Poesie inedite di Martina Maria Maria Mancassola pubblicate dal blog L’Altrove
Martina Maria Mancassola è una scrittrice, poetessa e operatrice certificata di scrittura terapeutica, oltre che insegnante di Yoga Nidra e facilitatrice di mindfulness. La sua scrittura esplora l’introspezione emotiva, la ricerca interiore e la bellezza nascosta nei dettagli quotidiani, utilizzando un linguaggio evocativo e metafore potenti. Ha pubblicato Diario delle Fragilità con New Book Edizioni (2024) e le sue poesie sono apparse su Bottega della poesia – La Repubblica di Bari, L’incendiario, e L’Altrove. Martina è anche la creatrice del podcast “A Cuore Aperto” su Spotify e gestisce il canale YouTube “Yoga con Martina”, dove condivide pratiche di Yoga Nidra e meditazione, aiutando le persone a trovare equilibrio e consapevolezza interiore.
Martina Maria Mancassola
Quando inizio a danzare
Sposto il mondo di un centimetro
In là
Tu vieni vicino
E mi tendi la mano
Ma io cerco – nelle mani di un uomo –
La verità
Una storia mai narrata a nessuno
Una virgola che cambia senso alla frase
Un verbo infinito entro cui stare
Senza dover sottostare a coniugazioni
Che trasformano i miei confini in limiti
E i tuoi occhi in diavoli
Voglio poter ballare nelle tue mani
Sopra il tuo corpo
Sentirmi cielo che non scompare
All’orizzonte
Essere pioggia che cade
Nella notte
E bagna chi incontra
Mescolarmi al passato della gente
Camminare sul profilo delle montagne
Entrare nei boschi a cercare gemme
O stelle
Addormentarmi nella rugiada dell’erba
E quando avrò fatto tutto questo
Ripartirò
Perché chi non vuole ricominciare
Perde tutte le vite che non ha.
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Se saprai abbracciarmi
Senza schiacciarmi
Sfiorarmi senza toccarmi
Le nostre anime riveleranno
L’una all’altra
Le forme di chi siamo stati
Prima di noi
Tu lo sai che chi incontriamo
Cambia il nostro dna
In una parte così infinitesimale
Che gli scienziati non se ne sono accorti
Ma io si
Perché quando ti ho toccato
Non ero più
Sono diventata il tempo che cambia
Che ha aspettato me.
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Mi troverai dietro un’ombra che balla
O forse dietro una porta
Sempre occupata a nascondermi
Perché la vita non mi colpisca
Arriverai per amarmi
O per ferirmi?
Non sono un pezzo di pane
Che spezzi, mangi o butti via
Sono un bocciolo in fioritura
E ho bisogno di luce
Ancor di più di vento dell’est
Che mi porti al mare
Per trasformarmi in una barca
E imparare a nuotare
Mi tufferò per raccogliere perle
Da portare alla donna del mare
Che vive contando conchiglie
E costruendo nuovi mari sul fondale
Mi chiederà di restare
Tu puoi diventare amore e arrivare
E se non verrai
Sarò la fanciulla del regno
Senza qualcuno da amare.
Biografia-Sono Martina Maria Mancassola, ho 28 anni e vivo a Verona.
Sono laureata in giurisprudenza con 110/110 ed attualmente sono specializzanda presso la Scuola di Specializzazione Per Le Professioni Legali delle Università di Verona e Trento. Nel 2009 ho conseguito il diploma di quinto anno di pianoforte e triennale di solfeggio presso il Conservatorio Dall’Abaco di Verona.
Nel tempo libero curo i miei due blog letterari – su Instagram @jane_austen_92 e @stoleggendo.mancassolamartina – in cui diffondo le mie poesie del cuore, i passaggi di classici e contemporanei che hanno rappresentato per me occasione di riflessione e di crescita.
Ho un grandissimo difetto: non smetto mai di acquistare libri! Mi perdo nelle librerie della città e nei mercatini dell’usato, in cui trovo sempre una vecchia edizione da custodire ed abbracciare. Amo sognare e leggendo libri ho vissuto tantissime altre vite!
Sono follemente innamorata del Sud Italia ed appena posso mi reco da nonna a Catanzaro Lido per ritrovare la pace contemplando il mare ed ammirando il volo dei gabbiani.
Il mezzo attraverso cui esprimo pienamente me stessa è la scrittura. Ho pubblicato varie raccolte di poesia e brevi scritti in prosa. Amo le parole perché nulla chiedono e tutto donano!
Amo la musica, i miei cantautori del cuore sono De André e Guccini. Ammiro e ricerco l’arte in tutte le sue forme, che sia pittura, scultura o letteratura.
D’estate lavoro come corifea – comparsa donna – presso la Fondazione Arena di Verona; l’opera lirica è un’altra mia grande passione.
Organizzo gruppi di lettura mensili tramite il mio canale Telegram Gruppo di lettura con Jane, sono green friendly, amo viaggiare, camminare in mezzo alla natura e meditare… il resto lo scoprirete curiosando nei miei blog
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Dalila e Daniela, le fondatrici.
Per informazioni: laltrovepoet@outlook.it
La British School at Rome è lieta di presentare Spring Open Studios 2025
La British School at Rome è lieta di presentare Spring Open Studios 2025, un evento dedicato alle visite agli studi dellə artistə in residenza presso la BSR.
Lɜ artistɜ saranno presenti con alcune delle loro opere e risponderanno alle domande del pubblico, condividendo la loro ricerca: Catherine Ferguson – Abbey Fellow, Can Gun – Abbey Scholar, Abigail Hampsey – Rebecca Scott Rome Resident, Sophio Medoidze – Sainsbury Scholar, Laura Ní Fhlaibhín – Derek Hill Foundation Fellow, Cathie Pilkington – Bridget Riley Fellow, Ash Tower – Samstag Scholar in the Visual Arts.
Spring Open Studios 2025 sarà un’occasione per mettere in luce alcuni aspetti della ricerca che sta alla base del lavoro dellɜ artistɜ, tra cui Morandi e il Barocco; l’esplorazione degli approcci visivi utilizzati nella rappresentazione del paesaggio, sia fittizio che geografico; l’indagine sulla malattia che mette a rischio la vita dei pini domestici di Roma; l’esplorazione grafica della tensione tra oggetto e immagine nella scultura a rilievo; la sceneggiatura di un film dedicato a Medea; lo studio delle carestie in Italia in epoca moderna e il loro rapporto con il folklore e la fantasia; l’interdipendenza degli atteggiamenti britannici e italiani nei confronti dell’immigrazione.
L’evento rappresenta un modo diverso di vivere la ricerca in corso, che mira a dare al pubblico una visione più ampia del lavoro dellə artistə, a scoprire i loro progetti di residenza, le loro pratiche creative e, soprattutto, a capire come un nuovo ambiente, gli incontri e la rete con la comunità artistica locale, possano dare origine a nuove sperimentazioni.
Elizabeth Jane Howard-la vita , gli amori e le lettere-
Pubblichiamo il ritratto del Guardian di Elizabeth Jane Howard, la scrittrice di cui abbiamo pubblicato Il lungo sguardo e stiamo pubblicando la saga dei Cazalet.
Famosa e bella, si sposò giovane e, dopo una serie di tresche amorose, abbandonò il primo marito e la figlia per diventare una scrittrice. Sposò successivamente Kingsley Amis e, fino al loro rancoroso divorzio, la vita domestica ha adombrato la sua opera. Alle soglie degli ottanta ha pubblicato una candida autobiografia.
Elizabeth Jane Howard
Elizabeth Jane Howard incappò nella sua bellezza come in una favola, aveva diciotto anni e risiedeva in una sontuosa casa nel Sussex: «Il calzolaio lavorava in una piccola capanna alla fine del villaggio. Era un uomo dall’aspetto gentile e tragico e molto bravo nel suo lavoro. Era sordo e ritardato, ma sapeva leggere e scrivere, e aveva una lavagna sulla quale ognuno scriveva i propri ordini…
I nostri sorrisi quel mattino si erano allargati a mo’ di saluto, e scrissi ciò di cui avevo bisogno – nuove suole e tacchi – sulla sua lavagna. Si rigirò le mie scarpe tra le mani con uno sguardo assente – non le stava guardando realmente – afferrò la lavagna all’improvviso, vi scrisse furiosamente, e me la spinse tra le mani. Si leggeva: “Tu amorevole ragazza come principessa, me piacere sposare te”. Poi ci fu una pausa, e “?”.
Alzai lo sguardo, il suo volto riluceva di propositi. Mi mise la penna tra le mani e ripulì attentamente la lavagna per la mia risposta. Scrissi: “Tu molto gentile. Non posso sposare nessuno devo imparare a battere a macchina per la guerra”. Lesse, e il suo volto cambiò lentamente, come il sole che tramonta. Alzò le spalle con dolcezza e scrisse, “Martedì. 12s 6d non farti bombardare”.
“Grazie, cercherò di non farmi bombardare”. Sorrise con una profonda tristezza e sotto la mia risposta scrisse “Arrivederci Arrivederci”, e sottolineai le parole sulla lavagna per salutarlo».
La storia è presa dall’autobiografia, Slipstream. Poco dopo l’incontro con il calzolaio, Howard venne sedotta dall’ammaliante Peter Scott, ufficiale su una nave militare nel Canale della Manica, figlio dell’esploratore polare Robert Falcon Scott, che era morto nell’Antartico nel 1912
Lavorò per poco tempo come attrice in teatri di provincia; rimase comunque un’ingenua. La figura della bella e giovane ragazza ammirata per tutto eccetto le sue reali virtù ricorre spesso nei dodici romanzi di Howard. In Slipstream si capisce quanto di autobiografico ci fosse, sebbene i personaggi nell’autobiografia siano meno vivi di quelli presenti nei suoi romanzi.
Elizabeth Jane Howardby Madame Yevonde, bromide print on velvet card mount, January 1967
Elizabeth Jane Howard, meglio nota come Jane, nacque nel 1923, la più grande dei figli di David Howard, il quale giocava a fare il mercante di legname con molto meno entusiasmo di quando sparava, danzava e faceva la corte alle donne; e Kit, nata Somervell, figlia di un compositore, la quale per il matrimonio rinunciò alla sua carriera di ballerina nel Ballet Rambert, senza riuscire a trovare nulla con cui sostituirla.
David Howard venne arruolato nel Corpo dei Mitraglieri nel 1914, diciassettenne, e sopravvisse quattro anni sul fronte occidentale. Raccontò a sua figlia che vinse la sua seconda croce militare urinando su una mitragliatrice per raffreddarla cosicché potesse continuare a sparare. Della sua esperienza militare, altrimenti, non parlò mai.
Dirigeva l’azienda di legname di famiglia, sebbene non sia particolarmente esatto dire che lui o suo fratello vi lavorassero per davvero: «Erano molto affermati e godevano di buona reputazione, ma non sapevano gestire i soldi», dice Howard.
«Si divertivano un mondo. Tutti avevano qualcosa da fare, così loro facevano questo». Suo padre si faceva accompagnare in auto in ufficio tutte le mattine durante la depressione degli anni Trenta, quando si poteva parcheggiare ovunque in Piccadilly. Ballare, andare alle feste e le donne, che cadevano ai suoi piedi a frotte, era tutto ciò che amava.
Alla fine, al termine della seconda guerra mondiale, un’amante lo accalappiò definitivamente. Divorziò – la prima volta che accadeva nella famiglia Howard – e si risposò; la nuova matrigna si impegnò con solerzia nel separare il marito dai figli.
Difficile trovare qualcuno che parli bene della madre di Jane Howard, Kit, la prima ballerina abbandonata in maniera umiliante da suo marito. Martin Amis, il figlioccio di Howard, ricordava Kit alla fine della sua vita come «una snob e una brontolona», specialmente nei confronti del «dolce» Colin, il figlio che ora progetta e produce altoparlanti hi-fi.
Elizabeth Jane Howard
Nonostante a Colin Howard non piaccia questa descrizione di Kit, dice: «È piuttosto ovvio che la mamma preferisse i figli maschi [ce n’era anche un altro, Robin], e non riuscisse a veder nulla di buono in Jane. Una volta, dopo aver letto uno dei romanzi di Jane, dissi: “Credo che scriva in maniera davvero meravigliosa”, e la mamma rispose: “Peccato che non abbia nulla di cui scrivere”. E so che se io avessi scritto qualunque cosa che fosse stata anche solo buona la metà, si sarebbe sperticata in elogi imbarazzanti».
Anche il pittore Sargy Mann, un amico di lunga data di Jane e Colin, ritiene che l’atteggiamento di Kit abbia prodotto danni permanenti. «In un certo senso Jane è sempre alla ricerca di qualcosa di irraggiungibile. Credo sia l’amore materno, in realtà».
Kit Howard diede a sua figlia due consigli brutalmente inutili: «Non rifiutare mai tuo marito – comunque tu ti senta», e «le persone come noi non fanno scene né rumore quando partoriscono».
Questo non preparò Jane al matrimonio con il talentuoso, onesto e ammaliante Peter Scott. Lei aveva diciannove anni, lui trentadue, e lei presto scoprì di non amarlo. L’intimità con le donne non era il suo forte, sebbene non avesse problemi nel sedurle. Lei era sola, era una spendacciona ed era oppressa dall’intelligenza e dal carattere dominante della suocera, la scultrice Kathleen Scott, che aveva sposato Lord Kennet dopo che il suo primo marito era deceduto.
Howard non poteva fare a meno di tradire, e cominciò con il fratellastro di Peter Scott. Nel giro di cinque anni il matrimonio si era arenato nelle latitudini antartiche della gentilezza distaccata. Nel 1947 lasciò Scott e la figlia neonata Nicola per diventare una scrittrice. Si trasferì in un scalcinato appartamento del XVIII secolo dalle parti di Baker Street: «Ricordo la mia prima notte passata là, una lampadina senza plafoniera sul soffitto, il pavimento di legno pieno di chiodi minacciosi, la decadenza che si respirava sotto l’odore della vernice umida e la spiacevole sensazione che fosse tutto lurido a eccezione della mia camicia da notte. Soprattutto mi sentivo sola, e l’unica cosa di cui ero certa era che volevo scrivere».
Nonostante la povertà, lo scoramento, e quella che sembrava una successione senza fine di uomini intelligenti che ritenevano il suo talento assai meno interessante del loro, ebbe successo. Martin Amis scrisse nella sua autobiografia, Esperienza che: «Lei è, assieme a Iris Murdoch, la più interessante scrittrice della sua generazione. Un’istintiva, come Muriel Spark, il suo sguardo è poetico e bizzarro, e ha una saggezza penetrante».
Elizabeth Jane Howard
Nel 1950 pubblicò il suo primo romanzo, The Beautiful Visit. Era diverso, energico e incredibilmente sensuale: è sempre stata una scrittrice per cui odori e sapori erano di grande importanza. Jonathan Cape, che lo pubblicò, la inseguì attorno al tavolo della sala riunioni dopo averle accordato 50 sterline di anticipo.
L’anno seguente vinse il premio John Llewellyn Rhys per il miglior romanzo scritto da un’under 30. Cape provò a reclamare un 10% in quanto agente ma lei lo stroncò. Era diventata una professionista, ma per la stragrande maggioranza dei dieci anni successivi non riuscì a guadagnarsi da vivere con i suoi romanzi, per quanto venissero lodati.
I soldi della famiglia Howard non sopravvissero per molto al padre. L’azienda di legname fallì durante la generazione di Howard, quando Robin ebbe la sfortuna di dirigerla dopo che lo zio e il padre l’avevano depredata. La residenza venne venduta e i mobili andarono dispersi. Howard possiede ancora una ciocca di capelli di Mozart, un cimelio di famiglia della madre, ma è pressoché tutto ciò che è sopravvissuto dei fasti della sua infanzia.
Durante gli anni Cinquanta Howard visse separata dalla figlia. Nicola, ora Nicola Starks, disegnatrice di gioielli, dice di non essersi mai opposta a questa disposizione: «Lei era semplicemente una bellissima estranea che di tanto in tanto veniva a farmi visita».
Come gran parte dei bambini del suo rango, i legami emotivi più stretti Nicola li aveva con la bambinaia, con la quale viveva e che condivideva con la famiglia di Josie Baird, una cugina di uno degli amanti sposati di Howard, che aveva quattro bambini e una casa spaziosa nei pressi di Regents’ Park.
Questa sistemazione era molto comoda, ma dopo che Peter Scott si risposò e Nicola andò a vivere con la sua nuova matrigna, Josie Baird si ammalò gravemente di tbc e Howard cominciò ad andare a trovarla in ospedale.
«Era incredibilmente fantasiosa, mi dava un grande sostegno ed era estremamente affidabile», afferma la Baird. «Le sono ancora grata da allora. Ha la grandiosa qualità dell’empatia».
Negli anni Cinquanta gli uomini si mettevano in fila per Howard. Baird racconta: «Ricordo quanto fosse bella. Aveva una linea perfetta e si vestiva sempre con degli ottimi colori. Aveva gusti interessanti, ma non infallibili. Non tutti gli uomini ne erano attratti, ma chi ne era affascinato la trovava molto attraente».
In Slipstream Howard racconta di come Arthur Koestler le chiese a pochi giorni dal loro primo incontro di sposarlo, poi la costrinse a rimanere incinta e abortire, e dopodiché la scaricò. Cecil Day Lewis non permise che il proprio matrimonio con l’amica di lei, Jill Balcon, lo trattenesse, sebbene Howard fosse affranta dal senso di colpa, e mise fine alla tresca non appena poté.
Lewis fece da madrina a uno dei bambini nati dal matrimonio, Tamasin Day Lewis, autrice di libri di cucina, che per un certo periodo fu anche la fidanzata di Martin Amis. Laurie Lee portò Howard in Spagna per farla riprendere da un’infelice storia di amore. Come la prese sua moglie?
Howard dice: «Penso che a Kathy probabilmente dispiacesse essere lasciata a casa. Sapeva che eravamo amanti. Eravamo tutti amici; e lo siamo sempre stati. Laurie la tradiva costantemente. Ma penso che lei riconoscesse, come molte altre persone, che non era quella la cosa più importante in un matrimonio. Nemmeno io penso che lo sia. Ciò che importa è quello che hai con l’altra persona, non quello che non hai. Credo abbia passato dei momenti piuttosto difficili, come la stragrande maggioranza delle persone che sposano un artista. So che a Mr Blair non piacerebbe quello che sto per dire, ma gli artisti non sono come le altre persone. Alle altre persone piace pensare di venire per prime, e quando si ha a che fare con un artista non è più così».
Nel 1956 pubblicò Il lungo sguardo, una riflessione su un matrimonio raccontato a ritroso. La scrittrice Angela Lambert dice: «Non capirò mai perché Il lungo sguardo non venga riconosciuto come uno dei grandi romanzi del XX secolo. Credo che mai nessuno sia riuscito a esprimere con tanta delicatezza il modo in cui la bellezza giovanile sia stata dominata e sfruttata. Ha un’intelligenza meravigliosa – sottile e dolorosa».
Alla fine degli anni Cinquanta Howard imparò, dice, a lavorare in maniera adeguata, nonostante le brevi avventure con Cyril Connolly e Kenneth Tynan: «Con i libri mi capita di soffrire terribili ansie quando sento che non sono per niente buoni. Ma non sono molto brava a giudicare. Penso che ormai sia probabilmente un po’ tardi per imparare, ho quasi ottant’anni. Mi sento molto ignorante. Ci sono un sacco di cose che non so fare, e di cui non so nulla. Mi sarebbe piaciuto davvero molto andare all’università e frequentare un corso di letteratura inglese. Leggo forsennatamente per recuperare, ma ancora non sono erudita nel modo in cui lo è il mio figlioccio. Da questo deriva una maggiore facilità nell’esprimersi. Non ho scritto saggi per altri e non mi è mai stato detto di fare questo o quello, e credo che sarebbe stato ottimo per me».
Come parte integrante di questo spirito di auto-miglioramento, decise di smettere di fare l’amante, e rimase sposata per un po’ di tempo con Jim Douglas Henry, un futuro scrittore di storie dell’orrore di successo.
Kingsley Amis and Elizabeth Jane Howard
Scrisse The Sea Change, forse il suo romanzo meno soddisfacente, che tratta della trasformazione e della redenzione di una vecchia e ricca coppia rovinata dall’accumularsi di una serie di disgrazie; iniziò a lavorare a After Julius, un romanzo sul coraggio, il dovere e l’amore; e le venne chiesto un aiuto nell’organizzare il Cheltenham Literary Festival del 1962.
Con Joseph Heller, Carson McCullers e il romanziere francese Romain Gary organizzò un dibattito su sesso e letteratura. Altri organizzatori aggiunsero Kingsley Amis, che lei accettò dopo feroci proteste. Arrivò con la moglie, Hilly, che se ne andò a dormire presto, e lui rimase alzato a parlare e bere con Howard, all’inizio per dovere sociale, fino alle quattro del mattino. La loro unione divenne ufficiale in inverno: Tom Maschler, l’editore, affittò loro la casa. Martin Amis, in Esperienza, raccontò come la sua innocenza infantile ebbe fine quando la nonna gallese gli disse: «Tuo padre ha un’amichetta a Londra».
Kingsley Amis scriveva poesie nelle quali Howard veniva descritta come una principessa delle favole, e raffinate lettere d’amore. Alcune delle lettere che lei indirizzò a lui finirono nelle mani di Hilly, la quale le passò a un avvocato. Nessuno tuttavia sembrava aspettarsi una loro fuga.
Amis era stato un adultero straordinariamente vigoroso e creativo per gran parte del suo matrimonio. Hilly aveva contraccambiato a sua volta con amori extraconiugali. Ma avevano tre bambini e stavano programmando di passare un anno a Maiorca, vicino a Robert Graves.
Il matrimonio sembrava poter reggere. Amis si sentì autorizzato a passare tre settimane con Howard in Spagna prima che la famiglia si trasferisse. Quando la coppia ritornò, lui rimase di stucco nello scoprire che la casa di famiglia a Cambridge era deserta. Hilly aveva portato i figli a Maiorca senza di lui. Così Amis si trasferì con Howard e si sposarono nel 1965. I primi anni furono meravigliosamente felici.
«Per molto tempo in casa c’è stata quella confidenza e liberalità spiritosa che si raduna attorno a un matrimonio vivace», ha scritto Martin Amis in Esperienza. Il suo incontro con l’amichetta non era stato di buon auspicio: un paio di settimane dopo la separazione della famiglia, quando i due amanti vivevano ancora in un appartamento in affitto a Baker Street, lui e il fratello Philip arrivarono a mezzanotte.
Gli adulti non avevano sospettato niente finché il campanello non suonò; ai bambini non era stato detto che il padre condivideva un appartamento con una donna. Comparve dietro di lui nell’ingresso, in vestaglia da notte con i capelli fino alla vita, intenta a cucinare uova e pancetta.
Da quel momento il suo impegno da matrigna non diminuì. Riconobbe l’intelligenza di Martin e si assicurò che la mettesse a frutto. Parla con affetto e rispetto del suo carattere come della sua scrittura. Una sera dei primi tempi, quando se ne stava «stravaccato con la delusione dipinta in faccia, trasudando noia da ogni poro, gli chiesi cosa avrebbe voluto fare da grande».
“Lo scrittore”, rispose. “Tu, lo scrittore? Ma se non hai mai letto nulla”. Mi guardò e disse: “Dammi un libro allora”».
Lei ritenne che fosse una risposta intelligente e raffinata e gli diede Orgoglio e pregiudizio. Nel giro di un’ora trepidava per sapere la fine. Lei si rifiutò di dirglielo e lui lo lesse tutto. Lo iscrisse in un istituto per la preparazione agli esami nel Sussex, assicurando il preside che si trattava di uno studente che aveva le potenzialità per accedere a Oxford, ed in effetti si rivelò tale.
«Jane fu una matrigna strepitosa», scrisse lui successivamente. «Era generosa, calorosa, e piena di risorse; salvò la mia istruzione e per questo nessuno sa quanto le sia debitore.»
Elizabeth Jane Howardby Francis Goodman, 2 1/4 inch square film negative, 1966
Nel 1969, gli Amis comprarono Lemmons, una casa in stile Re Giorgio che occupava tre acri nella periferia settentrionale di Londra. Dava rifugio a uno scombinato assortimento di familiari e amici: Kit Howard visse lì fino a quando morì nel 1971; Colin condivise l’abitazione per otto anni.
Anche al suo amico, il pittore Sargy Mann, venne data una parte della casa fino a quando non se ne andò per sposarsi con un’altra pittrice, Frances Carey. Cecil Day Lewis si trasferì lì per morire quando ormai non c’era più molto da fare per il suo cancro, e scrisse la sua ultima poesia celebrando la casa e i suoi abitanti.
Tutto lo splendore bohémien ruotava attorno a Kingsley. «Credo fosse meraviglioso per tutti eccetto che per Jane», dice Sargy Mann. Howard si ritrovò a cucinare e gestire una casa abitata da otto o più persone, scrivendo sempre meno.
Racconta: «Lavoravo molto poco con Kingsley. Semplicemente non ne avevo l’energia. Non mi sentivo affatto apprezzata, non da Kingsley: lui era sempre gentile e rispettava il mio lavoro, ma non pensava a quanto fosse difficile cucinare per otto persone e fare la spesa e i vari tragitti in auto e i conti e scrivere le lettere e scrivere. Lui si svegliava e scriveva. Poi pranzava, faceva una passeggiata o un riposino, e poi scriveva di nuovo».
Lentamente, il castello delle fiabe si trasformò, fino a che la principessa non assomigliò a una strega, e il principe che l’aveva salvata si rivelò orchesco. Sargy Mann racconta: «Non mi piace ammetterlo ma una delle ragioni per le quali non aiutai di più Jane è che ero troppo occupato a stare al fianco destro di Kingsley. Dovevi adularlo. E se era di buon umore, andava alla grande. È facile fare cattiva pubblicità a Kingsley perché per molti versi era uno stronzo, ma per molti altri era straordinario».
Verso la metà degli anni Settanta, ha detto Howard, l’alcol o l’età avevano eroso l’abilità di Amis a letto. Lei si risentì e lui si risentì del suo risentimento. Se lei non scriveva nulla di letterario, lui scriveva romanzi amareggiati per sbarazzarsi di lei nell’immaginazione – La rinuncia di Jake e Stanley and the Women.
Lei li trovò così dolorosi che non lesse nessuno dei suoi lavori successivi, come Vecchi diavoli. Un volume di sue poesie era poggiato nello studio di Howard quando venne fotografata recentemente, ma i lavori da lei preferiti sono oggi pressoché dimenticati.
«Quando stava esplorando la narrativa di genere, in un certo senso gli si addiceva di più. Non li apprezzo. Quelli brutti sono davvero brutti, sinceramente, ma, in tutti ci sono sempre delle briciole di meraviglia.
Modificazione H.A. (un romanzo di fantascienza) è un libro notevole. E penso che sia un libro notevole anche Ending Up. Anche L’uomo verde è molto buono».
Più d’ogni altra cosa lei disprezza l’idea di un romanzo comico: «I romanzi migliori hanno della comicità; in Jane Austen ci sono dei momenti, situazioni, personaggi e dialoghi molto, molto divertenti. Ma i suoi non sono romanzi comici. Penso che le commedie migliori provengano da persone molto depresse, persone molto tristi, con un’acuta consapevolezza della morte e della sofferenza, che usano per farti ridere.
Mi sorprende sempre quanto raramente il loro pubblico se ne renda conto».
Nel 1975 il gruppo di Lemmons si separò, e gli Amis si traferirono a Hampstead, dove non c’era spazio per la famiglia allargata, né per il fiorente rancore. Nel 1980, Howard infine lasciò Kingsley con la lettera di un avvocato inviata da un centro termale dove si era ritirata per una settimana con un manoscritto, scritto per un quarto, intitolato Getting it Right.
Lei si offrì di tornare se lui avesse smesso di bere, ma non era una cosa su cui lui si sarebbe accordato. Lui guadagnava circa 80.000 sterline l’anno, lei meno di un decimo, sebbene avesse comprato la casa a Hampstead. Getting it Right era stato accolto candidamente ma l’aiutò ben poco a rifinanziare le sue fortune.
Racconta: «Meno i miei libri vendevano meglio erano accolti, ma non appena cominciai a vendere passai immediatamente di moda». Nel 1982, su consiglio di Martin Amis, cominciò a lavorare a una serie di romanzi, ispirati all’esperienza della sua famiglia, sulla trasformazione della società inglese nella seconda guerra mondiale.
A ristorare le sue finanze fu La saga dei Cazalet – ne scrisse quattro in quindici anni -, e nel 1990 si trasferì in una casa stile Re Giorgio nel Suffolk, vicino a Sargy Mann. Kingsley Amis morì quell’anno, portandole ancora rancore. La casa nel Suffolk, il giardino e il prato attigui divennero più belli sotto la sua cura. Gli amici la venivano a trovare, iniziò una vita all’insegna della felicità, della produttività e dell’ordine.
Nel 1955, dopo la seconda partecipazione a Desert Island Discs (una trasmissione radio della bbc in onda dal 1942 N.d.T.), un fan le scrisse, desideroso di sapere altro. La sedusse in poco tempo, per quanto famiglia e amici nutrissero dei sospetti. Avrebbe potuto benissimo sposarla se non che Nicola controllò la sua autobiografia: lui affermava che sua moglie fosse morta in un incidente a cavallo. Di tutto ciò non c’era traccia nei registri di Somerset House.
Al ritorno dalle vacanze Howard trovò Nicola e Colin a spiegarle, con tanto di prove, che lo spasimante era un bugiardo cronico e l’aveva tradita. Da questa esperienza uscì il suo libro più strano e tenebroso, Falling, pubblicato nel 1999, nel quale l’eroina è inseguita da una figura di inesauribile malevolenza che lei ha incontrato entrando nella casa sbagliata.
Questa malvagità è incarnata da un giardiniere di nome Henry; ai capitoli scritti in prima persona si alternano quelli in terza della voce del narratore che osserva l’eroina.
«Non c’è nulla per te là», le viene detto quando la sua malvagità viene rivelata. «Non c’è cuore. Niente tra la testa e i genitali».
Howard lo ritiene il suo romanzo più riuscito. Non appena pubblicato ricevette una lettera di apprezzamento con una scrittura familiare: «Una nuova avventura ha inizio», si leggeva. La firma era «Henry», il pretendente escluso si era riconosciuto nel giardiniere del romanzo. Quella fu la fine delle sue speranze romantiche.
La malattia, seria e spiacevole, interruppe il lavoro sulla sua autobiografia.
È difficile immaginare un’altra bella donna scrivere con tanta disinvoltura e tanto distacco di una colostomia. L’artrite la obbliga ad alzarsi dalla sedia con uno strattone che assieme all’autocontrollo, per un momento, rende il suo viso leonino. Non può più dedicarsi molto al giardinaggio. Ma, come i suoi libri, la casa cela un sacco di vividi piaceri dietro una facciata convenzionale.
Il giardino che ha curato, e il prato che arriva fino a un’isola sul fiume dietro di esso, formano un mondo privato e incantato. Sul ponte ha aspettato per dare da mangiare a un cigno nero perfettamente combaciante con il suo riflesso sulle acque calme. Non sapeva, dice Howard, quale dei due libri dovrebbe essere il prossimo a essere scritto.
La vita in uno sguardo.
Nata a: Londra, il 26 marzo 1923, figlia di David Liddon Howard e Katharine (Kit) Howard.
Istruzione: Scuola per infermiere e governanti.
Sposata dal 1942 al 1951 con Peter Scott (una figlia, Nicola, nata nel 1943); dal 1957 al 1960 con Jim Douglas-Henry; dal 1965 al 1982 con Sir Kingsley Amis.
Impiego: dal 1939 al 1950, attrice, modella, segretaria e infine scrittura e editoria.
Pubblicazioni: 12 romanzi, inclusi 1950 The Beautiful Visit, 1956 Il lungo sguardo, 1959 The Sea Change, 1965 After Julius, 1969 Something in Disguise (1982 serie TV), 1972 Odd Girl Out, 1982 Getting It Right, dal 1990 al 1995 La saga dei Cazalet; 1999 Falling. Also short stories, ha scritto inoltre sceneggiature, sceneggiati televisivi e un’autobiografia, Slipstream, nel 2002.
Traduzione di Simone Traversa
Fonte Il blog di Fazi Editore » Elizabeth Jane Howard: «Non ho mai pensato che Kingsley Amis fosse migliore di me come scrittore»
Roma-CHROMOTHERAPIA. La fotografia a colori che rende felici all’Accademia di Francia
Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, CHROMOTHERAPIA. La fotografia a colori che rende felici. Di scena sino al 9 giugno 2025, la mostra che vede come curatori Maurizio Cattelan e Sam Stourdzé, ripercorre la storia della fotografia a colori lungo tutto il XX secolo attraverso lo sguardo acuto di 19 artisti. L’itinerario espositivo, articolato in 7 sezioni, ci trasporta in mondi vibranti e saturi in cui il colore colpisce la retina e mette in gioco l’intelletto.
Spesso denigrata e raramente presa sul serio, la fotografia a colori ha in realtà permesso agli fotografi di sbizzarrirsi, di mettere mano alla loro tavolozza per ridipingere il mondo. Sono in tanti a essersi liberati dai vincoli documentaristici del mezzo fotografico per esplorare le comuni radici dell’immagine e dell’immaginario, flirtando con il pop, il surrealismo, il bling, il kitsch e il barocco.
La conquista del colore in fotografia segue di poco l’invenzione del mezzo con i primi esperimenti a scopo scientifico a metà del XIX secolo. Nel 1907 fu messo a punto il primo procedimento fotografico industriale a colori grazie all’autochrome, creato dai fratelli Lumière. È l’inizio di un secolo di sperimentazione cromatica: dalle scene ordinarie alle riflessioni filosofiche e politiche, il colore trascende il semplice strumento per diventare elemento narrativo essenziale.
Tutte queste innovazioni del quotidiano rivelano un’immagine surreale, iperreale che reinventa i generi – dalla natura morta al ritratto – offrendo una visione gioiosa e colorata del mondo. Tra gli artisti in mostra, William Wegman (1943, Holyoke, USA) immortala con tenerezza i suoi cani, trasformando i simpatici amici a quattro zampe in icone artistiche, Juno Calypso (1989, Londra, UK) stravolge le convenzioni visive del cinema e della pubblicità per mettere in discussione le imposizioni che affliggono la femminilità, mentre Arnold Odermatt (1925, Oberdorf – 2021, Stans, CH), fotografo poliziotto, documenta gli incidenti stradali in composizioni meticolose, dove la poesia si sostituisce al dramma; e Walter Chandoha (1920, Bayonne – 2019, Annandale, USA), soprannominato “The Cat Photographer”, rivela una qualità umana nei gatti che fotografa su sfondi saturi, trasformando questi animali domestici in icone fotografiche. Ouka Leele (1957-2022, Madrid), dal canto suo, utilizza toni vibranti per cogliere la liberazione dei corpi nel contesto della rivoluzione culturale e sociale della Movida, e Martin Parr (1952, Epsom, UK), grande testimone dei nostri paradossi contemporanei, dirige il suo obiettivo su vassoi di patatine fritte, suggerendo ironicamente la bulimia del mondo moderno. Negli anni dieci del Duemila, il magazine Toiletpaper, ideato da Maurizio Cattelan (1960, Padova, IT) e Pierpaolo Ferrari (1971, Milano), al tempo stesso erede e precursore, degno discendente di questi artisti e assolutamente trasgressivo, dialoga e si nutre di questa piccola storia sfavillante e cromatica.
Che si tratti di amplificare i dettagli di una scena quotidiana, di ridefinire i codici di bellezza delle riviste o di immortalare soggetti impegnati, la fotografia a colori offre una visione intensamente cromatica del mondo. Tale varietà di sguardi e di pratiche rivela un comune filo conduttore: la volontà di mostrare le cose in modo diverso, infondendo nelle immagini la vita e l’emozione che solo il colore può trasmettere.
Maurizio Cattelan è uno dei principali artisti italiani della scena contemporanea. Da oltre trent’anni, le sue opere mettono in luce i paradossi della società e offrono una riflessione acuta sugli scenari politici e culturali. Attraverso l’uso di immagini iconiche e di un linguaggio visivo caustico, le sue creazioni provocano un vivace dibattito pubblico, stimolando uno spirito di partecipazione collettiva. Per CHROMOTHERAPIA, Maurizio Cattelan aggiunge una nuova freccia al suo arco e diventa curatore di mostra.
Sam Stourdzé è specialista dell’immagine contemporanea e del rapporto tra arte, fotografia e cinema. Curatore di mostre è anche autore di innumerevoli opere di riferimento. Dal 2020, dirige l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, di cui in passato è stato borsista. In precedenza è stato direttore dei Rencontres d’Arles e del musée de l’Élysée di Losanna, nonché redattore capo della rivista di fotografia ELSE.
Descrizione del libri di Mavie Da Ponte- Fine di un matrimonio comincia con la fine del matrimonio tra Berta e Libero. Berta ha una galleria d’arte e Libero ha un’altra. Berta non ascolta cosa le stia dicendo Libero, non capisce perché quest’altra donna di cui non ha mai sospettato nulla, di cui non conosce il nome, appaia e si mangi il suo futuro. Libero, invece, quella sera – in cui tutto finisce e tutto comincia – esce di casa, e scompare. È vero, diceva sempre di essere stanco del suo lavoro e della sua vita, ma che c’entra un’altra donna? Perché ne aveva bisogno? Berta non lo sa, e nel tentativo di capirlo parla d’altro: di sé, del proprio corpo, di cosa può farne adesso che è sola, ha quasi cinquant’anni e non è né giovane né vecchia, adesso che è esattamente com’era prima di sposarsi. Berta racconta la fine del suo matrimonio per iniziare a raccontare se stessa, perché i romanzi – certi romanzi, e di sicuro questo –, proprio come la vita, non sono solo “fatti”: tra una vicenda e un’altra, tra la fine di un matrimonio e l’inizio di qualcosa di diverso, ci sono pensieri, parole, opere e omissioni. Ci sono rimpianti – è tardi per avere un figlio? e per recuperare il rapporto con la propria madre? –, dubbi e paure. C’è il bisogno disperato di dimostrare a se stessi di essere vivi. Innamorarsi, in fondo, è più semplice che tenere in piedi un matrimonio o una relazione, ricominciare è meno faticoso che provare a riparare: questo racconta, a ogni riga, l’esordio di Mavie Da Ponte. O, forse, mostra che definirsi “innamorati” è troppo facile, e per questo non bisognerebbe mai dirlo. Così Berta, quando scegliere non sembra più una possibilità e le difficoltà dei suoi rapporti paiono insormontabili, capisce che frequentare il salone di bellezza di Sara – la chiama così per semplificare, ma quale sarà il suo nome cinese? – ha più a che fare con il pensiero e l’arte che con le unghie: anzi, le unghie e il corpo certe volte possono essere il pensiero e l’arte.
Un romanzo malinconico e buffo, pieno di tenerezza e di sorpresa, la storia di una donna che si piega e si spezza, e non fa niente: essere interi non è il punto, il punto è provare a essere felici.
Mavie Da Ponte
Mavie Da Ponte- è nata nel 1987, vicino al mare e in mezzo alle storie. Dopo studi linguistici e un dottorato in letteratura francese contemporanea, oggi si dedica alla scrittura. Fine di un matrimonio è il suo primo romanzo.
Latina -Arte contemporanea -personale dell’artista Carlo Marchetti – Beyond Black-
Latina-In mostra, un’indagine che riscopre l’essenza della materia e della forma. Le opere di Calo Marchetti sono strutture primarie, frammenti che evocano presenze senza mai delinearle in modo netto, ma vibranti di una potenza arcaica.
Latina -Arte contemporanea -personale dell’artista Carlo Marchetti
Latina -Arte contemporanea -personale dell’artista Carlo Marchetti-Dualità-Serie-Paesaggi-Interiori-2024-mista-su-tela-cm-180×160-
Latina -Arte contemporanea -personale dell’artista Carlo Marchetti
Romberg Arte Contemporanea presenta la personale dell’artista Carlo Marchetti, curata da Italo Bergantini e Gaia Conti. “Beyond Black” inaugura domenica 2 marzo 2025, accompagnata da uno scritto inedito di Antonella Paciolla. L’esposizione fa parte del progetto ‘I Racconti della domenica’, sette appuntamenti in cui arte e narrazione si incontrano.
“Beyond Black” è il capitolo più recente della ricerca di Carlo Marchetti, un’indagine che riscopre l’essenza della materia e della forma. Le sue opere sono strutture primarie, frammenti che evocano presenze senza mai delinearle in modo netto, ma vibranti di una potenza arcaica: legno, gomma, lana, tessuti, e sabbia, elementi ricorrenti nella sua ricerca, simboli di radicamento e trasformazione.
La sua arte si odora e si ascolta, un’esperienza sensoriale in cui materia e suono si intrecciano. Dal nero che assorbe, al grigio che accoglie e accompagna, fino all’oro che vibra come un’epifania, il colore si stratifica e trasforma il caos in ordine, rendendo ogni opera una memoria tattile, un linguaggio visivo essenziale.
Marchetti lavora per sottrazione, liberando i lavori da ogni eccesso e creando un perfetto bilanciamento tra pieni e vuoti. Le sue stanze alchemiche sono varchi, porte che invitano lo sguardo a entrare, e finestre che si aprono su nuove prospettive. Le opere si fondono con la grande parete della galleria tracciando un confine sospeso tra due dimensioni: la superficie della coscienza e la profondità dell’Io.
Come un ponte tra due mondi, non è la materia a definirle, ma il nostro sguardo, la nostra capacità di reinventare e cogliere in essi nuovi significati possibili. Là dove l’intuizione coglie frammenti, il pensiero si solidifica in forme che solo l’arte riesce a intrecciare.
La materia si rinnova, si sovrappone, si dissolve e si ricompone in oggetti ritrovati, in nuova vita. Il ritmo della mostra è scandito dalla forza simbolica dei cinque elementi – Acqua, Fuoco, Aria, Terra e Metallo/Spirito – in un’armonia di equilibri e contrasti che evocano la stratificazione del tempo e della storia.
L’invito è superare la percezione iniziale e a lasciarsi attraversare da ciò che si cela dietro l’apparenza, innescando un dialogo non solo con l’opera, ma anche con noi stessi e, in particolare, con quella parte di noi che chiamiamo inconscio. Qui il nero si espande, si frantuma, si rigenera, moltiplicando le prospettive di senso. E al di là del nero, quando l’ombra si dissolve, ciò che resta è luce.
Testo di Gaia Conti
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Romberg Arte Contemporanea presents the solo show of artist Carlo Marchetti, curated by Italo Bergantini and Gaia Conti. “Beyond Black” will open on Sunday, March 2, with an accompanying unpublished story by Antonella Paciolla. Part of “Stories told on a Sunday”, a series of seven events where art and storytelling converge—this exhibition marks a new chapter in Marchetti’s artistic path.
“Beyond Black” is a journey into the fundamental nature of material and form. His works are raw yet intentional, fragments that suggest presence without ever fully revealing it. They resonate with a deep, ancient energy. Wood, rubber, wool, fabric, and sand, materials that appear throughout his practice, become symbols of grounding and transformation.
His art is an experience—something to be felt, heard, even breathed in. Matter and sound intertwine, guiding the viewer from the absorbing depth of black to the quiet neutrality of gray, and finally to gold, shimmering like an epiphany. Color unfolds in layers, transforming chaos into harmony, turning each piece into a tactile memory, a language distilled to its essence.
Carlo’s approach is one of subtraction, a process of stripping away the superfluous to reveal a perfect balance between presence and absence. His alchemical rooms are thresholds: doors that invite the gaze inward, windows that open onto new perspectives. The works dissolve into the gallery’s vast wall, tracing a suspended boundary between two realms—the surface of consciousness and the depths of the self.
These works are not defined by their material alone, but by how we perceive them, how we reinterpret and discover new meaning within them. Where intuition gathers fragments, thought weaves them into form, creating connections only art can reveal.
Matter exists in a state of perpetual transformation, shifts, dissolves, and reconfigures, breathing new life into what once was. The exhibition’s rhythm is guided by the symbolic essence of the five elements: Water, Fire, Air, Earth, and Metal/Spirit, interwoven in a dynamic equilibrium of harmony and tension, echoing the deep strata of time and history.
This is an invitation to move beyond perception, to surrender to what lies beneath the surface—awakening a dialogue not only with the artwork but with the deeper, hidden layers of the self, the elusive realm of the unconscious. Here, black expands, fractures, and reshapes itself, unfolding into an ever-shifting landscape of meaning. And beyond the black, as shadow fades, what remains is light.
Text by Gaia Conti
Roma va in scena al Teatro Ambra Jovinelli “Benvenuti in casa Esposito “
adattamento di Paolo Caiazzo- regia di Alessandro Siani –
Roma al Teatro Ambra Jovinelli va in scena “Benvenuti in casa Esposito “adattamento di Paolo Caiazzo- regia di Alessandro Siani-Nessuno ha imposto a Tonino Esposito di fare il delinquente. Eppure lui vuole farlo a tutti i costi, anche se è sfigato e imbranato. Perché vuole mostrarsi forte agli occhi di tutti. E perché è ossessionato dal ricordo del padre Gennaro, che prima di essere ucciso è stato un boss potente e riverito nel rione Sanità, a Napoli.
Teatro Ambra Jovinelli “Benvenuti in casa Esposito “
Così Tonino, tra incubi e imbranataggini, resta coinvolto in una serie di tragicomiche disavventure che lo portano a scontrarsi con i familiari, con le spietate leggi della criminalità e con il capoclan Pietro De Luca detto ’o Tarramoto, che ha preso il posto del padre. E quando non ce la fa più, quando tutto e tutti si accaniscono contro di lui, va nell’antico Cimitero delle Fontanelle a conversare con un teschio che secondo la leggenda è appartenuto a un Capitano spagnolo.
Nel tentativo di riportarlo sulla strada dell’onestà, la capuzzella del Capitano si trasforma in un fantasma e si trasferisce a casa di Tonino. Dalla comica “collaborazione” tra i due nascono episodi esilaranti, che trovano il loro culmine nel periodo in cui Tonino, dopo aver messo nei guai ’o Tarramoto, viene messo agli arresti domiciliari dal capoclan e cade in depressione.
Intorno a Tonino, al Capitano e a De Luca si muovono altri personaggi memorabili: Patrizia, moglie di Tonino, donna procace e autoritaria; Gaetano e Assunta, genitori di Patrizia, che si strapazzano di continuo; Manuela, vedova del boss Gennaro, donna dai nobili sentimenti; Tina, giovane figlia di Tonino e Patrizia, che combatte la condotta illegale del padre.
In casa Esposito non manca una presenza animalesca: Sansone, un’iguana del genere meditans, che fa da contrappunto a tutti i divertenti momenti della commedia.
La commedia è un insieme di dialoghi irresistibili, colpi di scena e messaggi di grande valore etico, riporta gli aspetti più cafoni e ridicoli della criminalità, rispolvera la grande tradizione comica napoletana e fa ridere e riflettere.
Un modo nuovo di raccontare e denunciare la malavita, perfettamente in linea con i contenuti del romanzo bestseller “Benvenuti in casa Esposito”, che è stato un vero e proprio caso letterario. Un libro che ha scalato le classifiche grazie al passaparola e all’entusiasmo di migliaia lettori in tutta Italia e che è stato adottato da scuole, istituzioni pubbliche, associazioni antimafia, comitati civici, gruppi che si battono per la Legalità.
Durata: 1 ora e 50 minuti, con intervallo
Orari spettacolo
mercoledì 5, giovedì 6, sabato 8, martedì 11, venerdì 14, sabato 15 marzo ore 21:00
sabato 8 marzo ore 16:30
venerdì 7, mercoledì 12 e giovedì 13 marzo ore 19:30
domenica 9 e 16 marzo ore 17:00
GIOVANNI ESPOSITO IN
BENVENUTI IN CASA ESPOSITO
con Nunzia Schiano Susy Del Giudice – Salvatore Misticone Gennaro Silvestro – Carmen Pommella Giampiero Schiano – Aurora Benitozzi
Regia ALESSANDRO SIANI
Commedia in due atti scritta da Paolo Caiazzo, Pino Imperatore, Alessandro Siani
Liberamente tratta dal romanzo bestseller “Benvenuti in casa Esposito”
di Pino Imperatore (Giunti Editore)
Musiche Andrea Sannino Direzione musicale e arrangiamenti Mauro Spenillo
Scene Roberto Crea Costumi Lisa Casillo
Roma- al Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer”
di Annibale Ruccello regia Geppy Gleijeses-
Nella foto Geppy Gleijeses e Lorenzo Gleijeses
Roma- al Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello regia Geppy Gleijeses dal 5 – 9 marzo 2025- Lo Spettacolo-Travestito è una parola molto precisa ed indica, come sostantivo, “l’omosessuale maschile che si veste da donna e talvolta si prostituisce” e come aggettivo o participio passato del verbo “travestire” “colui che nasconde la propria vera natura assumendo idee e atteggiamenti profondamente diversi dai propri”. Ecco che l’essere attore come l’avere assunto o finto l’identità femminile implica un processo già avvenuto di “travestimento” morale e fisico. Il travestito è una creatura di confine, “figura deportata” come definisce Ruccello i suoi personaggi, non è un transessuale, non ha fatto il grande salto, vive la sua condizione generalmente in modo doloroso e comunque iperbolico, toccando gli estremi della depressione e dell’euforia, creatura meravigliosa, fragile, delicatissima, a volte violenta ma sempre emarginata.
Abbiamo scelto quindi un connotato di base assai realistico; la casa, le piccole cose che ci circondano, i feticci, la colonna sonora, i cibi che cuciniamo, gli odori che sentiamo. Su questa base Jennifer e Anna, ci hanno portato nell’universo di Annibale Ruccello che dalla meraviglia di un’orrida quotidianità ti proietta in una condizione espressionista di grande disperazione, inframezzato da pochi attimi di euforia.
Come voleva Annibale il processo interpretativo, in questo caso, non deve essere lo straniamento, non è l’attore che scherza su Jennifer, è Jennifer che guarda se stessa. E alla fine del nostro spettacolo, davanti alla sua “toeletta” struccandosi, Jennifer si spoglia dalla sua condizione di travestito (e l’attore che la interpreta nello stesso istante si stacca da lei) ma per lei non c’è vita oltre quel distacco poiché, e questa è la profonda differenza, quella sua finzione è la sua verità, l’unica possibile. Geppy Gleijeses
Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer”
Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer”
Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer”
5 – 9 marzo 2025
di Annibale Ruccello
regia Geppy Gleijeses
con Geppy Gleijeses e Lorenzo Gleijeses
voce della radio Nunzia Schiano
voce di Sonia Gino Curcione
voce di Annunziata Mimmo Mignemi
voce del giornale radio Myriam Lattanzio
Info e orari
ore 20.00
domenica ore 18.00
durata 1 ora e 30′ senza intervallo
Crediti
scene Paolo Calafiore
costumi Ludovica Pagano Leonetti
light designer Luigi Ascione
foto Marco Ghidelli
Arsenij Tarkovskij è senza alcun dubbio uno dei più grandi poeti russi, con una potente intonazione lirica, una grande carica spirituale, per così dire, un poeta in forma pura, per il quale la cosa più importante è la propria concezione interiore della vita. E’ modesto. Non ha mai scritto nulla per diventare famoso. Non ha mai fatto nulla per mettersi in primo piano, per far carriera con la poesia.
Nota dalla recensione di Anna Achmatova a Prima della neve-1962- “Il libro di Arsenij Tarkovskij è un dono inaspettato e prezioso al lettore contemporaneo. Questi versi, che hanno atteso a lungo per venire alla luce, colpiscono per rare qualità, la più sorprendente delle quali è che da noi quotidianamente pronunciate si rivestono chissà come di mistero e suscitano echi inaspettati nel cuore. Se qualcuno non ha ancora questo libro, gli consiglio di procurarselo, in qualche modo, per giudicarlo nel modo più severo. Questo libro non teme nulla.”
Arsenij Tarkovskij
E lo sognavo e lo sogno
E lo sognavo, e lo sogno, e lo sognerò ancora, una volta o l’altra, e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà, e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.
Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo un’onda dietro l’altra si frange sulla riva, e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello, e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.
Non mi occorrono le date: io ero, e sono, e sarò. La vita è la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia solo, come orfano, pongo me stesso,
solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi di mari e città risplendenti tra il fumo.
E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia.
Primi Incontri
Ogni istante dei nostri incontri lo festeggiavamo come un’epifania, soli a questo mondo. Tu eri più ardita e lieve di un’ala di uccello, scendevi come una vertigine saltando gli scalini, e mi conducevi oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti al di là dello specchio. Quando giunse la notte mi fu fatta la grazia, le porte dell’iconostasi furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva e lenta si chinava la nudità nel destarmi: “Tu sia benedetta”, dissi, conscio di quanto irriverente fosse la mia benedizione: tu dormivi, e il lillà si tendeva dal tavolo a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre, e sfiorate dall’azzurro le palpebre stavano quiete, e la mano era calda.
Nel cristallo pulsavano i fiumi, fumigavano i monti, rilucevano i mari, mentre assopita sul trono tenevi in mano la sfera di cristallo, e ” Dio mio! ” tu eri mia.
Ti destasti e cangiasti il vocabolario quotidiano degli umani, e i discorsi s’empirono veramente di senso, e la parola tua svelò il proprio nuovo significato: zar.
Alla luce tutto si trasfigurò, perfino gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando, come a guardia, stava tra noi l’acqua ghiacciata, a strati.
Fummo condotti chissà dove. Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi, città sorte per incantesimo, la menta si stendeva da sé sotto i piedi, e gli uccelli c’erano compagni di strada, e i pesci risalivano il fiume, e il cielo si schiudeva al nostro sguardo”
Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.
Arsenij Tarkovskij
Il bosco di Ignatij
L’ardere delle foglie in autocombustione totale si leva al cielo, e sul tuo cammino il bosco intero vive di un’eccitazione pari a quella che viviamo in quest’ultimo anno.
Negli occhi colmi di pianto si riflette la via come nella golena oscura si riflettono gli arbusti. Non fare i capricci, non minacciare, non toccare, non turbare la quiete del bosco sul Volga.
Puoi udire il respiro della vecchia vita: funghi viscidi crescono nell’erba bagnata, i lumaconi li hanno rosi fino al cuore ma una smania umidiccia ne vellica la pelle.
Il nostro passato è tutto simile a una minaccia: bada, ora torno, bada, ora ti uccido! Il cielo rabbrividisce e tiene l’acero come una rosa: che bruci di più, quasi sugli occhi. Riflessione
Sentivo amaramente di non aver fatto molto, la mia vita trascorreva senza concretezza, e in me il bene si ergeva contro il male, e la verità moriva dinanzi all’iniquità.
Non m’apparteneva l’infanzia, ma ero dove la vita era latenza, nel sangue degli avi, sotto erbe in luoghi inoperosi, e divenni il bersaglio dove iniziava la lotta e per miracolo oggetto della loro disputa.
Quando la sega penetra nel tronco, quando l’occhio divino dell’animale braccato è come acqua torbida imbevuta di caligine, quando un bambino soffre e nei medici non ha più fede, quando la prima gelata copre il grano, la taiga sconfinata arde dinanzi ai miei occhi, non posso dire: “questo è il destino”, e amaramente credo d’averne colpa.
La mia anima in tempo di guerra come le tenebre era nera. Ma è la vittima di tutte le lotte che genera come la bestia, anima mia, – mio genio protettore senza difesa – inghiottendo la morte si avvia ad aiutare il bene. Tutto si tiene a questo mondo e tutto è solidale, e se da sempre han combattuto per me le fronde del bosco – fronda io stesso devo diventare e ad ogni chicco devo prestare la mia voce.
Tutto si tiene a questo mondo e tutto è solidale: le costellazioni e la terra, l’uomo e l’uccello. E chi fa il bene si getta a capofitto in un vortice maestoso e non teme la morte, emerge ancora e subito, come un nuotatore, solidale per sempre all’onda e infine non potrà dire lui stesso cos’è, se stella, o terra, o uomo,
o uccello.
La lettera
Se oggi m’avessi scritto una lettera mi sarebbe giunta da sola, anche senza i francobolli, cassata o timbrata, anche senza poscritto o profumo di rose sui margini, anche senza l’indirizzo o le tue parole d’amore, oltre tutti i postini e i fermo posta militari, nel rifugio, sottoterra, fino a qui: da sola mi sarebbe giunta lo stesso!
Mandami almeno una riga, almeno una cinguettante riga di vocali, qui, al fronte. Ma cos’è una lettera! D’accordo, che non ce ne siano. Mi facevi impazzire anche senza di esse. Volgi il tuo viso ad occidente, oltre i monti, oltre i mari turchini.
Almeno un istante senza tempo né spazio, solo ali guizzanti nel sogno ingarbugliato, trattieni un attimo il respiro mentre spicchi il volo
oltre i mari ed i monti
Arsenij Tarkovskij
Ieri ti ho attesa fin dal mattino
Ieri ti ho attesa fin dal mattino, ma loro sapevano che non saresti venuta. Ricordi che bella giornata era? Una festa. Ed io uscivo senza il cappotto… Oggi sei venuta, e ci hanno preparato una giornata particolarmente grigia. La pioggia, l’ora così tarda, le gocce scorrono per i rami freddi… La parola non serve a placarle, né le asciuga il fazzoletto.
La Poetica di Vincenzo Cardarelli -Poesie e opere di Vincenzo Cardarelli, poeta e scrittore appartenente alla corrente letteraria dell’Avanguardia. Successivamente Cardarelli vivrà un ritorno al classicismo rifacendosi ad autori come Leopardi e Pascoli.
Dopo la premessa con «La Ronda» e i suoi ideali risulta più semplice capire quale sia la poetica di Cardarelli, visto che lui è uno dei co-fondatori della rivista letteraria.
Versi discorsivi Cardarelli punta a una poesia dove i versi abbiamo uno svolgimento discorsivo che possa mettere in luce i segreti moti psicologici dell’autore; con armonia, ma sempre con urgenza; con un ritmo implacabile, con uno scopo a rivelarsi subito chiaro.
Una poesia che ragiona, colloquialeUna poesia che ragiona, come un lungo colloquio dell’anima. Colloquiale ma non per ironia come accadeva ai poeti crepuscolari; prosaica ma non per questo meno ricercata e intimamente lirica. Una poesia, quella di Cardarelli, che è discorso sempre in atto, fluente, vivido.
Le parole di Cardarelli Dice di sé stesso il poeta:
«che la mia poesia “discorra” non c’è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o d’immagini, per rifrazioni di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso di dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimermi».
Il tempo: ossessione ed occasioneLa soggettività di Cardarelli si spande nel tempo perché il tempo è la tela del suo io, come l’autoritratto non potesse mai davvero finire; se non con la morte, ovviamente. E allora il tempo è ossessione ed occasione insieme. Non interessa tanto il tempo storico, quanto il tempo in cui l’io ha modo di scoprire il suo passaggio silenzioso nell’esistenza.
Il brano Idea della morteSi legge nel brano Idea della morte (1918), incluso in Viaggi nel tempo (1920):
«Sono turbato dalla sensazione del tempo come un pericolo assiduo. Il desiderio, spesso spropositato in me, di abbandonarmi, è vinto da una vaga inquietudine senza causa, che urge e mi consiglia di levarmi su, presto, come se ad ogni istante si potesse correre il rischio di perdere tutto il tempo in una volta, tutte le probabilità e le occasioni. […] E mentre noi che ne andiamo, ilari e distratti, per la nostra strada, egli ci cammina dietro, e allorché, trasalendo, ci rivolteremo per guardarlo, ci avrà già passati».
Il tema del tempoIl tema del tempo si lega a quello dell’occasione perduta e dell’infanzia passata inesorabilmente.
Il tema del vagabondaggioC’è anche il tema del vagabondaggio, spiccatamente autobiografico, perché Cardarelli si percepisce come un uomo sempre messo al bando.
La sofferenza permea ma non spezza il rigore espressivo e logico della poesia di Cardarelli che riesce sempre a trovare la giusta armonia e una mai acquietata dolcezza.
Il concetto di «impassibilità»Mengaldo sottolinea il concetto di «impassibilità», come capacità di volgere l’ispirazione «indifferentemente su tutte le cose, come si diffonde la luce». E aggiunge che questa definizione dello stesso poeta «chiarisce benissimo le motivazioni del cosiddetto classicismo cardarelliano, in quanto rifiuto delle salienze espressive e dell’esposizione violenta di singoli particolari in nome di un’equa distribuzione dell’energia stilistica su tutta la superficie del testo…» (Poeti italiani del Novecento, 366).
Vediamo alcune delle poesie più rappresentative di questo poeta, cercando di dare un piccolo commento a ognuna. Non serve la parafrasi perché non si parla più in italiano antico!
Il tema del tempo è molto importante per CardarelliAbbiamo detto che il tema del tempo è di assoluta importanza per Cardarelli. Lo è per tanti poeti, in verità, se non per tutti. Cardarelli ha comunque un modo tutto suo di esprimerlo: ora dolce, ora terribile; ora occasione, ora rimpianto.
Il tempo: passaggio in cui la realtà si rinnova Il tempo è anche il passaggio in cui la realtà si rinnova. Come se fossimo in un sonetto della corona dei mesi, Cardarelli sceglie di parlarci di febbraio, il mese più corto dell’anno, un mese piccolo e sempre bambino.
VINCENZO CARDARELLI
Febbraio
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
L’amore, il tema dei poetiL’amore è il tema dei poeti: quanto è difficile parlarne? Quanto è difficile scriverne? Scommetto che tutti ci abbiamo provato ad esprimere questo sentimento su carta per poi capire che non ne siamo capaci.
Cardarelli innamoratoCompito sopraffino da lasciare ai poeti, che parlano per noi tutti. In questa poesia Cardarelli si accorge di essersi innamorato: se ne accorge dallo sguardo di lei triste e felice a un tempo.
Nella mancanza di lei, come in un provenzale “amore da lontano”, il poeta si agita e pensa a cosa sta accadendo e a come quel sentimento, come un uccellino si sia aggrappato ai rami del suo cuore.
Amore
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei cosí m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
piú e piú insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita,
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, piú per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
La fine di un amore Gli amori dei poeti di norma finiscono tutti. Ma come è dolce il finire delle cose, a volte, quanto è strano di colpo capire che qualcosa è finito. Sotto i nostri occhi, d’improvviso.
L’addioE qualcosa si spezza in noi e quella vita, quella possibilità, quella promessa di giorni felici svanisce per sempre. Resta solo il ricordo, amaro, poi magari più dolce e sbiadito, come una luce che passa attraverso le tende. In questa poesia l’addio è netto, deciso: «Non mi lasciasti nessuna speranza», dice Cardarelli.
Ed è così che di lei resta solo lo spettro, un compagno silenzioso e fastidioso; quel silenzio è un baratro dove l’assenza sembra chiamare a sé ogni cosa.
Crudele addio
Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.
I ricordiNascono ombre smisurate da corpi troppo brevi, perché breve è il loro passaggio nel tempo. I ricordi sono così: uno «strascico di morte».
Nostalgia e rimpiantoCon una metafora truce e dolorosa, Cardarelli ci porta nella dimensione della nostalgiae del rimpianto che l’amore genera in lui. I ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre», per riprendere l’immagine dello spettro della poesia precedente, cara al poeta.
La donna amata è un ricordo e quindi, implicitamente, uno spettro che si aggira nella memoria del poeta (la parola «trapassata» si usa infatti per i morti).
L’ultimo sussulto della storia, prima del commiato, è nella consapevolezza che il tempo raggiunge ogni cosa e che l’amore è un fuoco che brucia e agita quel tempo, breve, concesso alla vita.
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
L’Attesa“Attesa” è giustamente una delle poesie più famose di Cardarelli, per dolcezza, malinconia e finanche lieve candore delle immagini. Come nei poemi cavallereschi l’amore è una ricerca attiva o passiva: possiamo andare incontro all’amata come il furioso Orlando di Ariosto o possiamo attendere l’arrivo dell’amata, alla finestra, febbricitanti nell’attesa.
Amore e solitudineL’amore ha un modo tutto suo di disattendere l’una e l’altra dinamica. Se cerchiamo, non troviamo. Se aspettiamo, non arriva. E allora l’amore si fa compagno della solitudine, intensa esplorazione dell’altro dentro di noi.
È un’assenza che si colma di senso. L’assenza della donna amata brilla tumultuosa come una stella. Come un temporale che, eccolo, è lì, pronto a scrosciare con impeto, ma poi se ne va verso altri luoghi.
L’amore è tutto. Saffo lo definiva dolce-amara bestia. Cardarelli lo vorrebbe coprire di fiori, ma anche di insulti.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
AMICIZIA
Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c’incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam rispettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.
ATTESA
Oggi che t’aspettavo non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava,
nel vuoto che hai lascito,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
S’annuncia e poi s’allontana,
cosi’ ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere, ha di quest improvvisi pentimenti.
Silenziosamente ci siamo intesi.
Amore, Amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
GABBIANI
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
PASSATO
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
SERA DI LIGURIA
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
SCHERZO
Il bosco di primavera
ha un’anima,una voce.
è il canto del cucù
pieno d’aria,
che pare soffiato in un flauto.
Dentro il richiamo lieve
più che l’eco ingannevole,
noi ce ne andiamo illusi:
Il castagno è verde tenero.
Sono stillanti persino
le antiche ginestre.
Attorno ai tronchi ombrosi,
fra giochi di sole,
danzano le amadriali.
PRIMAVERA
Oggi la primavera
é un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi:
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce:
Tutto è color di prato.
Anche l’edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione.
Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
d’umori campestri.
Ebbra la primavera
corre nel sangue.
PASSAGGIO NOTTURNO
Giace lassù la mia infanzia.
Lassù in quella collina
ch’io riveggo di notte,
passando in ferrovia,
segnata di vive luci.
Odor di stoppie bruciate
m’investe alla stazione.
Antico e sparso odore
simile a molte voci che mi chiamino.
Ma il treno fugge. Io vo non so dove.
M’è compagno un amico
che non si desta neppure.
Nessuno pensa o immagina
che cosa sia per me
questa materna terra ch’io sorvolo
come un ignoto, come un traditore.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
ABBANDONO
Volata sei, fuggita
come una colomba
e ti sei persa là, verso oriente.
Ma son rimasti i luoghi che ti videro
E l’ore dei nostri incontri.
Ore deserte,
luoghi per me divenuti un sepolcro
a cui faccio la guardia.
ALLA MORTE
Morire sì,
non essere aggrediti dalla morte.
Morire persuasi
che un siffatto viaggio sia il migliore.
E in quell’ultimo istante essere allegri
come quando si contano i minuti
dell’orologio della stazione
e ognuno vale un secolo.
Poi che la morte è la sposa fedele
che subentra all’amante traditrice,
non vogliamo riceverla da intrusa,
né fuggire con lei.
Troppo volte partimmo
senza commiato!
Sul punto di varcare
in un attimo il tempo,
quando pur la memoria
di noi s’involerà,
lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,
concedici ancora un indugio.
L’immane passo non sia
precipitoso.
Al pensier della morte repentina
il sangue mi si gela.
Morte non mi ghermire
ma da lontano annunciati
e da amica mi prendi
come l’estrema delle mie abitudini.
BALLATA
Ecco la casa ov’io vidi la luce
e la chiesa lì accanto,
dove fui battezzato.
Consolanti evidenze!
Qui antiche donne vivono, mai sazie
di ricordare.
E narrano una storia
ch’io so a memoria e non vorrei sapere.
Narrano la mia storia famigliare.
Dicono che una notte,
col cuore fasciato
di crudeltà e d’ira fredda,
un uomo fece guasto
senza pietà nei suoi affetti più sacri,
disperse una famiglia appena in fiore.
E la casa natale era al mattino
tranquilla e disertata
come se visitata
l’avessero le streghe.
Il tempo come un ciclone
spazzò da questi luoghi
le care immagini.
Di ciò che fu non rimane
che un tacito agitarsi
di memorie e di ombre.
Ma quelle voci ch’io dico
sono implacabili e vive.
Lamentose quale un funebre canto,
alla pietà l’invettiva alternando,
mi rammentano come, ancora in fasce,
m’abbia poco la sorte vezzeggiato.
SERA DI GAVINANA
Ecco la sera e spiove
sul toscano Appennino.
Con lo scender che fa le nubi a valle,
prese a lembi qua e là
come ragne fra gli alberi intricate,
si colorano i monti di viola.
Dolce vagare allora
per chi s’affanna il giorno
ed in se stesso, incredulo, si torce.
Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,
un vociar lieto e folto in cui si sente
il giorno che declina
e il riposo imminente.
Vi si mischia il pulsare, il batter secco
ed alto del camion sullo stradone
bianco che varca i monti.
E tutto quanto a sera,
grilli, campane, fonti,
a concerto e preghiera,
trema nell’aria sgombra.
Ma come più rifulge,
nell’ora che non ha un’altra luce,
il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.
Sui tuoi prati che salgono a gironi,
questo liquido verde, che rispunta
fra gl’inganni del sole ad ogni acquata,
al vento trascolora, e mi rapisce,
per l’inquieto cammino,
sì che teneramente fa star muta
l’anima vagabonda.
ESTIVA
Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore –
ci si risveglia come in un acquario –
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.
AUTUNNO VENEZIANO
L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale,
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.
ILLUSA GIOVENTU’
O gioventù, innocenza, illusioni,
tempo senza peccato, secol d’oro!
Poi che trascorsi siete
si costuma rimpiangervi
quale un perduto bene.
Io so che foste un male.
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
come un tronco sepolto nella neve:
tronco verde, muscoso,
ricco di linfa e sterile.
Ora che , esausto e roso,
sciolto da voi percorsi in un baleno
le mie fiorenti stagioni
e sparso a terra vedo
il poco frutto che han dato,
ora che la mia sorte ho conosciuta,
qual essa sia non chiedo. Così rapida
fugge la vita che ogni sorte è buona
per tanto breve giornata.
Solo di voi mi dolgo, primi inganni.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
OTTOBRE
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest’aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.
Sole d’autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell’anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t’inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch’è tutta una dolcissima agonia.
ADOLESCENTE
Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!
Pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,
per ridere un poco insieme.
Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.
* * * * * * * * * *
VINCENZO CARDARELLI
BIOGRAFIA DI VINCENZO CARDARELLI:
1887 – Vincenzo Cardarelli (il suo vero nome ra Nazareno) nasce a Corneto Tarquinia (Viterbo) il primo maggio. Da giovane pratica diversi mestieri e studia in modo irregolare.
1905 – È l’anno della morte del padre. Abbandona il paese natale, al quale fu per sempre legato da un rapporto di odio e amore, a causa dell’infanzia infelice e solitaria che vi aveva trascorso, lui afflitto da una menomazione al braccio sinistro spesso veniva affidato alla carità e alla cura di estranei.
1906 – Giunge a Roma, privo di una regolare istruzione, in cerca di fortuna; si accosta agli ambienti socialisti iniziando una attività giornalistica che lo porterà alla redazione dell’Avanti!. Inizia la relazione amorosa con la scrittrice Sibilla Aleramo, che si esaurirà nel 1912. Intanto prosegue nelle sue intense seppure disordinate letture e, abbandonate le velleità socialiste, entra in contatto con gli ambienti culturali che gravitano attorno alle principali riviste: nel 1911 invia alla Voce prezzoliniana uno studio su Charles Pégluy e inizia una assidua collaborazione al “Marzocco”.
Pubblica anche lo scritto Metodo Estetico e le prime poesie sparse. Particolarmente significativa è, in questa fase, il sodalizio con Riccardo Bacchelli, mentre fallisce il progetto a lungo vagheggiato di dare vita a una nuova rivista. Nella capitale collabora, prima del conflitto mondiale, a numerose riviste: Il Marzocco, La Voce, Lirica ed è tra i fondatori de La Ronda.
La Civita, Corneto, Roma, le memorie della sua infanzia solitaria e della sua focosa gioventù, sono i temi essenziali di un’opera che pur senza essere abbondante costituisce un alto e raro esempio di coerenza e di coscienza artistica.
Ma sarebbe difficile, e probabilmente arbitrario voler isolare nella sua produzione questo o quel titolo di una singola opera, perché Cardarelli è soprattutto il creatore di uno stile. A tale esigenza massima egli subordina, quando era in vita, ogni altra ambizione e ogni ricerca di un successo facile ed effimero.
1916 – Esce Prologhi, una raccolta di brevissime prose. Nel medesimo anno collabora alla Voce di Giuseppe De Robertis, maturando via via quelle convinzioni di un ritorno all’ordine e alla tradizione da cui nascerà nel 1919 l’esperienza decisiva della Ronda. Della rivista Cardarelli fu fra i più strenui ispiratori, dirigendola fino al 1923, quando cessò definitivamente le pubblicazioni.
1929 – Vince il Premio letterario Bagutta per il libro Il sole a picco
Io nacqui forestiero in Maremma, di padre marchigiano, e crebbi come un esiliato, assaporando con commozione tristezze e indefinibili nostalgie. Non mi ricordo la mia famiglia, né la casa dove son nato, esposta a mare, nel punto più alto del paese, buttata giù in una notte come dall’urto di un ciclone, quando io avevo due anni appena.
Sono venuto a conoscere mio padre un giorno che, nientedimeno, aveva sposato, e io soffiavo nel fornello a tutto andare, con una ventola nuova nuova. Ci fu un tempo ch’io vissi sotto la protezione d’un angelo custode e non ne ho altro ricordo se non che ero un ragazzo come tutti gli altri, curato, ben vestito e corretto con severità ed amore. Il destino, dopo avermi tolto la madre mi aveva regalato in compenso una matrigna, tutta d’oro, dal cuore alle mani. Me la aveva portata da lontano, parlava un dialetto settentrionale.
Tutta questa felicità durò poco, tre anni appena. Un dopo pranzo, che tornavo dalla scuola, passando davanti alla camera dove la mia cara madre giaceva malata e mentre son lì per entrare (ma già mi aveva sorpreso il lenzuolo che le avevano tirato fin sopra il capo) due braccia mi sollevarono e mi deposero nella camera accanto, dove una sorella della morta stava, in quel momento, levandosi di letto, dopo aver trascorso la notte vicino a lei. Erano quelle di mio padre.
Da allora la mia esistenza si complicò. I confini della mia famiglia si confusero e si dispersero. Non potendo badare a me, mio padre si vide costretto a collocarmi ora qui ora là, a dozzina. Conobbi altre case, dove fui accolto e trattato quasi in qualità di parente, attesa la mia facilità a familiarizzare. Il mondo mi allevò. […]
Per farla corta, mio padre pretendeva che io diventassi nient’altro che un buon commerciante, alla sua maniera. Ecco la ragione vera per cui non volle che studiassi e fece, senz’accorgersene, la mia rovina. […]
A sedici anni, cioè un anno avanti che mio padre morisse, ero già lontano da lui e dal mio paese. […]
Per vivere, nei primi anni, dovetti fare i mestieri più vari: addetto a vigilare l’andamento delle sveglie in un deposito d’orologi; ammanuense nello studio d’un bisbetico avvocato piemontese e socialista; impiegato nella segreteria della Federazione metallurgica; contabile; infine giornalista.
1948 – “Villa Tarantola” vince il Premio Strega per la prosa.
1959 – Muore il 18 giugno nell’Ospedale del Policlinico di Roma. Egli riposa ora nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca secondo la volontà espressa nel testamento. La Civita etrusca, che il poeta ha così di frequente evocato nelle sue poesie e nelle sue prose, aveva ai suoi occhi più il valore di un simbolo morale che non di un tema autobiografico: era stato il faro che lo aveva guidato durante la sua avventurosa navigazione tra gli scogli dell’esistenza. Visse nella povertà e nella solitudine, e morì a settantadue anni ancora più povero e più solo.
LE OPERE
Narrativa e Poesia:
• Prologhi, Milano, 1916;
• Viaggi nel tempo, Firenze, 1920;
• Terra genitrice, Roma,1935;
• Favole e memorie, Milano, 1925;
• II sole a picco, Bologna, 1928; Premio Bagutta 1929
• Prologhi viaggi, favole, Lanciano, 1929;
• Giorni in piena, Roma, 1934;
• Poesie, Roma, 1936 ristampa accresciuta, Roma, 1942;
• Rimorsi, Roma, 1944;
• Lettere non spedite, Roma, 1946;
• Poesie nuove, Venezia, 1946;
• Solitario in Arcadia, Milano, 1947;
• Villa Tarantola, Milano, 1948;Premio Strega
• Poesie, Milano, 1949;
• Invettiva ed altre poesie disperse, Milano, 1964;
• Autunno, sei vecchio, rassegnati, a cura di C. Martìgnoni, Lecce, 1988;
• Opere complete, a cura di G. Raimondi, Milano, 1962;
• Opere, a cura di C. Martignoni, Milano, 1981.
I prologhi
In quasi tutte le prose e le poesie contenute nella raccolta, le parole usate da Cardarelli sono lineari. Il mondo rappresentato è un mondo intellettuale, senza mistero. I temi che affiorano più spesso, oltre a quelli dell’addio, del distacco, della solitudine, dello sgombero, sono la morte (“Angosce letargiche le quali sono state i miei anticipi di morte”), l’anima (“Sento che il tempo cade e fa rumore nell’anima mia”), la purità (“Io sono grato al male per gli obblighi di purità che mi ha posti”), la carne (“Perché io ho ecceduto nella carne fino all’ironia”).
I viaggi nel tempo
Fin dalle prime prose e liriche, si avvertono i fremiti precorritori di un mutamento radicale e di un trapasso di paesaggio oltre che di clima. La composizione delle liriche coincide con il ritorno dello scrittore a Roma, dopo i suoi vagabondaggi in Italia e all’estero. L’ansia, l’inquietudine che avevano dominato la gioventù di Cardarelli e nelle quali si doveva ravvisare l’origine delle sue molteplici e disordinate esperienze umane e culturali, si placano via via a contatto con Roma, la città dei suoi sogni, la circe mondiale, la reggia favolosa che i papi costruirono a consolazione dei derelitti.
Settembre a Venezia, Autunno Veneziano
Autunno, Ottobre
Liguria, Sera di Liguria
Questi tre gruppi di liriche hanno molti punti in comune. Si compongono ognuno di una lirica breve, simile ad un “mottetto” musicale, alla quale si contrappone una poesia più elaborata, maggiormente orchestrata, una “sonata” o un canto a più voci. Ma l’elemento di partenza è lo stesso: una stagione, una città, un ricordo, un’emozione. Nelle prime due liriche di argomento veneziano il poeta traduce in note musicali le sensazioni suscitate nel suo animo dal trapasso dall’estate all’autunno.
LO STILE
Nel 1919, ormai affermatosi negli ambienti letterari della capitale, Cardarelli fondò la rivista La Battaglia, dalle cui pagine cominciò a combattere quella che sarebbe stata la lunga battaglia letteraria della sua vita: la restaurazione del classicismo, inteso come severa disciplina.
La restaurazione cardelliana muove dalla riscoperta e dalla rivalutazione dell’opera di Leopardi. Cardarelli, da mente acuta di critico quale era, si era accorto che l’operazione di fondo da realizzare per riportare la poesia nel suo alveo e nei suoi giusti limiti era quella di ricreare lo stile, senza il quale, i contenuti non possono che produrre oratoria. Il suo limite consiste forse nell’aver identificato lo stile con quello di una tradizione ben determinata, il suo merito sta invece nell’aver restituito alla lingua, vergini e brillanti come nuovi, parole e modi di dire consumati dal cattivo uso, sbiaditi dalla genericità dei contesti e praticamente privi della loro significazione.
Ad un ideale di classica compostezza, di perfezione stilistica e di limpidezza formale restò fedele in tutto l’arco della sua produzione: versi prima dispersi in alcuni volumi di prose e poi raccolti in Poesie nelle tre edizioni del 1936, 1942 e 1958. E’ una poesia ragionata, nella quale il discorso si sviluppa e si stende con limpidezza e fluidità, tutto avvolto da un tono meditativo, che comunica al lettore quasi sensibilmente un desolato senso di vivere.
I TEMI DELLA POESIA
Cardarelli fu un conversatore brillante ed un letterato polemico e severo, avendo vissuto una vita vagabonda, solitaria e di austera e scontrosa dignità. Suoi maestri sono stati Baudelaire, Nietzsche, Leopardi, Pascal, i quali lo hanno portato ad esprimere le proprie passioni con un senso razionale, senza troppe esaltazioni spirituali. La sua è una poesia descrittiva lineare, legata a ricordi passati di qualunque tipo, siano paesaggi animali persone e stati d’animo, che vengono espressi con un uso di un linguaggio discorsivo e nello stesso tempo impetuoso e profondo.
I temi ricorrenti nelle sue liriche sono il trascorrere delle stagioni, avvertito come simbolo dell’eterna mutevolezza delle cose, lo sfiorire dell’adolescenza e della bellezza, i vagheggiamenti dell’infanzia e dei paesaggi ad essa collegati. Sia nell’esplosione della vitalità estiva o sia nel malinconico disfarsi del paesaggio autunnale, il trascorrere delle ore del giorno e delle stagioni diventa simbolo delle vicissitudini della vita. Come scrive nella prima strofa di Ottobre:
Un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
Dal colore che inebria,
Amo la stanca stagione
Che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
Nulla più mi consola,
Di quest’aria che odora
Di mosto e di vino,
Di questo vecchio sole settembrino
Che splende nelle vigne saccheggiate.
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