Roma-N0 Art Group presenta una serie di quattro mostre bipersonali presso Studio GIGA dal titolo “Pensieri, Parole, Opere, Omissioni”, a cura di Matteo Peretti e Bianca Catalano con le opere di Desirè D’Angelo, Guido Corbisiero, Andrea Frosolini, Sveva Angeletti, Giulia Apice, Sebastiano Zafonte, Diana Pintaldi e Raimondo Coppola.
Le mostre, che esploreranno le connessioni tra il concetto di pensiero, parola, opera e omissione, prenderanno il via il 5 marzo 2025 con l’inaugurazione della mostra “Pensieri”, in cui si confronteranno le ricerche di Desirè D’Angelo e Guido Corbisiero. Gli appuntamenti successivi proseguiranno fino al 25 giugno, con la conclusione dell’ultima mostra “Omissioni”.
Il titolo di questa rassegna prende spunto dal Confiteor, la preghiera di confessione in cui il fedele si dichiara colpevole di “pensieri, parole, opere e omissioni”, configurando tali elementi come forieri di perversione e peccato; oggi più che mai invece la creazione artistica si nutre di pensieri, parole, opere e omissioni, divenendo questi motori generativi di cambiamento e riflessione, se non catartici e purificatori. La confessione dell’artista, quindi, non è verso un’entità superiore, ma rappresenta un tentativo di ricongiungimento con sé stessi, con gli altri e con il mondo che ci circonda, nell’affrontare insidie personali e collettive.
Le mostre esploreranno i diversi aspetti di tale ricerca: nella mostra Pensieri (5 marzo – 26 marzo 2025) Desirè D’Angelo e Guido Corbisiero affrontano esperienze o suggestioni visive segnanti nell’infanzia e nell’adolescenza e che si ripropongono nel presente, attraverso una scultura-performance e due installazioni dal forte potere simbolico. Nell’esposizione Parole (9 aprile – 30 aprile 2025), come suggerisce il titolo, Sveva Angeletti e Andrea Frosolini riflettono sul concetto stesso di parola, dal punto di vista sia semantico che esperienziale, in particolar modo sull’idea di incomunicabilità, aspetto fortemente caratterizzante del vivere odierno. In Opere (7 maggio – 28 maggio 2025), Giulia Apice e Sebastiano Zafonte esplorano la dimensione aggregante e costruttiva dell’arte, mettendo in luce l’aspetto relazionale della pratica artistica. La mostra Omissioni (4 giugno – 25 giugno 2025), con le opere di Diana Pintaldi e Raimondo Coppola, attua una considerazione sul vuoto e sull’assenza tramite un processo di tipo catalogativo di tracce presenti, un tentativo solo in apparenza paradossale che invita ad una intensa riflessione sul concetto di esistenza.
Dettagli dell’evento:
Location: Studio GIGA, via del Governo Vecchio 43, Roma
Opening: 5 marzo 2025, dalle 18.00 alle 21.00
Calendario delle Mostre:
• 5 marzo – 26 marzo 2025: Pensieri – Desirè D’Angelo e Guido Corbisiero
• 9 aprile – 30 aprile 2025: Parole – Sveva Angeletti e Andrea Frosolini
• 7 maggio – 28 maggio 2025: Opere – Giulia Apice e Sebastiano Zafonte
• 4 giugno – 25 giugno 2025: Omissioni – Diana Pintaldi e Raimondo Coppola
Per informazioni: info@studiogiga.com – n0projectroom@gmail.com
Seguici su: Facebook/Instagram: @studiogiga @n0projectroom
N0 Art Group nasce nel 2021 da un’idea dell’artista e curatore Matteo Peretti, come un libero progetto artistico dal carattere nomade, basato sullo scambio di idee di artisti di diversa provenienza e delimitato da confini inversi, ovvero dedito alla ricerca culturale considerata aliena, volta all’indagine di tematiche spesso “scomode” o comunque profondamente radicate nelle controversie del mondo odierno. Inizialmente sito presso la n0 Project Room, luogo espositivo all’interno dell’artist-run space Ombrelloni, in via dei Lucani (quartiere San Lorenzo, Roma), la linea curatoriale del progetto ha assunto da subito un carattere estemporaneo e afocale, inclusivo ed aperto a collaborazioni interdisciplinari, di respiro internazionale ma sempre con un occhio vigile sul territorio.
G.I.G.A. (Gruppo Italiano Giovani Artisti) viene fondato nel 2005 in via del Governo Vecchio 43 come collettivo di giovani artisti italiani, proponendosi quale laboratorio libero di idee e osservatorio territoriale sulla sperimentazione emergente. Attraverso le mostre proposte, ha sempre voluto stimolare un dialogo tra una città dalla forte identità storica, come Roma, ed artisti e operatori legati alla contemporaneità che rivelano attraverso i loro lavori idee innovative ed energetiche. Il focus è prevalentemente indirizzato a temi legati alla società, al quotidiano e in genere ai diversi campi dello scibile e dell’agire umano.
L’Altrove Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Breve biografia di Vittorio Sereni (1913-1983)-Una delle voci poetiche più incisive del Novecento italiano è Vittorio Sereni. Nato a Luino nel 1913, vive gran parte della sua vita a Milano. Nel 1941 pubblica il suo primo libro di versi, Frontiera, ancora pregno della poetica ermetica. Richiamato alle armi, viene fatto prigioniero in Africa settentrionale e recluso per due anni in un campo di prigionia, tra Algeria e Marocco. Questo periodo ispira una delle sue opere più evocative e dense, Diario d’Algeria (1947). La prigionia e la guerra mutano il suo modo di vedere il mondo, ai suoi occhi sempre più indecifrabile. La voce narrante di Vittorio, mescolata a elementi lessicali arcaizzanti, è funzionale a estraniarsi dalla realtà per poterla descrivere con impeto personale e nostalgico, utilizzando modulazioni da una strofa all’altra e continui sbalzi all’interno del testo.
Le mani
Queste tue mani a difesa di te: mi fanno sera sul viso. Quando lente le schiudi, là davanti la città è quell’arco di fuoco. Sul sonno futuro saranno persiane rigate di sole e avrò perso per sempre quel sapore di terra e di vento quando le riprenderai.
DaFrontiera.
In me il tuo ricordo
In me il tuo ricordo è un fruscìo solo di velocipedi che vanno quietamente là dove l’altezza del meriggio discende al più fiammante vespero tra cancelli e case e sospirosi declivi di finestre riaperte sull’estate. Solo, di me, distante dura un lamento di treni, d’anime che se ne vanno. E là leggera te ne vai sul vento, ti perdi nella sera.
DaFrontiera
Dimitrios
Alla tenda s’accosta il piccolo nemico Dimitrios e mi sorprende, d’uccello tenue strido sul vetro del meriggio. Non torce la bocca pura la grazia che chiede pane, non si vela di pianto lo sguardo che fame e paura stempera nel cielo d’infanzia.
È già lontano, arguto mulinello che s’annulla nell’afa, Dimitrios, su lande avare appena credibile, appena vivo sussulto di me, della mia vita esitante sul mare.
DaDiario d’Algeria.
Anni dopo
La splendida la delirante pioggia s’è quietata, con le rade ci bacia ultime stille. Ritornati all’aperto amore m’è accanto e amicizia. E quello, che fino a poco fa quasi implorava, dall’abbuiato portico brusìo romba alle spalle ora, rompe dal mio passato: volti non mutati saranno, risaputi, di vecchia aria in essi oggi rappresa. Anche i nostri, fra quelli, di una volta? Dunque ti prego non voltarti amore e tu resta e difendici amicizia.
DaGli strumenti umani.
I versi
Se ne scrivono ancora. Si pensa ad essi mentendo ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri l’ultima sera dell’anno. Se ne scrivono solo in negativo dentro un nero di anni come pagando un fastidioso debito che era vecchio di anni. No, non era più felice l’esercizio. Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte. Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro. Si fanno versi per scrollare un peso e passare al seguente. Ma c’è sempre qualche peso di troppo, non c’è mai alcun verso che basti se domani tu stesso te ne scordi.
Da Gli strumenti umani.
Gli squali
Di noi che cosa fugge sul filo della corrente? Oh, di noi una storia che non ebbe un seguito stracci di luce, smorti volti, sperse lampàre che un attimo ravviva e lo sbrecciato cappello di paglia che questa ultima estate ci abbandona. Le nostre estati, lo vedi, memoria che ancora hai desideri: in te l’arco si tende dalla marina ma non vola la punta più al mio cuore. Odi nel mezzo sonno l’eguale veglia del mare e dietro quella certe voci di festa.
E presto delusi dalla preda gli squali che laggiù solcano il golfo presto tra loro si faranno a brani.
Da Tutte le poesie.
FONTE-L’Altrove
Le più belle poesie di Vittorio Sereni -FONTE-L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera-L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Dalila e Daniela, le fondatrici.-Per informazioni: laltrovepoet@outlook.it
Vittorio Sereni
Poesie e prose di Vittorio Sereni -Autore- Giovanni Raboni
Per poche altre figure della lirica italiana novecentesca si può dire, come scrisse di Vittorio Sereni l’amico e critico Pier Vincenzo Mengaldo, che «l’uomo e il poeta facevano tutt’uno». Per il poeta di Luino, infatti, la poesia era una divorante passione, vissuta senza falsi pudori; una passione fatta di attese, della capacità di selezionare i componimenti, tanto che ognuno appare a noi inevitabile. Come Leopardi, come Mallarmé, Sereni concentra il suo estro su pochi testi, essenziali, derivati da una assoluta necessità interiore e dotati di una impareggiabile finitezza formale. Ma accanto all’esigenza di scrivere versi, Sereni sentì altrettanto potente quella che egli stesso chiamava «la tentazione della prosa». Dell’una e dell’altra produzione dà conto questo volume che riunisce integralmente le raccolte poetiche, da “Frontiera” (1941) a “Diario d’Algeria” (1947) a “Gli strumenti umani” (1965) a “Stella variabile” (1981), la sua scelta di traduzioni “Il musicante di Saint-Merry”, i due volumi di prose, “Gli immediati dintorni” e “La traversata di Milano”, infine un’ampia scelta di testi critici dedicati all’arte e alla letteratura. Con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo.
Breve biografia di Giovanna Bemporad nasce a Ferrara nel 1928. È una poetessa precocissima: inizia a pubblicare traduzioni in versi dai classici già a sedici anni (l’Eneide di Virgilio, pubblicata in parte nell’Antologia dell’Epica per i tipi di Enrico Bemporad a Firenze). Frequenta il liceo classico di Bologna, dove conosce altri giovani letterati. Antifascista di famiglia ebrea, atea convinta sfida il regime col proprio comportamento: vive da sola in “un enorme stanzone, un tavolo vastissimo e carico oltre misura di libri”, veste da uomo, si trucca di bianco e tratta alla pari coi coetanei uomini. Vuole, soprattutto, essere libera, essere trattata alla pari.
Scoppia la Guerra, che interrompe la vita. Uno dei compagni bolognesi, Pier Paolo Pasolini, si rivolge agli amici per aiutarlo nel gestire l’improvvisato liceo che sta tenendo a Casarsa, perché è troppo pericoloso per i ragazzi prendere il treno per Pordenone o Udine. Così Giovanna sfolla in Friuli, dove rimarrà fino al 26 gennaio del 1944. A chi gli chiede il motivo dei suoi modi disinvolti, del suo vestire da uomo, risponde provocatoriamente “sono lesbica”. Collabora con la rivista il Setaccio, sotto lo pseudonimo di Giovanna Bembo. Sfuggita alle persecuzioni, nazi-fasciste continuerà per alcuni anni a condurre una vita errabonda, fino al matrimonio con il senatore Giulio Cesare Orlando nel 1957.
La poesia di Giovanna Bemporad si ritagliano una nicchia particolare: classicista fuori dal tempo, filologa (nel senso etimologico del termine), sospesa tra una pulsione decadente della morte e una forte carica erotica, che ricorda i frammenti di Saffo. Minuziosa cesellatrice di parole, dedica la maggior parte della sua vita e della sua creatività alla sua versione dell’Odissea di Omero. Diceva del primo dei poeti greci “Omero è il punto d’arrivo della poesia occidentale. Il più grande di tutti. Tocca l’assoluto con assoluta semplicità”. Di quella traduzione, rimasta incompleta, esistono due edizioni a cura di Le Lettere (1990 e 1992). Morirà a Roma, il 6 gennaio 2013.
Mia compagna implacabile la morte
persuade a lunghe veglie taciturne.
Ma non so che inquietudine febbrile
fa ingombro a questo dolce accoglimento
calando il sole, prima che ogni gesto
si traduca in memoria e che ogni voce
s’impigli nel silenzio. Forse il vento
porta come un rammarico del tempo
che non è più, trascina per le strade
deserte una fiumana d’ombre care.
E biancheggia un’immagine tra i gigli
di giovane assopita nel suo riso.
Giovanna Bemporad
#
………Variazione su tasto obbligato
Non domare, implacabile, il mio riso
mentre il fiore del melo incanutisce;
non recidermi il filo dei pensieri
d’un tratto, ma da sogni e disinganni
lascia che docilmente io mi separi
solo quando alla tua certezza giova
sacrificare il nostro dubbio stato;
quando non amerò che il mio dolore
tu chiamerai meno importuna al nulla:
io con la fronte smemorata l’orma
seguirò del tuo piede, e questo arcano
insondabile azzurro andrà dissolto
come il sogno di un’alba.
#
Non farmi così sola come il vento
che si dispera in questa notte fonda
fino a morirne, eternamente sola
non farmi, come già sono da viva,
sotto la volta immensa ch’è misura
del nostro nulla. In punto di lasciare
questa mia fragile vicenda, tutte
le mie dolci abitudini, e la gioia
che spesso segue all’urto del dolore,
voglio adagiarmi su una zolla d’erba
nell’inerzia, supina. E avrò più cara
la morte se in un attimo, decisa,
piano verrà, toccandomi una spalla.
per questi testi si ringrazia il sito rebstein
Giovanna Bemporad
Ex voto
.
Dea velata di marmo e di silenzio
casta, racchiusa nel perpetuo inganno
del tuo corpo ideale, anima impura-
sento alitarmi un sonno di belletti
dalle tue ciglia; vedo tra le labbra
dove il pennello, non l’aurora, ha pianto
petali rossi, ravvivarsi l’ambra
dei tui denti all’assalto delle risa.
Si colma il cuore di un battito d’ali
quando tu accosti la crescente luna
delle tue ciglia alla nuvola ombrosa
dei miei capelli: o ninfa, o baiadera,
non che adirarmi col vento d’amore
sospendo ai tuoi squillanti braccialetti
e alle tue lunghe mani una bianchezza
di mute solitudini, e il tuo collo
sfioro con disarmati occhi indolenti.
Giovanna Bemporad
.
da Esercizi, Garzanti, 1980.
A UNA ROSA
*
China sul margine del tuo segreto,
o rosa in veste diafana, mollezza
di corpo ignudo, incrollabile tempio
che in vigilanza d’amore mi tieni,
non so di che rilievi si componga
la tua bellezza. E all’onda dei profumi
che col ritmo di un alito tu esali
misuro il tuo pallore e il mio languore.
Mi tenta ogni tuo petalo concluso
nel giro di una linea sensitiva,
mollemente incurvato e pieno d’ombra.
Giovanna Bemporad
Breve biografia di Giovanna Bemporad nasce a Ferrara nel 1928. È una poetessa precocissima: inizia a pubblicare traduzioni in versi dai classici già a sedici anni (l’Eneide di Virgilio, pubblicata in parte nell’Antologia dell’Epica per i tipi di Enrico Bemporad a Firenze). Frequenta il liceo classico di Bologna, dove conosce altri giovani letterati. Antifascista di famiglia ebrea, atea convinta sfida il regime col proprio comportamento: vive da sola in “un enorme stanzone, un tavolo vastissimo e carico oltre misura di libri”, veste da uomo, si trucca di bianco e tratta alla pari coi coetanei uomini. Vuole, soprattutto, essere libera, essere trattata alla pari.
Scoppia la Guerra, che interrompe la vita. Uno dei compagni bolognesi, Pier Paolo Pasolini, si rivolge agli amici per aiutarlo nel gestire l’improvvisato liceo che sta tenendo a Casarsa, perché è troppo pericoloso per i ragazzi prendere il treno per Pordenone o Udine. Così Giovanna sfolla in Friuli, dove rimarrà fino al 26 gennaio del 1944. A chi gli chiede il motivo dei suoi modi disinvolti, del suo vestire da uomo, risponde provocatoriamente “sono lesbica”. Collabora con la rivista il Setaccio, sotto lo pseudonimo di Giovanna Bembo. Sfuggita alle persecuzioni, nazi-fasciste continuerà per alcuni anni a condurre una vita errabonda, fino al matrimonio con il senatore Giulio Cesare Orlando nel 1957.
La poesia di Giovanna Bemporad si ritagliano una nicchia particolare: classicista fuori dal tempo, filologa (nel senso etimologico del termine), sospesa tra una pulsione decadente della morte e una forte carica erotica, che ricorda i frammenti di Saffo. Minuziosa cesellatrice di parole, dedica la maggior parte della sua vita e della sua creatività alla sua versione dell’Odissea di Omero. Diceva del primo dei poeti greci “Omero è il punto d’arrivo della poesia occidentale. Il più grande di tutti. Tocca l’assoluto con assoluta semplicità”. Di quella traduzione, rimasta incompleta, esistono due edizioni a cura di Le Lettere (1990 e 1992). Morirà a Roma, il 6 gennaio 2013.
Roma-La mostra fotografica “Eyes behind the window” di Umberto Stefanelli-
Roma, 5 marzo 2025, Pavart Gallery inaugura la mostra personale di fotografia di Umberto Stefanelli dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW” curata da Velia Littera.
“Vorrei andare oltre l’apparenza di queste centomila e più maschere pirandelliane. Scavare tra perplessità, convinzioni e consuetudini sospese su un tempo d’opprimente modernità.” (Umberto Stefanelli)
Umberto Stefanelli la mostra dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW”
Umberto Stefanelli la mostra dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW”
Umberto Stefanelli la mostra dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW”
La mostra fotografica “Eyes behind the window” di Umberto Stefanelli ci invita a scoprire il mondo dietro le superfici trasparenti e opache delle facciate urbane che si trasformano in quadri visivi. Le immagini scattate da Stefanelli svelano una complessità che va oltre la dimensione architettonica: ogni scatto è un racconto sospeso tra l’astratto e il concreto, tra il reale e l’immaginato.
La tecnica fotografica adottata da Umberto Stefanelli nelle opere di questa mostra si distingue per la sua capacità di trasformare la realtà architettonica in una composizione pittorica. Attraverso un accurato studio delle linee, dei colori e delle simmetrie, Stefanelli cattura in ogni scatto la struttura ripetitiva delle facciate, riducendole a pattern geometrici che evocano l’astrazione tipica della pittura contemporanea.
Un elemento fondamentale del suo approccio tecnico è l’uso di una luce naturale diffusa, che accentua i contrasti cromatici senza annullare la morbidezza visiva complessiva. La scelta di inquadrature perfettamente frontali amplifica il senso di astrazione, eliminando ogni profondità prospettica e concentrando l’attenzione sul ritmo visivo delle finestre e dei pannelli.
Stefanelli sfrutta anche il potenziale narrativo del dettaglio: le tende appena visibili, i riflessi sulle superfici vetrate, o un’apertura casuale, diventano frammenti di storie umane celate dietro la rigidità dell’architettura. Questa combinazione di precisione tecnica e sensibilità artistica è il fulcro del linguaggio visivo di Stefanelli, capace di trasportare l’osservatore in un dialogo tra realtà e immaginazione. Le fotografie in mostra rivelano una profonda influenza della pittura astratta. La geometria delle finestre e delle facciate diventano una tela sulla quale si intrecciano colori, linee e riflessi.
Il tema centrale della mostra è la relazione tra l’interno e l’esterno, tra l’individuo e il collettivo. Le finestre sono barriere, ma anche punti di contatto. Dietro ognuna si nasconde una storia, un frammento di vita che l’osservatore è invitato a immaginare. Questa tensione tra ciò che si mostra e ciò che rimane celato è amplificata dall’estetica pittorica delle fotografie, che invita lo spettatore a perdersi nei dettagli.
La mostra “Eyes behind the Window” è una meditazione sulla città come spazi di contrasto, dove l’anonimato delle architetture si intreccia con l’unicità delle vite umane. Le immagini di Stefanelli ci ricordano che, anche nel cuore del caos urbano, c’è bellezza, c’è storia, c’è arte. Umberto Stefanelli nasce a Roma nel 1967.
Fotografo italiano formato artisticamente a New York, dove sviluppa un approccio personale e innovativo alla fotografia. La sua ricerca continua in Giappone, dove adotta il principio del “less is more”. Dal 2003 al 2008 è stato Responsabile Artistico di “Orvieto Fotografia”. Dal 2009 porta avanti un progetto online di narrazione visiva. Ha partecipato come relatore al Congresso Europeo dei Fotografi Professionisti (2010) e ha collaborato con istituzioni e brand come Polaroid, Levi’s, L’Oréal, Epson e Nokia. È uno dei primi a ottenere la certificazione DIGIGRAPHIE® da Epson. Le sue opere sono conservate in musei e collezioni internazionali. Nel 2020, il suo libro Photogeisha vince il Primo Premio al FEP European Photo Book Award. Nel 2022 è Visual Director della rivista TheUnique e partecipa al 52° Earth Day con una Mostra Virtuale.
Luigi Ganapini- Giorni di tarda estate.Guerra civile nell’Italia del duce
Descrizione del libro di Luigi Ganapini- BFS Edizioni-L’autore ritorna su uno dei suoi argomenti di ricerca privilegiati: la guerra civile che ha interessato l’Italia tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945. Le seguenti citazioni chiariscono quali sono gli obiettivi della ricerca: «Il nostro compito odierno è quello di distruggere la capacità della tirannide di continuare a tenere in catene vittime e testimoni molto dopo che la prigione è stata smantellata» (Z. Bauman). «Nessuna sindrome può veramente essere strappata alla sua tragica fissità se prima non spingiamo l’immaginazione dentro il suo cuore» (J. Hillman). L’immaginazione di cui si parla non è tuttavia sinonimo di fantasia o invenzione, ma si riferisce all’uso di una narrazione più “umana”, meno arida, capace di far intuire i moti dell’anima. Ampio è il ricorso a testimonianze – scritte o orali, coeve ai fatti o rilasciate a posteriori – capaci di evocare esperienze di vita e stati d’animo illuminanti la realtà di quel conflitto, spesso intrecciato alla vita ordinaria di un popolo. Lo studioso di storia, qual è l’autore, affianca a ciò il riscontro puntuale con le fonti, l’attenzione per ogni sfumatura rivelatrice, il rispetto per il senso di ciò che ha rintracciato.
Miro Silvera :«I libri sono la farmacia dell’anima. E possono, a volte, salvarci la vita»
Articolo di Fiona Diwan–Chi conosce Miro Silvera non può che stupirsi, ogni volta che lo incontra, del tono lieve e delicato con cui riesce ad avvicinarsi a cose e persone: un modo etereo, quasi disincarnato, di incedere nel mondo. Una qualità mite, “da elfo”, che lo rende -in un mondo dove prevalgono maldicenza e invidia-, beneamato da tutti. Ma non lasciatevi incantare dall’apparente buonismo o dalla sua mancanza di aggressività. Silvera sa essere, all’occorrenza, un vendicatore angelico, per dirla con Karen Blixen -scrittrice inarrivabile, che lui stesso adora-, specie se si tratta di difendere, senza mezzi termini, il punto di vista di Israele e degli ebrei, nei salotti buoni dell’intellighentzia borghese, di destra e di sinistra, dove accade di incontrarlo.
Più di quarant’anni di scrittura, romanzi, saggi, poesie, articoli, traduzioni letterarie, testi teatrali, sceneggiature cinematografiche, fanno di Miro Silvera, nato ad Aleppo nel 1944, uno dei protagonisti della vita milanese, una figura certamente eterodossa e non facilmente incasellabile nel panorama culturale della città. Un garbo e una gentilezza proverbiali, una cultura sfaccettata e cosmopolita, un fiuto editoriale che ne hanno fatto il primo editor in Italia ad inventarsi, vent’anni fa, una collana di “nuova spiritualità” (per Sperling & Kupfer), Silvera ha anche avuto il merito di ripescare dal dimenticatoio, per Valentino Bompiani, una grande scrittrice come Dorothy Parker. «Facevo il lettore per Bompiani, negli uffici di via Pisacane: all’epoca era un appartamentino dove lavoravamo tutti, Silvana Ottieri, Paolo De Benedetti, Umberto Eco giovane, Giuliana Broggi e il conte Valentino stesso. Io leggevo e proponevo la narrativa straniera, traducevo dal francese e dall’inglese autori come Francoise Sagan, Gaston Bachelard, Jack Kerouac». In contemporanea, c’è la scuola del Piccolo Teatro di Milano, ai tempi del leggendario Paolo Grassi; dopo, Miro Silvera diventerà uno dei soci, con Andrée Ruth Shammah, del Teatro Franco Parenti. Incontra personaggi mitici come Samuel Fuller, Frank Capra, Alida Valli, Peter Weiss, Marco Ferreri, Franco Rosi, Ettore Scola, Franca Valeri («un Molière nato donna»). Amico della coppia Sottsass-Pivano, di Herbert Pagani, di Renato Boeri, di Goffredo Parise, di Giuseppe Pontiggia e Paolo Volponi, Silvera costeggia un’intera generazione di scrittori e artisti, tra gli anni Settanta e Novanta. Critico cinematografico e autore, con Maurizio Porro, del volume La cineteca di Babele (Milanolibri), il suo enciclopedico eclettismo non ha nulla a che vedere con i birignao da erudito o con quelle civetterie cattedratiche così frequenti nel milieu intellettuale. Asistematico e curioso, Silvera è uno dei pochi ebrei profondamente ancorato al doppio mondo di appartenenza, quello ebraico e quello milanese.
Il volumetto appena uscito Libroterapia Due, Salani, è una sorta di spassosa autobiografia “as a writer”, passioni, visioni, autori che gli hanno cambiato la vita, un viaggio svolazzante e pieno di humour, navigando tra citazioni e biblioteche, considerate, queste, vere farmacie dell’anima (Libroterapia 1 è uscito due anni fa, insieme a Cinematerapia). La cosa divertente è che Miro parla da lettore, e non da scrittore: i libri, infatti, sono la nostra apertura sul mondo e su noi stessi, su ciò che siamo veramente e su ciò che gli altri sono, dice, «perché siamo venuti al mondo per sperimentare e i libri sono la nostra cucina spirituale: le ricette le abbiamo tutte lì, basta allungare la mano e metterle sul fuoco». E aggiunge: «chi non legge ha un’anima anoressica». C’è un libro giusto per ogni disturbo, scrive Silvera: libri che curano la depressione, il mal d’amore, il lutto per una persona cara, le ansie per il futuro…, si possono assumere a stomaco pieno e anche vuoto, non danno assuefazione, non intossicano.
Un’idea, questa dei libri che curano l’anima, che viene da lontano, dalla tradizione ebraica in primis. Ma anche dall’infanzia milanese alla Scuola di via Sally Mayer e da un’esperienza difficile ma a lieto fine. «Ricordo con ansia, ancor oggi, i miei primi anni alle elementari della Scuola ebraica e il terrore che provavo per la mia morà, la Flack. Non lo nascondo: il bambino che ero non ha sopportato l’esperienza di rifiuto e emarginazione che quella morà mi fece patire. Non ho mai capito perché, ma preferiva le bambine e forse mi detestava. In seguito, al liceo della Scuola ebraica, ho superato quell’impasse e le cose si misero bene. È stato grazie alla morà Flack che ho scoperto i libri. Per sfuggire a una realtà così brutale ho fatto quello che fanno tutti i bambini: mi sono rifugiato in un mondo fantastico, ho sviluppato l’immaginazione, ho costruito un universo parallelo. Scoprii così i libri e il loro potere taumaturgico, la facoltà che hanno di guarirci dalle ferite e dalla bruttura del mondo, la loro capacità di ripagarci, offrendo un rifugio pieno di meraviglia. Ho capito che, attraverso la lettura, sarei tornato più sicuro e forte a quella stessa realtà che mi aveva respinto».
«Credo che il Novecento sia stato, non solo in letteratura, il secolo ebraico. È impossibile chinarsi sulla storia culturale dell’Occidente senza restare sbigottiti dall’onnipresenza ebraica, come se secoli di silenzio e ghetti avessero rotto gli argini, generando un fiume inarrestabile. Una “fame di espressività” che ha contagiato tutti gli ambiti del sapere. È questa voracità espressiva che sento mia, così vicina. Oggi, da scrittore ebreo, sento la necessità di scandagliare la figura storica di Gesù, di riportarla, narrativamente, alle sue radici ebraiche, per far capire al mondo cristiano, -e non solo a quello intellettuale degli svariati Monsignor Martini o Ravasi-, che Gesù era ebreo in toto e che questa evidenza va acquisita anche come forma di riparazione verso duemila anni di angherie e di pregiudizio anti-giudaico. La mia famiglia viene dal Portogallo. I Silvera sbarcarono a Livorno fuggendo l’Inquisizione. Oggi la presenza ebraica nella penisola iberica è rasa al suolo e, come se non bastasse, esiste un antisemitismo senza ebrei, un odio antiebraico che sopravvive, tenace e inestinguibile, nelle pieghe del cattolicesimo. Non è terribile questo? Una ferita che non si placa? Ecco: io voglio dare il mio contributo a una forma di tikkun. Per questo ho scritto Io Yeoshua chiamato Gesù (et al edizioni), un romanzo che inserisce Gesù nella normalità ebraica della sua epoca». Oggi Silvera sta ultimando un nuovo saggio -Essere o non essere, una presa di posizione morale sull’oggi-, e un altro romanzo: la storia -ispirata a figure realmente vissute-, di una pittrice ebrea vissuta tra gli anni Venti-Quaranta, in Olanda, tra musica, arte, Resistenza, amori… «Scrivere intorno alla condizione ebraica è per me, oggi, un impegno civile.
Noi ebrei abbiamo “avuto il permesso” di raccontarci poco più di 100 anni fa, (a partire da Zangwill e Aleichem). Ma c’è ancora un grande pregiudizio, duro a morire; e la Chiesa, spiace dirlo, ne è, in parte, responsabile. Perché lo faccio? Perché credo che la parte migliore di me resti, ancor oggi, quella ebraica».
Miro Silvera è nato a Aleppo nel 1944 e cresciuto a Milano.Le sue opere spaziano dalla saggistica ai libri di poesie ai romanzi, alle sceneggiature (come quella del film di Alessandro D’Alatri I Giardini dell’Eden, film tratto da un romanzo di Silvera). Ecco alcuni tra i titoli più significativi in trent’anni di carriera. Romanzi: L’ebreo narrante (Frassinelli), Il prigioniero di Aleppo (Frassinelli), Attraversando i giardini dell’Eden (Frassinelli), Margini d’amore (Frassinelli), I Giardini dell’Eden (Piemme), Il senso del dubbio (Frassinelli), Il passeggero occidentale (Ponte alle Grazie), Io Yeoshua chiamato Gesù (et al). Poesia: Arti e Misteri, (Marcos y Marcos). Saggi: Moda di celluloide (con M. Somarè, Idea Libri), La cineteca di Babele (Milanolibri), Dio nei dettagli (Aletti), Contro di noi-Viaggio personale nell’antisemitismo (Frassinelli), Libroterapia 1 e 2, Cinematerapia (Salani).
Poesie di Valentina Marzulli “Anche su Marte crescono i fiori”
Eretica Edizioni -L’Altrove-
Recensione –“Anche su Marte crescono i fiori” di ValentinaMarzulli (Eretica Edizioni, 2024) percorre la trasformazione e la rigenerazione della sensibilità poetica lungo il tragitto carezzevole e persuasivo dell’anima. Valentina Marzulli trasferisce su carta i propri pensieri evocativi, trascina la scia suggestiva dei propri ricordi, traduce l’incantevole natura delle emozioni e i mutamenti della propria esistenza, nell’offuscata e impercettibile visione del tempo, nella intenzionalità autobiografica, compie un viaggio iniziatico, attraverso una maturazione spirituale che irradia il coraggio e la passione della propria crescita evolutiva.
Valentina Marzulli-Poetessa
Il percorso poetico di Valentina Marzulli opera una conversione interiore, attinge alla conoscenza dell’ispirazione letteraria per avvicinare e comprendere l’essere nel mondo, rivela l’accidentalità e la consistenza dell’esistenza, collegando la prospettiva di ogni tentativo vitale di riflessione e di rinascita alla realtà del vissuto. Risveglia l’entità preziosa dell’energia rigeneratrice, arricchisce il desiderio delle esperienze di rinnovamento attraverso il passaggio necessario e inesorabile del rifugio spirituale, inteso come espressione di allontanamento e raccoglimento volontario, pausa appartata dalla vita, estende la capacità di cogliere lo spazio sconfinato e disarmante di ogni ritrovamento d’intimità, delle proprie ragioni, la proiezione della cura, tra l’invisibile affermazione del cuore e i tangibili strumenti di interpretazione.
Valentina Marzulli
Valentina Marzulli nomina il pianeta Marte come metafora, così come l’anno marziano si protrae quasi per il doppio di un anno terrestre, così la poetessa affronta l’orbita delle proprie inquietudini, dichiarandosi aliena a se stessa e al mondo, nella sorprendente e sconcertante sensazione di estraneità, in cui il conflitto indistinto e confuso, tra ciò che è l’origine e il centro dei sentimenti e ciò che si riscontra fuori di noi, intimorisce i nostri confini relazionali, non riconosce l’appartenenza della nostra vita, percepisce un’istintiva e immediata esigenza di protezione. Ma la resistenza adottata da Valentina Marzulli spiega la profonda connessione tra la scrittura e la coscienza, insegue l’approvazione del suo cammino, lo spunto della ricognizione delle reazioni umane e la meraviglia di riuscire a trovare nuove stagioni di fioritura, la ricchezza simbolica dei fiori, come germogli originari nobili di bellezza, congiungere alla disgregazione emotiva del passato il ripristino del presente, nella sua differenza significativa. Il libro analizza l’accattivante allegoria delle opportunità, comunica il ritorno dell’accoglienza oltre la desolazione dell’immobilità. La previsione degli anni accumula le coincidenze della celerità e dell’indugio, scorre intorno alla superficie fondamentale della quotidianità e permette all’autrice di distinguere inequivocabilmente la partecipazione comportamentale ed empatica verso luoghi e situazioni in apparenza ostili, disagevoli e inadeguati ma che nascondono una vicinanza favorevole, incrociano l’orientamento rivelativo del benessere e della serenità.
Valentina Marzulli
Valentina Marzulli riceve il dono della consapevolezza, in cammino dal principio di ogni avventura, ne riscopre il valore e ritrova, nell’alleanza temporale la direzione della salvezza, accoglie la generosità di ogni alterità donata con il riconoscimento dell’attualità esistenziale e ricompone l’identità verso se stessa.
NOTTE STELLATA
Il cielo notturno come specchio dell’anima. Ogni stella che cade è un ago nel cuore. Ogni punto di luce un bacio che non ti ho dato.
IL TUO SILENZIO
Il tuo silenzio è stato un insegnante severo. Io la sua allieva migliore.
DARKNESS
Mi trovo su questo volo circondata da luci e stelle, eppure non vedo la luce.
HIGH CONTRAST
E mentre altrove stanotte esplodono bombe, intorno a me le stelle.
CORRISPONDENZE
Non per il tuo tedio né per il mio volto. Non per il tuo ego né per il mio corpo. Non per farmi male né per soffocarmi. Non per possedermi solo per amarmi.
LA PRIMA NEVE
Dolore liquido, abeti a strapiombo sull’anima. La neve incanta, il ghiaccio pietrifica. Solo un passo e tutto si infrange. Fa’ attenzione, il cuore si spezza in un istante.
INVERNO
Come fiocchi di neve danzanti nuove parole arrivano e scaldano l’anima.
A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Valentina Marzulli-Poetessa
L’AUTRICE
Valentina Marzulli nasce a Taranto nel 1990. Ingegnere civile, vive attualmente in Germania, dove si è dedicata nell’ambito del dottorato di ricerca allo studio dei materiali lunari. Autrice della silloge poetica Divenire pubblicata a cura di Eretica Edizioni e creatrice del blog di poesia Lady Margot Stories, parallelamente alle sue attività scientifiche, si dedica allo studio della lingua e della letteratura tedesca e inglese, e coltiva la sua passione per la scrittura e per la traduzione letteraria.
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
La Galleria dell’Accademia di Firenze celebra i 550 anni dalla nascita di Michelangelo Buonarroti con L’eterno contemporaneo. Michelangelo 1475 – 2025, un progetto che prenderà il via il 6 marzo 2025 e si svilupperà nel corso dell’anno attraverso un ricco programma di eventi e iniziative, ideato per mettere in luce la straordinaria attualità di uno dei più significativi protagonisti del Rinascimento. La sua visione artistica, il suo spirito innovatore e la potenza espressiva delle sue opere continuano a esercitare un’influenza profonda su artisti, studiosi e pubblico di ogni epoca. Michelangelo, ancora oggi, ispira nuove riflessioni e interpretazioni. La rassegna vedrà la partecipazione di personaggi del mondo dell’arte e della cultura, tra cui Cristina Acidini, Francesco Caglioti, Marco Pierini, Tomaso Montanari , Francesco Gori, Vinicio Capossela, che offriranno prospettive diverse sull’eredità dell’artista.
Michelangelo 1475 – 2025
«Con il progetto L’eterno contemporaneo. Michelangelo 1475 – 2025 – sottolinea Massimo Osanna, Direttore Generale Musei, Direttore avocante – la Galleria dell’Accademia celebra un artista che, con la sua visione e il suo spirito innovatore, ha segnato in modo indelebile la storia dell’arte e continua a ispirare intere generazioni. I nostri musei non sono più solo luoghi della conservazione, ma spazi di dialogo, laboratori dove le opere d’arte convivono con la musica, il teatro e la letteratura, offrendo ai pubblici nuove narrazioni e chiavi di lettura. Quest’anno di celebrazioni per il 550° anniversario della nascita di Michelangelo è un’opportunità per riscoprirne l’eredità attraverso un’esperienza culturale inclusiva, che valorizza il dialogo e amplia l’accessibilità, affinché il patrimonio artistico possa essere condiviso e vissuto da tutti i pubblici.»
La storia della Galleria dell’Accademia di Firenze è legata a doppio filo alla figura di Michelangelo fin dal 1873, anno in cui vi fu trasferito il celeberrimo David. Le sue sale accolsero poco tempo dopo una raccolta di gessi delle opere dell’artista, con l’idea di realizzare un vero e proprio museo michelangiolesco. Sebbene il progetto non sia mai stato completamente realizzato, nel corso del tempo le collezioni della Galleria si sono arricchite di una serie di suoi capolavori: i quattro grandiosi Prigioni realizzati per la tomba di Giulio II, il San Matteo scolpito per la cattedrale di Santa Maria del Fiore e la Pietà di Palestrina.
Nel corso del 2025, gli eventi proposti dalla Galleria esploreranno il lascito di Michelangelo e la capacità delle sue opere di dialogare con diversi linguaggi espressivi, dalla poesia alla musica e al teatro, oltre che alle arti figurative. Allo stesso tempo, verrà approfondita la storia dei capolavori conservati nel Museo, fornendo strumenti per una maggiore comprensione dell’artista e della sua opera.
“L’eterno Contemporaneo” avrà inizio giovedì 6 marzo per festeggiare il compleanno di Michelangelo (6 marzo 1475) con l’Associazione degli Amici della Galleria dell’Accademia di Firenze, che dal 2017 è al fianco del Museo nel sostenere e promuovere le tante attività. È prevista un’apertura straordinaria, dalle ore 19.00 alle 21.00, con visite tematiche alla collezione, condotte dalla guida esperta dei funzionari storici dell’arte del museo. La partecipazione è riservata ai soci dell’Associazione. È possibile associarsi, anche nei giorni precedenti, online sul sito degli Amici della Galleria dell’Accademia di Firenze (Friends of David) o direttamente il 6 marzo.
Michelangelo 1475 – 2025
Entrando nel vivo del programma, da lunedì 10 marzo (ore 17.30) una serie di conferenze approfondiranno la geniale e tormentata personalità dell’artista e la sua influenza nella storia dell’arte. Cristina Acidini aprirà il ciclo con un intervento su Michelangelo e Vittoria Colonna, un’amicizia nel segno dell’arte, tra i più singolari rapporti del Rinascimento italiano, indagato nei suoi risvolti spirituali, religiosi e politici. Nell’arco di circa dieci anni, dal 1536 o ’38 fino alla morte di lei nel 1547, Michelangelo, uomo ormai maturo, già famoso, e la marchesa di Pescara, donna di potere e poetessa, s’incontrano e si scrivono. A Vittoria, Michelangelo offre disegni adatti alla meditazione, anzitutto sul sacrificio di Cristo in croce, ma anche sul tema, a lei carissimo, delle donne nella vita di Gesù: la Madonna, la Maddalena, la Samaritana.
Lunedì 7 aprile (ore 17.30), sarà la volta di Francesco Caglioti, che proporrà Il David di Michelangelo: preistoria e protostoria, soffermandosi sulla genesi dell’opera, entro una prospettiva storica di lunga durata. Il successo della statua fu immediato e trionfale, favorito anche dalla paziente attesa che l’arte toscana aveva vissuto, di generazione in generazione, nei confronti di una figura come questa, capace di sfidare a grandi altezze lo spazio intorno a una cattedrale.
Michelangelo 1475 – 2025
Marco Pierini dedicherà il suo intervento, Presenza di Michelangelo nell’arte e nella cultura contemporanea, lunedì 12 maggio (ore 17.30), alla vastissima fortuna nella cultura visiva del Novecento della figura e dell’opera del Buonarroti, evidenziando come la sua eredità abbia trovato nuove declinazioni tra omaggi, citazioni e reinterpretazioni. E, come evidenzia lo stesso Pierini, “nessun altro collante, eccetto quello di Michelangelo, si potrebbe individuare per tenere assieme Giulio Aristide Sartorio e Robert Mapplethorpe, Leoncillo e Jan Fabre, Renato Guttuso e Kendell Geers.” L’influenza di Michelangelo non si è limitata alle arti visive, si è estesa all’architettura, al cinema, alla cultura popolare e alla musica pop.
Un evento speciale sarà il reading “Non ha la par cosa tutto il mondo”. I Prigioni e la travagliata impresa della tomba di Giulio II, lunedì 9 giugno (ore 18.00), in cui Tomaso Montanari e l’attore Francesco Gori accompagneranno il pubblico nella comprensione del contesto storico artistico, culturale e politico della Roma della prima metà del Cinquecento. Attraverso la lettura e la recitazione di alcuni brani delle lettere di Michelangelo Buonarroti e di passi scelti, tratti dalle vite dell’artista scritte da Giorgio Vasari (1550 e 1568) e Ascanio Condivi (1553), si potrà rivivere la complessa vicenda della realizzazione della tomba di papa Giulio II della Rovere, durata quarant’anni. Una commissione lunga e ambiziosa, più volte ripensata e modificata da Michelangelo, che inizialmente aveva concepito un progetto ben più grandioso del cenotafio di San Pietro in Vincoli a Roma, del quale facevano parte i Prigioni conservati alla Galleria dell’Accademia di Firenze (Schiavo giovane; Schiavo Barbuto; Atlante; Schiavo che si ridesta) e al Museo del Louvre (Schiavo morente e Schiavo ribelle), oltre al Genio della Vittoria, oggi a Palazzo Vecchio a Firenze. Lo spettacolo sarà replicato in autunno.
Sempre in autunno, in data da definire, Vinicio Capossela, già ospite del museo nel 2007, nell’ambito del Genio Fiorentino, con una serata indimenticabile e mai più ripetuta, tornerà a dialogare in musica con Michelangelo, sotto l’ombra del David e dei Prigioni. Il musicista non ha mai interrotto il suo lavoro sulle Rime e qui lo vedremo nel concerto Fuggite, Amanti, Amor – Rime e Lamentazioni per Michelangelo, accompagnato da un gruppo di musicisti, tra cui il violoncellista Mario Brunello.
A chiudere la rassegna, lunedì 15 dicembre (ore 18.00), sarà un altro momento musicale, realizzato in collaborazione con il Conservatorio di Musica Luigi Cherubini di Firenze, Il Trio Thesan – tutto al femminile, formato da Antonella Ciccozzi, arpa, Giuseppina Ledda, flauto, Francesca Piccioni, viola – si esibirà interpretando musiche di Claude Debussy, di Sofia Gubaidulina e del brano di Antonio Vivaldi, “Follia”, intermezzato a parti recitate tratte dalle poesie del Buonarroti.
Michelangelo 1475 – 2025
Saranno organizzate numerose attività didattiche volte a rendere l’arte di Michelangelo accessibile a un pubblico sempre più ampio. Tra queste, percorsi speciali legati all’accessibilità, sia a marzo, il 12 e il 13, sia in autunno (ottobre-dicembre). Sono in programma 4 visite tattili, in collaborazione con l’Unione Italiana dei ciechi e degli ipovedenti di Firenze, e 8 visite per persone sorde in lingua dei segni italiana con la collaborazione dell’Ente Nazionale Sordi di Firenze. Le prime, San Matteo e i Prigioni, esplorare la forma immersa nel marmo, approfondiranno la ricerca artistica di Michelangelo attraverso l’esplorazione tattile delle sue sculture esposte. Si potrà toccare il San Matteo e alcuni Prigioni con l’uso di guanti e conoscere le tecniche utilizzate dallo scultore, grazie anche a riproduzioni degli strumenti impiegati dall’artista, realizzati appositamente. Le visite tematiche in LIS, Sculture in Accademia, si concentreranno sull’evoluzione dell’arte scultorea rinascimentale, analizzando le potenzialità espressive della materia e della tecnica, attraverso il confronto tra le sculture michelangiolesche e il modello in terracruda de Il ratto delle Sabine di Giambologna.
Per l’occasione, sarà lanciata una web-appdivulgativa, pensata per offrire contenuti multimediali e approfondimenti sulle opere di Michelangelo e di altri maestri del Cinquecento, fortemente ispirati dalla poetica del Maestro. Le opere della Galleria saranno il punto di partenza per raccontare i contesti di provenienza, stabilire confronti, suggerire percorsi tematici che guideranno i visitatori alla scoperta dell’eredità artistica di Michelangelo anche al di fuori del museo, nei luoghi simbolo di Firenze legati alla sua vita e produzione, come ad esempio le Cappelle Medicee e il Museo del Bargello.
Michelangelo non è solo una figura del passato, è un artista che continua a parlarci, un punto di riferimento imprescindibile per la cultura di ogni tempo. Con L’eterno contemporaneo, la Galleria dell’Accademia di Firenze invita a riscoprirlo con uno sguardo nuovo, attraverso un dialogo che intreccia storia, arte e contemporaneità.
Galleria dell’Accademia di Firenze Via Ricasoli, 58-60 – Firenze
Tel. 055 0987100 – Fax 055 0987137 ga-afi@cultura.gov.it www.galleriaaccademiafirenze.it
La Storia della Bandiera Americana e il Mito di Betsy Ross
La bandiera americana è uno dei simboli più riconoscibili degli Stati Uniti d’America, rappresentando valori di libertà, uguaglianza e unità nazionale. Una figura spesso associata alla creazione della bandiera è Betsy Ross, una sarta di Filadelfia. In questo articolo, esploreremo la storia affascinante della bandiera americana e la leggenda di Betsy Ross, esaminando il suo coinvolgimento nella creazione di questo iconico simbolo patriottico.
Betsy Ross
La bandiera americana e il suo significato:
La bandiera americana con le sue strisce rosse e bianche e il riquadro blu con stelle bianche rappresenta i valori fondamentali degli Stati Uniti. Le strisce rappresentano le tredici colonie originarie che si sono ribellate al dominio britannico, mentre le stelle rappresentano gli stati dell’Unione. La bandiera è un simbolo di libertà, indipendenza e unità che risuona profondamente nel cuore degli americani.
Chi è Betsy Ross:
Betsy Ross, nata Elizabeth Griscom, era una sarta di Filadelfia durante la Rivoluzione Americana. Secondo la leggenda, nel 1776, tre membri del Comitato della bandiera: George Washington, Robert Morris e George Ross, si recarono da Betsy Ross per chiederle di realizzare una nuova bandiera per la nazione appena nata. Si dice che Betsy abbia suggerito alcune modifiche al design originale, come l’organizzazione delle tredici stelle in un cerchio anziché in una fila.
La controversia storica:
Nonostante la popolarità della storia di Betsy Ross, le prove storiche riguardanti il suo coinvolgimento specifico nella creazione della bandiera sono state oggetto di dibattito tra gli storici. Alcuni sostengono che la storia di Betsy Ross sia stata basata su prove deboli o aneddoti non verificati. Tuttavia, la leggenda di Betsy Ross ha avuto un impatto duraturo nell’immaginario collettivo, diventando parte integrante della narrazione della bandiera americana.
L’eredità di Betsy Ross:
Nonostante la controversia storica, Betsy Ross è stata venerata come un’icona della patria americana e della sua tradizione di artigianato. La sua storia è stata tramandata di generazione in generazione, alimentando il mito della sua contribuzione nella creazione della bandiera. Oggi, la sua figura è commemorata in molti modi, tra cui monumenti, musei e oggetti a lei dedicati.
Il potere simbolico della bandiera americana:
Indipendentemente dal coinvolgimento specifico di Betsy Ross, la bandiera americana rimane un potente simbolo di storia, patriottismo e identità nazionale. È un richiamo alle lotte e alle conquiste degli Stati Uniti, un simbolo di speranza e libertà che unisce gli americani di tutte le origini.
Curiosità su Betsy Ross:
Betsy Ross è stata madre di sette figli ed ha avuto ben tre mariti, uno dei quali in prigione per pirateria ed un altro ex compagno di cella del primo marito.
La bandiera americana rappresenta l’anima degli Stati Uniti, un paese costruito su principi di libertà e democrazia. Sebbene la storia di Betsy Ross nella creazione della bandiera sia oggetto di dibattito, la sua figura ha guadagnato un posto nella tradizione e nell’immaginario americano. La bandiera americana, con il suo significato profondo e il suo impatto emotivo, rimane un simbolo di unità e speranza per il popolo americano, testimoniando la forza e la resilienza di una grande nazione.
Elizabeth Griscom Ross (née Griscom;[1] January 1, 1752 – January 30, 1836), also known by her second and third married names, Ashburn and Claypoole,[1] was an American upholsterer who was credited by her relatives in 1870[2] with making the second official U.S. flag,[3] accordingly known as the Betsy Ross flag. Though most historians dismiss the story,[4] Ross family tradition[5][6] holds that General George Washington, commander-in-chief of the Continental Army and two members of a congressional committee—Robert Morris and George Ross—visited Mrs. Ross in 1776.[7] Mrs. Ross convinced George Washington to change the shape of the stars in a sketch of a flag he showed her from six-pointed to five-pointed by demonstrating that it was easier and speedier to cut the latter.[8] However, there is no archival evidence or other recorded verbal tradition to substantiate this story of the first U.S. flag. It appears that the story first surfaced in the writings of her grandson in the 1870s (a century after the fact), with no mention or documentation in earlier decades.[9]
Ross made flags for the Pennsylvania Navy during the American Revolution.[10] After the Revolution, she made U.S. flags for over 50 years, including 50 garrison flags for the U.S. Arsenal on the Schuylkill River during 1811.[11] The flags of the Pennsylvania navy were overseen by the Pennsylvania Navy Board. The board reported to the Pennsylvania Provincial Assembly’s Committee of Safety. In July 1775, the President of the Committee of Safety was Benjamin Franklin. Its members included Robert Morris and George Ross. At that time, the committee ordered the construction of gunboats that would eventually need flags as part of their equipment. As late as October 1776, Captain William Richards was still writing to the Committee of Safety to request the design that he could use to order flags for the fleet.[12]
Ross was one of those hired to make flags for the Pennsylvanian fleet. An entry dated May 29, 1777, in the records of the Pennsylvania Navy Board, includes an order to pay her for her work.[13] It is worded as follows:
An order on William Webb to Elizabeth
Ross for fourteen pounds twelve shillings and two
pence for Making Ships Colours [etc.] put into William
Richards store……………………………………….£14.12.2[14]
The Pennsylvania navy’s ship color included (1) an ensign; (2) a long, narrow pennant; and (3) a short, narrow pennant. The ensign was a blue flag with 13 stripes—seven red stripes and six white stripes in the flag’s canton (upper-left-hand corner). It was flown from a pole at the rear of the ship. The long pennant had 13 vertical, red-and-white stripes near the mast; the rest was solid red. It flew from the top of the ship’s mainmast, the center pole holding the sails. The short pennant was solid red, and flew from the top of the ship’s mizzenmast—the pole holding the ship’s sails nearest the stern (rear of the ship).[15]
Early life and education
Betsy Ross was born on January 1, 1752, to Samuel Griscom (1717–1793) and Rebecca James Griscom (1721–1793)[16] on the Griscom family farm in Gloucester City, New Jersey.[17][18] Ross was the eighth of seventeen children, of whom only nine survived childhood. A sister, Sarah (1745–1747), and brother, William (1748–1749), died before Elizabeth (“Betsy”) was born (another sister, Sarah Griscom Donaldson (1749–1785), was named after the earlier deceased Sarah). Ross was just five years old when her sister Martha (1754–1757) died, and another sister, Ann (1757–1759), only lived to the age of two. Brothers Samuel I (1753–1756) and Samuel II (1758–1761) both died at age three. Two others, twins, brother Joseph (1759–1762) and sister Abigail (1759–1762), died in one of the frequent smallpox epidemics in the autumn of 1762.[19][20] Ross grew up in a household where the plain dress and strict discipline of the Quakers dominated.[21] She learned to sew from a great aunt, Sarah Elizabeth Ann Griscom.[21] Ross’s great-grandfather, Andrew Griscom, a member of the Quakers and a carpenter, had emigrated in 1680 from England.[20]
After her schooling at a Quaker-run state school, Ross’s father apprenticed her to an upholsterer named William Webster.[16]
Research conducted by the National Museum of American History of the Smithsonian Institution in Washington, D.C., notes that the story of Betsy Ross making the first U.S. flag for General George Washington entered into the U.S. consciousness about the time of the 1876 centennial celebrations, with the Centennial Exposition then scheduled to be held in Philadelphia.[22] In 1870, Ross’s grandson, William J. Canby, presented a research paper to the Historical Society of Pennsylvania in which he claimed that his grandmother had “made with her hands the first flag” of the United States.[23] Canby said he first obtained this information from his aunt Clarissa Sydney (Claypoole) Wilson in 1857, 20 years after Ross’s death. Canby dates the historic episode based on Washington’s journey to Philadelphia, in the late spring of 1776, a year before the Second Continental Congress passed the first Flag Act of June 14, 1777.[24]
In the 2008 book The Star-Spangled Banner: the Making of an American Icon, Smithsonian Institution experts point out that Canby’s recounting of the event appealed to patriotic Americans then eager for stories about the Revolution and its heroes and heroines. Betsy Ross was promoted as a patriotic role model for young girls and a symbol of women’s contributions to American history.[25] American historian Laurel Thatcher Ulrich further explored this line of enquiry in a 2007 article, “How Betsy Ross Became Famous: Oral Tradition, Nationalism, and the Invention of History”.[26]
Ross was merely one of several flag makers in Philadelphia (such as Rebecca Young, who is historically documented to have made the earlier Grand Union Flag of 1775–76, with the British Union Jack of the crosses of St. George and St. Andrew, in the upper corner canton and 13 alternating red and white stripes for the “United Colonies”) for the Continental Army, along with many other ships’ colors, banners, and flags which were advertised in local newspapers.
Rebecca Young’s daughter Mary Young Pickersgill (1776–1857) made the flag of 15 stars and stripes in 1813, begun at her house and finished on the floor of a nearby brewery, delivered to the commander of the fort the year before the British attack of September 12–14, 1814, on Fort McHenry in Baltimore, during the War of 1812, (receiving a government-issued receipt for the work of two flags, a large 30 by 42 foot (9.1 by 12.8 m) “garrison flag” and a smaller “storm flag”), then seen by Francis Scott Key (1779–1843) and which inspired him to write the poem which later became the national anthem, The Star-Spangled Banner. Pickersgill’s small 1793 rowhouse is still preserved in East Baltimore’s Old Town neighborhood at East Pratt and Albemarle Streets and is known as the “Flag House & Star-Spangled Banner Museum“. Occasionally over the decades, there has been some controversy and disagreement between the relative merits and historical accuracies of the two flag-making traditions and historical sites in Philadelphia and Baltimore. It is thought that Ross’s only contribution to the flag design was to change the 6-pointed stars to the easier 5-pointed stars.[27] Scholars, however, accept the claim by Francis Hopkinson—a member of the Continental Congress who designed most of the elements of the Great Seal of the United States—that he created designs for the early U.S. flag.[28] Hopkinson submitted letters to Congress in 1780 requesting payment for his designs. Hopkinson was the only person to make such a claim in the Revolutionary War era.[29]
Ross Memorial Association, issued 1912; at left and right vignettes of the Betsy Ross House and with the then current grave site of Betsy Ross.
The marriage caused a split from her Griscom family and meant her expulsion from the Quaker congregation. The young couple soon started their own upholstery business and later joined Christ Church, where their fellow congregants occasionally included visiting colony of Virginia militia regimental commander, colonel, and soon-to-be-general George Washington (of the newly organized Continental Army) and his family from their home Anglican parish of Christ Church in Alexandria, Virginia, near his Mount Vernon estate on the Potomac River, along with many other visiting notaries and delegates in future years to the soon-to-be-convened Continental Congress and the political/military leadership of the colonial rebellion.[20] Betsy and John Ross had no children.[20][26]
The American Revolutionary War broke out when the Rosses had been married for two years. As a member of the local Pennsylvania Provincial Militia and its units from the city of Philadelphia, John Ross was assigned to guard munitions. He died in 1775. According to one legend, he was killed by a gunpowder explosion, but family sources provide doubts about this claim.[31] The 24-year-old Elizabeth (“Betsy”) continued working in the upholstery business repairing uniforms and making tents, blankets, and stuffed paper tube cartridges with musket balls for prepared packaged ammunition in 1779 for the Continental Army.[32]
On June 15, 1777, she married her second husband, mariner Joseph Ashburn. In 1780, Ashburn’s ship was captured by a Royal Navy frigate and he was charged with treason (for being of British ancestry—naturalization to American colonial citizenship was not recognized) and imprisoned at Old Mill Prison in Plymouth, England. During this time, their first daughter, Zilla, died at the age of nine months and their second daughter, Eliza, was born.[20] Ashburn died in the British jail.[20]
Three years later, in May 1783, she married John Claypoole, who had earlier met Joseph Ashburn in the English Old Mill Prison and had informed Ross of her husband’s circumstances and death. John Claypoole’s diary and family Bible was rediscovered 240 years later in June 2020.[34]
The couple had five daughters: Clarissa, Susanna, Jane, Rachel, and Harriet (who died in infancy). With the birth of their second daughter Susanna in 1786, they moved to a larger house on Philadelphia’s Second Street, settling down to a peaceful post-war existence, as Philadelphia prospered as the temporary national capital (1790–1800) of the newly independent United States of America, with the first president, George Washington, his vice president, John Adams, and the convening members of the new federal government and the U.S. Congress.
Quel misterioso “per sempre”. Pupi Avati e l’amore di una vita in una lettera-
Pupi Avati, regista che ha segnato la storia del cinema raccontando l’Italia profonda (la provincia, il Medio Evo, le ambizioni della modernità) ha fatto una cosa bellissima. Ha scritto una lettera d’amore a sua moglie, Amelia Turri, affettuosamente chiamata Nicola, con cui è sposato dal 1964. Un amore che riemerge fortissimo, non diverso da quello giovanile (“l’innamorato ha una sola età, quella dell’adolescenza”, scrive), e anzi miracolosamente intatto. C’è la stessa paura della perdita, l’innominabile gelosia, la gratitudine nell’immaginare che “dentro mia moglie, a quel giacimento di bellezza che c’è in lei, ci sia tutta la mia vita, che nel suo sguardo ci sia io a tutte le mie età” (“Ritorno in me, quando ritorno in te”, scrive Edoardo Sanguineti). C’è un sentimento di infinito, di divina “attesa infantile” e di promessa (il misterioso “per sempre” pronunciato il giorno del matrimonio); lo stesso che già animava il suo film su Dante (di cui Avati ha parlato ad Altritaliani due anni fa: «Il Dante» di Pupi Avati: il ragazzo che conosce il nome delle stelle. Di tutte.). “Vorrei soprattutto che (…) quel misterioso “per sempre” si avverasse”, scrive Avati. Siamo felici di pubblicare su Altritaliani questa lettera (già uscita, il 24 gennaio, su Il Foglio), «un cadeau» di Pupi Avati per i lettori del nostro sito. *******
Pupi Avati e l’amore di una vita in una lettera
Mi sono rinnamorato di mia moglie a ottantasei anni, ed è qualcosa che ha a che fare con l’ineffabile. Di Pupi Avati Disponeva di un team di corteggiatori migliori di me. Mi scelse forse più per sorprendere se stessa che per altro. Il sentimento riemerge da vecchi in una declinazione struggente. Perché mi è stata donata una vita intera. So che la ragazza che sposai sessant’anni fa non leggerà mai questa mia confidenza e quindi mi sento libero di essere assolutamente sincero. In questo ultimo quarto della mia vita sto scoprendo di essermi rinnamorato di lei. Fra i miei coetanei c’è una distinzione evidente fra le mogli di prima del successo e quelle di dopo il successo. La prima in genere dopo averti supportato nell’affrontare la più impervia delle salite è destinata, come risarcimento, una volta raggiunta la vetta, a scomparire, a venire risucchiata nell’anonimato. È quella che accettò di sposarti quando non eri nulla di più del modello base dell’italiano medio, privo di ogni accessorio, di ogni esplicita peculiarità, ma segretamente ambiziosissimo. La prima è quella che nelle tante sere di depressione, quando fosti tentato di rinunciare ai tuoi sogni, ha ereditato il ruolo di tua madre che continuava a ripeterti che ce l’avresti fatta. La prima è quella che, per il suo bene, avrebbe dovuto desiderare il tuo insuccesso, per salvare la vostra famiglia dalla catastrofe, avrebbe dovuto gioire delle tue difficoltà crescenti. Come mia moglie, restata definitivamente la sola a sopportarmi forse per non aver mai raggiunto l’invasamento che procura il raggiungere un consolidato successo. Se, a metà degli anni Sessanta, provai per lei la più forte attrazione che abbia mai provato, il rinnamorarsi a ottantasei anni di quella stessa ragazza ha a che fare con l’ineffabile. O con la demenza senile. Opto per la prima ipotesi che mi ha indotto a vedere il mio lungo percorso di vita sempre con un senso di attesa infantile. Come se non fosse disdicevole attendersi lo straordinario. Ed è del tutto straordinario il riaffacciarsi di questo sentimento per quella stessa ragazza che corteggiai per anni prima di convincerla, per sfinimento, a sposarmi. Insomma questo sentimento, in questo tratto conclusivo della mia esistenza, si è riappalesato in modo inatteso e probabilmente sconveniente. E il primo test che mi ha confermato quanto si trattasse realmente di amore è la gelosia. So che è di cattivo gusto solo alludervi, specie alla mia età, tuttavia è così. Hai nuovamente quella paura di perderla che ti indusse a renderle invivibili i primi anni del matrimonio. Ma non avrei potuto fare altrimenti, convinto che l’amore sfugga alla ragione. L’innamorato ha una sola età, quella dell’adolescenza, quella in cui è al culmine della sua capacità di immaginare. Immaginare che dentro mia moglie, a quel giacimento di bellezza che c’è in lei, ci sia tutta la mia vita, che nel suo sguardo ci sia io a tutte le mie età: quando suonavo, quando vendevo i surgelati, quando nacquero i nostri figli e la lasciai sola a Bologna la notte in cui toccò al nostro Tommaso. Essendoci sempre. Traducendosi nel solo hard disk che contenga la gran parte dei file della mia vita. E c’era nelle separazioni, e nelle rappacificazioni, nei subbugli affettivi e nei ricongiungimenti difficili, dandomi figli superbi e amore e sacrifici e anche insofferenza e rancore. Nei suoi occhi ci sono gli infiniti giorni del dolore per la perdita di un nipotino, il rammarico per le mie reiterate sconfitte, in tutti gli ambiti, da quello musicale a quello cinematografico. Il solo settore per il quale fui universalmente considerato talentuoso fu quello dei surgelati, nel quale veramente eccelsi e che tuttavia abbandonai tramortito dall’“Otto e mezzo” Felliniano. Raggiunti i settant’anni insorse fra di noi una sorta di crescente pudore. L’avvertire il preannunciarsi con tutte le evidenze di un incombente declino fisico e di patirne la vergogna che andava traducendosi in un insieme di pudori (in un film di qualche anno fa a proposito di rapporti fra coniugi anziani feci dire a Pozzetto che da vecchi non ci si abbraccia più). E questo tempo che mi ha dato è l’intera sua vita, rinunciando alle molte ambizioni personali che avrebbe legittimamente potuto nutrire, per rassegnarsi, come d’altra parte i miei figli e mio fratello, a vivere il mio egocentrismo come uno stigma, un evidente disturbo mentale. L’ambiente cinematografico, soprattutto vissuto da chi vi accedeva dalla provincia, non era il più raccomandabile per garantire al nostro matrimonio quei requisiti indispensabili alla sua salvaguardia. Furono gli anni in cui, per una folgorazione per il cinema, scompaginai non solo la mia vita, ma la sua, quella di mia madre, e dell’intero contesto famigliare, riuscendo a convincerli che sarebbe stato sufficiente avere la possibilità di una sola “opera prima” per accedere con tutti gli onori a questo sfavillante mondo. Incominciando a impostare quel discorso di ringraziamento che avrei dovuto pronunciare alla ineluttabile cerimonia degli Oscar. Ma che mai mi occorse. Tale fu la mia ingenuità e peraltro la sua che, disponendo di un team di corteggiatori per censo e avvenenza preferibile a me, mi scelse, forse più per sorprendere se stessa che per altro.
Pupi Avati e l’amore di una vita in una lettera photo prise à Paris le 15/01/23 par Basile Mesré-Barjon
E così questa ragazza che avrebbe potuto avere una sua storia d’amore con un rassicurante bolognese dalle estati a Riccione e dagli inverni a Cortina, si trovò sballottata fra Bologna e Roma, partorendo figli, frastornata dal mio vaniloquio di ville a Beverly Hills, rassegnandosi a vivere i primi tempi nella stanza di una pensione per studenti che mio fratello e mia madre gestivano a Roma. In attesa dei trionfi e dei meritati riconoscimenti, che in realtà se vennero accadde molto tardi e in modo del tutto fuggevole. Fu in quegli anni che, con il mio incaponirmi nel rifiutare la resa, la nostra storia d’amore nelle sue temperature, nella sua qualità, subì un affievolirsi. Gli anni più difficili del nostro matrimonio, quelli in cui fummo più prossimi a una definitiva separazione, furono quelli in cui ero totalmente concentrato nella folle impresa di transitare dai rassicuranti bastoncini di pesce alla chimerica Macchina da Presa. Se il successo può dare alla testa, l’insuccesso produce quelle tossine per le quali cerchi attorno a te soprattutto la menzogna, l’elogio bugiardo. Che lei fosse definitivamente quella tessera del puzzle che avevo trovato, insostituibile, me lo conferma il fatto che anche quegli anni dolorosi furono superati, prova che la misteriosa energia che ci riconduceva sempre a condividere lo stesso destino non fosse dovuta al caso ma a qualcosa di più alto, che ha segnato la vita di quella ragazza e la mia fino a indurmi ora a certificarlo scrivendone, nella convinzione di non essere il solo fra i tanti, più o meno miei coetanei, che stiano scoprendo in loro stessi questo sentimento così anacronistico e tuttavia così vitale, che stanno provando nei riguardi della persona con la quale stanno affrontando la vecchiaia. La stagione più cattiva dell’anno. E allora, senza farti notare, la guardi con nostalgia e riconoscenza e sai che dentro quegli occhi c’è la parte grande della tua vita, di quel furtivo sesso prematrimoniale, nel fulgore di quel suo corpo santificato dall’impaccio della reciproca nudità, Di due che si amano, e i corpi Profumano l’uno dell’altro, Che pensano uguali pensieri E non hanno bisogno di parole E si sussurrano uguali parole Che non hanno bisogno di significato. Solo la poesia sacra di Eliot sa restituirci quell’esperienza sublime.
Pupi Avati e l’amore di una vita in una lettera
Mai avresti immaginato un percorso più irto di difficoltà per arrivare a quell’unione in cui, negli anni successivi, avete usato la reciproca conoscenza non più per darvi piacere ma per darvi dolore. Quando, in una notte degli anni Sessanta, riuscii a disvelarle tutto quello che lei rappresentava nei miei sogni, quando quella stessa notte la conquistai, pensai di non dover più chiedere altro a tutta la mia umana esistenza, se non l’arrivare a sposarla pronunciando entrambi quel “per sempre”, che pronunciammo, nella Chiesa di San Giuseppe a Bologna il mattino del 27 giugno 1964. E tra le infinite inibizioni che il progresso ci impone, c’è il cancellare quella locuzione avverbiale dal nostro lessico, privando di sacralità ogni nostro agire, ammucchiando confusamente i ruoli e andando addirittura orgogliosi per la quantità di macerie che stiamo lasciando alle spalle, dove il proselitismo laico non fa altro che privare gli ultimi (sì, gli ultimi, quelli del “Discorso della montagna”) della possibilità di essere attesi da un mondo di angeli misericordiosi che li risarciscano delle tante sofferenze patite. A questo diffuso nichilismo, improvvisamente in una fase della vita, l’ultima, non considerata da nessuno, riemerge nella parte più intima di te stesso l’amore. Nella sua declinazione più struggente, quella che fa della tua sposa la tessera giusta che mancava al tuo puzzle, quella che intuisti come tale quando la vedesti per mano a un principe (Gianluigi Zucchini, il più grande conquistatore della Bologna primi anni Sessanta). Non vi è nulla che eguagli l’emozione di quel pomeriggio in via Rizzoli. Credo sia giunto il momento in cui tornare a confidare negli altri, il tempo in cui non si debba avere paura di aprirsi, in un mondo che tuttavia sa ormai premiare solo il cinismo. Credo sia necessario farlo, pur nel rischio del dileggio, ispirati da quelle ineffabili regole di vita del “Discorso della montagna” che ancora oggi sa indicarci il solo percorso per una convivenza possibile a tutti. Senza alcuna eccezione. Oggi, in cui il cortile della mia infanzia si rabbuia, il mio tempo rispetto al suo si consuma più in fretta. O è lei che usa meglio il suo, riempiendo la sua giornata di più cose, di più rancori, di più bellezze, senza mentire a se stessa. Io, per rendere vivibile la mia giornata, debbo frugare nel grande invaso delle mie memorie, dove si celano i tanti io che cercai di essere. Oggi vorrei che a mia moglie piacesse la mia vita, vorrei la trovasse ardita, coraggiosa, imprevedibile, mai rassegnata. Vorrei così che si rinnamorasse di me, come io in questo tramonto, mi sto rinnamorando di lei. E vorrei soprattutto che in questo lungo e insidioso nostro percorso di insofferenze e gioie, quel misterioso “per sempre” si avverasse. Pupi Avati
Fonte-Altritaliani – lettera (già uscita, il 24 gennaio, su Il Foglio)
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