospizio).
Amante delle lettere, Sergio non rinunciò tuttavia alla lettura dei suoi poeti preferiti, quelli contemporanei, non solo italiani (la triade Carducci, Pascoli e D’Annunzio), ma anche i provinciali francesi e fiamminghi come Francis Jammes, Albert Samain, Charles Guérin, Maurice Maeterlinck, Georges Rodenbach, Jules Laforgue, e quelli dialettali. Le sue intense letture lo aiutarono nel suo esordio poetico e i suoi primi componimenti apparvero su giornali popolareschi.
Il 17 maggio 1902 scriverà il suo primo sonetto, Na bella idea, in romanesco pubblicato in “Pasquino de Roma” al quale seguirà, il 14 settembre 1902, il sonetto di settenari in lingua, Partenza, pubblicato sul “Rugantino” e dai versi liberi, La tipografia abbandonata, usciti su “Marforio”. Si trattava di versi dai temi realistici che rivelavano, nel giovanissimo autore, una precoce predisposizione ad osservare i fatti della vita. Si trovano in essi allusioni alla malattia già latente e in un sonetto del 1906, Vinto, vi sono amare riflessioni sulla perdita della felicità.
Gli ultimi anni di vita
Nella primavera del 1905 la precaria salute del giovane poeta, malato di tubercolosi, lo costrinse a soggiornare in un sanatorio a Nocera Umbra dove conobbe una giovane danese, Sania, per la quale provò un intenso e platonico innamoramento. Nel giugno dello stesso anno il poeta si recò a Cremona, città natale della madre, per cercare un aiuto economico dai parenti materni e conobbe una giovane pasticciera con la quale inizierà una breve corrispondenza epistolare. Tra il 1904 e il 1906 furono pubblicate le sue raccolte poetiche: Dolcezze (1904), L’amaro calice (1905), Le aureole (1906), Piccolo libro inutile (1906), Elegia (1906), Libro per la sera della domenica (1906).
Nel 1906 Corazzini, per l’aggravarsi della malattia, venne ricoverato nella casa dei Fatebenefratelli di Nettuno. Dal sanatorio iniziò la corrispondenza con Aldo Palazzeschi e lavorò alla traduzione della Semiramide di Joséphin Péladan che veniva annunciata su “Vita letteraria” come opera di collaborazione con G. Milelli. Nel maggio del 1907 Corazzini ritornò a Roma ma il suo stato di salute peggiorò e il 17 giugno morì di etisia (tubercolosi) nella sua casa di via dei Sediari. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Poetica
Il crepuscolarismo di Corazzini, che adotta il verso libero e si mostra sensibile alla lezione simbolista, ha anche un forte valore di proposta esistenziale; il poeta si presenta come un fanciullo malato, fino a negare, paradossalmente, il significato di poesia alla sua povera scrittura dell’anima. La sua poesia è focalizzata su “piccole cose”, dietro le quali non emergono valori segreti, ma si nasconde il vuoto, tipico dei poeti crepuscolari tra i quali Corazzini fu annoverato. I suoi versi esprimono da un lato un malinconico desiderio per quella vita che la malattia gli negava, dall’altro un nostalgico ritrarsi dall’esistenza presente, proprio perché avara di prospettive future.
Nelle poesie di Corazzini si possono cogliere due momenti: quello del povero poeta sentimentale che racconta la propria malinconia con un linguaggio semplice e dimesso e quello del poeta ironico che adotta un linguaggio meno trasparente, più polisemico, a volte addirittura simbolico.
In Desolazione del povero poeta sentimentale si esprime tutta la poetica di Corazzini dove il “piccolo fanciullo che piange” proclama l’impossibilità di essere chiamato “poeta”, affermando così, per la prima volta, la concezione della poetica crepuscolare così in contrasto con il trionfante dannunzianesimo.
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Edipo re (in greco antico: Οἰδίπoυς τύραννoς, Oidípūs týrannos) è una tragedia di Sofocle-
Edipo re (in greco antico: Οἰδίπoυς τύραννoς, Oidípūs týrannos) è una tragedia di Sofocle, ritenuta il suo capolavoro nonché il più paradigmatico esempio dei meccanismi della tragedia greca.La data esatta di rappresentazione è ignota ma si ipotizza che possa collocarsi al centro dell’attività artistica del tragediografo (430–420 a.C. circa).
Edipo re
Trama
L’opera si inserisce nel cosiddetto ciclo tebano, ossia la storia in chiave mitologica della città di Tebe, e narra come Edipo, re carismatico e amato dal suo popolo, nel breve volgere di un solo giorno venga a conoscere l’orrenda verità sul suo passato: senza saperlo ha infatti ucciso il proprio padre per poi generare figli con la propria madre. Sconvolto da queste rivelazioni, che fanno di lui un uomo maledetto dagli dei, Edipo reagisce accecandosi, perde il titolo di re di Tebe e chiede di andare in esilio.
Prologo (vv. 1-150): Edipo è impegnato a debellare una pestilenza che tormenta Tebe, la sua città, mentre una folla supplicante si pone attorno a lui per chiedergli di salvarli dalla fame e dal contagio; Edipo, sovrano illuminato e sollecito verso il proprio popolo, afferma di aver già mandato Creonte, fratello della regina, ad interrogare l’oracolo di Delfi sulle cause dell’epidemia. Al suo ritorno Creonte rivela che la città è contaminata dall’uccisione di Laio, il precedente re di Tebe, che è rimasta impunita: il suo assassino vive ancora in città e finché questi non sarà identificato e esiliato o ucciso, la pace e la prosperità non potranno tornare. Edipo chiede altre informazioni a Creonte, il quale continua dicendo che al tempo in cui la città era sotto l’incubo della Sfinge, Laio stava andando a Delfi quando, lungo la strada, fu assalito da dei briganti dai quali, secondo il racconto di un testimone, fu ucciso.
Parodo (vv. 151-215): entra il coro di anziani tebani cantando una preghiera agli dei perché intervengano a protezione della città.
Primo episodio (vv. 216-462): Edipo proclama un bando che prevede l’esilio per l’uccisore di Laio e per chi lo protegga o lo nasconda; il re convoca inoltre Tiresia, l’indovino cieco, perché sveli l’identità dell’assassino. Egli però rifiuta di rispondere, considerando più saggio tacere per non richiamare altre sventure: Edipo tuttavia si adira e intima a Tiresia di parlare. Il vecchio non si decide e la collera del re aumenta; allora Tiresia risponde accusando Edipo di essere l’autore dell’omicidio. Il re è indignato e comincia a sospettare che Creonte e Tiresia abbiano ordito un piano per detronizzarlo. L’indovino quindi si allontana profetizzando che entro la fine di quel giorno il colpevole sarà scoperto e se ne andrà mendico e cieco in terra straniera.
Primo stasimo (vv. 463-511): il coro dapprima immagina la fuga del colpevole, braccato tanto dagli uomini quanto da Apollo e dalle Keres (dee simbolo del fato avverso), per poi decidere di non dare credito alle parole di Tiresia: nemmeno il grande indovino è infallibile.
Edipo re
L’attore Albert Greiner interpreta Edipo (1896)
Secondo episodio (vv. 512-862): Creonte chiede se sia vero che Edipo lo crede colpevole di cospirazione. Quest’ultimo lo accusa apertamente con toni sempre più accesi: Creonte non si trovava infatti a Tebe, insieme a Tiresia, quando Laio fu ucciso? Creonte gli risponde pacatamente di non avere interesse al trono e nel mentre interviene Giocasta, vedova di Laio e ora moglie di Edipo, per mettere pace tra i due. Ella invita il marito a non dare ascolto a nessun oracolo e a nessun indovino: anche a Laio era stata fatta una profezia secondo la quale sarebbe stato ucciso dal figlio, mentre ad ucciderlo erano stati alcuni banditi sulla strada per Delfi, là dove si incontrano tre strade. A sentire le parole di Giocasta, Edipo resta turbato e chiede di convocare il testimone di quell’omicidio. La regina chiede al marito il motivo del suo turbamento, così Edipo comincia a raccontare: da giovane era principe ereditario di Corinto, figlio del re Polibo, e un giorno l’oracolo di Delfi gli predisse che avrebbe ucciso il proprio padre e sposato la propria madre. Sconvolto da quella profezia, per evitare che essa potesse avverarsi Edipo aveva deciso di fuggire, ma sulla strada tra Delfi e Tebe, in un punto dove si uniscono tre strade, aveva avuto un alterco con un uomo e l’aveva ucciso. Se quell’uomo fosse stato Laio? Il coro tuttavia lo invita a non trarre conclusioni affrettate e a sentire prima il testimone dell’omicidio.
Secondo stasimo (vv. 863-910): il coro è turbato dall’incredulità di Giocasta davanti agli oracoli e lancia un ammonimento contro chi pretende di violare le leggi eterne degli dei: quando gli uomini non riconoscono più la giustizia divina e procedono con superbia (“hybris”), lì si cela la tirannide[2].
Terzo episodio (vv. 911-1085): giunge un messo da Corinto che informa che re Polibo è morto. Edipo è rassicurato da quelle parole perché suo padre non è morto per mano sua. Rimane la parte della profezia riguardante sua madre, così Edipo chiede notizie di lei: il messo, per rassicurarlo pienamente, gli dice che non c’è pericolo che egli possa generare figli con la propria madre poiché i sovrani di Corinto non sono i suoi genitori naturali, in quanto Edipo era stato adottato. Il messo può testimoniarlo con certezza perché un tempo faceva il pastore sul monte Citerone e era stato proprio lui a ricevere un Edipo neonato da un servo della casa di Laio e a portarlo a Corinto. A questo punto Edipo si vede vicino alla scoperta delle proprie origini e ordina che sia convocato il servo di Laio; Giocasta, invece, ha ormai capito tutta la verità e supplica Edipo di non andare avanti con le ricerche, ma non viene ascoltata.
Terzo stasimo (vv. 1086-1109): il coro esulta perché Edipo è ormai vicino a conoscere le proprie origini ed esalta il Citerone come patria e nutrice di Edipo stesso[3].
Quarto episodio (vv. 1110-1185): arriva il servo di Laio, che Edipo attende con tanta impazienza. Tempestato di domande, il servo innanzitutto cerca di dissuadere Edipo dal continuare a interrogarlo, ma quest’ultimo ormai vuole ascoltare tutta la verità. Il servo allora conferma che aveva ricevuto il bambino (che era figlio di Laio) con l’ordine di ucciderlo in quanto, secondo una profezia, il piccolo avrebbe ucciso il padre. Tuttavia, per pietà, il servo non l’aveva ucciso e l’aveva invece consegnato al pastore, che l’aveva portato a Corinto. A questo punto l’intera vicenda è chiarita e, al colmo dell’orrore, Edipo rientra nel suo palazzo gridando: «Luce, che io ti veda ora per l’ultima volta»[4].
Quarto stasimo (vv. 1186-1222): gli anziani tebani che costituiscono il coro compiangono la sorte di Edipo, re stimato da tutti, che in breve si è scoperto autore involontario di atti orribili. I tebani vorrebbero non averlo mai conosciuto tanto è l’orrore e, al tempo stesso, la pietà che la sua vicenda suscita in loro.
Edipo bambino viene nutrito da un pastore (scultura di Antoine-Denis Chaudet, 1810, Museo del Louvre)
Esodo (vv. 1223-1530): un messo esce dal palazzo di Edipo e annuncia disperato che Giocasta si è impiccata e che Edipo, appena l’ha vista, si è accecato con la fibbia della veste di lei. In quel momento appare Edipo accompagnato da un canto pietoso del coro, che afferma di aver compiuto quell’atto perché nulla ormai, a lui che è maledetto, può più essere dolce vedere. In quel momento arriva Creonte, che di fronte alla disperazione di Edipo lo esorta ad avere fiducia in Apollo. Edipo abbraccia quindi le sue figlie Antigone e Ismene compiangendole perché esse, figlie di nozze incestuose, saranno sicuramente emarginate dalla vita sociale. Infine chiede a Creonte di essere esiliato in quanto uomo in odio agli dei.
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