Articolo di Federico GIUSTI-Associazione”La Città Futura”
L’antifascismo di cui abbiamo, scrive Federico Giusti ,bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.
ROMA 14/04/2023 –La Repubblica fondata dalla Resistenza non ha mai fatto i conti fino in fondo con il Ventennio e da anni ormai, indebolito il movimento sindacale e comunista, i revisionisti hanno avuto la strada spianata per operare, indisturbati, a tutto campo.
Fare i conti con il fascismo è ormai una priorità assoluta. Forse siamo fuori tempo massimo dopo anni di operazioni culturali, mediatiche e politiche improntate a una rilettura del passato per giustificare le scelte del presente.
Molti testi scolastici sono riscritti a uso e consumo dello sdoganamento soft del fascismo, in un paese nel quale si leggono meno libri e giornali in confronto con la stragrande maggioranza delle nazioni europee.
Ma cosa intendiamo, quando si parla di fare i conti con il fascismo ?
Liberiamo subito il campo da alcuni equivoci di fondo. Non parliamo dell’antifascismo retorico e istituzionale diventato, con linguaggi e pratiche idonei allo scopo, un corpo ideologico giustificazionista delle politiche di austerità. Non ce ne voglia l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ma per troppi anni sono stati silenti e complici con governi di centro-sinistra ed esponenti politici che hanno contribuito a sdoganare il fascismo nella cosiddetta seconda Repubblica.
E oggi il Piano di Rinascita democratica di Licio Gelli è caduto nell’oblio quando invece permetterebbe di conoscere la lunga scia nera dal fascismo ai nostri giorni. Quel Piano non era il libro dei sogni di vecchi nostalgici ma un progetto di revisione costituzionale e della forma Stato, di profonda trasformazione della società in senso autoritario per sposare le tesi padronali che, fin dalla sua nascita, hanno attraversato il fascismo storico e politico.
Se il fascismo prima della Marcia su Roma venne foraggiato da agrari e industriali per spezzare le reni al movimento sindacale, oggi il governo Meloni vuole spezzare le reni (usiamo volutamente il loro linguaggio) ai movimenti per la casa presentando una proposta di legge che prevede fino a 9 anni di pena per gli occupanti.
Proviamo allora ad aprire tra i nostri pochi lettori una riflessione certi di attirarci critiche e antipatie.
L’amnistia di Togliatti liberò migliaia di fascisti. Molti fecero ritorno ai loro posti di lavoro nello Stato, nelle prefetture, nelle forze armate e in quelle dell’ordine. L’amnistia nasceva come intento di pacificazione in un paese uscito frantumato dalla guerra (non solo quella tra Stati ma una guerra interna civile della quale per trent’anni la storiografia ufficiale non ha mai parlato). Quella pacificazione, giudicata necessaria dai vertici dell’allora Pci, determinò la prima insanabile frattura con la Resistenza antifascista. Già nell’estate del 1946 migliaia di fascisti uscivano dalle galere ritornando ai loro vecchi posti di lavoro. Molti partigiani vennero allora epurati e altri incarcerati con accuse pesanti, trattati alla stregua di delinquenti comuni. Nelle questure, nelle prefetture, nelle forze armate e dell’ordine fecero ritorno ex repubblichini e fascisti dichiarati, parte dei quali ritroveremo anni dopo nella strategia della tensione o protagonisti delle repressioni di piazza contro gli scioperi, le occupazioni di terre.
Anche la storiografia resistenziale solo in tempi recenti ha scoperto pagine di storia occultate per troppo tempo, emblematica l’esperienza della Volante Rossa, partigiani dipinti come criminali comuni che decisero di resistere, armati, agli attentati contro sedi di partito, circoli ricreativi comunisti e socialisti che bande di repubblichini portavano a segno nei mesi successivi alla Liberazione. Molti di quei partigiani furono costretti a espatriare per sfuggire ad anni di carcere e in Italia fecero ritorno negli ultimi mesi della loro esistenza. La cacciata dei partigiani e la loro sostituzione con personaggi collusi con il fascismo è stata la prima grande ferita subita dalla Resistenza.
L’amnistia di Togliatti permise a ex repubblichini di dare vita anni dopo all’Msi e ad altre organizzazioni nostalgiche del fascismo e nuovamente alleate con agrari e industriali (e al servizio della Nato o tra le fila di Gladio) che fin dai mesi successivi alla Liberazione portarono avanti l’epurazione dei comunisti dalle fabbriche, comunisti che davano, allora, vita a scioperi e proteste a tutela del potere di acquisto salariale e per migliorare le condizioni di lavoro e di vita.
Che dire poi della rapida liquidazione dei tribunali promossi dal Cnl e sostituiti dalla giustizia ordinaria, non prima di avere riammesso in servizio cancellieri e magistrati dell’epoca fascista?
A giudicare i crimini dei fascisti la Repubblica antifascista chiamò giudici pochi anni prima conniventi con il fascismo e magari iscritti al partito, un conflitto di interessi evidente eppure tacitato in nome della pacificazione nazionale.
Questi fatti storici, se debitamente analizzati, sono a nostro avviso determinanti anche per analizzare e comprendere il presente. Prendiamo per esempio alcune frasi (“che c’entriamo noi col fascismo?”, “il fascismo in fondo ha anche fatto buone cose”), autentici stereotipi diventati, anche grazie a martellanti campagne mediatiche, una sorta di senso comune.
Nell’immaginario collettivo il fascismo è diventato fautore delle pensioni, dello Stato sociale e di utili interventi pubblici. Libri come quelli di Filippi andrebbero discussi nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, nei luoghi di lavoro e nelle sedi sindacali, avremmo molto da imparare anche per i tempi presenti.
Rimettere mano alla storia dell’antifascismo italiano, rivisitarne alcune pagine dimenticate, è un’operazione non solo storica ma politica. Non avere fatto i conti con il fascismo ci ha fatto prendere cantonate su innumerevoli questioni e soprattutto ha spianato la strada all’avvento della sinistra liberal attenta ai diritti civili ma non a quelli sociali. E studiare il fascismo consentirebbe di appurare le cause del suo successo, gli errori commessi da comunisti e socialisti nell’avversare gli Arditi del Popolo. Un’operazione culturale indispensabile per comprendere le ragioni del successo di Fratelli d’Italia alle ultime elezioni politiche e iniziare a contrastare il governo Meloni senza attendere i sonnacchiosi e concertativi sindacati rappresentativi che in Italia non muovono foglia mentre in altri paesi europei ci sono scioperi e proteste di piazza.
Non serve solo rinsaldare gli anticorpi dell’antifascismo – meglio di noi lo fanno alcuni storici di ultima generazione contro i quali si inveisce dalle pagine di alcuni giornali con una campagna di odio che ci riporta al passato fino a ostacolarne la presenza nelle scuole e nelle università –, è una priorità insopprimibile interrogarci sul perché il fascismo sia stato sdoganato e riproposto in altre forme.
Prendiamo il caso delle battaglie fascistissime o coloniali dipinte come atti eroici, le visite delle scolaresche in caserma, lo stage scuola-lavoro nei centri di addestramento militare, la presenza di multinazionali di armi negli atenei italiani nel ruolo di disinteressati mecenati.
Non accusiamo certo di fascismo i militari e i produttori di armi, ma crediamo che i valori da loro propugnati (la sicurezza nazionale, l’esaltazione della patria…) attingano da quel brodo di coltura da cui è nato anche il fascismo storico.
Non si capisce la ragione per la quale si debbano celebrare con ragazzi di 10 o 14 anni le battaglie combattute dall’esercito italiano alleato dei nazisti, presentandole come atti di eroismo e di italianità. Il nostro paese non ha fatto i conti con la passata esperienza coloniale (e solo alla fine degli anni Sessanta sono arrivati i primi studi critici con la pubblicazione di tanti documenti occultati da storici conniventi ideologicamente con il passato coloniale e fascista); per questo ci siamo imbattuti in azioni disumane come quelle ai danni di detenuti somali da parte di soldati italiani. Oppure pensiamo che Faccetta nera sia solo un’allegra canzonetta della quale non conosciamo le parole o peggio ancora le riteniamo neutre e inoffensive?
Non avere fatto i conti con il passato coloniale ha spianato la strada alle missioni di guerra all’estero sotto l’egida Onu o Nato. Quel passato coloniale fu un tratto distintivo del fascismo alla ricerca di terre al sole, per conquistare le quali non lesinò l’utilizzo di gas contro l’inerme popolazione civile. E i bombardamenti “umanitari” all’uranio impoverito degli ultimi anni non sono dissimili da quelli in Etiopia.
Le ultime esternazioni del ministro La Russa trovano un terreno fertile e già arato da anni di revisionismo storico e di pratiche diseducatrici, di rimozione delle profonde ragioni dell’antifascismo dipinto ormai come un retaggio ideologico del passato. Il vittimismo della destra dei nostri giorni trasforma i fascisti in patrioti assegnando al concetto di patria una valenza positiva per giustificare il sostegno alla guerra, alla lotta senza quartiere contro i salariati, alimentando la logica dei nemici interni di turno (vedi i 9 anni di carcere proposti per gli occupanti di casa).
Sulle Fosse Ardeatine e sull’attentato di via Rasella menzioniamo integralmente una nota redatta dagli storici dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri che smentisce la propaganda repubblichina di La Russa:
“In merito alle dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa l’Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea –, per rispetto alla verità storica, dichiara:
1) L’ attacco partigiano di via Rasella fu un legittimo atto di guerra condotto contro una pattuglia di poliziotti altoatesini appartenenti al terzo battaglione Bozen.
2) Il Polizeiregiment Bozen comprendeva tre battaglioni, si era formato nel settembre 1943, subito dopo che i tedeschi, a seguito dell’armistizio, avevano costituito l’Operationszone Alpenvorland, (zona di operazione delle Prealpi), che comprendeva le province di Belluno, Trento e Bolzano.
3) La maggior parte dei suoi membri, a seguito dell’opzione del 1939, avevano preso la cittadinanza tedesca.
4) Il battaglione Bozen non era una banda musicale ma un battaglione di polizia armato di pistole mitragliatrici e bombe a mano, che stava ultimando il suo addestramento.
5) L’età media dei componenti era sui 35 anni (avevano un’età dai 26 ai 42 anni), quindi certamente non delle giovani reclute ma neppure dei semipensionati.
6) È bene ricordare che gli altri due battaglioni del reggimento Bozen erano stati subito impiegati in funzione antipartigiana in Istria e nel Bellunese, dove si erano resi autori di stragi.
7) Il battaglione oggetto dell’attacco di via Rasella è stato successivamente impiegato in Italia in funzione antipartigiana.
8 ) A seguito dell’attacco i tedeschi fucilarono alle Fosse Ardeatine 335 fra antifascisti, partigiani, ebrei, detenuti comuni. Le liste furono compilate con l’aiuto della questura di Roma. L’ordine di fucilazione fu eseguito prima della pubblicazione del comunicato emanato dal comando tedesco della città occupata di Roma alle 22.55 del 24 marzo 1944.
9) Per tale atto il questore di Roma, Pietro Caruso, fu condannato a morte dall’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo. La sentenza fu eseguita il 22/9/1944.”
La stessa Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ha innumerevoli responsabilità nell’avere trasformato l’antifascismo in un retaggio del passato o in un messaggio alle giovani generazioni senza riferimenti alla odierna realtà limitandosi magari a ricordare la bontà di una Carta costituzionale che la tecnocrazia del centro-sinistra ha prima svilito e poi affossato tra pareggi di bilanci e ricorso strutturale alla guerra. E l’antifascismo non può essere riesumato due giorni l’anno o per giustificare alleanze elettorali di centro-sinistra, con programmi di austerità contro le classi popolari che combatterono il fascismo identificandolo con la guerra, la miseria, la violenza dei padroni e l’assenza di democrazia e libertà.
L’antifascismo di cui abbiamo bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.
Ma questo antifascismo, che un tempo avremmo definito militante, è un antifascismo inviso a larghi settori della cosiddetta sinistra, la stessa che pensava all’amnistia di Togliatti come un atto necessario per pacificare il paese e per ricostruirlo nella democrazia, salvo poi accorgersi che i fascisti si erano solo riciclati nelle istituzioni ed erano sempre pronti a organizzare colpi di Stato, attentati contro i lavoratori e a partecipare attivamente alla strategia della tensione.
E gli eredi politici dei fascisti di ieri si definiscono oggi italiani, ma hanno bisogno di riscrivere la storia del Novecento per trovare giustificazioni all’operato dei loro padri e poter restringere gli spazi di libertà e di democrazia oggi.
L’antifascismo militante e di classe non potrà ridursi a una memoria storica astratta, per questo indagare il passato significa coglierne i collegamenti con il presente.
Fonte-Ass. La Città Futura -Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi
Descrizione-lI libro di Giulietto Betti ricostruisce quanto avvenne a Chiusi e nei suoi dintorni nel periodo che va dal 25 luglio 1943 al 2 giugno 1946: una fase storica piena di avvenimenti e segnata da innumerevoli tragedie, collettive e individuali. Vengono citati documenti e fonti, ognuna delle quali fornisce una propria versione dei fatti che sono visti dall’angusto angolino di ogni testimone. Dal confronto generale emerge dunque una visione complessiva dei fatti.
Scrive l’autore: Non pretendo di dire “ecco, questa è la verità, prendere o lasciare”, ma invece dico; questa è la storia secondo le fonti che ho potuto considerare, una storia vera e avvincente, anche se è una microstoria”.
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LaNuova Immagine Editrice è una piccola casa editrice di Siena fondata negli anni ottanta come cooperativa. Nel 2005 si è trasformata in una società a responsabilità limitata. La casa editrice si è specializzata in testi locali sulla storia, arte e cultura del territorio dell’Italia centrale. In particolare, si è occupata della pubblicazione del lavoro dell’archeologo britannico George Dennis, Città e necropoli d’Etruria e dei viaggi dello scrittore D.H. Lawrence.
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Poetessa, scrittrice e traduttrice spagnola Pilar Adón . I suoi testi si trovano inclusi in diverse antologie poetiche e la sua opera è considerata letteratura pura; inoltre ha tradotto autori come Henry James e Joan Lindsay.
Chi si prenderà cura di me quando sarò vecchia?
Chi mi aspetterà, felice di vedermi?
Capelli annodati. Senza pettinature notturne.
Pettini e specchi d’argento.
Sola sulla mia poltrona. Stufa della stanchezza e delle prediche.
Senza figli che mi facciano il bagno,
che mi cucinino arrosto con purè,
che mi portino maglioni taglie forti,
che mi lavino i piedi e le ascelle
quando ci saranno oramai pochi motivi per esistere.
Sconfitta dai ragionamenti
riguardo la raccolta di ciò che è stato seminato.
Celebrazioni, compleanni e feste
in prospettiva di una solitudine rotonda.
Chi verrà a trovarmi
nei fine settimana?
Se non sono una madre.
Se vivo senza riconoscere la devozione, l’ausilio.
La tenerezza. Le visite agli amici in lutto.
Tra scuse, documenti e libri,
lontana dal sentimento originale.
Scappando dalla prima chiamata.
Senza sapere che cos’è il donarsi.
La pietà. La delicatezza
dei bambini fotocopia. La loro mente dolce e semplice
come pezzi di mela cotta. Come sacchetti
di orsetti Haribo.Chi mi abbraccerà quando sarò vecchia?
E sia, sola. E non ci sia nessuno che voglia parlare con me.
E le tende prendano fuoco
e le fiamme salgano al soffitto. E nessuno
possa avvicinarsi
al telefono. Per chiamare i vigili
del fuoco.
Pilar Adón Poetessa, scrittrice e traduttrice spagnola. I suoi testi si trovano inclusi in diverse antologie poetiche e la sua opera è considerata letteratura pura; inoltre ha tradotto autori come Henry James e Joan Lindsay.
Pilar parla dell’oscurità dei misteri quotidiani, si presenta come una forza, i suoi versi sono lucidi, pieni di immagini infantili, ma osservati con la lente delle macerie: “L’odore delle margherite non porterà primavera”. Solitudine, un mondo in arrivo, ricerche del tempo, viaggi verso l’interiore per trovare ciò che non si vede: “Credere. Credere nelle braccia aperte e in una parola.”Questo resta al lettore, la possibilità di credere in un paesaggio che parla, un percorso verso un luogo segreto.
Descrizione del libro di Federico Fellini e Tullio Pinelli-Alcuni anni fa, da un baule dimenticato, uscì fuori come per magia il trattamento di Napoli-New York, scritto da Federico Fellini e Tullio Pinelli nel 1948 e divenuto da allora invisibile. Il miracolo si è ripetuto quando il premio Oscar Gabriele Salvatores ha deciso di trarne un film, aggiungendo alla vicenda dei piccoli Carmine e Celestina, imbarcati clandestinamente per New York per ritrovare la sorella di lei, una ulteriore colorazione fantastica. Il volume rende conto della strana e per certi versi unica storia di questo film, dal rocambolesco ritrovamento alla realizzazione su grande schermo. Il testo del trattamento originale di Fellini e Pinelli rivela già molti tratti tipici dell’immaginario felliniano che poi si svilupperà negli anni della maturità.
Gli Autori
Federico Fellini (1920-1993) ha realizzato alcuni tra i più noti e amati film mondiali (I vitelloni, 1953; La strada, 1954; Le notti di Cabiria, 1957; La dolce vita, 1960; 8 ½, 1963; Amarcord, 1973; Il Casanova di Federico Fellini, 1976; La voce della luna, 1990). È stato il regista italiano più premiato, avendo vinto tra l’altro cinque premi Oscar. È stato anche sceneggiatore per Rossellini, Lattuada, Germi e altri registi.
Tullio Pinelli (1908-2009) è stato drammaturgo (La pulce d’oro, I padri etruschi, Il giardino delle sfingi), autore di libretti d’opera, e soprattutto sceneggiatore. Ha scritto alcune centinaia di copioni e ha firmato molti tra i più bei film di Fellini (I vitelloni, La strada, La dolce vita, 8 ½), Germi (In nome della legge, Il cammino della speranza), Lattuada, Cavani, Monicelli (Amici miei, ll Marchese del grillo, Speriamo che sia femmina).
Giuseppe Tomassetti- Appello per la conservazione delle Torri della Campagna Romana-
A proposito delle Torri della Campagna Romana il Tomassetti scrisse:”…pensi il lettore , contemplandole ora così poeticamente desolate, quasi giganti feriti ed impietriti sul posto , a ricostruire la Storia con l’immaginazione , e figurarsi le feste, gli armamenti, le battaglie, tutto ciò che formò la vita agiata della Campagna Romana nel Medioevo; ed egli dovrà convenire con me che esse esercitano grande seduzione nella nostra mente. Pensino pertanto i proprietari dell’Agro Romano a conservare gelosamente questi ruderi dell’Arte e della Poesia; ne impediscano ai pecorari ed ai contadini la continua malversazione; pensi il Governo a farne compilare l’esatto elenco ed a farne regolare consegna ai proprietari, come dei Monumenti Antichi, sia perché hanno aspetto pittoresco , sia perché appartengono alla Storia; e col tempo la posterità dimanderà conto alla presente generazione del non aver arrestato e posto fine ai guasti dovuti all’ignoranza dei nostri predecessori.”
Brenda Tharp e Jed Manwaring -La meravigliosa fotografia di tutti i giorni-
APOGEO editori
Descrizione del libro di Brenda Tharp e Jed Manwaring -I fotografi sono sempre pronti a viaggiare per catturare una luce perfetta, paesaggi mozzafiato, natura selvaggia, personalità nuove e originali. Eppure, per realizzare grandi scatti, l’esotico “a tutti i costi” non è necessario. Immagini meravigliose sono ovunque, in attesa che qualcuno le scopra.
Questo libro insegna a guardare oltre la semplice apparenza dell’ordinarietà per trovare l’inaspettato ovunque si nasconda, in una strada di città, in un parco di periferia, nel giardino davanti a casa. Gli autori incoraggiano a prendersi il tempo che serve, allargare lo sguardo e alzare la macchina fotografica per catturare un’immagine speciale con un movimento semplice.
Attraverso spiegazioni ed esercizi i lettori imparano quello che è necessario sapere sulla composizione, la luce e il colore, mentre immagini di esempio realizzate con reflex a obiettivo singolo, fotocamere compatte, iPhone, dimostrano che sono l’occhio del fotografo e la visione creativa, non la macchina, a dare vita a una grande immagine.
Gli autori
Brenda Tharp è specializzata in fotografia di viaggio, naturalistica e outdoor. Le sue immagini sono state pubblicate su importanti riviste tra cui Outdoor Photographer, Audubon, Discovery, Forbes, Sierra e Sunset. Tiene corsi e workshop in molte scuole e istituzioni degli Stati Uniti. (Credit immagine: Wendy Kaveney.)
Jed Manwaring è un fotografo professionista le cui immagini sono state pubblicate da importanti riviste del settore. Tiene workshop insieme a Brenda Tharp.
Introduzione
Ifotografi sono un gruppo di viaggiatori, che visitano i luoghi per catturare la luce, il paesaggio, la fauna selvatica e le persone. Molti fotografi percorro- no lunghe distanze per scattare fotografie, alla ricerca di luoghi esotici. Ma è indispensabile andare lontano per trovare elementi interessanti da fotografare? Qualcuno risponderebbe con un forte “Sì!” e, per alcuni tipi di fotografia (ani- mali selvatici, culture uniche e così via), potrebbe anche avere ragione. Tuttavia, le immagini meravigliose si nascondono praticamente ovunque, se sai dove e come guardare. Siamo pronti a scommettere che potrai realizzare splendide fo- tografie vicino alla tua residenza, dovunque essa sia.
Sono disponibili molti libri sulle basi della fotografia e della tecnica digita- le, ma pochi spiegano come utilizzare il cuore insieme alla mente per produrre fotografie eccezionali. Grazie alle fotocamere digitali, tutti oggi sono in grado di padroneggiare le tecniche di base, ma le immagini realizzate avranno un qualche significato? Fotografare non significa solamente impostare l’apertura e la veloci- tà dell’otturatore per poi premere il pulsante di scatto: significa capire che cosa stai cercando di esprimere con la fotografia e quando devi effettivamente premere il pulsante di scatto. A tal fine, serve una visione creativa che nasce dall’osservare aprendo il cuore e la mente. Mentre lavoravamo a questo libro abbiamo aperto un biscotto della fortuna cinese. La previsione all’interno non avrebbe potuto essere più adatta; diceva: “Vediamo con il cuore e non con gli occhi”. Che fosse un segno?
Indice
Introduzione IX CAPITOLO 1
Trovare una visione nuova 1 CAPITOLO 2
Il momento della percezione 15 CAPITOLO 3
Scoprire le immagini nei luoghi vicini 25 CAPITOLO 4
Ampliare il processo creativo 35 CAPITOLO 5
Catturare i momenti quotidiani 59 CAPITOLO 6
Trovare il proprio punto di vista 71 CAPITOLO 7
Creare composizioni forti 85 CAPITOLO 8
Esplorare la luce attorno a noi 99 CAPITOLO 9
Fotografare all’aurora e al crepuscolo 119 CAPITOLO 10
Fotografare la notte 131
Risorse: app e software 142 Ringraziamenti 145 Indice analitico 146
“Lessico famigliare” è il libro di Natalia Ginzburg che ha avuto maggiori e più duraturi riflessi nella critica e nei lettori. La chiave di questo romanzo è delineata già nel titolo. Famigliare, perché racconta la storia di una famiglia ebraica e antifascista, i Levi, a Torino tra gli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento. E Lessico perché le strade della memoria passano attraverso il ricordo di frasi, modi di dire, espressioni gergali. Scrive la Ginzburg: “Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire ‘Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna’ o ‘De cosa spussa l’acido cloridrico’, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole”.
Natalia Ginzburg (Italian:[nataˈliːa ˈɡintsburɡ], German:[ˈɡɪntsbʊʁk]; néeLevi; 14 July 1916 – 7 October 1991) was an Italian author whose work explored family relationships, politics during and after the Fascist years and World War II, and philosophy. She wrote novels, short stories and essays, for which she received the Strega Prize and Bagutta Prize. Most of her works were also translated into English and published in the United Kingdom and the United States.
Born as Natalia Levi in Palermo, Sicily, in 1916, she spent most of her youth in Turin with her family, as her father in 1919 took a position with the University of Turin. Her father, Giuseppe Levi, a renowned Italian histologist, was born into a Jewish Italian family, and her mother, Lidia Tanzi (the sister of Drusilla Tanzi), was Catholic.[1][2] Her parents were secular and raised Natalia, her sister Paola (who would marry Adriano Olivetti) and her three brothers as atheists.[3] Their home was a centre of cultural life, as her parents invited intellectuals, activists and industrialists. At the age of 17 in 1933, Natalia published her first story, “I bambini”, in the magazine Solaria.
Marriage and family
In 1938, she married Leone Ginzburg, and they had three children together, Carlo, Andrea, and Alessandra.[4] Their son Carlo Ginzburg became a historian.
Although Natalia Ginzburg was able to live relatively free of harassment during World War II, her husband Leone was sent into internal exile because of his anti-Fascist activities, assigned from 1941 to 1943 to Pizzoli, a village in Abruzzo. She and their children lived most of the time with him.[5]
Opponents of the Fascist regime, she and her husband secretly went to Rome and edited an anti-Fascist newspaper, until Leone Ginzburg was arrested. He died in incarceration in 1944 after suffering severe torture.[5]
In 1950, Ginzburg married again, to Gabriele Baldini, a scholar of English literature. They lived in Rome. He died in 1969.
Career
After her marriage, she used the name “Natalia Ginzburg” (occasionally spelt “Ginzberg“) in most subsequent publications. Her first novel was published under the pseudonym “Alessandra Tornimparte” in 1942, during Fascist Italy‘s most anti-Semitic period, when Jews were banned from publishing.
Ginzburg spent much of the 1940s working for the publisher Einaudi in Turin in addition to her creative writing. They published some of the leading figures of postwar Italy, including Carlo Levi, Primo Levi, Cesare Pavese and Italo Calvino. Ginzburg’s second novel was published in 1947.
The experiences that she and her husband had during the war altered her perception of her identification as a Jew. She thought deeply about the questions aroused by the war and the Holocaust, dealing with them in fiction and essays. She became supportive of Catholicism, arousing controversy among her circle, because she believed that Christ was a persecuted Jew.[5] She opposed the removal of crucifixes in public buildings but her purported conversion to Catholicism is controversial and most sources still consider her an “atheist Jewess.”[6]
Beginning in 1950, when Ginzburg married again and moved to Rome, she entered the most prolific period of her literary career. During the next 20 years, she published most of the works for which she is best known. She and Baldini were deeply involved in the cultural life of the city.
Ferruccio Parri-Come farla finita con il fascismo-
Editori Laterza
Ferruccio Parri :«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»
DESCRIZIONE-INTRODUZIONE-RASSEGNA STAMPA
Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto. Ferruccio Parri, vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza, è stato il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera. Dopo una lunga militanza nel Partito d’Azione, si è impegnato in altre formazioni prima di lasciare l’impegno partitico. Ha dedicato la sua intera esistenza alla politica e non ha mai smesso di lottare contro il ritorno del fascismo.
Introduzione.
Cosa resta
di David Bidussa e Carlo Greppi
Abbiamo già detto tante volte che noi non vogliamo fare una storia idealizzata, né credere e far credere quello che non c’è, o presentare gli attori di questi fatti per quello che non sono o non sono stati; essi furono modesti uomini come tutti.
Ferruccio Parri (1961)
Del fascismo Parri è stato uno dei più irriducibili avversari nel corso della sua lunga vita adulta, che percorre integralmente la storia dell’ideologia che ha insanguinato l’Italia, l’Europa e il mondo. Dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla presa del potere, Parri sente, «come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio» [infra, p. 6], ed è lui il primo a fare della sua «avversione morale», che è «perentoria ed irriducibile», appunto, la cifra con cui affronta la dittatura prima, l’occupazione e la guerra civile poi, e, infine, il costante riemergere del neofascismo in incalcolabili forme, i cui echi arrivano fino all’Italia di oggi, un paese le cui stesse premesse democratiche scricchiolano in maniera preoccupante. Ed è utile, in questo tempo di crisi profonda, ripercorrere i passi di una generazione che ha in gran parte voluto – e in questo Parri è stato maestro – sentirsi «ordinaria».
È quando il fascismo si fa regime, ricorderà Parri, che i giovani d’allora scoprono la democrazia: «Si avverte che al fascismo non è possibile opporre soltanto la polemica antifascista, se la polemica antifascista non riposa sui principi, su una costruzione politica superiore, atti a soddisfare le esigenze primarie di libertà e di giustizia. È dunque allora che si crea, soprattutto fra gli intellettuali – ciò che è essenziale per comprendere la lotta di poi – una prima convergenza di forze, fondamentale a spiegare la storia successiva». Convinto che la vittoria sul fascismo si sia costruita passo dopo passo, in oltre vent’anni di lotte e sacrifici, Parri si oppone in diverse occasioni alla «spiegazione poetica che piaceva al nostro sempre compianto Calamandrei», per la quale di colpo, come per delle «misteriose leggi di natura», era gemmata e può gemmare la Resistenza. Dalla svolta con cui Mussolini instaura di fatto il regime, Parri aveva imparato «che la sconfitta si riparava cercando una soluzione superiore; che contro il fascismo non si combatteva più sulla base del diritto formale della società precedente al fascismo; che le vecchie classi dirigenti erano crollate, erano cadute», e che «occorreva una soluzione diversa, una visione più avanzata».
Queste, come quelle che ritroverete in queste pagine, sono parole di un’attualità a dir poco sconcertante, che ripercorrono la presa di coscienza di un uomo «come tutti» che, poco più che trentenne, si rese conto che quella che riteneva essere la sua ordinarietà diventava di colpo speciale, rara, necessaria, da coltivare in un’Italia che sprofondava nel baratro della dittatura. Un uomo che si rese conto, fin dagli anni Venti, che bisognava disobbedire – e rivendicarlo pubblicamente – e poi combattere: «al nemico non si doveva conceder tregua», ricorderà, «sapevamo che la guerra era necessaria e che una volta iniziata non si poteva più tornare indietro» [infra, p. 22].
Accomunati da questa sua tormentata e costante attenzione per una vision – si direbbe oggi – antifascista, fondamentale e fondante in tempo di crisi, sono tre gli aspetti che ritornano più volte nelle parole di Ferruccio Parri e che a vario titolo lo accompagnano nei momenti salienti della propria vita, tanto da definire il suo vocabolario politico.
Il primo aspetto riguarda una dimensione laica della politica. Il secondo nasce dalla convinzione di dover trovare significati e immagini che parlino a generazioni anche lontane dalla sua, consapevole della consunzione non solo delle parole, ma anche dei sentimenti e delle esperienze se non corroborate da una volontà di rimetterle costantemente tra le cose della propria quotidianità, e dunque non proporle come sacre. Il terzo aspetto, infine, consiste nell’essere consci del fatto che scommettere sul futuro ogni volta significa riprendere in mano il passato.
Veniamo dalla polvere e dobbiamo tornare, tutti, nella polvere. Lo spirito che ci rende uomini, soffia quando vuole e dove vuole. La sua brezza ha animato Ferruccio Parri durante tutta la sua lunga vita. Egli era laico, intellettualmente e politicamente […] ma pochi più di Parri possedevano, fra i suoi ed i nostri contemporanei, le doti cristiane della devozione al dovere, dell’obbedienza ai 10 comandamenti, dell’amore della famiglia e dell’umanità, dello spirito di sacrificio, dell’umiltà.
Sono le parole con cui Leo Valiani, il 9 dicembre 1981, apre la sua orazione funebre per Ferruccio Parri. Un addio tra due amici di vecchia data che si erano da tempo divisi sulle scelte politiche, dopo la prima stagione del Partito radicale, quando Ferruccio Parri dava vita al primo nucleo della «sinistra indipendente».
In quelle parole tuttavia non sta solo il rispetto o l’affetto verso «Maurizio» – il mitico nome di battaglia di Parri nella lotta partigiana – o verso la Resistenza, anche se certamente c’è anche quello, memore di quanto Valiani scriveva nel 1947 quando ricordava, nell’inizio incerto della guerra di liberazione, «Tutti vanno pazzi per lui». Quelle parole non sono solo un sincero riconoscimento della capacità che Parri aveva avuto di tenere insieme le molte anime e i molti protagonisti del movimento resistenziale, che avevano accettato come «linguaggio comune» le «semplici parole di libertà e giustizia» [infra, p. 44], che avevano scelto di stare uniti. La commossa orazione funebre di Valiani svela un lessico laico che in Italia non è mai stato linguaggio condiviso, o comunque mai di maggioranza. Laddove con «laico» si intende il riconoscimento del nesso doveri/diritti nonché l’autonomia e la libertà di ciascun essere umano, ovvero il proseguimento del progetto illuminista enunciato da Kant all’inizio del suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? «L’illuminismo – scriveva il filosofo tedesco – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Dunque l’essere laico, nelle parole di Valiani e nella biografia di Parri, indica una tendenza continua a uscire dallo stato di minorità in cui ci si trova e a «camminare con le proprie gambe», non confondendo, come sottolinea Michel Foucault, quella condizione di minorità «con uno stato di impotenza naturale». Dunque pare che compito dell’intellettuale e del politico sia essere ottimisti, laddove, con Johan Huizinga, ottimista non è colui che sottovaluta i pericoli gravi sostenendo che tutto finirà per il meglio, bensì colui il quale, pur valutando in tutta la sua portata la minaccia dell’imminente tracollo, tiene alta la speranza, anche qualora non si scorga all’orizzonte una via d’uscita. Ottimista è chi si sforza costantemente di ricomporre un quadro, ma anche di dare il valore alle cose per poterlo sostenere. In altre parole, riprendendo le azioni che nel pensiero di Parri appaiono necessarie per «farla finita con il fascismo», essere laico significa non cedere il passo, saper progettare e saper trainare. Al primo posto, sostiene Parri all’apertura dei lavori della Consulta [infra, pp. 55 sgg.], ci deve essere «la difesa dell’ordine morale» dell’Italia – e della «Giovane Europa» – di domani, in continuità con lo «spirito di concordia» della lotta di liberazione. Senza impantanarsi, invischiarsi, soffocarsi, rischiando così di favorire il ritorno «a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia» [infra, p. 80].
È un profilo che «Maurizio» ha costantemente presente nella sua riflessione e che nella lezione che tiene nel 1960 – Il CLN e la guerra partigiana –, che abbiamo volutamente sintetizzato con la parola chiave «trasmettere», assume una dimensione paradigmatica. «Trasmettere», infatti, non è solo raccontare perché altri ereditino, ma è soprattutto non celare, non costruire una versione mitizzata del passato per timore della sua dissoluzione, che invece sarà conseguente e logica proprio se quel passato dovesse essere raccontato in versione «eroica». In quell’occasione, in apertura del suo intervento, Parri dice:
Coloro che hanno avuto parte attiva nella lotta di liberazione – alcuni sono qui – sono uomini come voi, con tutti i difetti, gli errori, le insufficienze degli uomini; nessuno di noi le vuole tacere, nessuno le vuole velare, nessuno vuole rivendicare dei meriti che non ha. Ma le cose che si son fatte e la storia di questi anni non han da temere della sincerità, che resta il maggiore dei doveri che abbiamo verso i giovani, verso di voi e verso quelli che verranno dopo [infra, p. 96].
Del resto, anni prima, lo stesso Parri non aveva taciuto sulla dimensione geograficamente contenuta della Resistenza: «Solo una parte del paese, territorialmente parlando, è stata toccata profondamente dalla Resistenza, e solo una parte della società italiana vi partecipa o l’accetta», aveva detto in un’intervista nel 1957, precisando che Resistenza non era stata la ripetizione del moto solo urbano ed elitista del Risorgimento, al quale non manca mai di riferirsi, ma qualcosa di più profondo e partecipato.
In quella stessa intervista, tuttavia, indica una questione molto importante che spiega l’insistenza di parlare della Resistenza, in particolare rivolta alle generazioni anche lontane da quell’esperienza diretta:
il crollo del fascismo – precisa – ha aperto situazioni e vuoti di portata assai più ampia. È crollata l’impalcatura del regime fascista; non sono stati arrestati gli effetti della sterilizzazione dei cervelli. E così un fondo materasso di conformismo e qualunquismo, che è lo stato psicologico di riposo di un paese senza educazione e di scarsa coscienza democratica, fa da supporto alle vendette, alle paure postume, alle restaurazioni conservatrici, alle pressioni retoriche e clericali.
La sua convinzione è che «non si ama quello che non si conosce», e la prima cosa che si ignora, ripete più volte, è la rilevanza del fatto resistenziale, come scelta – un aspetto su cui avrebbe scritto Claudio Pavone nel 1991 proprio su sollecitazione di Parri –, come condizione straordinaria nella storia italiana. Un fatto eccezionale a opera di uomini per lo più, appunto, «ordinari». È un’osservazione che ripete spesso a partire dal 1949, ogni qualvolta riflette sul significato della esperienza resistenziale nella storia degli italiani: vi ritorna nel 1960 nelle lezioni sull’antifascismo [infra, pp. 93 sgg.], poi nel 1963 in un’intervista che dà all’«Avanti!», poi di nuovo nel 1972 ripercorrendo la scena della caduta del governo da lui presieduto [infra, pp. 37 sgg.]. D’altronde lo diceva già nel 1945, descrivendo il «momento psicologico politico» dell’immediato dopoguerra, tratteggiando quella «marea incomposta di malcontento che sale contro il governo, contro il regime dei partiti», della quale «non ci si deve meravigliare», anche perché tra le miserie, i dolori, le inquietudini e «un così diffuso stato di insicurezza», vanno aggiunti «i delusi, gli spostati, gli avventurieri» e «lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti», dei fascisti [infra, p. 79]. La Resistenza aveva visto una partecipazione popolare senza precedenti, è vero, ma restava un’esperienza di una vasta minoranza, che sarebbe tornata a fronteggiare «l’immenso esercito parafascista, l’obeso ventre della storia d’Italia» [infra, p. 53].
Accanto a quella preoccupazione sta una convinzione: da una dittatura non si esce solo per crollo del sistema e ripristino delle regole democratiche. I conti con le dittature impegnano anche le generazioni successive se non si affrontano le mentalità che hanno fatto sì che quelle dittature durassero nel tempo.
In breve, anche se Parri non usa questa espressione – lui parla di «sagomatura mentale» –, l’Italia del secondo dopoguerra ha appunto un problema di «mentalità fascista» non affrontata e, dunque, rimasta nel codice culturale, nel senso comune. Per questo è necessario coinvolgere e motivare le giovani generazioni: non per un vago rispetto alla memoria del passato, ma alla rovescia, perché quel tempo possa archiviarsi come passato. In Italia, invece, sostiene Parri, quel processo di liberazione culturale, mentale, linguistico, non ha avuto luogo. Per questo, sostiene, ci troviamo a misurarci con la «continuità dello Stato», espressione che significativamente Parri introduce nel gennaio 1972 [infra, p. 46] e che Claudio Pavone assumerà come parola chiave di lavoro, nel 1973, per profilare il tema del passaggio claudicante tra dittatura e repubblica democratica, in un contesto in cui aveva «ripreso fiato» quell’Italia «maggioritaria, piallata, abbeverata da venti anni di regime» [infra, p. 86].
Tuttavia, dichiarare o riconoscere che quel passaggio sia avvenuto in maniera incerta, che spesso sia stato più formale che reale, non implica scegliere la strada del ripiegamento o della delusione, comunque del mesto «ritorno a casa» o, peggio, a una scelta tutta rivolta al «culto del privato».
C’è una dimensione pubblica su cui Parri insiste, soprattutto guardando al passato da dare in consegna alle nuove generazioni. La sconfitta è prima di tutto rivendicazione dei principi della propria azione, è non venire a patti col nemico, anche quando il nemico domina. È il senso della lettera al giudice nel 1927 [infra, pp. 3 sgg.], un testo che verrebbe da definire profetico e che per molti aspetti ha scolpito l’immagine pubblica di Parri, spesso trasformandolo in un’icona.
Ma Parri non ha nessuna intenzione di rimanere avvolto nella leggenda. Per questo il punto che egli sottolinea ogni volta è ricominciare, con pazienza, si potrebbe dire con tenacia. E dunque la logica non è mettere le lapidi o porre il problema della liturgia dell’eroe. Parri, a differenza di Calamandrei, ragiona sul fare la propria parte, evita cioè l’elemento eroico e retorico del martire e ragiona sulla possibilità di azione che ci è data, e anche sul ricominciare daccapo.
È un criterio che appare con nitidezza nel 1933, quando Parri scrive un saggio su Carlo Pisacane. Come è stato sottolineato dallo storico Guido Quazza, Parri in Pisacane legge e trova una parte di sé: sono soprattutto i temi ad attirarlo, quelli cioè legati al dopo 1848, al tempo della sconfitta e dell’esilio di un protagonista assoluto del Risorgimento, agli incontri che l’esule Pisacane fa, alle conversazioni che si hanno tra sconfitti, come scrive Gramsci. Avvicinandosi a un uomo del passato, Parri riflette sull’esperienza dell’esilio come opportunità «per crescere» anziché condizione «per piangere». Invito su cui, significativamente, in anni a noi vicini ha proposto pagine di grande spessore Edward Said.
Ne discende che porgere il testimone della storia non è consegnare il fardello del passato, ma è un modo di fare catena generazionale, e dunque di dare senso alla storia. In questo c’è un superamento della dimensione del militante rivoluzionario e del combattente che Jean-Paul Sartre inquadra nel personaggio di Goetz nel dramma Il diavolo e il buon Dio; e c’è, in parallelo, la dimensione della caparbietà con cui Albert Camus descrive Sisifo, non già nella disperazione dell’attimo successivo alla caduta, ma nella determinazione di Sisifo a scendere di nuovo negli inferi per tentare di nuovo la lotta all’oppressione. «In ciascun istante – scrive Camus – durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno».
Così era stata, in fondo, la Resistenza armata, che stabilì «vincoli di solidarietà morale, che sopravvivono ai litigi e non si cancellano mai», scrive Parri [infra, p. 125]. Così erano stati gli «uomini di allora» che «non hanno meriti speciali, ed hanno commesso gli errori che commettono gli uomini, anche se in buona fede; ma qualche merito deve essere rivendicato, soprattutto in difesa e a onore dei caduti. Il principale di questi meriti è forse la chiarezza della visione di quel momento». Sono parole che «Maurizio» pronuncia quasi vent’anni dopo la Liberazione, evocando una determinazione e una chiarezza di vedute che forse in molti casi sono poi mancate, al momento della sconfitta, quando il vento della restaurazione e della reazione è tornato a soffiare con arroganza. Ed è questo, crediamo, uno dei pericoli che nel nostro tempo rendono così urgenti le parole e gli scritti di Ferruccio Parri: lo spaesamento che rende una chimera la laicità – nella sua accezione più nobile – della politica, il non trovare più significati che possano percorrere quelle catene generazionali che lui aveva immaginato con forza, il non essere più in grado di impugnare il nostro passato per dotarci di nuove parole chiave, necessarie a farla finita, una volta per tutte, con il fascismo. All’inizio degli anni Sessanta, ricordando di aver presentato una legge per lo scioglimento del Movimento sociale italiano, Parri sosteneva di non essere stato mosso dalla preoccupazione per il fenomeno politico del neofascismo in sé, ma per «i problemi morali dei giovani»: «Sono questi movimenti giovanili che si ripetono, è questa facilità di propaganda che ci impensierisce: questo periodico ritorno a sistemi, a ideologie di violenza, che non vogliamo e che non dobbiamo volere».
Ideologie di violenza che dobbiamo, a tutti i costi, sgominare.
Riferimenti bibliografici
Il brano in esergo è tratto dalla relazione «Dalla Resistenza alla Repubblica, alla Costituzione» tenuta da Parri il 26 giugno 1961 e pubblicata in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, vol. II, Feltrinelli, Milano 1962, p. 615, così come le due citazioni seguenti nel secondo capoverso (ivi, pp. 613-614) che evocano quelle qui in Il CLN e la guerra partigiana [infra, pp. 93 sgg.]; mentre la prima riflessione sulla sconfitta citata è in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Luigi Arbizzani, Alberto Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200.
Il testo dell’orazione funebre di Valiani si trova in Parri la religione laica del dovere. Testimonianze di Riccardo Bauer, Arturo Colombo, Giovanni Spadolini, Leo Valiani, in «Nuova Antologia», n. 2141, gennaio-marzo 1982, pp. 19-25 (il passo citato è a pp. 19-20). L’espressione «Tutti vanno pazzi per lui» è in Leo Valiani, Tutte le strade conduconoaRoma, introduzione di Claudio Pavone, il Mulino, Bologna 1995 (I ed. 1947), p. 104.
Il testo di Kant è ripreso da Immanuel Kant, Antologia degli scritti politici, selezione italiana di scritti a cura di Gennaro Sasso, il Mulino, Bologna 1961, pp. 47-55 (la citazione è a p. 47, i corsivi sono nel testo); le parole di Foucault sono in Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2017, p. 36 (ed. or. Le Gouvernement de soi et des autres, Seuil/Gallimard, Paris 2008); per Huizinga si veda Johan Huizinga, Nelle ombre del domani,a cura di Rodolfo Lancia, Aragno, Torino 2019, p. 3 (ed. or. In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd, H.T. Tjeenk Willink & Zoon, Haarlem 1935).
L’intervista di Ferruccio Parri ad Antonio Spinosa Solo una parte…, del dicembre 1957, è in «Resistenza», poi in Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 232-236 (i passi citati sono a p. 233 e a p. 234).
Il libro di Claudio Pavone cui si fa riferimento è Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. I testi di Parri del 1949 e del 1963 sono ricompresi in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 512-528 e pp. 530-534. Per una scelta dei testi di Claudio Pavone dedicati al tema della «continuità dello Stato» si veda il suo Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70 e sgg., nonché la bibliografia ivi citata.
Il saggio su Pisacane, lunga recensione alla monografia di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932, poi Einaudi 1980) è ora in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 74-98 (si veda anche Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi [1931], ora in Id., Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Einaudi, Torino 1973, pp. 511-525); il giudizio di Quazza su Parri è in Guido Quazza, Enzo Enriques Agnoletti, Giorgio Rochat, Giorgio Vaccarino, Enzo Collotti, Ferruccio Parri. Sessant’anni di storia italiana, introduzione di Luigi Anderlini, De Donato, Bari 1983, p. 43. Il riferimento a Gramsci è in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, p. 1816. Il riferimento a Edward Said è al suo Riflessioni sull’esilio, ora in Id., Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 216-231. Per Jean-Paul Sartre si veda Il diavolo e il buon Dio, Mondadori, Milano 1976 (ed. or. Le Diable et le Bon Dieu, Gallimard, Paris 1951); per Albert Camus, Il mito di Sisifo (ed. or. Le Mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942), in Id. Opere, Bompiani, Milano 2000, pp. 316-317.
Le ultime due citazioni sugli uomini della Resistenza e quelle sull’MSI sono in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Arbizzani, Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano cit., p. 205 e p. 214.
Gli otto scritti di Parri riprodotti nel volume sono ripresi da: Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 63-65, 132-142, 110-113, 566-576, 179-193, 576-582, 547-566, 582-588.
Salvo indicazione contraria, le note a piè di pagina sono presenti nell’edizione originale.
Disobbedire.
Lettera al Giudice istruttore di Savona (1927)
Nel dicembre 1926 con Carlo Rosselli, Italo Oxilia, Sandro Pertini e l’aiuto organizzativo di Adriano Olivetti, Ferruccio Parri prepara e realizza l’espatrio di Filippo Turati, con un motoscafo, da Savona a Calvi in Corsica. Mentre Turati, Pertini e Oxilia proseguono per Nizza, Parri e Rosselli, ritornati con il motoscafo a Marina di Carrara, vengono arrestati, nonostante tentino di sostenere di essere reduci da una gita di piacere.
La lettera al giudice di Ferruccio Parri, all’epoca trentasettenne, è datata 18 febbraio 1927 ed è la dichiarazione di assunzione di responsabilità per un atto, ma soprattutto per una decisione che voleva dire disobbedire, venire meno agli ordini del regime in cui ormai era permessa un’unica voce, quella del fascismo. Ma il documento non ha valore solo per questo. Parri insiste, nella sua lettera, sul dato generazionale, sul fatto che egli appartiene a una generazione che non si è «tirata indietro» quando era necessario (è per questo che richiama la sua partecipazione alla guerra). Il suo non è un «vezzo», anzi. È una rivendicazione con un preciso valore politico, perché proprio la sua biografia smentisce la propaganda del regime che si sta costruendo: l’idea che sia l’Italia dei «disfattisti», e dunque degli «antinazionali», ad essere antifascista. È la rivendicazione non solo di un passato, ma anche del diritto a un futuro che il fascismo crede tutto per sé.
Illustrissimo signor Giudice istruttore
La mia volontaria e meditata partecipazione all’espatrio clandestino dell’onorevole Turati è stata determinata – come già le dichiarai, signor Giudice – da moventi strettamente politici. I quali tuttavia dalla deposizione che ho già reso in sue mani – su questo punto necessariamente sommaria – non risultano con quella assoluta chiarezza che deve essere attributo e privilegio di un atto di così piena consapevolezza. Mi consenta pertanto, signor Giudice, di completare per questa parte le mie dichiarazioni.
Non mi hanno guidato ragioni di personale rancore verso il regime; non ambizioni o delusioni o vendette da soddisfare: insisto nel definire motivi strettamente secondari lo stesso sdegno del momento e la sollecitudine per l’uomo nobilissimo minacciato.
Mi onoro di aver servito in pace ed in guerra lo stato italiano con fedeltà ed abnegazione – cui non son mancati riconoscimenti ed elogi –; non ho mai seguito – come le dissi – movimenti di estrema; alieno in genere dalla vita politica, e per questo rimasto sempre estraneo ai partiti, nessuna responsabilità ho certo da rimproverarmi rispetto agli anni torbidi del dopoguerra.
Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’una perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista.
Né sono solo: il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di mille altri giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista. Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto ad erigersene giudici. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettissimo conto delle lacrime e dell’odio di cui gronda la sua storia, dei beni morali calpestati, della nazione lacerata.
Il regime li può colpire, perseguitare, disperdere ma non potrà mai aver ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale. Consapevoli custodi, alla loro coscienza è affidata per le speranze dell’avvenire la tradizione del passato.
Questa tradizione è nell’aspirazione, perenne nella nostra storia migliore, alla libertà ed alla giustizia, ragione ideale del nostro Risorgimento, ragione ideale domani ancora della nostra storia nella storia del mondo.
Chi, come il fascismo ha fatto, oblia e – cieco – rinnega questa eredità ideale, perduti insieme freno e timore, fatalmente degrada il suo dominio politico a sopraffazione: menzogna ed ipocrisia si fanno strumenti di governo e ragioni di corruzione e corrosione, cade ogni norma e limite di moralità pubblica, è consentita ogni offesa alla dignità personale, si disfrena, serva e padrona dei potenti, la bestialità umana.
Perché questa buia parentesi di cattività sia chiusa e espiata occorre che l’esperimento fascista, percorso tutto l’arco del suo sviluppo secondo la logica del suo impulso e del suo peso, abbia maturato nella coscienza del popolo tutti i suoi frutti amari e salutari, restituendogli ansiosa sete dei beni perduti, ferma volontà di riconquista e ferma volontà di difesa. Secondo Risorgimento di popolo – non più di avanguardie – che solo potrà riallacciare il passato all’avvenire.
È in noi la certezza che libertà e giustizia,idee inintelligibili e mute solo a tempi di supina servitù, ma non periture e non corruttibili perché radicate nel più intimo spirito dell’uomo, che questi due primi valori civili debbano immutabilmente sostanziare ogni sforzo di ascensione, di liberazione di classi e di popolo.
Nella fede in queste idee noi ci riconosciamo: nel dispregio di queste idee riconosciamo il fascismo.Contro le nostre persone esso ha bastone e manette, contro la nostra fede è inane. Non ha invero che i sofismi dei suoi retori e servi.
Esso ci bestemmia, ebbro, antinazione. Ma io, signor Giudice, che credevo al valore civile della storia nazionale che insegnavo in scuola, io, che nel 1915 ho inteso di combattere per la grandezza morale della patria e insieme per un’idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi.Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio.
Quando il novembre ha portato la totale sommersione di ogni traccia e modo, nonché di resistenza, di vita pubblica, nello sconforto e nell’accasciamento generale ho sentito degno e doveroso dar opera ad una protesta non sterile e non effimera, che rompendo il silenzio plumbeo fosse viva riaffermazione di fronte all’avvenire di un’Italia migliore. Protesta e riaffermazione che ormai potevano vivere solo oltre confine, mentre la paura del regime con la minaccia delle sue leggi pretendeva vietare ciò che la sua stessa violenza rendeva necessario. Leggi nate dalla paura e dalla violenza, senza radici perché nella coscienza civile, senza diritto quindi al rispetto, persuadenti anzi alla ribellione.
È da questa posizione di spirito, signor Giudice, che deriva il mio atto, è questa diretta e consapevole coerenza con il mio passato che gli conferisce – io credo – una significazione particolare.
Ho invero con l’onorevole Turati un legame che vince ogni diversità di origine ed ogni possibile discordanza del passato: un legame per oggi e per domani essenziale, quale è quello della devozione a quelle idee, dell’avversione a questo clima. L’onorevole Turati per l’altezza del suo animo e per l’onoranda dignità della sua vita poteva a buon diritto rappresentare, sopra ogni divisione e tendenza, di fronte alla civiltà europea, la condanna dell’ottenebramento italiano,la riaffermazione di quei principi ideali nei quali la storia moderna si riconosce, riaffermazione anche di un’Italia che sia patria libera ed equa a tutti gli italiani.
Nessuna jattanza e nessuna libidine di facile martirio da parte nostra.
Ma poiché ora la legge fascista ci chiama a rispondere del nostro atto, con orgoglio ne rivendichiamo la prima e più diretta responsabilità,con tanto più orgogliosa coscienza oggi che nulla più si oppone ai trionfatori; oggi che è pregio delle coscienze più diritte percuotere l’accidia e la ipocrisia della vita pubblica con l’esempio del sacrificio, se anche modesto; oggi che più bisogna sferzare la generale flaccidità e schiaffeggiare la viltà delle classi dirigenti con un esempio di fedeltà alle idee, oggi che è più veemente in noi di fronte all’orizzonte più chiuso la certezza dell’avvenire. Signor Giudice, la legge della fazione colpendoci ci onorerà.
Combattere.
Venti mesi di guerra partigiana (1945)
Testo del discorso tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 13 maggio 1945, nel corso di una manifestazione organizzata dal Partito d’Azione per presentare Parri e Leo Valiani, segretario del partito per l’Alta Italia, venuti a Roma in rappresentanza del Comitato Nazionale di Liberazione dell’Alta Italia (CLNAI). Oltre a Valiani ci sono anche il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL), e Luigi Longo, vicecomandante come «Maurizio» ed ex ispettore generale delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna.
Il discorso è forse il primo tentativo di «fare la storia» del movimento partigiano, e costituisce una rivelazione dell’«uomo Parri» (come si scrive già all’epoca), del suo profilo politico, del linguaggio concreto, diretto, non retorico, oltreché morale. L’idea, al contrario del Risorgimento, è che gli italiani c’erano e che dunque, attraverso la lotta di liberazione, si era essenzialmente tentato di «rifare l’Italia». Di rifarla con chi aveva dimostrato di prendere in mano il proprio destino, impegnandosi in prima persona. Dando forma, attraverso la decisione di combattere «per ricostruire», all’idea di «dovere civico» condiviso, e di una comunità inclusiva che possa guardare al futuro democratico all’orizzonte.
I morti ci comandano
Amici romani, il vostro è un applauso che mi mortifica, mortifica me e mortifica l’amico Valiani. Noi non siamo qui per cercare delle piccole gloriole in un momento in cui ci sono compiti così duri da risolvere. Il vostro applauso lo intendiamo rivolto non alle nostre persone così modeste che hanno il solo merito di aver saputo assumere la responsabilità di quanto facevano, ma ai nostri morti: sono essi che ci comandano e che ci comanderanno ancora nel nostro ulteriore cammino, e il vostro saluto lo intendiamo rivolto, oltre che a loro, ai nostri compagni del Nord, non solo a quelli del nostro partito, ma a tutti coloro che con noi hanno lottato anche fuori dai nostri quadri e che hanno combattuto con lo stesso valore e con lo stesso spirito.
In questo senso noi contraccambiamo questo saluto a voi, amici di Roma, che rappresentate, per noi che veniamo da Milano, un po’ tutta l’Italia. E per noi l’Italia è una sola; per noi non esiste un Nord e un Sud, siamo tutti italiani nello stesso modo e facciamo solo una distinzione fra gli italiani che vogliono la libertà e quelli che non la vogliono. Soltanto questo divide gli italiani. Ma se potessi è un abbraccio che vorrei portare da Milano fino all’ultimo compagno nostro in fondo alla Sicilia. Perché questa lotta per la libertà ha stabilito in Italia un’unità morale come non vi è mai stata dal nostro Risorgimento in avanti.
Gli amici di Roma mi hanno impegnato… a tradimento a raccontarvi qualche cosa del movimento della resistenza. Io non sono un uomo politico, non sono capace di arti oratorie e per la verità non so neppure parlare in pubblico, anche se questo è composto di amici sinceri come voi: parlare è per me un sacrificio e un vero e proprio tormento, un barbaro tormento anche perché penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta. Invece gli amici di qui mi dicono che voi non conoscete molto del movimento e della sua storia. E allora mi debbo arrendere al sacrificio che mi chiedete. Vi prego però di accontentarvi che vi faccia un piccolo, modesto rapporto di quanto è stato fatto. Questo rapporto sarà poco preciso perché non ho con me la documentazione necessaria per precisare con qualche cifra la misura dello sforzo compiuto e l’importanza dei risultati conseguiti.
Voi vivete da qualche tempo in un regime (come dire?) di inflazione declamatoria; e permettete allora che vi faccia un rapporto in uno stile da ragioniere, togliendo da esso tutto quanto possa sollecitare i vostri applausi.
Nascita del movimento partigiano
Immagino che voi possiate facilmente comprendere come sia nato il nostro movimento partigiano: nacque per germinazione spontanea nei giorni del collasso, dello sfacelo. Molti furono i soldati che allora si diedero alla macchia e ad essi si aggiunsero pochi ufficiali che avevano lo stesso spirito di indipendenza. A questi primi nuclei si sono aggiunti poi professionisti, studenti, operai spinti tutti dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare con le armi per lavare una vergogna, una vergogna nazionale. Si sono formate in questo modo le prime bande nelle valli alpine e si formarono i primi Comitati di liberazione nazionale che ebbero il loro punto di unione nel CLN di Milano: questo decise di darsi un ordinamento militare e un comando militare del quale feci parte anch’io.
La stessa cosa, in maniera forse meno programmatica, avvenne nelle altre regioni, soprattutto in Piemonte dove il movimento della resistenza prese subito un grande impulso e fu diretto con molto vigore.
Cominciarono subito i primi scontri. E i primi scontri sono stati atroci. Nella provincia di Cuneo si ebbero rappresaglie feroci. Nei tedeschi vi fu immediatamente il freddo, crudele proposito di estirpare sul nascere e dalle radici questo movimento partigiano. Nel Novarese, nel Bresciano, vi sono stati combattimenti accaniti, nei quali i nostri si sono portati generalmente bene e in alcuni punti molto bene. Avemmo perdite crudeli, ma acquistammo la convinzione che c’era in tutti una capacità combattiva ragguardevole e che il movimento insurrezionale, che si prevedeva immancabile, ci avrebbe trovato con le armi impugnate. Questa sensazione ci fece superare le prime incertezze e le grandi difficoltà incontrate e, passata questa prima fase di incertezze e di disorientamento, abbiamo cominciato il lavoro di organizzazione. Questo lavoro ha marciato piuttosto lentamente nell’inverno, per le difficoltà del soggiorno e della lotta sulle montagne. Non ci scoraggiammo e ci parve di aver raggiunto un risultato veramente notevole quando, nel febbraio ’44, potemmo annoverare circa novemila uomini raccolti in formazioni, per modo di dire, regolari. Da noi questi uomini erano male armati, meglio armati erano in Piemonte, dove i partigiani avevano potuto con maggiore facilità impadronirsi di armi. Ci pareva di avere già un esercito di una certa importanza, ma, passato l’inverno e divenuta più facile la vita dei partigiani nelle vallate, e avuti i primi lanci di armi e di equipaggiamenti dagli alleati, potemmo organizzarci meglio e le nostre file si accrebbero con rapidità.
Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col richiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l’afflusso di tanti nuovi elementi rappresentò per un certo tempo più un peso che una utilità. Disponemmo allora che si formassero nelle vallate dei campi di istruzione, ma questo nostro desiderio fu fortemente inceppato dal nemico che intensificò la lotta contro i partigiani. Fascisti e tedeschi, passato il primo momento di incertezza in cui non riuscivano ad afferrare il bandolo del movimento partigiano, si gettarono poi risolutamente alla offensiva con rastrellamenti su vasta scala e battute nelle montagne con reparti molto forti, provvisti di autoblinde e anche di cannoni. I risultati di queste offensive furono per noi disastrosi, ma il movimento partigiano era diventato ormai una specie di gramigna che non si sradica più: battuta una formazione in una zona, se ne riformava un’altra nella zona vicina e poco dopo risorgeva nella zona stessa ove prima era stata dispersa, tanto che nell’estate del ’44 potevamo contare su di un complesso di ottantamila partigiani raggruppati in bande che poi si accrebbero fino ad un massimo di centomila uomini un po’ meglio armati di prima. Le bande armate di montagna erano affiancate da formazioni territoriali di partigiani costituite nella pianura e sempre in aumento, tanto che nel colmo dell’estate raggiungemmo i duecentomila mobilitati cui si univano anche le formazioni cittadine.
Organizzazione militare del movimento partigiano
Eravamo intanto riusciti a dare una forma quasi regolare all’organizzazione militare. Il Comitato militare che si era costituito in un primo tempo fu da noi trasformato in Comando militare provvisto di regolari servizi: un ottimo servizio di informazioni degno di un esercito regolare, organizzato con grande ……….
…
BIOGRAFIA
Fu uno dei principali protagonisti dell’antifascismo in Italia. Rifiutata la tessera del PNF fu costretto a lasciare l’insegnamento e si dedicò subito all’attività di antifascista, per la quale fu più volte arrestato. Insieme ai Rosselli organizzò l’espatrio di Filippo Turati e Sandro Pertini. Negli anni Trenta mantenne i contatti con i gruppi antifascisti italiani che si erano formati in Francia, in particolare con Giustizia e Libertà. Dopo l’armistizio del 1943, con l’invasione dell’Italia da parte dei nazisti, fu uno dei capi e organizzatori della resistenza all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Diventò il leader del Partito d’Azione e nel 1945 fu Presidente del Consiglio. Il suo governo di unità nazionale però, lacerato dai contrasti tra partiti eterogenei, durò poco. Nel 1946 uscì dal Partito d’Azione e con La Malfa fondò il Partito della democrazia Repubblicana, che poi in seguito confluì nel Partito Repubblicano, e venne eletto come deputato nell’Assemblea Costituente. Fu senatore di diritto nella prima legislatura appoggiando il primo governo De Gasperi. Nel 1953 abbandonò il PRI, in contrasto con la decisione di votare la nuova legge elettorale definita poi “legge truffa”, e diede vita con Calamandrei al Movimento di Unità Popolare che, pur ottenendo un risultato elettorale deludente fu determinante per far mancare il quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Nel 1963 venne nominato senatore a vita.
Gramsci Antonio Jr.– La storia di una famiglia rivoluzionaria.
Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia.
Introduzione di Raul Mordenti-Non si può non concordare con Antonio Gramsci jr. quando afferma a proposito del suo libro: «Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé», cioè non solo come fonte per aspetti poco illuminati della vicenda biografica del massimo pensatore politico del Novecento italiano, suo nonno Antonio Gramsci.Questo giudizio dell’Autore sarà condiviso da qualsiasi lettore di questo libro, che è davvero più romanzesco di qualsiasi romanzo nel narrarci una storia familiare, cioè un concerto di tante storie personali intrecciate vitalmente fra loro sullo sfondo del «mondo grande e terribile, e complicato», (per usare le parole che il nonno del nostro Autore scrisse più volte a sua moglie).
Dall’introduzione di Raul Mordenti
[…] Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé. È la storia di quella parte dell’intelligencija russa di estrazione nobiliare che in nome della Rivoluzione rifiutò il proprio ceto di appartenenza e, prendendo le distanze dai «preconcetti» di classe, tentò di inserirsi nel nuovo sistema di valori. Ci sono stati casi simili nella storia russa, ma quasi tutti con esiti tragici. In questo senso, la storia della famiglia Schucht, sopravvissuta felicemente alle varie terribili fasi dell’epoca sovietica, costituisce un esempio unico. […]
Nonostante il libro tratti la storia della famiglia Schucht, al centro della narrazione, anche se a volte non manifestamente, c’è sempre la figura di mio nonno, Antonio Gramsci. Sono fermamente convinto che lo studio della sua opera e della sua vita, come del resto di altri grandi classici del marxismo, non è affatto anacronistico, anzi, penso che sia molto attuale e necessario proprio ora, quando sembra che i pilastri della civiltà occidentale stiano per crollare e quando dobbiamo ricevere risposte alle domande essenziali: chi siamo, in quale direzione ci muoviamo e per quali ideali viviamo.
(Dalla prefazione dell’autore)
Antonio Gramsci jr., è nato a Mosca nel 1965 da Giuliano, secondogenito di Antonio Gramsci, e Zinaida Brykova. Laureato in biologia, ha insegnato Morfologia, sistematica e ecologia delle piante presso l’Università pedagogica di Mosca. Ha ricevuto anche una formazione musicale: inizialmente dal padre – noto musicista e pedagogo, uno dei primi promotori della musica antica in Unione Sovietica – successivamente ai corsi di musica antica nell’istituto mu- sicale «Carta Melone» e percussioni etniche. Insegna alla scuola italiana a Mosca e partecipa a varie attività musicali suonando gli strumenti antichi a fiato e percussioni etniche in varie formazioni di Mosca: «Volkonsky consort», «La Campanella», «La Spiritata», «Al-Mental» e altri. Dirige la scuola di percussioni etniche, «UniverDrums» presso l’Università Statale di Mosca e presso il laboratorio di musica elettronico-acustica del Conservatorio di Mosca, effettua ricerche sugli aspetti matematici del ritmo.
In collaborazione con la Fondazione Istituto Gramsci ha effettuato ricerche sulla storia del Pci negli anni Venti e sulla famiglia del nonno. Nell’Archivio del Comintern e in quello della famiglia Schucht ha rinvenuto molti documenti importanti che hanno contribuito a colmare lacune sia nella storia del Pci, sia nella biografia di Antonio Gramsci.
Nel 2007-2008 ha collaborato a l’Unità. Ha scritto La Russia di mio nonno. L’album familiare degli Schucht, pubblicata dall’Unità nel 2008 e nel 2010 è uscito presso Il Riformista il libro I miei nonni nella rivoluzione. Gli Schucht e Gramsci.
Editori Riuniti -Roma
La storia di una famiglia rivoluzionaria. Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia
Autore: Gramsci Antonio Jr.
ISBN13: 9788864731278
Anno pubblicazione: 2014
€18.90 €19.90
Antonio Gramsci nacque ad Ales il 22 gennaio 1891 da Francesco Gramsci (1860-1937), i cui avi erano di origine arbëreshë, e da Giuseppina Marcias (1861-1932), di lontana ascendenza ispanica. I due si conobbero a Ghilarza, si sposarono nel 1883 e dopo un anno nacque il primogenito Gennaro; poi la famiglia si trasferì ad Ales dove Giuseppina Marcias diede alla luce Grazietta (1887-1962), Emma (1889-1920) e Antonio. Nell’autunno del 1891 il padre divenne responsabile dell’Ufficio del Registro di Sòrgono e i Gramsci traslocarono nel paese che era centro amministrativo della Barbagia Mandrolisai;[3] qui nacquero altri tre figli: Mario (1893-1945), Teresina (1895-1976) e Carlo (1897-1968).[4] Infine la famiglia rientrò a Ghilarza nel 1898 e lì fissò la dimora definitiva.[5]
Il piccolo Antonio aveva solo diciotto mesi quando sulla sua schiena si manifestarono i segnali del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che causa il cedimento della spina dorsale e la comparsa della gobba. Ma la famiglia scelse di rifugiarsi nella superstizione, rifiutando di affidarsi alla medicina che, con una diagnosi tempestiva e un intervento chirurgico, avrebbe evitato che gli effetti della malattia provocassero danni permanenti allo scheletro e a tutto l’organismo.[6] All’età di quattro anni, Antonio per tre giorni di seguito soffrì di emorragie associate a convulsioni; secondo i medici tali avvisaglie avrebbero portato a un esito fatale, tanto che vennero comperati una piccola cassa da morto e un abito per la sepoltura.[7]
ROMA- Apre al pubblico il sito archeologico scoperto sulla via Cassia
Roma, sulla Via Cassia nuovo sito archeologico-Un nuovo tassello si aggiunge al ricco patrimonio archeologico di Roma. La Soprintendenza, in collaborazione con Eos Arc, inaugura un percorso di visita all’interno di un complesso archeologico di straordinario interesse, scoperto lungo la via Cassia tra il 2020 e il 2022, nel territorio dell’antica città di Veio, cuore dell’Etruria meridionale.
L’iniziativa, rivolta a tutti gli appassionati di storia e archeologia, si inserisce in un più ampio progetto di valorizzazione del territorio e di promozione della cultura. Il sito è stato organizzato per permettere una fruizione continua, con un percorso pedonale che si snoda tra una tomba a camera etrusca, un’antica strada lastricata e una rete di gallerie idriche ipogee. “La Soprintendenza non si occupa solo del centro storico e dei grandi complessi,” spiega Daniela Porro Soprintendente speciale di Roma, “ma tutela anche le scoperte archeologiche in zone decentrate, mantenendo vivo il legame con la comunità.” Questa iniziativa valorizza così l’identità storica del territorio e restituisce alla cittadinanza una parte significativa della propria storia.
La collina della Via Cassia era abitata sin dal VII secolo a.C., come dimostrano i ritrovamenti di una ricca tomba etrusca con oltre 60 vasi cerimoniali, che riflettono il legame di questa zona con la potente città etrusca di Veio. L’area divenne poi parte del suburbio romano, e nei primi secoli dell’Impero fu costruita una strada basolata, che ancora oggi testimonia l’importanza strategica del sito. In epoca tardo repubblicana, la collina ospitava un grande complesso produttivo, i cui resti rivelano un’articolazione planimetrica dettagliata con torchi e canalette. Con il tempo, la struttura si ampliò fino a diventare una villa rustica in epoca imperiale, fulcro dell’economia agricola romana. Uno degli elementi più affascinanti del sito è il complesso sistema idrico, composto da gallerie ipogee e una cisterna per alimentare un impianto termale. Questo sistema, ancora leggibile grazie alle tracce dei canali, testimonia l’ingegneria romana dedicata al benessere e alla memoria degli abitanti. Il sito include anche nuclei di sepolture lungo la strada basolata, per lo più tombe a cappuccina e un piccolo edificio trasformato nel II secolo d.C. in sepolcro, con loculi che tagliano il pavimento originario. Durante la visita, i partecipanti potranno usufruire di un video che documenta lo scavo archeologico, i ritrovamenti e i lavori di valorizzazione. Pannelli informativi, collocati lungo il percorso, illustrano la storia del sito, dalla fase etrusca alla presenza romana, con uno sguardo alla fiorente attività produttiva dell’epoca imperiale.
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