Roberto Fiorini -“Dietrich Bonhoeffer – Testimone contro il nazismo” –
Gabrielli Editori-Verona
Un nuovo volume dedicato al teologo protestante luterano. Questa volta è Roberto Fiorini a regalarci un libro che si legge «tutto d’un fiato», afferma il teologo Paolo Ricca –
176 pagine proposte da Roberto Fiorini per Gabrielli Editori e dal titolo Dietrich Bonhoeffer – Testimone contro il nazismo (15 euro) parlano ancora una volta e con estrema attualità della vita, del pensiero, e della teologia del pastore luterano.
Obiettivo del libro, sostiene l’autore, «É quello di mettere il lettore in contatto direttamente con il pensiero di Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – Flossenbürg, 9 aprile 1945) con la sua parola, con le scelte maturate, con la sua fede, con il suo amore, con l’itinerario che l’ha portato sino al “caso limite”, cioè la sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo» e per questo alla sua morte.
Un libro, ricorda il teologo valdese Paolo Ricca che ne ha curato la prefazione «Si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione, ed esercita su chi ne viene a conoscenza, un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto.
Fiorini, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui – prosegue Ricca -; e quando Bonhoeffer parla è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo, per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a “guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti” in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili.
La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’“ora della tentazione”, sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: “Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi”. Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la “via stretta” (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia».
La narrazione del testo dunque è finalizzata a dare al teologo luterano la parola.
I titoli dei capitoli sono parole sue. A parte il primo che è una brevissima biografia, tutti gli altri si aprono con ampie citazioni che mettono Bonhoeffer al centro e a fuoco i temi approfonditi nei singoli capitoli.
Le pagine più intense, afferma in una bella recensione Giuseppina Vitale sul sito di Micromega «restano, senza dubbio, quelle che rivelano la netta opposizione al nazismo: «La stupidità è il nemico più pericoloso della malvagità» (p. 57), dove per stupidità intendeva la perdita della indipendenza interiore, della capacità di assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni esistenziali. È l’ostentazione esteriore di potenza, che sia religiosa o politica, a provocare la stupidità umana, quello svuotamento di senso e significato che condurrà alla perpetrazione di crimini efferati. Dinanzi alla presa di potere di Hitler, Bonhoeffer avvertì la natura invasiva del totalitarismo in tutti gli ambiti della vita, alimentando sospetto generalizzato e perciò frantumazione dei rapporti sociali. Egli identificò il führer piuttosto con la figura del verführer (seduttore), ossia colui che svia, corrompe e agisce in modo delittuoso nei confronti del seguace come di se stesso. Fiorini, riporta delle bellissime pagine nelle quali il pensiero del teologo di Breslavia irrompe nel nostro tempo, consegnando al lettore finissimi ragionamenti in grado di ispirare le coscienze. Il dissenso scuote anche la chiesa tedesca degli anni Trenta, animata da una ceca accondiscendenza nei confronti del totalitarismo».
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
La Città Futura-Dialettico e ingenuo nel tardo Brecht – Articolo di Renato Caputo-
Dialettico e ingenuo nel tardo Brecht – Articolo di Renato Caputo-
Sia sul piano strutturale dell’opera sia su quello gnoseologico della teoria, l’elemento del naïf e quello dialettico sembrano entrambi indicare nell’ultimo Brecht la direzione di un produttivo scetticismo verso ogni soluzione unilaterale del contrasto tra la componente classica e romantica dell’opera.
Articolo di Renato Caputo-Per comprendere più in profondità che cosa leghi l’elemento ingenuo a quello dialettico, centrali nella riflessione estetica dell’ultimo Bertolt Brecht, bisogna considerarli dal punto di vista della teoria della conoscenza. A questo scopo sarebbe necessario poter risalire alle fonti di cui Brecht si è servito per mettere a fuoco degli elementi così importanti per la sua opera. Anche se forse non è possibile allo stadio attuale della ricerca individuare con certezza le fonti utilizzate da Brecht, una breve analisi storica del concetto di naïf può fornirci degli elementi utili per azzardare quantomeno un’ipotesi plausibile su di esse.
Charles Batteux è stato il primo pensatore a distinguere nettamente il concetto estetico di naïf da quello psicologico, individuandovi la componente essenziale di uno stile bello. Egli lo impiegava, infatti, per indicare, in polemica con il barocco, la semplicità dei classici, che utilizzavano nell’opera solo le parti necessarie allo sviluppo del pensiero, eliminando del tutto il superfluo. Questo termine è stato ripreso dall’illuminismo tedesco che se ne è servito per indicare una semplicità (Einfalt) strettamente connessa con la nobiltà (edel) dello stile. Esso era, quindi, considerato una componente essenziale per giudicare un’opera come pienamente compiuta dal punto di vista artistico. Come ha osservato Detlev Schöttker [1] la storia seguente della categoria del naïf è stata segnata dalla perdita progressiva del significato strutturale a favore di quello concettuale. Questa tendenza ha il suo compimento nell’utilizzo del concetto nell’opera di Friedrich Schiller Sulla poesia ingenua [naive] e sentimentale. Che l’importanza assegnata da Brecht al concetto di naïf potesse venire intesa come un implicito riferimento all’opera di Schiller è risultato evidente a tutti gli studiosi che si sono occupati di questa parte della sua produzione. Tuttavia diversi critici, preoccupati di mantenere ben evidenti le differenze tra Brecht critico del classicismo e i due “dioscuri” di Weimar, hanno mirato a evidenziare le differenze tra il concetto di naïf utilizzato da Brecht e quello di cui si è servito Schiller. Così, ad esempio, Hans Mayer in Brecht e la tradizione si è sforzato di dimostrare che il concetto di cui Brecht si era servito era incommensurabile con quello utilizzato da Schiller per indicare uno “stadio presentimentale”. Schiller, infatti, aveva contraddistinto la poesia moderna con il concetto di sentimentale per differenziarla dall’immediatezza implicita nel concetto di ingenuità che utilizzava per contraddistinguere la poesia degli antichi. Per Schiller, questa concezione ingenua della poesia sarebbe da ritenere oggi del tutto inadeguata a caratterizzare una società come la nostra, segnata da un’intima scissione.
È difficile dubitare che il concetto utilizzato da Brecht abbia un significato ben diverso da quest’ultimo. Tuttavia, benché Mayer non sembri accorgersene, il termine naïf era utilizzato da Schiller anche in un’altra accezione. Con quest’ultima Schiller intendeva caratterizzare la produzione di Johann Wolfgang von Goethe, di un autore cioè che, all’interno del mondo moderno, aveva cercato di riconquistare l’ingenuità caratteristica dell’arte antica. A tal fine non era stato possibile nemmeno per Goethe cancellare la scissione del mondo contemporaneo e della sua espressione artistica, ma era stato piuttosto necessario prendere l’avvio proprio da questa. Goethe, secondo la definizione che ne dà Schiller, sarebbe, dunque, uno spirito greco condannato a vivere in un mondo nordico, che può riconquistare la sua patria originaria solo attraverso “rationalen Wege”. Solo così egli poteva appropriarsi dell’ingenuità degli antichi, ingenuità che, tuttavia, aveva perduto per sempre il carattere di immediatezza che la aveva contrassegnata. Si trattava, infatti, di una Naivität di secondo grado, che doveva portare necessariamente in sé il momento della riflessione. È, quindi, con questa seconda accezione del termine che può essere paragonato il concetto usato da Brecht. Questi come Goethe utilizzerebbe, allora, la categoria di naïf nel senso originario di Batteux, cioè come recupero della semplicità classica. Si tratta, però, di una semplicità artificialmente riconquistata, che deve essere considerata di natura dialettica.
Quindi, sia sul piano strutturale dell’opera sia su quello gnoseologico della teoria, l’elemento del naïf e quello dialettico sembrano entrambi indicare la direzione di un produttivo scetticismo verso ogni soluzione unilaterale del contrasto tra la componente classica e romantica dell’opera [2].
La tendenza inequivocabile del tardo Brecht a una classica essenzialità e immediatezza non significa, in nessun caso, una fuga di fronte alle contraddizioni laceranti della sua epoca in un’unitaria, ma astorica sfera dell’estetico, capace di ricucire la spaccatura tra essere e dover essere [3]. L’imperfezione e l’intima contraddittorietà della realtà devono costituire, al contrario, la premessa indispensabile per l’opera d’arte, la condizione di possibilità del suo carattere necessariamente riflessivo. Non solo perché l’opera non può più sottrarsi al compito di dar conto della crescente complessità del “reale”, ma soprattutto perché la frammentarietà dell’extra estetico e della sua indagine deve avere un riscontro puntuale al livello della struttura formale. A mutare negli ultimi anni, rispetto al precedente periodo avanguardistico, è l’atteggiamento di fronte alla frammentarietà del mondo e di ogni sua possibile analisi. Tensione al classicismo significa essenzialmente per Brecht virile negazione di ogni rassicurante arrendevolezza all’ineluttabilità della frammentarietà, alla metafisica del nichilismo. Il carattere di continuità e infondatezza della ricerca di una possibile e provvisoria soluzione deve restare, infatti, l’imprescindibile correlato etico di ogni esperienza estetica.
L’aspetto mimetico dell’opera, l’unico in grado di preservarne il carattere veritativo, non potendo più ingenuamente giustificarsi come copia – dato che tutti i “prototipi sono sprofondati” – deve conservare la tensione a un’organizzazione totalizzante del suo materiale, che non tema più di manifestare il suo carattere di autonomia e “sentimentalità” [4].
Note:
[1] Cfr. Detlev Schöttker, Bertolt Brechts Ästhetik des Naiven, J.B. Metzler Verlagsbuchhandlung, Stuttgart 1989, p. 15.
[2] La nostra ipotesi interpretativa della concezione brechtiana dell’arte mira a mettere in evidenza quelli che ci sembrano essere i due aspetti fondamentali che la hanno da sempre caratterizzata: il lato espressionistico, demoniaco, “romantico”, e quello lineare, “scientifico”, “classico”. Questa commistione di “apollineo” e “dionisiaco” ci sembra, infatti, il tratto maggiormente in grado di caratterizzare l’intera opera di questo autore, e non solo, come troppo spesso si è scritto, la sua fase più matura. Una tale interpretazione dovrebbe consentirci di azzardare un’ipotesi di soluzione all’annosa questione della tradizione culturale a cui dovrebbe essere ricondotta l’opera brechtiana. Il “Wiesengrund” della sua produzione artistica potrebbe, infatti, venire indicato nella “viva” dialettica in essa presente, tra la tradizione dei classici e una tradizione anticlassica, ironico-popolaresca, che fa proprio della stilizzazione satiricheggiante della tradizione classica il suo elemento di forza. Il nostro compito consiste, allora, nell’illustrare la complessità e la disomogeneità della riflessione brechtiana sull’arte moderna, considerandola come luogo d’incontro di una tradizione legata a una concezione classica dell’arte avente i suoi referenti principali in Aristotele, Hegel e Goethe e una concezione che ha le sue origini nel romanticismo di Friedrich Schlegel e di Hölderlin e che giunge a Brecht attraverso Nietzsche, il giovane Lukács e Benjamin. Una concezione, cioè, che considera la possibilità stessa di un’opera d’arte moderna indissociabile dal momento della differenza, della rottura, dell’ironia.
[3] Nel teatro “borghese” moderno la progressiva perdita della funzione sociale del dramma – ben definita non solo nel teatro antico, ma anche nel medievale – aveva aperto la possibilità, gravida di nuovi sviluppi, ma allo stesso tempo estremamente pericolosa, di fare della rappresentazione scenica uno scopo in sé. Il teatro, rompendo del tutto i ponti con le sue origini rituali e perdendo i solidi legami con un’universale visione del mondo, rischiava di veder drasticamente ridotte le sue funzioni. In primo luogo, era messa a repentaglio la sua valenza pedagogica, la sua capacità di mediare elementi conoscitivi ed etici. In secondo luogo, si era venuta a creare una crescente spaccatura tra la scena ed il suo pubblico, che tendeva ad assumere un atteggiamento sempre più passivo di fronte a una rappresentazione che aveva perso progressivamente ogni contatto con la vita activa. In terzo luogo, si era sviluppata una profonda opposizione tra testo drammatico e azione scenica, tanto che un rafforzamento del primo sembrava mettere a repentaglio necessariamente la seconda.
[4] Lo scrittore realista, per rendere comprensibile la realtà al suo pubblico, non può limitarsi a trasmettergli delle impressioni sensoriali. Il suo ruolo, infatti, deve essere attivo per poter essere attivizzante. Egli deve intervenire sulla realtà, deve prestargli le sue forme e, con l’aiuto di tutte le tecniche letterarie e conoscitive a sua disposizione, deve rappresentare, per quanto è possibile, il suo conformarsi a leggi. Solo così si può trasmettere esemplarmente al proprio pubblico quell’atteggiamento critico che permette di intervenire sulla vita stessa, di trasformarla conoscendola. Proprio per questo motivo la drammaturgia non-aristotelica non si limita a presentare al proprio pubblico un’azione scenica, ma gli comunica un atteggiamento. In altri termini, la dialettica su cui si fonda l’opera è data proprio dalla tensione a rappresentare la realtà così com’è, ma solo per suggerire al pubblico che potrebbe essere diversamente, che è necessario interrogarsi sul come dovrebbe essere. E’ possibile rappresentare la realtà, infatti, unicamente nella sua infinita molteplicità, nella sua irriducibile distinzione di livelli, nel suo perpetuo movimento trasformativo, nella sua insopprimibile contraddittorietà. Presupposto indispensabile della rappresentazione è, allora, la lotta perpetua contro ogni forma di ideologia, di schematismo, di determinismo e di pregiudizio.
Pescara-“Indiscrezioni”, in mostra la fotografia del Premio Oscar Giuseppe Tornatore
Pescara- “Indiscrezioni”, in mostra la fotografia del Premio Oscar Giuseppe Tornatore-Da Bagheria alla Siberia. Sono 28 le fotografie in bianco e nero e a colori firmate dal premio Oscar Giuseppe Tornatore esposte nella mostra Indiscrezioni a Pescara fino al 20 dicembre 2024 presso la prima sala di Fondazione La Rocca, presentata nell’ambito di Fla Festival di Libri e Altrecose e Mood Photography e a cura di Stefano Schirato.
La passione per la fotografia di Tornatore
La passione per la fotografia del regista nacque nel 1964 quando aveva solo otto anni. Sotto la guida di Mimmo Pintacuda, fotografo e proiezionista, il giovanissimo Tornatore inizia ad esplorare e documentare la sua città natale, Bagheria, con l’aiuto di una Rolleicord.
La prima sezione della mostra è dedicata agli scatti della sua Sicilia, con le immagini scattate tra il 1967 e il 1977 in cui Tornatore esplora la sua città e la sua regione. Fotografie che risuonano di nostalgia e di orgoglio, di una connessione chiara e profonda con la sua terra.
E poi i bambini che giocano per strada, le feste popolari, i manifesti incollati ai muri, i volti, i ritratti dei suoi familiari, un omaggio vero alle tradizioni siciliane, alle persone e ai luoghi che hanno plasmato il suo immaginario.
La Siberia
La seconda sezione, invece, presenta fotografie risalenti al 1999, anno in cui il regista si recò in Siberia, dopo essersi dedicato per anni esclusivamente al cinema.
Quell’anno Italgas gli commissionò un lavoro: un viaggio a Novij Urengoi, una città nata negli anni Ottanta grazie alla scoperta di oltre seimila miliardi di metri cubi di riserve naturali. Le foto immortalano la natura, la resilienza della popolazione locale, il contrasto tra il paesaggio urbano e quello siberiano con le sue bufere di neve.
Tornatore poi si spinse oltre il conglomerato urbano, oltre il Circolo Polare Artico, dove fotografò le comunità di cacciatori di renne, documentando l’immensità degli spazi aperti fino ai momenti più intimi degli uomini e donne che vivono lì.
Da Bagheria alla Siberia. Sono 28 le fotografie in bianco e nero e a colori firmate dal premio Oscar Giuseppe Tornatore esposte nella mostra Indiscrezioni a Pescara fino al 20 dicembre presso la prima sala di Fondazione La Rocca, presentata nell’ambito di Fla Festival di Libri e Altrecose e Mood Photography e a cura di Stefano Schirato.
La passione per la fotografia di Tornatore
La passione per la fotografia del regista nacque nel 1964 quando aveva solo otto anni. Sotto la guida di Mimmo Pintacuda, fotografo e proiezionista, il giovanissimo Tornatore inizia ad esplorare e documentare la sua città natale, Bagheria, con l’aiuto di una Rolleicord.
La prima sezione della mostra è dedicata agli scatti della sua Sicilia, con le immagini scattate tra il 1967 e il 1977 in cui Tornatore esplora la sua città e la sua regione. Fotografie che risuonano di nostalgia e di orgoglio, di una connessione chiara e profonda con la sua terra.
E poi i bambini che giocano per strada, le feste popolari, i manifesti incollati ai muri, i volti, i ritratti dei suoi familiari, un omaggio vero alle tradizioni siciliane, alle persone e ai luoghi che hanno plasmato il suo immaginario.
La Siberia
La seconda sezione, invece, presenta fotografie risalenti al 1999, anno in cui il regista si recò in Siberia, dopo essersi dedicato per anni esclusivamente al cinema.
Quell’anno Italgas gli commissionò un lavoro: un viaggio a Novij Urengoi, una città nata negli anni Ottanta grazie alla scoperta di oltre seimila miliardi di metri cubi di riserve naturali. Le foto immortalano la natura, la resilienza della popolazione locale, il contrasto tra il paesaggio urbano e quello siberiano con le sue bufere di neve.
Tornatore poi si spinse oltre il conglomerato urbano, oltre il Circolo Polare Artico, dove fotografò le comunità di cacciatori di renne, documentando l’immensità degli spazi aperti fino ai momenti più intimi degli uomini e donne che vivono lì.
In esposizione una selezione di 28 immagini, scelte tra la produzione fotografica del regista Premio Oscar e suddivise in due sezioni dedicate rispettivamente alla Sicilia (1967-1977) e alla Siberia (1999).
All’età di otto anni, Giuseppe Tornatore comincia a frequentare Mimmo Pintacuda, proiezionista del Cinema Capitol di Bagheria e fotografo. Le foto di Pintacuda stupiscono il futuro regista ancora bambino perché gli mostrano aspetti mai visti del suo paese natale. Grazie all’esempio e alla passione del maestro, con la sua fedele Rolleicord al seguito, Giuseppe inizia un lungo periodo di esplorazione della realtà che lo circonda.
Le immagini siciliane di quel periodo risuonano di nostalgia e orgoglio, rivelando la profonda connessione con la sua terra di origine. Il gioco dei bambini in strada, le feste popolari, i manifesti incollati ai muri, i volti, i ritratti dei suoi familiari: ogni scatto ferma nel tempo un momento e rende omaggio alle tradizioni, alle persone e ai luoghi che hanno plasmato il suo immaginario.
È solo nel 1999 che, dopo essersi dedicato quasi esclusivamente al cinema, il regista torna alla sua antica passione. L’occasione è un lavoro commissionatogli dall’Italgas: un viaggio in Siberia per raccontare Novij Urengoi, un moderno agglomerato urbano, nato intorno agli anni 80’, grazie alla scoperta di oltre 6000 miliardi di metri cubi di riserve di gas naturali.
Tornatore accetta e il risultato è un alternarsi di sagome scure, quasi irriconoscibili, avvolte in bufere di neve e scene di interni familiari e quotidiani. Tornatore si spinge poi oltre il Circolo Polare Artico, dove ritrae le
comunità di cacciatori di renne, rivelando un contrasto affascinante tra la vastità degli spazi aperti e l’intimità delle vite di uomini e donne che hanno imparato a vivere in armonia con un ambiente ostile.
Dove Fondazione La Rocca
Via Raffaele Paolucci 71
Pescara
Orari di apertura
(9 novembre – 20 dicembre 2024)
dal martedì al sabato, ore 16:00 – 20:00
Altre info
Mostra organizzata in collaborazione tra FLA Festival di Libri e Altrecose e MOOD Photography nell’ambito di FLAsh, la sezione del festival dedicata ai linguaggi fotografici.
La mostra è ospitata dalla Fondazione La Rocca.
*** Ingresso libero
’Ateneo e Campus è stato istituito quale Università telematica con Decreto Ministeriale 30 gennaio 2006. Ha sede operativa presso l’ex centro IBM di Novedrate (CO), in un campus immerso nel tranquillo verde della Brianza con 270 camere e in un insieme di spazi e luoghi di interesse a disposizione degli studenti, dei professori e degli ospiti italiani e stranieri per gli esami e le attività di arricchimento curriculare quali corsi intensivi, seminari e convegni
Sonia Elvireanu, “Ensoleillements au cœur du silence” –
“Scintillii nel cuore del silenzio”
(Giuliano Ladolfi editore, 2022) dalla Rivista Atelier-
Nota di Claude Luezior, traduzione a cura di Giuliano Ladolfi
Nella raccolta di Sonia Elvireanu la contemplazione della natura si nutre di profonda riflessione secondo due diverse modalità: una poetica e una esistenziale. Il titolo “Scintillii nel cuore del silenzio” ci indirizza nella lettura: il primo termine ribadisce la vocazione della poetessa a procedere mediante “illuminazioni” o “fulgurazioni”, momenti di grazia in cui la visione poetica viene fermata sulla carta, senza alcun obbligo di trovare tra di essi nessi, consequenzialità, coerenza, sviluppo. Ma questa è la vita che procede in modo desultorio e contraddittorio; è il nostro modo di rapportarci con il reale, modo sempre esposto a una quantità di moti interiori in cui presente, passato e futuro si uniscono e discordano, in cui ricordi e speranze rivivono nella dimensione conscia e inconscia e creano quel magma che nessun tipo di analisi riesce a razionalizzare completamente.
Premio d’Onore al concorso “Exellence 2022”, Accademia poetica e letteraria della Provenza, Francia.
Nella raccolta di Sonia Elvireanu la contemplazione della natura si nutre di profonda riflessione secondo due diverse modalità: una poetica e una esistenziale. Il titolo Scintillii nel cuore del silenzio ci indirizza nella lettura: il primo termine ribadisce la vocazione della poetessa a procedere mediante “illuminazioni” o “fulgurazioni”, momenti di grazia in cui la visione poetica viene fermata sulla carta, senza alcun obbligo di trovare tra di essi nessi, consequenzialità, coerenza, sviluppo. Ma questa è la vita che procede in modo desultorio e contraddittorio; è il nostro modo di rapportarci con il reale, modo sempre esposto a una quantità di moti interiori in cui presente, passato e futuro si uniscono e discordano, in cui ricordi e speranze rivivono nella dimensione conscia e inconscia e creano quel magma che nessun tipo di analisi riesce a razionalizzare completamente.
Dans le recueil de poèmes de Sonia Elvireanu, la contemplation de la nature se nourrit d’une réflexion profonde selon deux modalités différentes : poétique et existentielle. Le titre Ensoleillements au cœur du silence nous guide dans notre lecture : le premier terme réitère la vocation du poète à procéder par “ illuminations “, moments de grâce où la vision poétique s’arrête sur le papier, sans obligation de trouver entre eux des connexions, des conséquences, des cohérences, des développements. Mais c’est la vie, qui se déroule de façon désordonnée et contradictoire ; c’est notre façon de nous rapporter à la réalité, une façon qui est toujours exposée à une quantité de mouvements intérieurs dans lesquels le présent, le passé et le futur s’unissent et discordent, dans lesquels les souvenirs et les espoirs revivent dans la dimension consciente et inconsciente et créent ce magma qu’aucun type d’analyse ne parvient à rationaliser complètement.
Sonia Elvireanu è poetessa, romanziere, critico letterario, saggista, traduttore, membro dell’Unione degli Scrittori della Romania. Ha conseguito il dottorato in Filologia, è professoressa; membro del Centro di ricerca sull’immaginario e del Centro di ricerca filologica per il dialogo multiculturale dell’Università “1 dicembre 1918”, Alba Iulia; è membro della Federazione internazionale degli insegnanti francesi (FIPF), vicepresidente e coordinatore culturale dell’Associazione franco-rumena AMI.
Con la casa editrice Giuliano Ladolfi ha pubblicato la raccolta di poesie Il canto del mare all’ombra dell’airone cinerino (2021).
Peindre les mots: l’expression est connue et a été employée en particulier par l’écrivain suisse Jacques Chessex. De plus, celui qui sait exactement d’avance ce qu’il va peindre est-il vraiment un artiste ? Celui qui connaît précisément ce qu’il va écrire en renvoyant les muses accrochées à ses lignes est-il poète ?
Lire Elvireanu, c’est s’immerger dans un monde onirique qui nous fait penser à celui de Claude Monet, comme nous l’avons déjà noté dans notre recension de son recueil, Le souffle du ciel. Monde enchanté où l’on picore les miettes de la couleur, des ensoleillements où chantent espaces et quiétudes…
Ne t’en vas pas, Lecteur : prends la pause sur le pont japonais du génial impressionniste : écoute la poétesse, susurre, psalmodie ses lignes au goût de miel. En français qu’Elvireanu maîtrise avec une aisance déconcertante, mais ici également en italien, la langue des anges que nous propose avec élégance son traducteur, préfacier et éditeur Giuliano Ladolfi.
Idiomes peints par des créateurs, au-delà du descriptif, propres au rêve, tout à la fois profanes et sacrés, intimistes et fantastiques, dans un au-delà de la texture grammaticale, dans un dépassement de soi.
Dans le brouillard (p.56)
Une brume bleuâtre
enveloppe l’argile au crépuscule,
le murmure d’un bourgeon
meurtri,
sous l’écorce,
le frémissement du silence,
l’iris de l’épanouissement
esseulé.
Brouillard, teintes bleuâtres, murmures, sous l’écorce, touches verbales mais aussi fascination transculturelle d’une écrivaine roumaine nous prenant par la rétine, avec, en miroir, les sonorités transalpines si riches de leurs voyelles! Les nymphéas de Monet en frémissent d’aise… Déambulation délicate, sécrétions de pétales et de mots en un silence feutré…
La poésie, telle la peinture, est souvent faite de surprises, d’émotions, d’inconscient à la marge du narratif : j’ai l’impression d’être dans l’attente du mystère / avec son pouvoir de te prendre aux tréfonds / pour te faire sentir la vie, aux mille visages / s’émerveillant de ses mots, de ton image (p. 106).
On se rapproche du passage entre le formel et le non-figuratif. L’académicien Henri Troyat ne disait-il que, même dans un roman, les personnages prennent le pouvoir ? Ici, c’est l’âme qui, dans l’éclat / de l’argile / céleste (p. 210), occupe toute la scène.
Peintre des mots : Sonia Elvireanu serait-elle un auteur impressionniste ?
Écrivain suisse romand (francophone), Claude Luezior est médecin, spécialiste en neurologie (son nom civil est Claude-André Dessibourg) et ancien professeur à l’Université. Par ailleurs, il a publié une cinquantaine d’ouvrages littéraires, dont une majorité à Paris : romans, nouvelles, recueils de poésie, une biographie romancée à propos du peintre Armand Niquille, un essai concernant la cathédrale de Fribourg ainsi que des ouvrages d’art. Plusieurs livres de Luezior sont traduits en langues étrangères et en braille. Huit d’entre-eux sont enregistrés en livres parlés pour les malvoyants de langue française. Il reçoit plusieurs distinctions, dont le Prix européen ADELF-Ville de Paris au Sénat en 1995 ainsi qu’un Prix de poésie de l’Académie française en 2001 (Hélène Carrère d’Encausse). Fasciné par le monde des idées et des mots, à la fois prosateur (Urbs), poète (Haute Couture) et homme de plume engagé (Nourrir les Colombes contre la guerre en Irak), Claude Luezior défend l’exclu (Monastères), celui que le sort fragilise (Impatiences) ou ceux atteints de handicaps (Rebelles).
Claude Luezior
Sonia Elvireanu è poetessa, romanziere, critico letterario, saggista, traduttore, membro dell’Unione degli Scrittori della Romania. Ha conseguito il dottorato in Filologia, è professoressa; membro del Centro di ricerca sull’immaginario e del Centro di ricerca filologica per il dialogo multiculturale dell’Università “1 dicembre 1918”, Alba Iulia; è membro della Federazione internazionale degli insegnanti francesi (FIPF), vicepresidente e coordinatore culturale dell’Associazione franco-rumena AMI. Ha scritto diverse opere molto apprezzate in patria e all’estero. Con la casa editrice Giuliano Ladolfi ha pubblicato la raccolta di poesie Il canto del mare all’ombra dell’airone cinerino (2021).
Claude Luezior è uno scrittore svizzero di lingua francese, medico specializzato in neurologia (il suo nome civile è Claude-André Dessibourg) ed ex professore universitario. Ha pubblicato una cinquantina di opere letterarie, la maggior parte delle quali a Parigi: romanzi, racconti, raccolte di poesie, una biografia romanzata del pittore Armand Niquille, un saggio sulla cattedrale di Friburgo e libri d’arte. Molti dei libri di Luezior sono stati tradotti in lingue straniere e in Braille. Otto di essi sono registrati come libri parlanti per ipovedenti in francese. Ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Premio europeo ADELF-Città di Parigi al Senato nel 1995 e il Premio di poesia dell’Accademia di Francia nel 2001 (Hélène Carrère d’Encausse). Affascinato dal mondo delle idee e delle parole, scrittore di prosa (Urbs), poeta (Haute Couture) e scrittore impegnato (Nourrir les Colombes contre la guerre en Irak), Claude Luezior difende gli esclusi (Monastères), i fiaccati dal destino (Impatiences) o i disabili (Rebelles).
Traduzione a cura di Giuliano Ladolfi
Dipingere le parole: l’espressione è ben nota ed è stata utilizzata in particolare dallo scrittore svizzero Jacques Chessex. Inoltre, la persona che sa esattamente in anticipo che cosa dipingerà è davvero un artista? È poeta colui che sa esattamente cosa scriverà licenziando le muse aggrappate ai suoi versi?
Leggere Elvireanu comporta immergersi in un mondo onirico che ricorda quello di Claude Monet, come abbiamo già notato nella nostra recensione della sua raccolta Le souffle du ciel: un mondo incantato dove si beccano le briciole del colore, scintillii dove cantano spazi sereni…
Non andare via, lettore: fai una pausa sul ponte giapponese del genio impressionista; ascolta la poetessa, sussurra, canta i suoi versi dal sapore di miele: in francese, lingua che Elvireanu padroneggia con sconcertante facilità, ma qui anche in italiano, la lingua degli angeli, che il suo traduttore, prefatore e curatore Giuliano Ladolfi ci offre con eleganza.
Modi di dire dipinti dai creatori, al di là di una descrizione, affini al sogno, profani e sacri insieme, intimi e fantastici, in un al di là della trama grammaticale, in un superamento di sé.
Nella nebbia (p. 57)
Una nebbia azzurrina
al crepuscolo avvolge l’argilla,
il mormorio di una gemma
straziata
sotto la corteccia,
il sussulto del silenzio,
l’iris della fioritura
solitaria.
Nebbia, sfumature bluastre, sussurri, sotto la corteccia, tocchi verbali ma anche fascino transculturale di una scrittrice rumena che ci prende per la retina, con, di riflesso, i suoni transalpini così ricchi di vocali! Le ninfee di Monet fremono di gioia… Passeggiata delicata, secrezioni di petali e parole in un silenzio sommesso…
La poesia, come la pittura, è spesso fatta di sorprese, di emozioni, di inconscio al margine della narrazione: Mi sento come se stessi aspettando il mistero / con il suo potere di portarti nelle profondità / per farti sentire la vita, dai mille volti, / che si meraviglia delle sue parole, della tua immagine (p. 107).
Ci stiamo avvicinando alla transizione tra il formale e il non figurativo. L’accademico Henri Troyat non diceva forse che, anche in un romanzo, i personaggi prendono il sopravvento? Qui è l’anima che, nel bagliore / dell’argilla / celeste (p. 211), occupa tutta la scena.
Pittrice di parole: Sonia Elvireanu è un’autrice impressionista?
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
Contattaci
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
MARINO (Roma)- Art x Peace-Progetto itinerante dove la pace è il tema principale-
MARINO (Roma)-Art x Peace-Dopo la grande partecipazione di pubblico ed enorme successo di ART X PEACE nella primo steep di Calcata L’ ASSOCIAZIONE CULTURALE ADRENALINA presenta:“ART X PEACE” 2° step artisti per la Pace.
Sabato 9 Novembre 2024 dalle ore 19:30 presso il Museo Civico U.Mastroianni di Marino. “ART X PEACE” è un progetto itinerante dove la PACE è il tema principale del racconto attraverso opere, performance ed eventi di ARTE, MUSICA, POESIA e SPORT all’interno di luoghi caratteristici e caratterizzanti, dove la socialità ed il messaggio che regalano le opere o i gesti, sono la base per la costruzione di un mondo migliore.
Artisti internazionali, testimonial sportivi e culturali arricchiranno con la loro presenza e con le loro testimonianze l’evento.
Sarà realizzato un docufilm che sarà testimonianza e messaggio.
Tutti gli eventi sono ad ingresso e partecipazione gratuita.
Programma evento:
ore 19:30 Inaugurazione mostra
presentano Mr Ferdy il Guru & Alessandro Gatta
Sigla d’apertura evento ART X PEACE, saluti istituzionali del Sindaco Stefano Cecchi, dell’assessore alla Cultura Pamela Muccini, del Direttore del Museo Alessandro Bedetti del rappresentante dell’associazione culturale Adrenalina, di Mario Placidini giornalista e autore del programma Borghi D’Italia.
Presentazione opere degli artisti partecipanti:
Ferdinando Colloca (autore dell’opera ufficiale dei campionati europei di Atletica Leggera Roma 2024),
Barbara Berardicurti,
Gilda Luzzi,
Angelo Cortese,
Stina Ekelund,
Gaetano Iaccarino,
Nicolo’ Caito
Michele Barbaro,
Carmen Carriero,
Michela Lenzi,
Nina Kulishova,
Julius Kaiser,
Marina Petroni,
Stefania Rossi,
Lidia Scalzo,
Matteo Tomaselli,
Kyrahm Chessa e Julius Kaiser,
Luca Di Bianca (Il Cacciatore Errante) Io sono del Mondo
+ ulteriori artisti in adesione alla mostra/evento
Apertura attività con la presentazione del libro “VOARCHADUMIA”.
In anteprima assoluta, dopo il lancio alla BuchMesse di Francoforte, il romanzo alchemico “Voarchadumia” di Carla Isabella Elena Cace approda ad Adrenalina.
Opera prima della giornalista e storica dell’arte, edito da Idrovolante, promette di affascinare i lettori con un viaggio coinvolgente tra mistero, storia e alchimia. Questo avvincente romanzo, ambientato su due piani temporali — un’indefinita contemporaneità romana e il XVI secolo a Venezia — esplora il profondo legame tra passato e presente attraverso gli occhi di due protagoniste femminili: Isabella e Loredana Tron.
Presente all’evento l’autrice CARLA ISABELLA ELENA CACE e reduce dal Premio Campiello, la super moderatrice Anna Laura Consalvi.
A seguire performance di body art di Nora Lux “TURAN” (progetto Octogon)
Installazione vivente “SKIN & PEACE fluo” del Maestro Ferdy Colloca.
Reading di poesie di Tonino Colloca tratte dalla raccolta “Olive Nere”, Mario Sandro Panico tratte da “L’intimidezza dell’infinito”, Alessandra Iannotta tratte da “Muse sciamane” e di Stefano Ambrosi.
Si ringrazia il Comune di Marino e tutta la Giunta, Il Direttore del Museo Alessandro Bedetti.
E ‘un’iniziativa volte alla valorizzazione della Regione Lazio, anche in modo da favorire la promozione e divulgazione dell’immagine della stessa e produrre importanti ricadute positive in ambito turistico ed economico sui territori interessati.
Si consiglia di parcheggiare le autovetture al Parcheggio Sotterraneo multipiano di Via Mons. Grassi aperto h24.
La storia e le voci di poetesse,da Anna Achmatova a Maria Wisława Anna Szymborska, che hanno lasciato il segno nella cultura mondiale con il loro immaginario potente. Sono autrici che dal Medio Oriente all’Est Europa rappresentano mondi poetici caratterizzati da mille culture e da uno sguardo aperto e profondo sulla contemporaneità.La poesia delle donne, una storia da raccontare -Articolo di Lorenzo Pompeo– Con il loro immaginario potente, le voci delle poetesse hanno lasciato il segno nella letteratura mondiale, con una sensibilità aperta a mille culture e uno sguardo sempre attento alla realtà storica e sociale. Pubblichiamo un estratto del libro di Left “La poesia delle donne” di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo che il 20 ottobre 2022 è stato presentato a Roma presso la Biblioteca comunale “Goffredo Mameli” via del Pigneto n. 22-
La poesia femminile rappresenta una questione aperta, un quesito al quale la presente antologia vorrebbe offrire solo un modesto contributo. Non vogliamo offrire risposte definitive, semmai porre domande, a partire dalla definizione stessa della categoria: esiste una poesia femminile? Esiste una differenza significativa che la contraddistingue? È utile o necessario creare una categoria a parte?
Partiamo da alcune considerazioni introduttive: se da un lato a partire da Saffo, vissuta presumibilmente tra il 630 e il 570 a. C., la poesia femminile è una realtà testimoniata nella storia da molte altre figure, è pur vero che fino al XIX secolo si è trattato di presenze marginali, casi eccezionali e rari. Le cose cambiano in modo sostanziale con la Rivoluzione industriale e il lento processo di emancipazione femminile. Attraverso l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, si andò affermando nelle società occidentali prima, e poi in tutto il mondo, seppure in modo graduale e parziale, il principio della parità di diritti. Mano a mano che questo processo avanzava nel corso del XIX e del XX secolo, anche nel mondo dell’arte e della poesia la presenza femminile è diventata sempre più importante, in numeri e peso specifico. Ciò malgrado, si tratta pur sempre di una presenza ancora largamente minoritaria. E se consideriamo la questione in una ottica mondiale, anche oggi esistono Paesi e vaste aree geografiche in cui l’accesso all’istruzione è ancora precluso alle donne, oppure ostacolato da circostanze materiali che di fatto impediscono tale accesso. Ciò malgrado, non è raro il caso di bambine nate in seno a famiglie prive di mezzi che grazie alla loro forza di volontà sono riuscite a far sentire la propria voce attraverso i loro versi malgrado mille difficoltà e ostacoli, facendosi spesso portatrici di una visione del mondo nuova e inedita, ribellandosi cioè a quell’atavico silenzio in cui le loro madri, le sorelle e le nonne erano e sono ancora confinate da una tradizione secolare.
Ma questo è solo uno degli aspetti del mondo della poesia femminile del ’900, a cui senza dubbio occorre prestare la massima attenzione (anche perché si tratta di figure spesso marginali o emarginate anche nel mercato editoriale italiano, che solitamente alla poesia presta già ben poca attenzione). Ma la poesia femminile del ’900 non fu solo uno strumento per rivendicare il diritto alla parola delle donne. O meglio, in alcuni casi lo è stato, ma se la prendiamo in esame esclusivamente da questo punto di vista, si finirebbe per attribuirle uno statuto puramente finalistico e, in quanto tale, presumibilmente inferiore, se consideriamo la poesia una forma d’arte. Eccoci quindi di fronte allo scoglio principale: a questo punto forse qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe meglio ignorare completamente la questione di genere (posizione condivisa anche da alcune poetesse, come ad esempio il premio Nobel Wisława Szymborska). Poesia engagé o “arte pura”? – Un antico dilemma, che però può assumere un significato inedito se declinato al maschile e al femminile. Sorgono però a questo punto nuove domande che inevitabilmente chiamano in causa la dimensione pubblica e quella privata della poesia, dei poeti e delle poetesse.
È indubbio che il movimento femminista ha giocato un ruolo importante nello sviluppo della poesia femminile, creando le condizioni necessarie affinché la presenza delle donne nel mondo delle lettere non si limitasse a casi sporadici e isolati. Ma sarebbe limitante ricomprendere tale fenomeno esclusivamente nell’alveo del femminismo. L’arte del ’900 fu prima di tutto sperimentazione e ricerca, rottura di schemi e di immagini preordinate. In questo processo la presenza delle donne è stato un elemento capitale, aspetto forse ancora non del tutto recepito nel canone del secolo appena trascorso….
Il testo è un estratto dal libro di LeftLa poesia delle donne di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo.
Premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi anni e una delle poetesse più amate dal pubblico di tutto il mondo. In Polonia i suoi libri hanno raggiunto cifre di vendita (500 000 copie vendute, come un bestseller) che rivaleggiano con quelle dei più notevoli autori di prosa, nonostante abbia ironicamente osservato, nella poesia intitolata Ad alcuni piace la poesia (Niektórzy lubią poezję), che la poesia piace a più di due persone su mille.
Tradotto da: Agnese Grieco e Vittorio Lingiardi- Neri Pozza Editore
Descrizione del libro di Joseph Campbell-Le pagine che seguono costituiscono il puntuale resoconto di una lunga conversazione tra Bill Moyers, una delle grandi firme del giornalismo americano, e Joseph Campbell. Parte della conversazione ebbe luogo allo Skywalker Ranch di George Lucas, il celebre regista e produttore che ha pubblicamente riconosciuto l’enorme influenza degli studi mitologici di Campbell sul suo cinema. «Perché abbiamo bisogno della mitologia?»: questa domanda ricorre in varie forme nel testo e ne rappresenta, in un certo senso, il filo conduttore. Campbell non si sottrae al compito di offrire al lettore una risposta chiara ed esauriente. I miti, per lui, non sono soltanto i «resti» del mondo antico che coprono le pareti del nostro sistema interiore di credenze, come i cocci del vasellame rotto in un sito archeologico. I miti, e i rituali che li evocano, riaffiorano puntualmente in molte delle cose della vita di oggi, dalla religione alla guerra, dall’amore alla morte, poiché riposano sulla «continua necessità della psiche umana di trovare un centro fatto di principi profondi». La mitologia, perciò, non è una mera disciplina di studio dei popoli e delle civiltà antiche, ma «il canto dell’universo», «la musica delle sfere», musica al cui ritmo danziamo anche quando non possiamo dare un nome al motivo, e di cui udiamo i ritornelli «ogni volta che ascoltiamo con distaccato divertimento il farneticante rituale di qual che stregone guaritore del Congo o leggiamo con colto rapimento le traduzioni degli idilli di Lao Tzu, o rom piamo qua e là il guscio duro di un’argomentazione di Tommaso d’Aquino, o cogliamo al volo il significato illuminante di una bizzarra fiaba eschimese». Senza cesure e tuttavia senza contrasti, il grande studioso parla liberamente di tradizioni e racconti egizi e greci, ebraici e indiani, islamici e pellerossa, di narrazioni bibliche e chansons de geste, delle tribù dell’Oceania e di Martin Luther King, della cattedrale di Chartres, di John Wayne, Re Artù e Star Wars, accomunandoli nella sua straordinaria affabulazione di impareggiabile cantore del potere del mito.
AUTORE
Breve biografia di Joseph Campbell (New York, 1904-1987) studiò letteratura alla Columbia University, sanscrito e filosofia a Parigi e Monaco. Per trentotto anni fu titolare della cattedra di Mitologia comparata al Sarah Lawrence College circondato dalla fama di maestro e di uomo ricchissimo di umanità. Tra le sue opere principali, L’eroe dei mille volti, Le maschere di Dio. Alla sua morte, Campbell stava lavorando al secondo volume del suo monumentale atlante storico della mitologia mondiale.
RECENSIONI
«Ciò che il grande, sapiente Joseph Campbell ci ha rivelato è che l’umanità comune a ciascuno di noi è, secondo una delle sue più belle e profonde espressioni, la meraviglia e la magia trasformatrice della storia. Leggere Campbell significa aprirsi davvero alla luce e ribadire che la nostra creatività è la sola, autentica voce del nostro destino». Gregory David Roberts, autore di Shantaram
«Joseph Campbell è uno di quei rari, seri intellettuali americani che ha abbracciato la cultura popolare». Newsweek
«Eccezionale e ancora incredibilmente attuale». San Francisco Chronicle
Mariantonia Crupi: il nuovo romanzo “I limoni e la malvarosa”
– Adhoc Edizioni–
Descrizione del libro Mariantonia Crupi-“I limoni e la malvarosa” è un romanzo al plurale, dominato da un universo di donne che attraversano il tempo nel paese di Acquaro, ai piedi delle Serre calabresi, il paese dell’autrice, narrate attraverso una scrittura evocativa, elegante e intensa, e che esprime, al tempo stesso, i moti dell’anima e gli slanci della natura, il passato e il presente, uniti da una grande casa di pietra, un fiume, una panchina che vive i suoi secoli di vita, declinandoli agli amori, alle passioni, alle perdite, alla speranza.
«“I limoni e la malvarosa” è il titolo, malinconico e suggestivo, un po’ gattopardo, un po’ alla ricerca del tempo perduto di un lungo viaggio di sentimenti e di memoria, di gratitudine, amicizia e solidarietà, di partenze, ritorni e solitudini, la Calabria lontana, voluta e sofferta, bella e passionale»,commenta la scrittrice. Sinossi
Lina, figlia di un ricco borghese, muore pochi giorni prima del suo matrimonio con Riccardo.
Riccardo sposa quindi Diamante, la migliore amica di Lina, nobile e non bella.
Vivono, insieme alla madre di lei, nella grande casa di pietra adiacente il fiume.
Per loro lavorano Apollonia, Maruzza e la greca Vasiliki, unite da rapporti di profonda solidarietà, e le loro vicende personali si intrecciano al destino stesso dell’intero paese, tra partenze, perdite, assenze, solitudini, amori impossibili, passioni e tormenti infiniti, sottolineati dal canto d’acqua del fiume, che si assapora, e possiede voci, sensazioni e memorie.
È la giovane Diamante che, al termine di un doloroso percorso di formazione, sa dare voce alle loro esperienze individuali, unendole in una personalissima catarsi, con un ritorno agognato ma sofferto, in una terra non sempre prodiga, mai facile, sempre amata.
Biografia di Mariantonia Crupi è nata ad Acquaro e vive a Pizzo di Calabria.
È stata docente di Lingua e Letteratura Francese presso l’Istituto Tecnico Commerciale di Pizzo e l’Istituto Alberghiero di Vibo Valentia. “I limoni e la malvarosa” è il suo romanzo di esordio.
Descrizione del libro di Simona Colarizi per “Le smanie per la villeggiatura”Il caldo dell’estate del 1968 riusciva laddove aveva fallito la forza pubblica: alla spicciolata gli studenti lasciavano le aule dell’università dove si erano barricati dopo la prova di forza in difesa della facoltà di architettura a Roma. Sgomberata dalla polizia per ordine del rettore D’Avack e di nuovo rioccupata, per gli studenti era diventata un simbolo della contestazione che ormai da due anni aveva messo a soqquadro gli atenei di tutta Italia. Così nel marzo un corteo di 4000 giovani si avviava in due direzioni: una parte raggiungeva la Facoltà di Architettura a Valle Giulia, un’altra forzava i cancelli dell’Università centrale. Era però tra Villa Borghese e le vie adiacenti dei Parioli, il quartiere privilegiato dalla borghesia benestante della capitale, l’epicentro degli scontri con i “celerini”, i reparti della PS dalla mano pesante, i più odiati dagli studenti.
Nell’immaginario dell’epoca era stata una vera battaglia, la “battaglia di Valle Giulia”, con lanci di sassi e manganellate, cariche della polizia e fughe dei dimostranti. D’altra parte della città si scatenava la rissa nella sede centrale sotto le finestre di Giurisprudenza, occupata dagli studenti dell’estrema destra, e sulla scalinata della Facoltà di Lettere, quartier generale degli studenti di sinistra; gli uni e gli altri decisi a difendere i propri spazi che la fazione opposta voleva conquistare. Queste giornate della primavera 1968 avevano suscitato clamore in tutto il paese anche per la condanna contro gli studenti “figli di papà”, lanciata da Pier Paolo Pasolini nella famosa poesia “Il Pci ai giovani”. E tra quei giovani della sinistra c’erano ragazzi destinati a diventare intellettuali ed editorialisti di peso nella vita politica italiana nei decenni successivi.
Da mesi non c’era stato un giorno di tregua negli atenei di tutta Italia dove si sperimentavano lezioni alternative ai vecchi corsi, si sospendevano le sedute di laurea e gli esami, si mettevano al bando i professori che resistevano alle innovazioni didattiche imposte dagli studenti. Si chiedeva in sostanza un rinnovamento profondo nei saperi, un ricambio dei docenti, una trasformazione delle vecchie strutture insufficienti a contenere la crescita della massa studentesca, soprattutto si voleva abbattere il vecchio Gotha accademico che esercitava un potere assoluto, autoritario e opaco. Insomma, gli studenti chiedevano la riforma delle università rimaste quelle dell’epoca fascista, con le stesse regole e con gli stessi professori; università elitarie dove accedevano solo i figli della borghesia, mentre restava ferma al 3% la percentuale degli studenti provenienti dai ceti sociali più bassi.
Riforme non rivoluzione dunque: il cuore della contestazione sessantottina era ancora democratico, ottimista, dissacrante e allegro, una fase speciale nella vita delle giovani generazioni – e persino delle studentesse – che sperimentavano nuove libertà e trasgressioni, violando codici familiari e accademici consolidati nei secoli. Così sarebbe stata anche la lunga estate del 1968, “l’ultima estate dell’innocenza”, prima che prendessero la direzione del movimento i nuclei politici di estremisti votati alla rivoluzione e nell’estrema destra si cominciasse a teorizzare la strategia della tensione. In pochi si erano resi conto che i primi semi della violenza avevano già cominciato a mettere radici quanto più gli obiettivi della riforma universitaria si sommavano alla critica dell’intero sistema politico italiano e internazionale occidentale, quelle democrazie nate dopo il secondo conflitto mondiale ma rimaste prigioniere della guerra fredda; fredda in Europa, ma calda in altre parti del mondo, e le dimostrazioni contro l’intervento americano in Vietnam erano state l’incubatrice dell’aggregazione studentesca già negli anni precedenti il Sessantotto.
Al salto di qualità nella politica aveva concorso un evento chiave per capire l’evoluzione della contestazione. Nel 1968, due mesi dopo gli scontri a Valle Giulia, era esploso il “maggio francese” che aveva fatto del quartiere latino parigino la meta prediletta dei più avventurosi contestatori italiani ed europei. Un vero e proprio “pellegrinaggio”, in realtà l’anticipo di vacanze all’estero mai sperimentate fino a quel momento dai tanti giovani che si raccoglievano davanti a “Sciences Po” scandendo in una confusione di lingue gli stessi slogan: “L’immaginazione al potere”, “Tutto e subito”, “Joussiez sans entraves” e tanti altri dipinti a grandi lettere sulle pareti delle università, come la scritta “Il est interdit d’interdire” che campeggiava sulla facciata della Sorbonne.
Per quasi un mese agli occhi dei giovani, Parigi era apparsa l’epicentro di una vera e propria rivoluzione che aveva allarmato anche le autorità francesi già in allarme per le continue manifestazioni delle masse operaie alle quali si univano adesso i cortei degli studenti. Da tempo in Francia il mondo del lavoro era percorso da agitazioni sempre più incontenibili, culminate appunto nel maggio in uno sciopero generale di tale portata da riportare alla memoria i moti del ’34. Barricate per le strade, banlieue in rivolta, fabbriche chiuse da Calais a Marsiglia. Studenti e operai avevano sfidato insieme il potere del generale De Gaulle, il quale non sarebbe però arretrato di un passo, soffocando rapidamente le scintille incendiarie.
Col passare dei giorni l’ondata di protesta rifluiva ovunque pacificamente, complice l’arrivo dell’estate. I giovani partivano per i luoghi canonici di villeggiatura al mare, in montagna, in collina; ma questa volta in tanti sceglievano mete oltre frontiera, ancora largamente sconosciute dagli studenti italiani rimasti alquanto provinciali, come il resto della popolazione. Adesso però partivano in gruppo, quasi non volessero spezzare il filo di continuità con la vita collettiva sperimentata nelle occupazioni; una vita intensa e gioiosa, la stessa che avrebbe caratterizzato tutti i mesi estivi. Giugno, luglio, agosto e settembre – quella calda estate che sembrava non avesse mai fine – passavano così, all’insegna delle nuove amicizie strette nel corso delle lotte nelle università. Sarebbe stata per tutti una tappa importante nell’esistenza privata e nella crescita civile e culturale dei sessantottini che rompevano i rituali delle tradizionali vacanze trascorse con le famiglie nelle case al mare o in montagna. La parola d’ordine diventava il viaggio in Europa dove in tutto l’Occidente e persino a Praga nell’impenetrabile mondo sovietico, i loro coetanei stavano anch’essi ribellandosi contro il vecchio mondo accademico e più in generale contro l’intera struttura di società classiste, rimaste ancorate a poteri autoritari nel pubblico e nel privato.
Certo, il sogno sarebbe stato quello di varcare l’oceano e arrivare fino alla West Coast degli Stati Uniti, dove tutto aveva avuto inizio. Ma con un sacco a pelo sulle spalle si poteva arrivare ovunque nelle capitali europee e nei luoghi più ameni ancora sconosciuti, sentendosi un po’ hippies e un po’ i motociclisti di “Easy rider” – un film cult per la generazione del ‘68. In assenza della moto, c’erano i treni o le automobili dei compagni prestate dai papà dei più ricchi, che venivano caricate fino all’inverosimile: cinque sei persone, pigiate una sull’altra, insieme a poche magliette di ricambio e tanti viveri, in genere una quantità di pacchi di pasta che i compagni degli altri paesi imparavano adesso a gustare usando il cucchiaio, incapaci di arrotolare sulla forchetta i famosi spaghetti.
L’intero mondo della contestazione europea si incontrava in queste vacanze con gli stessi rituali già messi in atto nelle università occupate: discussioni interminabili in tutte le lingue alla ricerca di un idioma comune – in genere il francese, rimasta ancora la lingua più conosciuta in Europa come all’epoca delle generazioni precedenti; tante letture da condividere, ma soprattutto i testi marxisti diventati la nuova Bibbia, e i saggi dei sociologi di Francoforte e di Marcuse, eletto a vate dell’anti consumismo. Non tutti ne comprendevano il significato, ma nessuno voleva confessare di non averlo letto. Tutti invece conoscevano le canzoni intonate a sera negli accampamenti in riva al mare, nei boschi e nelle valli dove si alzavano le tende, si accendevano i fuochi e risuonavano alti i cori partigiani – su tutti “Bella ciao” – che davano l’illusione ai giovani di rinverdire la missione dei resistenti in lotta contro il nazi-fascismo.
Gli “spinelli” enfatizzavano l’allegria contagiosa e i tanti amori sbocciati nel clima gioioso e irresponsabile della nuova libertà sessuale. Le ragazze italiane misuravano la repressione subita da sempre guardando le coetanee dei paesi del Nord, così disinibite nei rapporti con i maschi. Le imitavano indossando jeans – da allora una divisa d’ordinanza – ma anche tuniche folcloristiche orientaleggianti dai mille colori; si mostravano senza reggiseno sulle spiagge in un estremo gesto di sfida al pudore che le voleva sottomesse alle regole dettate dai padri, dalle madri, dalla Chiesa. La rivoluzione femminista, anche se non ancora ufficialmente dichiarata, in Italia cominciava in questa estate del ’68 che nessuno avrebbe voluto finisse mai. In questi mesi i giovani avevano costruito in miniatura un mondo senza confini geografici, né barriere culturali dove regnava una nuova fratellanza e c’erano sempre sole e caldo, dove si viveva con poco, ci si divertiva un sacco e sembrava scomparso l’universo dei doveri, degli obblighi, delle responsabilità.
Eppure l’autunno si avvicinava inesorabile. Il 1969 non sarebbe stato identico all’anno precedente: il ricambio nelle file degli studenti è sempre rapido. La permanenza all’università per chi intendeva concludere i suoi studi, durava meno di cinque anni e i più maturi che da tempo guidavano la contestazione, si avviavano sulla strada del lavoro dove avrebbero portato il vento del cambiamento e della modernizzazione. Alcuni però restavano in campo, decisi a continuare una battaglia i cui connotati politici acquistavano una valenza ideologica sempre più estrema. Il mito della classe operaia rivoluzionaria che dopo il maggio francese si era diffuso oltre i circoli intellettuali marxisti-leninisti e operaisti, avrebbe alimentato nei gruppuscoli extra parlamentari l’illusione di una rivoluzione sociale possibile. Una sfida immediatamente raccolta dall’estrema destra che da tempo si preparava a una contro-rivoluzione preventiva, come già era affiorato nel ‘64 con la vicenda del SIFAR. Con il nuovo anno si sarebbe aperta un’altra stagione di cortei e di occupazioni nelle Università; ma qualcosa era cambiato: c’era più rabbia, meno allegria, meno improvvisazione. Il sole dell’estate si era oscurato, il freddo aveva cominciato a mordere, e, nel dicembre del ‘69, con la strage di Piazza Fontana a Milano iniziava la notte della Repubblica.
Simona Colarizi
Simona Colarizi è ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue ultime pubblicazioni, Storia del Novecento italiano (Milano 2000). Per i nostri tipi, tra l’altro, L’Italia antifascista dal 1922 al 1940 (a cura di, 1977), Dopoguerra e fascismo in Puglia. 1919-1926 (19772), Biografia della prima Repubblica (19982), L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943 (20002) e, con M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi , il partito socialista e la crisi della Repubblica (20062).
Inger Marianne Larsen[2] (born 27 January 1951 in Kalundborg) is a Danish poet, writer, and novelist.
Between 1970 and 1975 Larsen was studying literature and Chinese at the University of Copenhagen, but then made the decision to write full-time.[1]
First poems were published in the magazine Hvedekorn (Wheatgrain) when she was 18,[3] followed by her first poetry collection, Koncentrationer (Concentrations), in 1971. Her writing at this early stage was experimental, giving way to a more engaged, affirmative style, both critical of officialdom and supportive of the underdog from a leftist point of view.[4]
Larsen’s first three novels, published between 1989 and 1992, were about a provincial girl’s coming of age and partly autobiographical. Since then she has written more novels, as well as books for children and young adults.[5]
Over the years she has been the recipient of many literary awards and prizes. The most recent of these was the Danske Akademis Store Pris (Great Prize of the Danish Academy) in 2022 with the citation: “Since her debut in 1971…her openly political dream world has been a seemingly endless and natural source of power in literature and in the Danish language.”[6]
There have been three English selections of Marianne Larsen’s poetry from three continents. The first, by Nadia Christensen, appeared in 1982 in the United States,[7] and Robyn Ianssen’s selection, Shadow Calendar, followed in Australia in 1995.[8] A third, gathering work from several translators, was published from the UK as A Common Language in 2006.[9]
Quando la gente la mattina si desta nei suoi isolati nuclei familiari con uno strano sapore di canti di libertà nella bocca, si desta anche il suo vuoto. E subito il vuoto pregusta la gioia di quando la gente sparirà nel buio, diretta alle macchine in attesa e resterà solo a possedere le cose e lo spazio che son loro. Attende invisibile con ansia. Quando è sicuro che la madre, il padre e i figli sono via salta come un pupazzo da una scatola magica e si mette a rovistare facendo da padrone. Nessuno sa quanto perverso sia il vuoto. Il vuoto che resta nelle case private quando la gente è uscita. Rovista fra lettere e armadi della gente, ne prova le vesti, si volta e rivolta davanti ai loro specchi. Il vuoto ha via libera quando la gente non c’è. Il tempo in cui sono costretti a stare insieme è una pena. Ma ciascuno si ingoia la sua uggia. Il vuoto se l’ingoia perché sempre sa che l’aspetta una mattina felice quando la gente sarà sparita per tutta una giornata di lavoro. Ma perché si ingoia la gente la sua uggia nei confronti del vuoto,quando non sempre può aspettarsi in fabbriche e uffici una mattina felice lontana dal vuoto. No, nelle fabbriche può però imparare a essere unita, e quando è unita non s’accorge tanto del vuoto. La gente parla sempre di unirsi per scacciare il vuoto dalle loro case e dal lavoro.
Fabel Når folk om morgenen vågner i deres isolerede familieceller med en sær smag af sange om frihed i munden, vågner deres tomhed også. Og tomheden begynder straks at glæde sigtil at se folkene forsvinde ud i mørket til de ventende maskiner så den kan få deres familierum og ting for sig selv. Den venter usynlig spændt. Når den er sikker på at både moren og faren og børnene er våek springer den som trolld op af æske, og begynder at rode og regere. Ingen ved hvior perverse tomheden er. Tomheden der ligger hen i de private hjem, når folk er gået. Den roder i folkenes breve og skabe, den prøver alt deres tøj, vender og drejer sig foran alle deres spejle. Tomheden har helt frit slag, når folkene ikke er der. Folk hader tomheden, og tomheden hader folk. Den tid de er nødt til at være sammen er en lidelse. Men de bider hver sine ulystfølelser i sig. Tomheden bider den i sig, fordi den altid kan sehen til en glad morgen, hvor folk forsvinde en arbejdsdag ud af syne. Men hvorfor bider folkene deres ulystfølelser over for tomheden i sig, de kan ikke altid se hen til en glad morgen borte fra den i kontorerne og på fabrikkerne. Nej, men på fabrikkerne kan de lære at holde sammen, og når de holder sammen føler de den ikke. Så meget. Folkene taler altid om sammen at fordrive tomheden fra deres hjem og fra arbejde.
Marianne Larsen (Kalundborg, 27 gennaio 1951), da Giovani poeti danesi (Einaudi, 1979)
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.