Quando crolla lo Stato: Studi sull’Italia preunitaria
a cura di Paolo Macry
Descrizione del libro di Paolo Macry, quando crolla lo Stato: Studi sull’Italia preunitaria-Gli storici analizzano le scienze sociali hanno prestato grande attenzione al fenomeno delle discontinuità politiche e statuali. Quelle fratture, tuttavia, sono state analizzate per lo più sul versante dei vincitori: la Francia della sovranità popolare, la Russia bolscevica, la Cina di Mao, l’Europa post-comunista. Questo volume, dedicato alla crisi italiana del 1848-1861, sposta l’ottica analitica dalla rivoluzione al crollo, dai regimi emergenti ai regimi che muoiono, dal «nuovo» al «vecchio». Il che restituisce legittimità storiografica a Stati e sistemi politici talvolta letti nell’ottica teleologica di una sconfitta poco meno che fatale, avvolti in una sorta di leggenda nera, sottovalutati. Ma non soltanto. Mettendo l’accento sul breve momento, ovvero sui processi repentini che, nel giro di settimane, liquidano formazioni statuali potenti e antiche, il volume riflette l’ipotesi che la fase terminale dello Stato sia una finestra interpretativa di speciale rilevanza. Niente più di quelle settimane cruciali sembra capace di svelare nel profondo, oltre che le ragioni della morte, le ragioni d’essere di uno Stato. Come un’autopsia.
Ha fatto parte della direzione di “Quaderni Storici“, dell’Editorial Board del “Journal of Modern Italian Studies”, del direttivo dell’Istituto Meridionale di Storia e Scienze Sociali (IMES), del direttivo della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO), del comitato editoriale per la storia della casa editrice Il Mulino. Ha tenuto conferenze, seminari e corsi presso numerose istituzioni, fra le quali: Accademia Nazionale dei Lincei, Roma; Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma; McGill University, Montreal; Center for European Studies, Harvard; Columbia University, New York; Eighteenth-Century Studies Association, Berkeley.
I suoi interessi di ricerca si sono rivolti prevalentemente alla storia economica e sociale nella tarda età moderna e in età contemporanea. In questa cornice vanno collocati gli studi sul mercato nel XVIII secolo, sulle borghesie e le culture urbane ottocentesche, sulle pratiche ereditarie e patrimoniali delle famiglie nel XIX secolo. In seguito, coniugando storia sociale e storia politica, ha analizzato i fenomeni di discontinuità istituzionale – il “crollo dello stato” – nel caso dell’Italia del 1860 e nel quadro della storia europea del XX secolo. Ha lavorato sui metodi e le interpretazioni della storiografia nel secondo Novecento.
Dal 1997 ha collaborato assiduamente alle pagine politiche e culturali del “Corriere della Sera”, del “Corriere del Mezzogiorno”, del “Riformista” e del “Mattino”.
Opere principali
Mercato e società nel Regno di Napoli. Commercio del grano e politica economica del Settecento, Guida, Napoli 1974
Ottocento. Famiglia, élites e patrimoni a Napoli, Einaudi, Torino 1988 (Il Mulino, Bologna 2002)
La società contemporanea, Il Mulino, Bologna 1989 (Ariel, Barcelona 1997)
Giocare la vita. Storia del lotto a Napoli tra Sette e Ottocento, Donzelli, Roma 1997
Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento, Il Mulino, Bologna 2009
Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Il Mulino, Bologna 2012
Napoli. Nostalgia di domani, Il Mulino, Bologna 2018
Storie di fuoco. Patrioti, militanti, terroristi, Il Mulino, Bologna 2021
I segni del lavoro. I siti industriali in Bassa Sabina tra agricoltura e industria dal XVIII al XX secolo
A cura di Fondazione Nenni e Associazione Eolo
Editore Espera
DESCRIZIONE del libro I segni del lavoro. I siti industriali in Bassa Sabina Il volume è il risultato di una ricerca storico-archivistica, coordinata dalla Fondazione Pietro Nenni e dall’Associazione Eolo, che ha permesso di riscoprire all’interno di sette comuni della Bassa Sabina, con l’ausilio di documenti inediti e fonti orali, tracce di industrie, miniere, botteghe artigianali, mulini e mattatoi, forni, frantoi, allevamenti di bachi da seta, officine meccaniche, fabbriche di utensili e ceramiche, laboratori di sartoria e maglieria. Il lettore troverà un volume ricco di informazioni, dati e curiosità, sui siti produttivi, sul tessuto economico e sociale dei comuni di Cantalupo, Casperia, Forano, Magliano Sabina, Poggio Mirteto, Roccantica e Stimigliano tra il XVIII e il XX secolo. L’agricoltura ha rappresentato sempre un aspetto dominante dell’economia locale ma, nel corso del periodo preso in esame, si sono sviluppati oltre ad essa insediamenti produttivi e protoindustriali che hanno cambiato radicalmente la vita della popolazione. È uno studio realizzato con rigore, pensato per valorizzare il patrimonio archeologico industriale e agricolo di questo territorio.
Chronique d’une famille italienne dans les tourments du XXe siècle.
La migration est un thème d’actualité mais qui n’est pas nouveau. La Bible n’en parle-t-elle pas déjà abondamment ? Une chose est d’en parler, tout autre est d’en témoigner. Dans son livre,Mario Petricola (qui est issu d’une famille italienne venue s’installer en Lorraine) s’est lancé le défi de décrire les tribulations de sa famille dans les contextes géographiques, politiques, sociaux et religieux de son terroir d’origine comme des lointaines contrées où le destin a jeté les siens. Il le fait en ajoutant à la sensibilité d’un poète la rigueur d’un ethnologue, d’un sociologue et d’un historien.
D’une plume alerte, il emporte le lecteur dans les paysages des mondes d’hier et d’avant-hier. Avec un art consommé, ainsi fait-il monter aux narines les puissants effluves de la garrigue et de la cuisine parfumée des Abruzzes, berceau de sa famille. En suivant les migrants, ce décor bucolique laisse bientôt place aux vapeurs d’échappement du Nouveau Monde, aux remugles des tranchées de 14-18 et des sinistres camps nazis de la seconde guerre mondiale avec, pour finir, les jets de gaz brûlants des coulées de fonte des fours de Longwy qu’avec tristesse on verra démanteler sans que les mouvements sociaux des ouvriers désemparés n’y puissent mais.
L’auteur dépeint avec délicatesse comment, confrontée aux bouleversements survenus entre 1880 et 1980, sa famille pastorale est passée d’un mode de vie proche de la nature et largement autosuffisant où l’eau se cherchait au puits et les repas mijotaient dans l’âtre, à l’ère du béton qui a effacé ciel et terre et instillé une dépendance qui fait craindre désormais la moindre coupure de courant électrique. Autrement dit, les aventures des différents membres de la famille auxquels le lecteur s’identifie volontiers permettent de réaliser comment d’une société rurale à la stabilité millénaire que nos parents savaient presque instinctivement maîtriser, nous sommes passés à une civilisation urbaine dans laquelle nous éprouvons la frustration de n’en pouvoir assujettir les aléas devenus complexes.
En parallèle, l’auteur fait vivre les affres d’une traversée de trois semaines à fond de cale, entre Naples et New-York où, à l’ombre de la statue de Bartholdi, les rêves se fracassent contre la réalité. Il fait, en outre, assister à l’éclatement des familles en raison de la conscription qui, pour des combats stériles, coupe l’individu de ses racines, à moins qu’il ne doive affronter l’isolement et l’inconnu pour emplir les assiettes.
Pourtant, en dépit des vicissitudes, flotte constamment dans le livre une brise tonique qui trouve son dénouement dans les dernières pages. On y voit en effet, avec soulagement, les transalpins poser leurs valises et sereinement s’intégrer dans leur pays d’adoption, “happy end” qui, au départ, n’avait rien d’évident.
Recension par Pierre Yves Divisia
La version italienne de l’ouvrage est à paraître en octobre 2021 chez l’éditeur Il Filo d’Arianna.
Partir pour un ailleurs Chronique d’une famille italienne dans les tourments du XXe siècle.
De Mario Petricola
(paru en France en 2019 à compte d’auteur)
Vous pouvez en savoir plus, voir quelques photos et lire le premier chapitre du livre sur le site de Mario PETRICOLA : https://vivrecrire.monsite-orange.fr/
Si vous souhaitez vous procurer le livre il est disponible sur Amazon en format broché ou kindle et sur Fnac.com mais en version e-book uniquement sur liseuse Kobbo by FNAC.
Ingeborg Bachmann (Klagenfurt 1926 – Roma 1973), nota anche come Ruth Keller, ottiene il Premio del Gruppo 47 per le poesie riunite ne Il tempo dilazionato (1953), in cui i motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein) s’incontrano con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione d’un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico.
Quel ch’è vero
Quel ch’è vero non sparge sabbia nei tuoi occhi,
per quel ch’è vero morte e sonno con te si scuseranno,
come incarnato, saggio per ogni dolore,
quel ch’è vero smuove la pietra dal tuo sepolcro.
Quel ch’è vero, caduto ormai, slavato
seme o già foglia, nel letto malsano della lingua,
un anno e un anno ancora ed ogni anno –
quel ch’è vero non crea tempo, lo salva.
Quel ch’è vero discrimina la terra,
pettinando sogno serto e coltura,
alza la cresta e colmo di frutti strappati
ti folgora, prosciugando ogni cosa.
Quel ch’è vero non spera la scorreria
quando per te forse è in gioco tutto.
Sei la sua preda, se le tue ferite sgorgano;
nulla ti assale, che non ti tradisca.
Giunge la luna, con brocche avvelenate.
Bevi il tuo calice. L’amara notte cala.
La feccia schiuma su penne di colombe,
se un ramo non è portato in salvo.
Schiavo del mondo, sei gravato di catene,
ma quel ch’è vero nel muro apre le crepe.
Vegli e nel buio vai scrutando intorno,
a ignota via d’uscita tu sei volto.
Il gioco è finito
Mio caro fratello, quando costruiremo una zattera
per scendere lungo il cielo?
Mio caro fratello, presto sarà il carico immenso
e noi affonderemo.
Mio caro fratello, tracciamo sul foglio
molti paesi e binari.
Sta attento a linee nere,
lì salti in aria con le mine.
Mio caro fratello, voglio gridare
legata stretta al palo.
Ma già cavalchi dalla valle dei morti
e insieme fuggiamo.
Svegli nel campo di zingari e svegli in tenda nel deserto,
scorre sabbia dai nostri capelli,
la tua, la mia età e l’età della terra
non si misura con gli anni.
Non lasciarti ingannare dall’astuzia dei corvi,
da una zampa vischiosa di ragno, dalla penna nel rovo,
nel paese di cuccagna non mangiare e non bere,
schiuma apparenza da padelle e bicchieri.
Solo chi al ponte d’oro, per la fata rubino
la parola sa ancora, ha vinto.
Devo dirti che con l’ultima neve
si è sciolta nel giardino.
Hanno piaghe i nostri piedi, per molte e molte pietre.
Uno è sano. Con lui salteremo,
finché il re dei fanciulli, con in bocca la chiave del regno,
non ci prenda con sé e noi canteremo:
È una bella stagione, quando il dattero è in fiore!
Chi cade ha le ali.
Un rosso ditale orla il sudario dei poveri,
e il tuo cuore cade sul mio sigillo.
Si va a dormire, caro, il gioco è finito.
In punta di piedi. Si gonfiano le camicie bianche,
Papà e mamma dicono che ci sono i fantasmi
quando scambiamo il respiro.
Invocazione all’Orsa Maggiore
Scendi, Orsa Maggiore, notte arruffata,
fiera dal manto di nubi, dagli antichi occhi,
stelle occhi,
nel folto si aprono, scintillanti,
le tue zampe con gli artigli,
stelle artigli,
vigili pascoliamo gli armenti,
pur da te ammaliati, e diffidiamo
dei tuoi fianchi sfiniti, degli aguzzi
denti dischiusi,
vecchia orsa.
Un cono di pigna: il vostro mondo.
Voi: le sue squame.
Dagli abeti del principio
agli abeti della fine
lo rivolto, lo sbalzo,
l’annuso, ne saggio il sapore
e l’abbranco.
Temete e non temete!
Gettate l’obolo nella borsa,
all’uomo cieco una buona parola,
perché tenga l’orsa al guinzaglio.
E condite gli agnelli di spezie.
Potrebbe quest’orsa
liberarsi, non più minacciando,
incalzando ogni pigna, dagli abeti
caduta, maestosi abeti alati,
precipitati dal paradiso.
Mio uccello
Qualunque cosa accada: il mondo devastato
ricade indietro nel crepuscolo,
un elisir gli offrono i boschi perché dorma,
e dalla torre che la vedetta lasciò vuota
gli occhi della civetta calmi e fermi scrutano.
Qualunque cosa accada: tu sai il momento,
tu prendi il velo, mio uccello,
e giugni a me per la nebbia.
Vagano i nostri occhi nell’orbita abitata dalla feccia,
tu segui il mio cenno, portandoti fuori
in un vortice di piume e calugine –
Grigio compagno della mia spalla, mia arma,
adorno di quella penna, mia unica arma!
Mio unico fregio: il tuo velo e la tua penna.
Quand’anche nella danza degli aghi sotto l’albero
la pelle mi bruci,
e il cespuglio che giunge all’anca
mi tenti con foglie speziate,
quando le mie chiome guizzano
ondeggiando e bramano madore,
detriti di stelle rovinano
proprio sui miei capelli.
Quando sotto un elmo di fumo
nuovamente so cosa accade,
o mio uccello, o soccorso mio della notte,
quando nella notte divampo,
crepita nella macchia scura
e la scintilla da me stessa estraggo.
Quando infuocata come sono rimango,
e amata dal fuoco,
finché resina stilla dai tronchi
goccia a goccia sulle ferite, e calda
di sé intesse la terra,
(e quand’anche il mio cuore tu predassi di notte,
mio uccello in fede e mio uccello per sempre!)
nella luce si mostra la vedetta
che tu, placato,
in splendida calma volando raggiungi –
qualunque cosa accada.
Réclame
Ma dove andare
spensierato sii spensierato
quand’è buio e fa freddo
spensierato
e cosa fare
con musica
dunque
allegro con musica
e pensare
allegro
al cospetto di una fine
con musica
e dove portare
meglio
le nostre domande e l’orrore di tutti gli anni
nella lavanderia dei sogni spensierato sii spensierato
cosa accade dunque
meglio
quando quiete mortale
si fa
Discorso e diceria
Dalle labbra nostre non uscire,
parola che semini il drago.
È vero, l’aria è afosa,
schiuma la luce di acidi e fermenti,
e grava sulla palude nero il velo di zanzare.
Volentieri la cicuta si abbevera.
Una pelle di gatto è in mostra,
la serpe sopra vi soffia,
lo scorpione compare.
Al nostro orecchio non giungere,
notizia d’altrui colpa.
Parola, muori nella palude,
da cui sgorga la pozzanghera.
Parola, sii con noi,
pazientemente tenera
e impaziente. Deve il seminare
avere fine!
Non domerà l’animale, chi ne imita il verso.
Chi rivela i suoi segreti d’alcova, si priverà d’amore.
Bastarda la parola si fa lazzo e sacrifica uno stolto.
Chi ti chiede sullo straniero una sentenza?
E se la pronunci non richiesta, va’ tu, di notte in notte,
con le sue piaghe ai piedi, va’! non ritornare.
Parola, sii tra noi,
libera, chiara e bella.
Certo deve aver fine,
il diffidare.
(Il gambero indietreggia,
la talpa dorme troppo,
l’acqua morbida scioglie,
il calcare che ha tessuto pietre.)
Vieni, grazia di suono e di fiato,
fortifica questa bocca,
quando la sua debolezza
ci atterrisce e frena.
Vieni e non ti negare,
poiché noi siamo in lotta con tanto male.
Prima che sangue di drago protegga il nemico
cadrà questa mano nel fuoco.
Mia parola, salvami!
Ombre rose ombre
Sotto un cielo straniero
ombre rose
ombre
su una terra straniera
tra rose e ombre
in un’acqua straniera
la mia ombra
Breve biografia di Ingeborg Bachmann (Klagenfurt 1926 – Roma 1973), nota anche come Ruth Keller, ottiene il Premio del Gruppo 47 per le poesie riunite ne Il tempo dilazionato (1953), in cui i motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein) s’incontrano con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione d’un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico. Nella successiva raccolta, Invocazione all’Orsa Maggiore (1956), i nodi espressivi tendono a sciogliersi in un dettato più lucido (vi compare spesso, al posto del metro libero, la strofa rimata), pur senza perdere di profondità. Di singolare interesse (a parte alcuni testi minori, fra i quali i radiodrammi Le cicale, 1955, e Il Buon Dio di Manhattan, 1958, in forma di ballata) sono altresì i volumi di racconti Il trentesimo anno (1961) e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971): pagine narrative caratterizzate da una intensa vibrazione poetica, anche se quasi sempre lontane dai moduli della prosa lirica.
Testi selezionati da Invocazione all’Orsa Maggiore (trad. di L. Reitani, Mondadori, 1999)
Fonte- AVAMPOSTO-Rivista di Poesia
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Per informazioni, segnalazioni, proposte di pubblicazione e/o collaborazione,
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“Scriveva poesie. Ciò stupì un poco gli amici. La sua mente raziocinante l’aveva fatta apparire più incline alla saggistica. Inoltre quegli anni erano particolarmente antieroici, antipoetici. Predominava il discorso, trionfava la frase più scarna possibile. Eppure Ingeborg covava una liricità che nulla aveva a che fare col ragionamento. Cantava, trasformando il pensiero in immagini che solcavano la pagina, a grappoli, con parole di fuoco. Tutte le più strane combinazioni potevano avvenire in mezzo ai versi: irruzione di sgomento e colpa, ammonizioni, verdetti, tragiche consapevolezze, estasi nei confronti della parola.”
Grazia Livi, Le lettere del mio nome, La Tartaruga
*
Così parlò
e la luce
si spense,
scrisse, e
un uomo cadde a pezzi
come un vestito vecchio. La tortura
*
Dalla terrazza più alta
volevo saltare,
sono salita a piedi
lungo la scala di servizio, per
i domestici, e ho origliato
alla porta le risate
nelle mie stanze, mi hanno scoraggiata. Un cadavere,
subito dopo colazione, lo avresti
preso male Sulla terrazza più alta
*
Andai dunque nel deserto. La luce si rovesciò su di me, l’eruzione del cielo, il suo odore nitido, ardente, mi è divenuto familiare. Sono fuggita, anzi mi sono ribellata, allontanata dalla clinica, mentendo ho fatto sparire le mie tracce, mi sono procurata il siero con dei pretesti, ho simulato che la vista si annebbiasse e di poter stare a galla, senza dover annaspare con le braccia, ho falsificato i referti. Non c’è più bisogno di menzogne qui, tutti guardano fisso dinanzi a sé, tutti hanno uno sguardo che non promette più nulla.
da Il libro Franza, Adelphi
*
Ma non vogliamo parlare dei limiti,
e limiti attraversano ogni parola:
spinti dalla nostalgia li oltrepasseremo
e poi saremo in armonia in ogni luogo. Von einem Land, einem Fluss und den Seen
Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nascondere le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui anzi il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti. E solo quel dolore nascosto ci fa sensibili all’esperienza e soprattutto all’esperienza della verità. Quando siamo in questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo. Far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi. Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar
Alla poetessa austriaca, nata a Klagenfurt nel 1926, gli occhi si sono aperti in Italia, a Roma.
Ho visto che dicendo Roma si evoca ancora il mondo e che la chiave della forza sono quattro lettere S.P.Q.R. […] Qui a Roma il Tevere è bello, ma trascurato. L’isola Tiberina è un’isola di malati e di morti. Al Ghetto non bisogna lodare il giorno prima che faccia sera. […] Giordano Bruno continua ad essere bruciato ogni sabato, quando si smantella il mercato. A Roma ho visto che tutto ha un nome e ho capito che bisogna conoscere i nomi. Quel che ho visto e udito a Roma
Arrivata a Roma, quasi per caso, nell’autunno del 1953 e senza poter spiegarne il vero motivo Ingeborg Bachmann ci rimase fino alla sua morte precoce nel 1973. A differenza della maggior parte degli scrittori tedeschi o austriaci che arrivano in Italia sulle tracce di Goethe e con lo sguardo nordico di chi ammira i monumenti e la storia, per la Bachmann vivere in Italia fu una cosa naturale e non sentì il bisogno di tematizzare e di citare Roma nelle sue opere. Anzi, diceva di avere una “doppia vita” abitando nel cuore di Roma e scrivendo opere ambientate a Vienna. Per lei Roma fu una “città aperta con un carattere utopico”, una “città a strati” dove riuscì semplicemente a trovare una “sensazione di patria intellettuale”. In questa Roma dal carattere utopico lavorò ininterrottamente al ciclo Todesarten (Modi di morire), una serie di romanzi che dovevano avere come tema la morte dovuta alla società. Summa della sua opera è Malina dove afferma la necessità della sofferenza tramite le parole: “La lingua è castigo. Tutte le cose devono entrare in essa e devono poi scomparire secondo la colpa e secondo la misura della loro colpa.”
Nikola Harsch
*
Roma e Vienna, la doppia vita della Bachmann
“Ho visto che dicendo Roma si evoca ancora il mondo e che la chiave della forza sono quattro lettere S.P.Q.R.” (Ingeborg Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma). Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca, visse per molti anni a Roma dove morì a causa di un terribile incidente il 17 ottobre 1973.
Nacque a Klagenfurt (Carinzia) nel 1926 e passò la sua infanzia lì, vicino al confine con l’Italia. Nel 1945 lasciò la casa dei genitori e dopo un anno di studi a Innsbruck e a Graz si trasferì a Vienna dove rimase fino alla laurea in filosofia e dove cominciò anche a scrivere poesie e radiodrammi. Nel 1952 fu invitata da Hans Werner Richter, insieme a Paul Celan e Inge Aichinger, al decimo congresso del Gruppo 47 che nel 1953 le assegnò un premio per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato. Nello stesso anno accettò un invito a Ischia da parte del compositore Hans Werner Henze. Partì per l’Italia lasciandosi alle spalle l’Austria dove non sarebbe più ritornata tranne che per brevi visite. A Ischia scrisse le poesie della raccolta L’Invocazione dell’Orsa Maggiore e furono in molti a dire che il suo stile si fosse trasformato positivamente con il trasloco.
Nell’autunno del 1953 la Bachmann venne a Roma per la prima volta. La decisione di trasferirsi nella capitale fu dettata dal bisogno di guadagnare: per un anno scrisse come corrispondente per vari giornali tedeschi. La sua idea fu quella di restare a Roma soltanto per qualche mese ma ci rimase molto di più benché non poté mai spiegare il vero motivo della sua decisione. Si stabilì nella capitale e presto entrò a far parte della scena letteraria romana.
Collaborò alla rivista letteraria Botteghe Oscure e tradusse le poesie di Giuseppe Ungaretti, si interessò di Morante e Manganelli, scrisse un saggio sulla relazione tra la letteratura italiana e quella tedesca e conobbe gli scrittori tedeschi che vivevano a Roma, tra cui Marie Luise Kaschnitz e la figlia Iris, Hermann Kesten e quelli che frequentarono come loro l’Istituto di Studi Germanici a Villa Sciarra. Spesso le venne chiesto perché avesse scelto di vivere proprio a Roma. Lei descrisse Roma come “una città aperta” con “un carattere utopico” dove si riesce ad avere “una sensazione di patria intellettuale”. In uno dei suoi pochissimi testi su Roma, Quel che ho visto e udito a Roma del 1954, descrisse proprio questo.
Nel 1957 Ingeborg Bachmann lasciò Roma per alcuni anni. Si trasferì a Monaco di Baviera dove accettò un posto in televisione come drammaturgo. Conobbe lo scrittore svizzero Max Frisch con il quale fu legata in una relazione molto movimentata fino al 1962. Con lui visse tra Roma e Zurigo, ma fu soltanto dopo la fine del loro rapporto che nel 1966 decise di ritornare definitivamente a Roma. Abitò in Via Bocca di Leone 60 (oggi una lapide ricorda gli anni dal 1966 al 1971) e dopo si trasferì in Via Giulia 66 dove visse fino alla morte. Soffrì di gravi problemi di salute dovuti alla sua farmacodipendenza ma nonostante tutto lavorò ininterrottamente al ciclo “Modi di morire”, una serie di romanzi che dovevano avere come tema la morte dovuta alla società. Summa della sua opera narrativa è Malina (1971), primo romanzo del ciclo; il secondo romanzo del ciclo, Il caso Franza, rimase incompiuto.
Quando la Bachmann parlò della sua vita a Roma alla fine degli anni Sessanta, la chiamò Doppelleben, doppia vita. I suoi racconti della raccolta Il trentesimo anno e anche i romanzi furono, infatti, ambientati esclusivamente in Austria mentre lei viveva nel cuore di Roma. “Sto meglio a Vienna perché sono a Roma; senza questa distanza non potrei immaginarla per il mio lavoro.”
Ingeborg Bachmann non fu la tipica poetessa venuta dal Nord, piena di ammirazione per l’Italia con la sua storia e i suoi monumenti, non sentì il bisogno di descrivere continuamente la città eterna come lo fecero molti dei suoi colleghi tedeschi. Sottolineò spesso che per lei vivere in Italia fosse qualcosa di normale visto che era cresciuta vicino al confine. Fu a Roma che trovò la libertà e la forza per concentrarsi sul suo lavoro di scrittrice e dove seguì un impegno ben preciso: “Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nascondere le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui, anzi, il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti. E solo quel dolore nascosto ci fa sensibili all’esperienza e soprattutto all’esperienza della verità. Quando siamo in questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi” (Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar).
Il dolore di cui la Bachmann parlò come via verso la percezione di una realtà diversa è quello della guerra, il “dolore troppo precoce” che aveva provato quando le truppe di Hitler invasero Klagenfurt, l’amara scoperta della volontà di distruzione, del desiderio di supremazia che si cela nelle relazioni umane, delle “ombre cupe” che accompagnano la vita di tutti i giorni.
Nikola Harsch, l’Unità, 17 ottobre 2003
*
È buio fitto davanti alla finestra, non posso aprirla e premo il viso contro il vetro, non si riesce a vedere quasi niente. Lentamente ho l’impressione che il fosco specchio d’acqua potrebbe essere un lago e sento gli uomini ubriachi cantare sul ghiaccio un corale. So che dietro a me è entrato mio padre, ha giurato di uccidermi, e mi metto svelta tra la lunga tenda pesante e la finestra, in modo che non mi sorprenda a guardare fuori, ma so già quello che non debbo sapere: in riva al lago c’è il cimitero delle figlie uccise.
da Malina, Adelphi
*
Era proprio uno strano meccanismo il suo, viveva senza un solo pensiero in testa, immersa nelle frasi degli altri che immediatamente doveva ripetere come una sonnambula, ma con suoni diversi: di “machen” sapeva fare to make, faire, fare, hacer e delat’, era capace di girare ogni parola come su un rullo per ben sei volte, soltanto non doveva pensare che machen significava veramente machen, faire fare, fare fare, delat’ delat’, questo avrebbe reso la sua testa inservibile e lei doveva stare molto attenta a non venire un giorno travolta da quella valanga di parole.
da “Simultaneo”, Tre sentieri per il lago, Adelphi
*
il rogo è eretto sul Kurfürstendamm, angolo Joachimsthalerstraße. C’è il black-out dei giornali. Nessuno dei giornali con cui si può accendere il fuoco è uscito. L’edicola è vuota, non c’è neanche la giornalaia. La gente esita, poi ciascuno si fa coraggio e prende un ciocco. Alcuni si portano subito a casa il ciotto sotto il soprabito, altri cominciano lì sul posto a incidere nel legno col temperino quel che gli salta in mente: segni solari, segni di vita. Un aio di persone fanno osservazioni volgari e dicono che la legna è umida. Un uomo decrepito alza il suo ciocco e grida: sabotaggio! Li lasciamo cadere in mano agli altri! E davvero i ciocchi corrono già in cerchio, ognuno passa all’altro un ciocco, ma nessuno scherza col fuoco, tutti sono molto ragionevoli. Ben presto la legna è finita e il traffico riprende. Tutt’a un tratto i giornali escono, prima i giornali piccolissimi, con lettere in grassetto nero, con sottolineature cotennose, con grasso freddo in eccedenza che sgronda ai margini. Poi i giornali grandissimi, quelli magri, stracotti, ricoperti di brodo pallido, che si prendono in mano coi guanti.
Biblioteca DEA SABINA-Associazione CORNELIA ANTIQUA
Roma- La via Appia antica vista da due illustri viaggiatori del 1700.
Montesquieu:“ Avvicinandoci a Roma s’incontrano tratti della Via Appia, ancora integri. Si vede un bordo o margo che resiste ancora, e credo che abbia più di tutto contribuito a conservare questa strada per duemila anni: ha sostenuto le lastre dai due lati ed ha impedito che cedessero lì, come fanno le nostre lastre in Francia, che non hanno alcun sostegno ai bordi. Si aggiunga che queste lastre sono grandissime, molto lunghe, molto larghe, e molto bene incastrate le une nelle altre; inoltre questo lastricato, poggia su un altro lastricato, che serve da base. Le strade dell’imperatore sono fatte di ghiaia messa su una base lastricata, ben stretta e compressa. Dopo, vi hanno messo un piede o due di ghiaia. Questo renderà la strada eterna. C’è da stupirsi che in Francia non si sia pensato a costruire strade più resistenti? Gli imprenditori sono felici di avere un affare del genere ogni cinque anni”.
Montesquieu, Viaggio in Italia, 1728-1729.
Charles de Brosses:“E’ questo, o mai più, il momento di parlarvi della Via Appia, cioè il più grande,il più bello e il più degno monumento che ci resti dell’antichità; poiché, oltre alla stupefacente grandezza dell’opera, essa non aveva altro scopo che la pubblica utilità, credo che non si debba esitare a collocarla al di sopra di tutto quanto hanno mai fatto i Romani o altre nazioni antiche, fatta eccezione per alcune opere intraprese in Egitto, in Caldea e soprattutto in Cina per la sistemazione delle acque. La strada, che comincia a Porta Capena, prosegue trecentocinquanta miglia da Roma a Capua e a Brindisi, ed era questa la strada principale per andare in Grecia e in Oriente. Per costruirla hanno scavato un fossato largo quando la strada fino a trovare uno strato solido di terra……Codesto fossato o fondamento è stato riempito da una massicciata di pietrame e di calce viva, che costituisce la base della strada, la quale è stata poi ricoperta interamente di pietre da taglio che hanno una rotaia. E tanto ben connesse che, nei posti dove non hanno ancora incominciato a romperle dai bordi, sarebbe molto difficile sradicare una pietra al centro della strada con strumenti di ferro. Da ambedue i lati correva un marciapiede di pietra. Sono ben quindici o sedici secoli che non soltanto non riparano questa strada, ma anzi la distruggono quanto possono. I miserabili contadini dei villaggi circostanti l’hanno squamata come una carpa, e ne hanno strappato in moltissimi luoghi le grandi pietre di taglio, tanto dei marciapiedi che del selciato. E’ questa la ragione degli amari lamenti che fanno sempre i viaggiatori contro la durezza della povera Via Appia , che non ne ha nessuna colpa; infatti, nei posti che non sono stati sbrecciati, la via è liscia, piana come un tavolato, e persino sdrucciolevole per i cavalli i quali, a forza di battere quelle larghe pietre, le hanno quasi levigate ma senza bucarle. E’ vero che, nei luoghi dove manca il selciato, è assolutamente impossibile che le chiappe possano guadagnarsi il paradiso, a tal punto vanno in collera per essere costrette a sobbalzare sulla massicciata di pietre porose e collocate di taglio, e in tutti i sensi nel modo ineguale. Tuttavia, nonostante vi si passi sopra da tanto tempo, senza riparare né aggiustare nulla, la massicciata non ha smentito le sue origini. Non ha che poche o punte rotaie ma solo, di tanto in tanto, buche piuttosto brutte”.
Rosalia Gambatesa –Ormai è sicuro, il mondo non esiste
La poesia di Patrizia Cavalli. 1974-1992-Editore Progedit Bari
In questa prima monografia dedicata a Patrizia Cavalli, Rosalia Gambatesa esplora con appassionata sapienza filologica due opere cruciali dell’unica poeta ad aver ricevuto il premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei e tra le più importanti viventi. Il suo intenso corpo a corpo con la lingua oscura e lucente di Poesie (1974-1992) e di Tre risvegli, libretto d’opera di vent’anni successivo, si misura col teatrino ciclico di un soggetto sospeso “a metà strada tra grazia e disgrazia”. Sotto la lente della studiosa appare lo stralunato andirivieni tra casa e città di un io proteiforme, mosso meccanicamente, di scena in scena, dai soprassalti dei cicli naturali. Il rigore del lavoro critico non scalfisce la meraviglia di uno spazio linguistico che espone il mistero dell’esistenza della poesia e introduce il lettore nell’enigma del farsi e del disfarsi del pensiero, espressione di una modernissima forma di resistenza al moderno.
Insieme alla cantautrice Diana Tejera realizzò nel 2012 il libro/disco Al cuore fa bene far le scale edito da Voland/Bideri. Con Tejera e Chiara Civello scrisse il brano E se (Premio Betocchi – Città di Firenze 2017).
Morì nel giugno del 2022 a Roma, all’età di 75 anni, dopo una lunga malattia.[9]
Stile letterario
La poesia di Patrizia Cavalli è caratterizzata da una complessa tecnica poetica. Le misure metriche che utilizza sono classiche, ma il lessico e la sintassi sono quelli della lingua contemporanea; sono assenti poeticismi e manierismi e il linguaggio è quello quotidiano e familiare, senza perdere profondità di analisi e con una grande sensibilità per i dolori e le gioie della vita. Intervistata dichiarò la propria omosessualità e sottolineò il ruolo di forti sensazioni emotive e somatiche (‘qualche forma estatica di adorazione, o disdegno, o odio; qualche cosa di corporale che prende possesso di me – il desiderio o un mal di testa’) quale principale spinta alla radice della sua poesia.[10]
Opere
Poesia
Le mie poesie non cambieranno il mondo, Einaudi, Torino, 1974.
Il cielo, Einaudi, Torino, 1981.
L’io singolare proprio mio, Einaudi, Torino, 1992.
Poesie (1974-1992), Einaudi, Torino, 1992 (raccolta che assomma le tre precedenti).
Sempre aperto teatro, Einaudi, Torino, 1999.
La guardiana, nottetempo, Roma, 2005.
Pigre divinità e pigra sorte, Einaudi, Torino, 2006 (contiene La guardiana).
La patria, nottetempo, Roma, 2011.
Al cuore fa bene far le scale (con Diana Tejera), Voland, Roma, 2012.
Datura, Einaudi, Torino, 2013 (contiene La patria).
Flighty matters, Quodlibet, Macerata, 2017.
Vita meravigliosa, Einaudi, Torino, 2020.
Breve biografia di Rosalia Gambatesa
Rosalia Gambatesa, dottore di ricerca in Langues, Littératures et Civilisation, ha insegnato dal 1987 al ginnasio e dal 2020 è lettrice d’italiano all’Università di Teheran. Ha pubblicato, tra l’altro, I tempi di Annina con Rossana Ingellis (Bari 2015), percorso formativo sui Versi livornesi di Caproni, e Drames des sentiments et drames des molécules dans «Tre risvegli» de Patrizia Cavalli-
La prima monografia dedicata a Patrizia Cavalli.-
Editore Progedit Bari
Introduzione di Laura Toppan
Prefazione di: Elsa Chaarani Lesourd
Collana: Incroci e percorsi di lingue e letterature
Albert Camus-(1913-1960) nacque in Algeria, dove studiò e cominciò a lavorare come attore e giornalista. Affermatosi nel 1942 con il romanzo Lo straniero e con il saggio Il mito di Sisifo, raggiunse un vasto riconoscimento di pubblico con La peste (1947). Nel 1957 ricevette il premio Nobel per la letteratura per aver saputo esprimere come scrittore “i problemi che oggi si impongono alla coscienza umana”. Di questo autore, oltre ai titoli già citati, Bompiani ha pubblicato L’uomo in rivolta, L’esilio e il regno, La caduta, Il diritto e il rovescio, Taccuini 1935-1959, Caligola, Tutto il teatro, Il primo uomo, L’estate e altri saggi solari, Riflessioni sulla pena di morte, I demoni, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, Conferenze e discorsi (1937-1958), Saremo leggeri. Corrispondenza (1944-1959). Nei Classici Bompiani è disponibile il volume Opere. Romanzi, racconti, saggi.
Quelli che si amano,
gli amici, gli amanti,
sanno che l’amore
non è solo una folgorazione
ma anche una lunga e dolorosa
lotta nelle tenebre
per la riconoscenza
e la riconciliazione definitiva.
Mia cara,
nel bel mezzo dell’odio
ho scoperto che vi era in me
un invincibile amore.
Nel bel mezzo delle lacrime
ho scoperto che vi era in me
un invincibile sorriso.
Nel bel mezzo del caos
ho scoperto che vi era in me
un’ invincibile tranquillità.
Ho compreso, infine,
che nel bel mezzo dell’inverno,
ho scoperto che vi era in me
un’invincibile estate.
E che ciò mi rende felice.
Perché afferma che non importa
quanto duramente il mondo
vada contro di me,
in me c’è qualcosa di più forte,
qualcosa di migliore
che mi spinge subito indietro.
“La Solitudine nell’Anima: Profondità e Riflessioni di Albert Camus”. Recensione a cura di Alessandria today
Il titolo stesso, semplice e diretto, introduce il tema centrale del testo, la solitudine, ma subito si pone in discussione. L’autore sostiene che non siamo mai davvero soli, portando con noi il peso del passato e del futuro, un carico composto dalle persone che abbiamo amato e da quelle che abbiamo ferito.
Camus dipinge un ritratto vivido della solitudine come un peso costante, una presenza inquietante di fantasmi e rimpianti che ci tormentano incessantemente. L’autore espone un contrasto significativo tra la solitudine desiderata, caratterizzata da un silenzio sereno e la solitudine reale, abitata dai fantasmi del passato.
La poesia è intrisa di emozioni forti e contrastanti: il rimpianto, il desiderio, il disincanto e la dolcezza, il tutto racchiuso in una solitudine inquieta e affollata da fantasmi. L’immagine della solitudine desiderata, fatta di silenzio e tremori d’alberi, rappresenta un desiderio di pace interiore, una sorta di ricerca di comprensione e tranquillità nel cuore dell’essere.
L’uso delle immagini e delle metafore, come il chiasso, i lamenti perduti e il flusso del cuore, contribuisce a creare un’atmosfera di malinconia e riflessione profonda. La poesia invita il lettore a contemplare la complessità dell’anima umana, affrontando le contraddizioni e i tormenti della solitudine.
In conclusione, “La solitudine” di Albert Camus è una poesia che offre un’immersione profonda nell’animo umano, attraverso un’esplorazione intensa e ricca di emozioni contrastanti. Camus offre uno sguardo penetrante sulla solitudine, dipingendola come un carico emotivo costante, una presenza travolgente e inquietante che pervade l’essenza umana.
La solitudine – Albert Camus
La solitudine?
Quale solitudine?
Ma lo sai che non si è mai soli?
E che comunque ci portiamo addosso il peso del nostro passato
anche quello del nostro futuro.
Tutti quelli che abbiamo ucciso sono sempre con noi.
E fossero solo loro, poco male.
Ma ci sono anche quelli che abbiamo amato e che ci hanno amato.
Il rimpianto, il desiderio
il disincanto e la dolcezza
le donne di strada, la banda degli dei.
La solitudine risuona di denti che stridono,
chiasso, lamenti perduti.
Se soltanto potessi godere la vera solitudine
non questa mia infestata di fantasmi
ma quella vera
fatta di silenzio e tremori d’alberi:
sentire tutta l’ebbrezza del flusso del mio cuore.
In cima al colle Gianicolo (praticamente sotto la statua di Garibaldi) è posto dal 24 gennaio 1904 un cannone che spara, a salve, a mezzogiorno in punto. Lo sparo, nei rari giorni in cui la città è meno rumorosa (particolarmente la domenica, o d’agosto), si può sentire fino all’Esquilino.
La cannonata a salve di mezzogiorno fu introdotta da Pio IX nel 1847, per dare uno standard alle campane delle chiese di Roma, in modo che non suonassero ognuna il mezzogiorno del proprio sagrestano. Il cannone era allora in Castel Sant’Angelo, da dove venne spostato nel 1903 a Monte Mario, per qualche mese, per essere poi posizionato al Gianicolo nella sua collocazione attuale.
L’uso non fu interrotto dall’Unità d’Italia, ma dalla guerra sì. Fu ripristinato il 21 aprile 1959, in occasione del 2712º anniversario della fondazione di Roma.
Attualmente il cannone è un obice 105/22 Mod. 14/61, servito da personale dell’Esercito Italiano.
Nota copiata da Internet. Le foto sono del febbraio 2017-
l Gianicolo è un colle romano, prospiciente la riva destra del Tevere e la cui altezza è 82 metri. Non fa parte del novero dei sette colli tradizionali. La pendice orientale degrada verso il fiume e alla base si trova il rione storico di Trastevere, mentre quella occidentale, meno ripida, costituisce la parte più vecchia del moderno quartiere di Monteverde.
Secondo una delle più antiche leggende della mitologia romana, il colle del Gianicolo avrebbe ospitato la città fondata dal dio Giano, da cui il suo nome. Giano ebbe diversi figli, da uno dei quali, Tiberino, deriverebbe il nome del Tevere (Tiber in latino).Alla estremità del belvedere sono posizionate due grandi riproduzioni di piante di Roma vista dal Gianicolo: quella di Antonio Tempesta e quella di Giuseppe Vasi.
Proseguendo la passeggiata panoraminca lungo via Garibaldi, nello slargo all’altezza della Fontana dell’Acqua Paola, chiamata tradizionalmente “Fontanone”, eretta da Giovanni Fontana e Carlo Maderno per Papa Paolo V (1608 – 1612), si delinea sullo sfondo, nella cornice di Villa Borghese, Villa Medici. Si prosegue verso piazza G. Garibaldi, da cui si gode uno dei più superbi panorami della città: all’orizzonte i colli, sullo sfondo dei quali risaltano le cupole e i campanili delle chiese e le maestose rovine imperiali.
In primo piano si erge il Campidoglio; in fondo, a destra, s’innalzano, bianche come apparizioni, le gigantesche statue della facciata di San Giovanni in Laterano. Tra le architetture dei palazzi si vede scorrere il Tevere.
Proseguendo la nostra passeggiata, nello scendere verso Sant’Onofrio, incrociamo la splendida Villa Lante, dell’architetto Giulio Romano (1518-27), la cui loggia-belvedere si apre verso la città; infine, arrivati nello slargo del Faro di Manfredo Manfredi (1911), è possibile gustare quella che viene ritenuta la più completa visione panoramica di Roma.
Per tutti gli inguaribili romantici che non riescono ad accontentarsi del panorama romano ammirabile dal Pincio o dal Gianicolo, l’alternativa, più intima e raccolta, è quella di accaparrarsi una terrazza affacciata sul centro storico della città eterna. L’impresa non è facile, a meno che non abbiate amici o conoscenti disposti ad ospitarvi per un giro lungo i piani alti del loro palazzo, o vogliate “corrompere” qualche portiere. Per concedersi qualche istante di fronte alle bellezze romane che si perdono all’orizzonte, ogni momento è quello giusto: quindi non preoccupatevi, perché dal tramonto all’alba Roma non perde fascino e rimane lì ad aspettarvi.
Arsenij Tarkovskij-Poeta russo (Elizavetgrad 1907 – Mosca 1989). Nelle sue liriche (Pered snegom “Dinanzi alla neve”, 1962; Vestnik “Il messaggero”, 1969; Stichotvorenija “Versi”, 1974; Volšebnye gory “Montagne magiche”, 1978; Zimnij den´ “Un giorno d’inverno”, 1980) unì nobiltà e modernità di ispirazione a classicità di forme. Fu anche apprezzato traduttore da varie letterature orientali.
Tre poesie di Arsenij TARKOVSKIJ, Poeta russo.
Le poesie di Arsenij TARKOVSKIJ sono un dono inaspettato e prezioso al lettore contemporaneo. Questi versi, che hanno atteso a lungo per venire alla luce , colpiscono per rare qualità, la più sorprendente delle quali è che da noi quotidianamente pronunciate si rivestono chissà come di un mistero e suscitano echi inaspettati nel cuore .
Anna Achmatova , dalla recensione a “Prima della neve” 1962- La prima edizione italiana fu del 1992 con la traduzione di Paola Pedicone- EdizioniTracce di Pescara- Testo cirillico digitato da Novojilov Dmitrij- pubblicazione con il contributo del Ministero Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica-Università G.D’Annunzio-Chieti-Edizione curata da Tatjana Tarkovskaja-
Arsenij Tarkovskij-Poeta russo (Elizavetgrad 1907 – Mosca 1989). Nelle sue liriche (Pered snegom “Dinanzi alla neve”, 1962; Vestnik “Il messaggero”, 1969; Stichotvorenija “Versi”, 1974; Volšebnye gory “Montagne magiche”, 1978; Zimnij den´ “Un giorno d’inverno”, 1980) unì nobiltà e modernità di ispirazione a classicità di forme. Fu anche apprezzato traduttore da varie letterature orientali.
Primi Incontri
Ogni istante dei nostri incontri
lo festeggiavamo come un’epifania,
soli a questo mondo. Tu eri
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: “Tu sia benedetta”,
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.
Nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e ” Dio mio! ” tu eri mia.
Ti destasti e cangiasti
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tua svelò
il proprio nuovo significato: zar.
Alla luce tutto si trasfigurò, perfino
gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.
Fummo condotti chissà dove.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo”
Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.
(Pervye svidanija, in A. A. Tarkovskij, Poesie scelte , Milano 1989)
First meetings
We celebrated every moment
Of our meetings as epiphanies,
Just we two in all the world.
Bolder, lighter than a bird’s wing,
You hurtled like vertigo
Down the stairs, leading
Through moist lilac to your realm
Beyond the mirror.
When night fell, grace was given me,
The sanctuary gates were opened,
Shining in the darkness
Nakedness bowed slowly;
Waking up, I said:
‘God bless you!’, knowing it
To be daring: you slept,
The lilac leaned towards you from the table
To touch your eyelids with its universal blue,
Those eyelids brushed with blue
Were peaceful, and your hand was warm.
And in the crystal I saw pulsing rivers,
Smoke-wreathed hills, and glimmering seas;
Holding in your palm that crystal sphere,
You slumbered on the throne,
And – God be praised! – you belonged to me.
Awaking, you transformed
The humdrum dictionary of humans
Till speech was full and running over
With resounding strength, and the word you
Revealed its new meaning: it meant king.
Everything in the world was different,
Even the simplest things – the jug, the basin –
When stratified and solid water
Stood between us, like a guard.
We were led to who knows where.
Before us opened up, in mirage,
Towns constructed out of wonder,
Mint leaves spread themselves beneath our feet,
Birds came on the journey with us,
Fish leapt in greeting from the river,
And the sky unfurled above…
While behind us all the time went fate,
A madman brandishing a razor.
E’ fuggita l’estate…
E’ fuggita l’estate,
più nulla rimane.
Si sta bene al sole.
Eppur questo non basta.
Quel che poteva essere
una foglia dalle cinque punte
mi si è posata sulla mano.
Eppur questo non basta.
Nè il bene nè il male
sono passati invano,
tutto era chiaro e luminoso.
Eppur questo non basta.
La vita mi prendeva,
sotto l’ala mi proteggeva,
mi salvava, ero davvero fortunato.
Eppur questo non basta.
Non sono bruciate le foglie,
non si sono spezzati i rami…
Il giorno è terso come cristallo.
Eppur questo non basta.
Now summer has passed
Now summer has passed,
As if it had never been.
It is warm in the sun.
But this isn’t enough.
All that might have been,
Like a five-cornered leaf
Fell right into my hands,
But this isn’t enough.
Neither evil nor good
Had vanished in vain,
It all burnt with white light,
But this isn’t enough.
Life took me under its wing,
Preserved and protected,
Indeed I have been lucky.
But this isn’t enough.
Not a leaf had been scorched,
Not a branch broken off…
The day wiped clean as clear glass,
But this isn’t enough.
E lo sognavo, e lo sogno
E lo sognavo, e lo sogno,
e lo sognerò ancora, una volta o l’altra,
e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,
e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.
Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo
un’onda dietro l’altra si frange sulla riva,
e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello,
e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.
Non mi occorrono le date: io ero, e sono e sarò.
La vita è la meraviglia delle meraviglie,
e sulle ginocchia della meraviglia
solo, come orfano, pongo me stesso
solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi
di mari e città risplendenti tra il fumo.
E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia
I dreamed this dream and I still dream of it
I dreamed this dream and I still dream of it
and I will dream of it sometime again.
Everything repeats itself and everything will be reincarnated,
and my dreams will be your dreams.
There, to one side of us, to one side of the world
wave after wave breaks on the shore:
there’s a star on the wave, and a man, and a bird,
reality and dreams and death – wave after wave.
Dates are irrelevant. I was, I am, I will be.
Life is a miracle of miracles, and I kneel
before the miracle alone like an orphan,
alone in the mirrors, enclosed in reflections,
seas and towns, shining brightly through the smoke.
A mother cries and takes her baby on her knee.
Arsenij Tarkovskij nasce nel 1907 a Elizavetgrad, oggi Kirovograd, in Ucraina. È all’ambiente familiare che Arsenij deve l’amore per la letteratura e le lingue – il padre è poliglotta e autore di racconti e saggi – come anche la conoscenza del pensiero di Grigorij Skovoroda. Nella seconda metà degli anni Venti frequenta i Corsi Superiori Statali di Letteratura e scrive corsivi su «Il fischio», rivista dei ferrovieri, a cui collaborano anche Bulgakov, Olesa, Kataev, Il’f e Petrov. Tra il ’29 e il ’30 inizia a scrivere poesie e drammi in versi per la radio sovietica, ma nel ’32, accusato di misticismo, è costretto ad interrompere la sua collaborazione. Nello stesso anno nasce il figlio Andrej. Inizia a tradurre poesie dal turkmeno, ebraico, arabo, georgiano, armeno. Nel dicembre ’43, dopo essere stato insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in guerra, è ferito gravemente e gli viene amputata una gamba. Nel ’46 viene rifiutata l’edizione del suo primo libro in quanto i suoi versi vengono ritenuti ‘nocivi e pericolosi’. Solo nel ’62 esce il primo volume di poesie:Neve imminente, cui seguiranno nel ’66 Alla terra ciò che è terreno, nel ’69 Il messaggero, nel ’74 Poesie, nel ’78Le montagne incantate, nel 1980 Giornata d’inverno, nel 1982 Opere scelte. Poesie. Poemi. Traduzioni. (1929-1979), nel 1983 Poesie di vari anni. Nel 1986 muore in Francia il figlio Andrej. Nel 1987 esce Dalla giovinezza alla vecchiaia, titolo deciso dalla casa editrice contro il volere dell’autore, e Essere se stesso. Muore a Mosca il 27 maggio ’89.
Le sue opere pubblicate finora in Italia in volume sono: Poesie scelte, Milano, Scheiwiller, ’89. Poesie e racconti, Pescara, Edizioni Tracce, ’91. Poesie scelte, Roma, Edizioni Scettro del Re, ’92. Costantinopoli. Prose varie. Lettere, Milano, Scheiwiller, ’93.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Pericle – Discorso agli Ateniesi, 431 a.C. (*)
Tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36
(*) Errata corrige: inizialmente era stata indicata la data del 461 a.C., riportata da diverse fonti, ma in realtà il discorso, secondo Tucidide, è stato pronunciato all’inizio della Guerra del Peloponneso (431 a.C. – 404 a.C.)
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