IL MIGLIOR ROMANZO STORICO POLIZIESCO DI QUESTO ANNO. The Times
Londra, 1782. È una tiepida sera d’agosto e i vialetti lastricati dei Vauxhall Pleasure Gardens sono gremiti di londinesi che passeggiano allegramente sotto le stelle. L’animo gravato da un doloroso segreto, il cappuccio del mantello ben calato sulla testa, Caroline Corsham, moglie del Capitano Henry Corsham, si addentra nel Dark Walk, un sentiero stretto tra gli alberi, dove ha appuntamento con una nobildonna italiana, Lucia di Caracciolo, che ha promesso di aiutarla. Lungo il sentiero incrocia una figura singolare, un uomo con un cappotto nero e una maschera da medico della peste, che procede a passo spedito nella direzione opposta. Giunta sul luogo dell’incontro, una scena raccapricciante si schiude davanti ai suoi occhi: l’amica è riversa a terra, ferita gravemente e agonizzante. Caro fa in tempo a raccogliere le sue ultime, misteriose parole: «Lui lo sa», prima di assistere alla sua morte.
L’indomani, interrogata da Sir Amos Fox, giudice di Bow Street, scopre con sgomento che la donna che credeva amica non era affatto una nobildonna italiana, né si chiamava Lucia di Caracciolo. Tra i pergolati di Vauxhall e nelle taverne e nei caffè di Londra era nota come Lucy Loveless, il nome di una prostituta d’alto bordo. Benché profondamente turbata, quando Sir Amos Fox liquida il caso come una faccenda di poca importanza, Caro insorge. Racconta dell’uomo col cappotto nero, del documento macchiato di sangue che giaceva accanto a Lucy e che sembra svanito nel nulla, ma le sue parole cadono nel vuoto. A Bow Street non si curano certo della morte di una giovane donna nota come prostituta. Caro decide allora di affidarsi a
. Ex giudice di Deptford, Child in passato ha goduto di prestigio e rispetto. Ora è ufficialmente un detective privato ridotto a dar la bassa lega e a perdere tempo tra i balordi del Red Lion, una taverna di furfanti da tempo immemorabile. Che il caso di Lucy Loveless, un caso che sembra celare un intricato mondo di artifici, inganni e vite segrete, possa rappresentare, finalmente, il suo riscatto?
Dai bordelli di Covent Garden alle eleganti case di Mayfair, “Figlie della notte” è un avvincente giallo storico ambientato nella Londra georgiana e, insieme, il vivido affresco di un’e¬poca in cui soprusi, vizi e bugie si annidano sotto la maschera della virtù.
AUTORE
Laura Shepherd-Robinson
Laura Shepherd-Robinson è nata a Bristol nel 1976. Ha una laurea in scienze politiche all’Università di Bristol e un master in teoria politica alla London School of Economics. Ha lavorato in politica per quasi vent’anni prima di dedicarsi alla scrittura. È autrice del romanzo Blood and Sugar, sempre con protagonista Caroline Corsham.
Giorgio Bassani -A sessant’anni dalla pubblicazione de Il giardino dei Finzi-Contini (1962) –
Il volto e lo sguardo – Articolo di Ottavio Di Grazia-
FERRARA-A sessant’anni dalla pubblicazione de Il giardino dei Finzi-Contini (1962)diventato, come è stato scritto, un luogo della memoria non solo dell’ebraismo italiano, ma dell’Italia del Novecento, e in occasione del compleanno di Giorgio Bassani (nato a Bologna il 4 marzo 1916), a Ferrara, città amata, sognata, trasfigurata, luogo «aperto, libero, assoluto», il 3 marzo prossimo sarà inaugurata una mostra di Georges de Canino a lui dedicata. 21 opere inedite che saranno esposte in “Casa Ariosto”, sede della Fondazione Bassani, che resterà aperta fino al 5 giugno 2022. La mostra, curata da Paola Bassani e da Francesco Franchella, si avvale del contributo del Comune di Ferrara e del patrocinio del Museo Ebraico della stessa città e delle Comunità ebraiche di Ferrara e di Roma e della stessa Fondazione Bassani. La mostra si intitola «Il volto e lo sguardo di Giorgio Bassani».
Vorrei soffermarmi, brevemente, sul titolo della mostra, perché, mi sembra colga pienamente le infinite sfaccettature che assume l’opera e la vita di Bassani, Il volto, ciò che di incatturabile ciascuno di noi possiede; lo sguardo che apre sul mistero della vita e, attraverso cui, questo stesso mistero entra in noi. Lo sguardo che si spinge verso l’ultimo orizzonte o quando cogli, magari nel riflesso di una vetrina, un altro sguardo che ci ri-guarda e diventa subito relazione, possibilità, infinito. Lo sguardo si muove sul mondo, sulla materia di cui è fatto, scorge luci e ombre e il senso della libertà della vita stessa. Georges de Canino ha composto le 21 opere dedicate a Bassani con colori, immagini e uso di materiali che compongono lo stesso tessuto della vita.
La fantasia e il dinamismo, la libertà inventiva e la fedeltà alla “terra” che sono la trama finissima stessa dell’opera di Bassani. Da questo punto di vista è bello sottolineare come vi sia una straordinaria coincidenza nel fatto che la mostra a lui dedicata sia esposta in “Casa Ariosto”, la cui opera era fatta della stessa materia dinamica. Lo sguardo, infine, non può non richiamare Dante e lo sguardo di Beatrice che indica, segna, apre all’infinito della bellezza e di una possibile salvezza. Lo sguardo di Bassani, il colore dei suoi occhi, celesti come il cielo, che de Canino riprende nelle sue opere, traccia anch’esso una via, apre su un orizzonte. Una ultima riflessione sul rapporto di Bassani con Ferrara. Ferrara, la piccola città di provincia avvolta in un sonno caliginoso; Ferrara le sue mura, la pianura che si stende attorno ad esse; il lento scorrere del Po; le atmosfere sognanti. Ferrara sta a Bassani, come Roma a Moravia e Trieste a Svevo. In questa città, Bassani ha consolidato i suoi personaggi, attraverso quella che egli stesso ha definito «la poesia delle strade».
Nell’esperienza e immaginazione di Bassani, la Ferrara del suo Romanzo di Ferrara, titolo complessivo della sua opera, è, non solo la patria degli antenati, ma un microcosmo in cui osservare – con gli occhi di un «grande intellettuale, di un letterato raffinatissimo» e di superbo scrittore – la condizione umana e le «vicissitudini della storia» che, nella sua narrativa, vanno ben al di là della pura geografia biografica e storicamente determinata. Infatti, se la sua opera riflette continuamente il senso e la portata di quanto viene elaborando alla luce di una memoria, crocianamente storica, essa prende forma attraverso la descrizione di fatti, esperienze, pensieri, slanci, utopie che, tra fantasia e realtà, sono la testimonianza di un percorso umano che si fa lascito letterario di straordinaria originalità e complessità. Insomma, diventa un “classico”, nel senso pieno della parola.
Biografia di GIORGIO BASSANI-Fonte Enciclopedia TRECCANI online-
Scheda scritta da Simona Costa
GIORGIO BASSANI-Primogenito di Angelo Enrico, proprietario terriero e medico, senza esercitare la professione, e Dora Minerbi, nacque il 4 marzo 1916 a Bologna.
Tra Ferrara e Bologna: gli anni di formazione
A Ferrara, città della sua famiglia appartenente all’alta borghesia ebraica, Bassani visse l’infanzia e l’adolescenza, con i fratelli Paolo e Jenny, nella grande casa al n. 11 di via Cisterna del Follo, dove abitavano anche i nonni paterni: Davide, stimato commerciante di tessuti, e Jenny Hannau. Frequentò il liceo classico «Ludovico Ariosto», dove ebbe per compagno Lanfranco Caretti e come docente di latino e greco Francesco Viviani, antifascista, sospeso dall’insegnamento nel 1936 (cui Bassani inviò una commossa lettera di solidarietà, e morto poi a Buchenwald nel 1945). Il docente di italiano, Francesco Carli, gli trasmise la passione per Dante, un cui celebre verso («L’essilio che m’è dato, onor mi tegno»), divenne poi il motto del protagonista di Dietro la porta. Allo studio, compreso quello del piano, poi surclassato dall’amore per la letteratura, si accompagnava la passione per il tennis, con la frequentazione, assieme tra l’altro a Michelangelo Antonioni, del Tennis Club Marfisa d’Este, punto di incontro della borghesia ferrarese. Nel 1934, rompendo la tradizione familiare (padre, nonno materno, Cesare, e zio materno, Giacomo, tutti medici) si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, quotidianamente raggiunta in treno con l’amico Caretti. Fu proprio la campagna emiliana, inquadrata dal finestrino di un treno in una poesia giovanile (Verso Ferrara, ma originariamente Verso F.) e rivisitata tramite le luci e i colori dei pittori ferraresi e bolognesi del Cinque e Seicento, a suggerirgli i toni dell’ispirazione lirica. L’ambiente bolognese rappresentò per lui anche una scuola letteraria, con i nomi di Riccardo Bacchelli, Leo Longanesi che lì aveva fondato L’Italiano, e Giuseppe Raimondi, che lo introdusse ai classici francesi del secondo Ottocento (Flaubert, Rénard, Maupassant, Zola). Con Attilio Bertolucci, Augusto Frassineti, Franco Giovanelli, Antonio Rinaldi e i fratelli Francesco e Gaetano Arcangeli, a Bologna frequentò anche un circolo di intellettuali distanti sia dai rondisti sia dagli ermetici. Nell’intersecarsi di rapporti letterari e artistici, la mediazione pittorica, fondamentale nel suo approccio al reale, molto si avvalse dell’opera dell’amato Giorgio Morandi e soprattutto delle lezioni di Roberto Longhi (cfr. Un vero maestro, in Di là dal cuore, in Opere, Milano 1998, pp. 1073-1077), conosciuto sul finire del ’35 e con cui instaurò una profonda e ammirata amicizia, protratta anche sui campi da tennis. Insieme a Longhi, punto di riferimento fu Benedetto Croce, il cui magistero idealistico fu da lui sempre riconosciuto centrale per la propria formazione, e nella cui religione della libertà si identificò totalmente. Nel maggio 1935 sul Corriere Padano di Ferrara, fondato nel 1925 da Italo Balbo e diretto da Nello Quilici, aperto a giovani quali Antonioni, Antonio Delfini, Elio Vittorini e Caretti, pubblicò il suo primo racconto, III classe, ispirato all’esperienza di pendolare e destinato a inaugurare una collaborazione, con racconti, poesie, articoli e traduzioni, protratta fino al novembre 1937. Nel giugno 1939 si laureò con Carlo Calcaterra discutendo una tesi su Niccolò Tommaseo: oltre a escluderlo dalla Biblioteca comunale, le leggi razziali lo costrinsero a insegnare nella scuola israelitica di via Vignatagliata, nel ghetto di Ferrara.
Nel 1940 pubblicò a sue spese a Milano, presso l’Arte grafica A. Lucini e c., Una città di pianura, firmandosi, ancora per le restrizioni razziali, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, usato anche per alcune collaborazioni giornalistiche, unendo il cognome della cattolica nonna materna, Emma Marchi, al nome dello zio Giacomo Minerbi, poi protagonista dei versi di Storia di famiglia, in Epitaffio. Il libro, dal titolo significativo, raccoglieva, oltre al testo eponimo, altri quattro racconti, Omaggio, Un concerto (già apparso in Letteratura nell’aprile del 1938), Rondò, Storia di Debora (prima versione di Lida Mantovani) e una poesia, Ancora dei poveri amanti, poi passata nella raccolta Storie dei poveri amanti. Si avviava così il tentativo di ricostruire secondo una personale topografia del cuore una città di provincia, la qui ancora innominata Ferrara, strappata ai mitologismi di «città del silenzio» di quel d’Annunzio da lui considerato non poeta ma letterato, e resa credibile al lettore pur nel nesso realtà-fantasia in cui era fatta rivivere. Importante fu, tra le amicizie ferraresi, la dichiarata influenza di un gruppo di insegnanti sardi formatisi a Pisa, tra i quali Giuseppe Dessì e Claudio Varese. Fu proprio Dessì che suggestionò la stesura di Un concerto, leggendogli via via le pagine di San Silvano, romanzo che stava scrivendo e per cui nel 1939 Gianfranco Contini parlò di un Proust sardo.
L’antifascismo, l’arresto e la scelta di Roma
Gli anni fra il 1937 e il 1943 furono segnati dall’attività antifascista clandestina che, avviata dall’incontro nel 1937 con Carlo Ludovico Ragghianti, tramite il quale conobbe anche Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, doveva salvarlo dalla disperazione in cui vide sprofondare tanti ebrei italiani traditi dal fascismo, compreso suo padre. Arrestato nel maggio 1943, Bassani fu scarcerato il 26 luglio: restano, di quella esperienza, le lettere scritte ai familiari (Da una prigione), poste poi in apertura del volume saggistico Di là dal cuore (Milano 1984). Il 4 agosto si sposò a Bologna con Valeria Sinigallia e decise di lasciare Ferrara prima per Firenze, dove si legò di amicizia con Manlio Cancogni, e poi, nel dicembre 1943, per Roma che diventò la sua città di adozione, percorsa in bicicletta come già la sua Ferrara e continuata sempre negli anni a scoprire con un gusto da flâneur: nella camera da letto della sua ultima casa in Trastevere posavano i fogli della grande mappa settecentesca di Roma di Giambattista Nolli, invito a mattutine esplorazioni.
Nell’estate del 1944 si spostò a Napoli, dove già si erano rifugiati tra l’altro Leo Longanesi e Mario Soldati, con cui Bassani sviluppò un forte sodalizio intellettuale, e da dove scrisse qualche articolo per l’edizione romana di L’Italia libera, quotidiano del Partito d’Azione (Pd’A). I rapporti con Napoli si mantennero nel tempo, specie con la collaborazione, tra il ’46 e il ’51, mediata dal direttore Carlo Zaghi conosciuto a Ferrara, con il quotidiano di ispirazione liberale Il Giornale, attivo dal 1944 al 1957 e che si avvalse anche della firma di Benedetto Croce. Il 1945, anno in cui nacque la figlia Paola, cui seguì, nel 1949, Enrico, fu anche l’anno di uscita delle sue traduzioni di Vita privata di Federico II di Voltaire e Il postino suona sempre due volte di James Cain, ma soprattutto di Storie dei poveri amanti e altri versi, edite a Roma da Astrolabio, ristampate e ampliate l’anno successivo. A queste liriche, positivamente recensite da Leonardo Sinisgalli (v. Il Costume politico e letterario, 29 settembre 1945, p. 14) ed Eugenio Montale (Il Mondo, 1° dicembre 1945, p. 6), fecero seguito nel 1947, sempre per l’editore Ubaldini, i versi di Te lucis ante. 1946-1947, dal titolo ispirato all’omonimo canto liturgico intonato nel canto VIII del Purgatorio e di cui ventun poesie confluirono con varianti nella successiva raccolta mondadoriana del 1951, Un’altra libertà. Le tre raccolte furono riviste e riunite in L’alba ai vetri. Poesie 1942-50, pubblicata da Einaudi (Torino 1963).
In un Poscritto inserito ne L’alba ai vetri e risalente a un testo del 1952, edito su Paragone-Letteratura nel 1956, Bassani ripercorreva la propria nascita alla poesia, con un richiamo d’esordio a Longhi («Critici si nasce: poeti si diventa – ha detto Roberto Longhi»), e segnava il passaggio da un iniziale approccio lirico mediato dall’arte e dalla cultura e affidato a paesaggi amati e dunque idilliaci, alla volontà di fare i conti con una realtà impressa dalla guerra e dalla prigione. Se infatti tali esperienze segnavano i versi di Te lucis ante, considerati dallo stesso autore fondanti per la sua scrittura, non solo lirica, già Storie dei poveri amanti, aperte dai temi della memoria e del rimpianto («Lascia ch’io ti ricordi»), dell’assenza e del silenzio, su un sostrato ermetico e montaliano, trovavano accenti funerei, come nei versi di Cena di Pasqua, cui si ricollegò poi un episodio del Giardino dei Finzi-Contini. E gli altri versi della raccolta del ’45 erano ispirati da un ragazzo morto nelle quattro giornate napoletane del settembre 1943 e dalla tomba, presso il lago di Albano, di un soldato tedesco. La vocazione lirica, preminente a quest’altezza cronologica con modelli quali Montale, Saba, l’Ungaretti religioso, ma anche poeti minori del tardo Ottocento come Pompeo Bettini e Francesco Gaeta, cari entrambi a Croce, rimase comunque fondamentale per chi come Bassani amò sempre definirsi, al di là della connotazione retorico-stilistica, sostanzialmente un poeta.
Iscrittosi al Partito socialista italiano (PSI), dopo il congresso del 1946 del Partito d’Azione e le sue fratture interne, allargò nel frattempo il cerchio delle amicizie, con la conoscenza di Pier Paolo Pasolini, Cesare Garboli, Niccolò Gallo e la moglie Dinda, i coniugi Maria e Goffredo Bellonci e la principessa Marguerite Caetani che, dopo l’esperienza della rivista parigina Commerce, fondò nel 1948 il cosmopolita semestrale Botteghe Oscure (dal nome della via sede della redazione, a palazzo Caetani), che divulgò importanti autori sia stranieri sia italiani e in cui Bassani ebbe fino alla chiusura (1960) il ruolo di redattore. Oltre all’impegno didattico, che lo vide insegnare presso l’istituto nautico di Napoli e alla scuola d’arte di Velletri, venne avviandosi l’attività di sceneggiatore, con collaborazioni tra l’altro con Soldati, Antonioni, Blasetti e Zampa: un’esperienza che influì anche sulla sua tecnica narrativa e in cui coinvolse l’amico Pasolini, iniziandolo così al cinema, sin dalla sceneggiatura nel 1954 di La donna del fiume di Soldati. Nel ruolo di un professore, fu anche attore ne Le ragazze di piazza di Spagna (1952) di Luciano Emmer.
Gli anni Cinquanta e la nascita delle «Storie ferraresi»
Nel 1953 Sansoni pubblicò La passeggiata prima di cena che riuniva tre racconti apparsi in Botteghe oscure: il racconto eponimo del 1951 (ma di cui una prima stesura risaliva al 26 agosto 1945 su Domenica), Storia d’amore, rielaborazione del 1948 di Storia di Debora, e Una lapide in via Mazzini, edita nel 1952. Nell’aprile 1954 apparve nella sezione letteraria di Paragone, la rivista di Anna Banti e Roberto Longhi – di cui era divenuto redattore nel 1953 e che lasciò definitivamente nel 1971 – Gli ultimi anni di Clelia Trotti, rifiutato da Marguerite Caetani e poi in volume nel 1955 a Pisa per Nistri-Lischi. Questi racconti, insieme a Una notte del ’43, uscito nel 1955 sempre su Botteghe oscure e da cui nel 1960 l’esordiente regista ferrarese Florestano Vancini trasse il film La lunga notte del ’43, con Pasolini tra gli sceneggiatori, composero le Cinque storie ferraresi, pubblicate nel 1956 da Einaudi e insignite con il premio Strega, ma destinate a una fitta serie di revisioni nella protratta rielaborazione dello scrittore del suo Romanzo di Ferrara. La più rivisitata tra queste storie, da un primitivo abbozzo del ’37 fino all’edizione definitiva del 1980, fu il racconto titolato nel volume del ’56 Lida Mantovani (l’originaria Storia di Debora). Con queste cinque storie che composero poi Dentro le mura, primo libro del Romanzo di Ferrara, Bassani aveva comunque ritrovato la sua città, finalmente nominata per esteso dopo un precedente pseudoanonimo F.
Di grande impatto visivo è la scena di apertura de La passeggiata prima di cena: un racconto che nella sua stessa struttura intendeva asserire, su parole d’autore, che «il passato non è morto […] non muore mai» (Laggiù, in fondo al corridoio, in L’odore del fieno, in Opere, cit., p. 939). Da una vecchia cartolina ingiallita, ricavata da una fotografia, rinasce corso Giovecca, principale arteria cittadina, quale era sul finire dell’Ottocento: in questa lunga carrellata cinematografica, prendono vita l’apprendista infermiera Gemma Brondi, figlia di contadini, e il dottor Elia Corcos con la sua bicicletta. E di Elia, vanto di Ferrara nella rivalità con Bologna e il suo Murri e controfigura del nonno dello scrittore, Cesare Minerbi, presente poi nei versi de La cuginetta cattolica (in Epitaffio), seguiremo le tracce dal lontano 1888, data del suo fidanzamento con Gemma, fino alla deportazione in Germania, nel ’43, insieme con il figlio Jacopo. Ma le strade di Ferrara sprigionano anche tutti gli altri personaggi di queste storie: da Lida Mantovani, nelle sue vicende sentimentali prima con il ricco borghese contestatore David, che la lascia incinta, poi con l’onesto, pacato rilegatore Oreste Benetti, che diverrà suo marito, a Geo Josz che, ricomparso a Ferrara nell’agosto 1945, unico superstite dei 183 ebrei deportati nell’agosto 1943, vede il proprio nome sulla lapide che un operaio sta murando in via Mazzini. E ancora Clelia Trotti, la vecchia maestra socialista in cui è proiettata la figura di Alda Costa, frequentata fra il 1936 e il ’43 dall’autore che, a sua volta, presta alcuni dei propri connotati al deuteragonista, Bruno Lattes, e Pino Barilari, il paralitico farmacista impietrito testimone dai vetri di una finestra (immagine cardine, di partecipazione/esclusione, nella narrativa di Bassani) dell’eccidio fascista compiuto sul marciapiede di fronte a lui il 15 novembre 1943 (ma dicembre, nel testo): eccidio di cui al processo non rivelò tuttavia le responsabilità, trincerandosi dietro un lapidario «dormivo».
Nel 1955 con Umberto Zanotti Bianco, Filippo Caracciolo, Elena Croce e altri, Bassani fu tra i fondatori dell’associazione «Italia Nostra» e nel 1956 divenne consulente editoriale della Feltrinelli, promuovendo vari autori sia stranieri, come Jorge Luis Borges, Edward Morgan Forster, Ford Madox Ford, Karen Blixen, sia italiani, quali Cancogni, Delfini e Franco Fortini. Clamorosi successi editoriali dovuti al suo intuito critico furono nel 1957 l’anteprima mondiale de Il dottor Živago di Boris Pasternak e nel 1958, con una sua prefazione, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, suggeritogli da Elena Croce e già rifiutato da Mondadori e da Einaudi. Nel 1957 iniziò a insegnare storia del teatro all’Accademia d’arte drammatica «Silvio d’Amico», dove ebbe allievi che furono poi attori e registi famosi e rimase seguito maestro per un decennio, specie per le sue lezioni sul teatro francese. Nel 1958 uscì su Paragone-Letteratura e poi in volume da Einaudi Gli occhiali d’oro, romanzo breve da cui nel 1987 Giuliano Montaldo trasse l’omonimo film: nel 1960, insieme a Cinque storie ferraresi, formò una nuova edizione intitolata Le storie ferraresi.
Persuaso della necessità, dopo le cinque storie che avevano ricreato la sua Ferrara, di uscire allo scoperto e di dire “io”, lo scrittore adotta ne Gli occhiali d’oro la prima persona, nelle vesti di uno studente ebreo che narra la storia del dottor Athos Fadigati, trasferitosi nel primo dopoguerra da Venezia a Ferrara e identificato sin dal titolo da quegli occhiali che, nella narrativa di Bassani, si pongono a diaframma di separazione dalla realtà. Di là dalla passione per Wagner, anomala fra i personaggi ferraresi di Bassani, usi a canticchiare arie tra Verdi e Rossini, la sua diversità è data dalle frequentazione sessuali, discretamente praticate con uomini modesti e di mezza età. Ma nel 1937 sul treno Ferrara-Bologna la conoscenza di un gruppo di studenti, tra i quali l’anonimo io narrante, parziale ritratto dello scrittore da giovane, lo coinvolge in una scandalosa storia d’amore con il biondo, sfrontato e bellissimo Eraldo Deliliers, con cui girerà le spiagge adriatiche su una rossa Alfa Romeo a due posti. Una storia dunque che riecheggia il Thomas Mann della Morte a Venezia, chiusa non dal sopravvenire di un allegorico colera, ma dal suicidio di Fadigati che, abbandonato e derubato dal cinico Eraldo, trova compassione e amicizia nel solo io narrante, anch’egli un emarginato, nell’approssimarsi delle legge razziali. Ed è da questa esperienza che il giovane deuteragonista misurerà la propria distanza da un padre romantico e patriota, la cui ingenuità politica, comune a una generazione di ebrei italiani, lo aveva indotto a prendere nel 1919 la tessera del fascio e quindi a persuadersi di contingenti ragioni di politica estera per la campagna antisemitica.
Il successo degli anni Sessanta
Nel 1962, dopo lunga elaborazione retrodatabile a primi abbozzi degli anni Quaranta, apparve presso Einaudi Il giardino dei Finzi-Contini, che si aggiudicò il premio Viareggio decretando così la piena affermazione del Bassani narratore. Nel 2016, il manoscritto, regalato dall’autore nel dicembre 1961 alla contessa veneziana Teresa Foscari Foscolo (1916-2007) con una dedica che la eleggeva a sua musa, è stato donato dagli eredi al Comune di Ferrara.
L’immagine ormai atemporale delle tombe etrusche di Cerveteri, su cui si apre il romanzo, riallaccia il circuito memoriale richiamando il cimitero israelitico di Ferrara e, lì, la monumentale tomba dei Finzi-Contini in cui, eccetto il primogenito Alberto, morto di malattia nel 1942, non hanno trovato riposo i personaggi legati alla giovinezza dell’io narrante: Micòl, i genitori e la paralitica nonna materna, deportati in Germania nell’autunno del 1943. Un giardino edenico, introvabile sulle guide turistiche ma assimilabile al baudelairiano «vert paradis des amours enfantines» e memore del castello di Yvonne de Galais nel Grand Meaulnes di Alain-Fournier, fa da sfondo all’affascinante quanto imprendibile Micòl, novella Angelica destinata a sparire non per un anello fatato ma per gli orrori della storia. Proustiana figura di fuggitiva, eppur di prigioniera, la mitica e tragica Micòl trova il suo consistere solo entro il muro di cinta di un giardino fantasticamente creato sullo spazio verde cittadino che avrebbe potuto accoglierlo e chiude sé e l’io narrante, accomunati dal «vizio […] d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro» (Opere, cit., p. 513), in un cerchio fuori dal tempo e dalla storia. Come ribadisce l’Epilogo, l’adesione di Micòl, sulla scia di Mallarmé, a «le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui», ma soprattutto a un passato investito di dolcezza e di pietas, non sarà scalfita dalla fiducia in un domani democratico e socialmente migliore del giovane lombardo Malnate, destinato a perdersi tra le nevi della campagna di Russia. Fra il 1938 quando l’io narrante, espulso in quanto ebreo dal Circolo del Tennis, varca il muro di cinta del chiuso giardino, accolto dai correligionari Finzi-Contini nel loro campo da tennis, e l’estate del 1939, svolta di maturazione segnata dalla laurea e dalla rinuncia all’amore cui Micòl si rifiuta, si consuma una epoché della storia, il cui cammino si appresta a cancellare ogni traccia edenica, spazzando via singole vite che solo una memoria etica e civile saprà salvare.
Consigliere comunale di Ferrara per il Partito socialista nel 1962, Bassani si mobilitò, in linea con i principî di «Italia Nostra», per la salvaguardia dell’ambiente e dei beni artistici cittadini. Con Feltrinelli, sempre più aperto ai gruppi neoavanguardistici, a causa del libro di Alberto Arbasino, Fratelli d’Italia, rifiutato con richiesta di revisione nella collana da lui diretta, si ebbe una rottura, sfociata anche in una causa per spionaggio editoriale, vinta da Bassani. Dello stesso periodo fu l’accesa polemica proprio con il Gruppo ’63 che lo aveva definito, insieme a Cassola, «la Liala della letteratura italiana».
Nel 1964 uscì da Einaudi il romanzo Dietro la porta, il cui titolo veniva da lontano, se già nel testo di Rondò, in Una città di pianura, un adolescenziale protagonista ebreo si trovava ad ascoltare «dietro i muri, dietro le porte» (Opere, cit., p. 1542).
Romanzo breve, trascurato da critica e lettori, ma rivendicato dall’autore, al di là della confessione viscerale, come affresco etico-politico di un ambiente storico, Dietro la porta, in una Ferrara còlta tra il 1929 e il 1930, ripercorre l’emarginazione adolescenziale di un ragazzo ebreo, voce narrante al primo anno di liceo, nella conflittualità con il compagno di banco e primo della classe, Carlo Cattolica, dall’arianissimo cognome, e nell’ambiguo rapporto con un altro compagno, Luciano Pulga, mosso dall’invidia sociale. Il voyeurismo è tema portante del romanzo: se alla pensione Tripoli Pulga spia dietro al muro e alla porta i cambi dei pigionanti a ore, l’io narrante spia con le ciglia abbassate il comportamento di Luciano; spia dietro la porta socchiusa, su incitamento del prevaricante Cattolica, Luciano che sparla di lui; spia, da una porta a vetri, la sua stessa famiglia riunita a cena. E il ring che Cattolica ha apprestato in salotto perché i due compagni si affrontino a viso aperto, non sarà mai calcato, se il protagonista opterà per una fuga solitaria, suggello a ogni potenzialità di rapporto.
Nel 1964 Bassani divenne vicepresidente della RAI, in quota socialista e, nel 1965, eletto alla presidenza di «Italia Nostra». Nel 1966, in seguito alle nomine fatte in sua assenza, dette le dimissioni dalla RAI e dal partito, passando tra le fila dei repubblicani, ai quali lo legava tra l’altro la vecchia amicizia con Ugo La Malfa. Sempre nel 1966 uscì da Einaudi Le parole preparate, raccolta di articoli apparsi su periodici, poi riproposta e ampliata nel mondadoriano Di là dal cuore dell’84. Nel 1968, per Mondadori, uscì il romanzo L’airone, vincitore nel 1969 del premio Campiello e che rappresentò una felice volontà di rinnovamento della sua narrativa.
Voyeur per eccellenza è il protagonista, Edgardo Limentani, nel registrare il cui sguardo che si posa sulle cose senza parteciparvi lo scrittore si è servito di una tecnica da école du regard. Il «misero / Edgardo / incapace di dire di sì / al mondo / altrimenti che salutandolo» (Anche tu, in Epitaffio), pare nascere da proiezioni autobiografiche, come suggerisce la conversazione con Cancogni nella Fiera letteraria del 14 novembre 1968. L’atonia del personaggio Bassani si materializza nel quarantacinquenne Edgardo, trovando la sua veste storica nella crisi postbellica di una borghesia agricola ferrarese rimasta attardata sulla via dei rinnovamenti, senza alcuna spinta, né psicologica, né ideale, verso un ipotetico mondo nuovo. In un lungo percorso, coincidente con una battuta di caccia e consumato nell’arco di una sola giornata, in una discesa entro spirali d’angoscia, lungo metafore (il pozzo; un budello sotterraneo) che riecheggiano la botola che separa Pino Barilari dal mondo della storia, Edgardo abdicherà totalmente all’azione, accucciato come in sogno nella botte sperduta tra le valli. Nel riuscitissimo episodio-simbolo del romanzo, il protagonista, ceduto il suo costoso fucile al contadino che lo accompagna, l’ex partigiano comunista Gavino, assisterà passivamente allo sterminio degli uccelli per mano dell’altro e, infine, al gratuito ferimento dell’airone e alla sua spaurita agonia. Ed è questa buffa, inutile figura di airone andato scioccamente a cacciarsi nei guai, reminiscenza dell’albatros baudelairiano e del cigno del sonetto di Mallarmé caro a Micòl, l’unico possibile alter ego, la cui morte indicherà la via di un suicidio da consumare pudicamente fuori scena.
La riscrittura del romanzo di Ferrara e la nuova vena lirica
Nel 1970 uscì Il giardino dei Finzi Contini per la regia di Vittorio De Sica, dopo che Valerio Zurlini aveva abbandonato il progetto avviato nei primi anni Sessanta. Bassani sentì ‘tradito’ il suo testo anche in questa versione filmica (v., in partic., Il giardino tradito, in Di là dal cuore, cit., pp. 1255-1265) e ottenne, con un’azione legale, che fosse espunto il proprio nome dalla sceneggiatura. Nel 1972 uscì da Mondadori L’odore del fieno, raccolta di testi narrativi apparsi già in rivista o in volume, che chiuse l’epopea ferrarese e aprì alla ripresa lirica. La revisione della sua narrativa trovò collocazione nei successivi volumi mondadoriani di Dentro le mura (1973) e poi del Romanzo di Ferrara (1974), in edizione definitiva nel 1980 e comprensivo di Dentro le mura, Gli occhiali d’oro, Il giardino dei Finzi-Contini, Dietro la porta, L’airone e L’odore del fieno. Una rinnovata vena lirica si affermò con i versi di Epitaffio (1974) e di In gran segreto (1978), entrambi per i tipi di Mondadori.
Nel 1982 tutta la sua produzione poetica, oltre alle traduzioni (da Toulet, Char, Stevenson), fu riunita nel volume mondadoriano In rima e senza, insignito del premio Bagutta. Il titolo In rima e senza distingue due diversi periodi: il primo, già confluito in L’alba ai vetri e segnato dal ricorso alla rima e l’ultimo, delle due raccolte degli anni Settanta, con un accostamento a moduli prosastici e un dispiegamento tonale che ricorda sia il Montale di Satura sia l’Attilio Bertolucci (poeta cui Bassani si sentiva affine) di Camera da letto, in fieri sin dagli anni Cinquanta. Tra i due momenti, la lunga elaborazione del Romanzo di Ferrara. I versi di Epitaffio e quelli, contigui anche per ispirazione, di In gran segreto, sono tipograficamente collocati sullo schema di una lapide, sostitutiva della forma metrica, e si muovono su più registri: dalla polemica letteraria e dall’invettiva alla narrazione familiare, all’annotazione metaletteraria, alla persecuzione razziale e al fascismo ferrarese. I paesaggi si aprono, in un vagabondare che è l’asse portante di questi versi, e oltrepassano i confini italiani fino a quell’America da Bassani felicemente scoperta in quegli anni. La vocazione lirica che aveva suggerito, nel Giardino, la tesi su Panzacchi del protagonista (a sua volta poeta), quella su Emily Dickinson di Micòl e le discussioni poetiche con Malnate, si riafferma e rinnova dunque a partire da Epitaffio, ammirato da Pasolini come il suo libro più bello (in Tempo, 21 giugno 1974, p. 77) e riconosciuto dalla critica per la sua importanza nel contesto lirico contemporaneo.
Tra i paesaggi ispiratori di Epitaffio c’è anche Maratea, dove dalla fine degli anni Sessanta in poi Bassani, acquistatavi una casa, trascorse molte estati, legate anche all’intensa relazione con un’americana trapiantata a Parigi, Anne Marie Stelhein. Sul finire del 1977 conobbe Portia Prebys, un’insegnante americana, con cui condivise gli anni successivi fino alla morte. Negli anni Settanta si aprì un periodo ricco di premi e riconoscimenti, in Italia e all’estero, e si moltiplicarono i viaggi in Europa e in America, dove fu anche visiting professor.
Gli anni Novanta furono segnati da una lunga malattia degenerativa: morì la mattina del 13 aprile 2000 nell’ospedale San Camillo di Roma e, per sua volontà, fu sepolto nel cimitero ebraico di via delle Vigne a Ferrara.
Nel 2002 si concretizzò il progetto dei figli Paola ed Enrico di una Fondazione Giorgio Bassani, centro documentario e di iniziative culturali, con sede a Codigoro; il 4 marzo 2016, per il centenario della nascita, è stato inaugurato, nella restaurata Casa Minerbi della Ferrara medievale, il Centro studi bassaniani, dove confluiscono documenti e oggetti, lascito di Portia Prebys al Comune di Ferrara.
Opere
Per la bibliografia delle opere di Bassani si veda il volume La bibliografia delle opere di G. B., cui deve essere aggiunto La memoria critica su G. B., entrambi a cura di P. Prebys (Ferrara 2010). L’opera di Bassani è riunita, nelle sue stesure definitive, in Opere, a cura e con un saggio di R. Cotroneo (Milano 1998), con apparati a cura di P. Italia. Oltre a Il romanzo di Ferrara, già edito in ultima versione nel 1980 da Mondadori, il volume riunisce le pagine saggistiche di Di là dal cuore (1984), e le liriche di In rima e senza (1982). In Appendice è riproposto Una città di pianura del 1940, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, e la prima edizione presso Einaudi nel 1956 delle Cinque storie ferraresi. Gli scritti di impegno civile per la difesa ambientale sono invece raccolti in Italia da salvare: scritti civili e battaglie ambientali, a cura di C. Spila (Torino 2005). Il trattamento, inutilizzato, di Bassani dei Promessi sposi per la Lux Vide S.p.a. è stato edito da Sellerio con il titolo I Promessi sposi. Un esperimento, a cura di S.S. Nigro (Palermo 2007). Per l’epistolario, oltre a sparse pubblicazioni di lettere, si veda G. Bassani – M. Caetani, «Sarà un bellissimo numero». Carteggio 1948-1959, a cura di M. Tortora (Roma 2011). Nel 2014 è uscito da Feltrinelli Racconti, diari, cronache (1935-1956), a cura di P. Pieri, che raccoglie, oltre a testi editi come quelli sul Corriere padano, inediti del Fondo eredi Bassani.
Fonti e Bibliografia
Di là da numerosi e importanti atti di convegni, italiani e stranieri, qui non esaustivamente registrabili, si segnalano con attenzione alla critica più recente: I. Baldelli, La riscrittura ‘totale’ di un’opera: da «Le storie ferraresi» a «Dentro le mura» di B., in Lettere italiane, XXVI (1974), 2, pp. 180-197; P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino 1979, pp. 262-266, 333-336; A. Dolfi, Le forme del sentimento. Prosa e poesia in G. B., Padova 1981; E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano 1996, I, pp. 638 s.; II, pp. 1802 s., 1966-1971, 2444-2448; A. Dolfi, G. B. Una scrittura della malinconia, Roma 2003; P. Pieri, Memoria e giustizia. Le «Cinque storie ferraresi» di G. B., Pisa 2008; G. Vannucci, G. B. all’Accademia d’arte drammatica, Roma 2010. Nella collana «Bassaniana» della casa editrice Pozzi di Ravenna, sono usciti vari titoli, tra cui: P. Pieri, Un poeta è sempre in esilio. Studi su B., 2012; A. Giardino, G. B. Percorsi dello sguardo nelle arti visive, 2013; P. Polito, L’officina dell’ineffabile. Ripetizione, memoria e non detto in G. B., 2014; Lezioni americane di G. B., 2016 (vol. collettaneo dedicato al rapporto tra B. e l’America). Sul lavoro editoriale si vedano G.C. Ferretti – S. Guerriero, G. B. editore letterario, Lecce 2011 e il volume di atti G. B. critico, redattore, editore, a cura di M. Tortora, Roma 2012 (che contiene, tra l’altro, gli interventi sulle collaborazioni napoletane di B. di D. Scarpa, Lo scrittore scrive sempre due volte e Per una bibliografia napoletana di G. B., ibid., pp. 101-125). Per il B. lirico, tardivamente riconosciuto dalla critica ora propensa a dedicargli specifici articoli e convegni, si vedano M. Gialdroni, G. B. poeta di se stesso. Un commento al testo di «Epitaffio», Frankfurt a.M. 1996; A. Luzi, Esperienza vissuta e scrittura nella poesia di B., in Revista de Literaturas modernas, XLII (2012), pp. 77-102; M. Rueff, «Alas poor Emily». B. poeta, in Poscritto a G. B. Saggi in memoria del decimo anniversario della morte, a cura di R. Antognini – R. Diaconescu Blumenfeld, Milano 2013, pp. 387-426; A. Langiano, Per un profilo di G. B., in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI sec., Atti del XVII congresso dell’ADI… 2013, a cura di B. Alfonzetti – G. Baldassarri – F. Tomasi, Roma 2014 (http://www.italianisti.it/Atti di Congresso).
-articolo di Maria Vescovo scritto per la Rivista ORIGINI N°41 ottobre 20oo-
Breve nota biografica-Ugo Nespolo è nato a Mosso (Biella) nel 1941. Pittore, scultore importante esponente dell’arte contemporanea italiana.
Diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti, in seguito si laurea in Lettere Moderne mostrando grande interesse per la Semiologia. Esordisce nel panorama artistico italiano neglianni Sessanta con contaminazioni della Pop art e con una stretta militanza con concettuali e poveristi. La sua produzione si caratterizza presto per forte accento trasgressivo, ironico e quell’apparente senso del divertimento, doti che si presteranno alla tela cinematografica esplorando presto, negli anni Settatanta anche questo mezzo di espressione.
Gli anni Ottanta rappresentano per Ugo Nespolo la maturazione più apprezzata del periodo americano, i suoi quadri rappresentano oggetti e luoghi comuni delle città statunitensi. Collabora con la Rai per la quale realizza videosigle, collabora nella realizzazioni pubblicitarie, fedele al dettato delle avanguardie storiche di “portare l’arte nella vita”, l’artista deve occupare spazi della vita comune, uscire dagli spazi assegnati, canonici.
Negli anni Novanta affianca alle sue numerose attività l’impegno nel teatro realizzando scene e costumi per l?elisir d’amor Doninzettii al Tatro dell’Opera di Roma, all’Opera di Parigi, Losanna, Liegoi e Metz.
Nespolo viene anche annoverato tra i “maestri del Palio”, per aver dipinto nel 2000 i due sendalli per il Palio di Asti di quella edizione.
Nel 2005 a Torino, realizza per Gtt delle opere tematiche nelle stazioni della metropolitana di Torino e in seguito decora con la sua inconfondibile impronta l’esterno del centro commerciale di Via Livorno. Nel 2007, dipinge il drappellone del Palio di Siena del 16 agosto.
Ugo Nespolo, nato a Mosso (Biella), si é diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino ed è laureato in Lettere Moderne. I suoi esordi nel panorama artistico italiano risalgono agli anni Sessanta, alla Pop Art, ai futuri concettuali e poveristi (mostre alla galleria il Punto di Remo Pastori, a Torino, e Galleria Schwarz di Milano). Mai legata in maniera assoluta ad un filone, la sua produzione si caratterizza subito per un’accentuata impronta ironica, trasgressiva, per un personale senso del divertimento che rappresenterà sempre una sorta di marchio di fabbrica.
Negli anni Settanta Nespolo si appropria di un secondo mezzo di espressione, il cinema: in particolare quello sperimentale, d’artista. Gli attori sono artisti amici, da Lucio Fontana a Enrico Baj, a Michelangelo Pistoletto. Ai suoi film hanno dedicato ampie rassegne istituzioni culturali come il Centre Georges Pompidou di Parigi, il Philadelphia Museum of Modern Art, la Filmoteka Polska di Varsavia, la Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara, il Museo Nazionale del Cinema di Torino, il Museo “Manege” di San Pietroburgo.
Gli anni Settanta rappresentano per Nespolo un passaggio fondamentale: vince il premio Bolaffi (1974), realizza il Museo (1975-’76), quadro di dieci metri di lunghezza che segna l’inizio di una vena mai esaurita di rilettura-scomposizionereinvenzione dell’arte altrui. L’opera viene esposta per la prima volta nel 1976 al Museo Progressivo d’Arte Contemporanea di Livorno.
Negli anni Settanta inizia anche la sperimentazione con tecniche (ricamo, intarsio) e materiali inconsueti (alabastro, ebano, madreperla, avorio, porcellana, argento). Nasce L’albero dei cappelli, poi prodotto in serie come elemento d’arredo.
Gli anni Ottanta rappresentano il cuore del “periodo americano”: Ugo Nespolo trascorre parte dell’anno negli States e le strade, le vetrine, i venditori di hamburger di New York diventano i protagonisti dei suoi quadri. In questi anni si accumulano anche le esperienze nel settore dell’arte applicata: Nespolo è fedele al dettato delle avanguardie storiche di “portare l’arte nella vita” ed è convinto che l’artista contemporaneo debba varcare i confini dello specifico assegnato dai luoghi comuni tardoromantici. Lo testimoniano i circa 50 manifesti realizzati per esposizioni ed avvenimenti vari (tra gli altri, Azzurra, Il Salone Internazionale dell’Auto di Torino, la Federazione Nazionale della Vela), il calendario Rai dell’86, le scenografie per l’allestimento americano (Stamford) della Turandot di Busoni, le videosigle Rai (come “Indietro Tutta” con Renzo Arbore). Nell’86 Genova festeggia i vent’anni di attività artistica di Nespolo con la mostra antologica di Villa Croce La Bella Insofferenza.
Nel ‘90 il Comune di Milano gli dedica una mostra a Palazzo Reale. Dello stesso anno sono prestigiose collaborazioni artistiche come la campagna pubblicitaria per la Campari, le scenografie e i costumi del Don Chisciotte di Paisiello per il Teatro dell’Opera di Roma ed una esposizione di ceramiche – il nuovo interesse di Nespolo – nell’ambito della Biennale Internazionale della Ceramica e dell’Antiquariato al palazzo delle Esposizioni di Faenza.
Nel ‘91 partecipa in Giappone all’International Ceramic Festival, Ceramic World Shigaraki. L’anno successivo la Galleria Borghi & C. di New York ospita A Fine Intolerance, personale di dipinti e ceramiche.
Del ‘94 è una mostra di opere a soggetto cinematografico promossa alla Tour Fromage dalla Regione Valle d’Aosta. L’anno seguente Nespolo realizza scene e costumi per l’Elisir d’Amore di Donizetti per il Teatro dell’Opera di Roma, itinerante all’Opera di Parigi, Losanna, Liegi e Metz. Sempre del ‘95 sono l’antologica Casa d’Arte Nespolo al Palazzo della Permanente di Milano e la personale Pictura si instalatu di Bucarest a cura del Ministero alla Cultura romeno.
Nel ‘96 la personale Le Stanze dell’Arte alla Promotrice delle Belle Arti di Torino, viene organizzata dalla Regione Piemonte. Ancora nel ’96 Ugo Nespolo assume la direzione artistica della Richard-Ginori. Nel 1997 il Museum of Fine Arts di La Valletta, Malta, gli dedica una personale. Nello stesso anno una mostra itinerante in America Latina: Buenos Aires (Museo Nacional de Bellas Artes), Cordoba (Centro de Arte Contemporaneo de Cordoba, Chateau Carreras), Mendoza (Museo Municipal de Arte Moderno de Mendoza) e Montevideo (Museo Nacional de Artes Visuales).
Inizia il ’98 con la realizzazione del monumento “Lavorare, Lavorare, Lavorare, preferisco il rumore del mare” per la città di San Benedetto del Tronto e si avvia la collaborazione con la storica vetreria d’arte Barovier & Toso di Murano per la quale Nespolo crea una serie di opere da esporre a Palazzo Ducale di Venezia per “Aperto vetro”, (Esposizione Internazionale del Vetro Contemporaneo). Seguono mostre personali di rilievo alla Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto ed alla XVII Biennale di Arte Contemporanea a cura del Comune di Alatri.
Si chiude il 1999 ed inizia il 2000 con “Nespolo + Napoli”, una mostra antologica che la Municipalità partenopea ospita al Palazzo Reale di Napoli. Per l’Anno Giubilare Nespolo illustra un’edizione dell’Apocalisse (introduzione di Bruno Forte) di alto pregio, a tiratura limitata.
Nei primi mesi del 2001 torna al cinema con FILM/A/TO, interpretato da Edoardo Sanguineti e prodotto dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema di Torino in occasione della retrospettiva “Turin, berceau du cinéma italien” al Centre Pompidou di Parigi. Un prestigioso evento autunnale: Storia di Musei (catalogo Umberto Allemandi) a cura della Galleria Marescalchi di Bologna. Mostra personale a Fukui all’interno della rassegna “Italia in Giappone 2001“.
2002: Nespolo viene nominato consulente e coordinatore delle comunicazioni artistiche nelle stazioni della costruenda Metropolitana di Torino. Il Parco della Mandria di Venaria Reale ospita presso la Villa dei Laghi alcune sue sculture nell’ambito della mostra “Scultura internazionale a La Mandria”.
Intenso il programma per il 2003: l’Alitalia inaugura la nuova sede di New York con una personale di Nespolo; una mostra itinerante nei Paesi dell’Est: dalla Galleria d’Arte Moderna di Mosca, all’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo a Minsk (Museo Nazionale d’Arte Moderna) per proseguire poi in Lettonia (Riga, Galleria d’Arte Moderna). Una mostra personale all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Durante il Festival del Cinema di Locarno due mostre personali: presso la sede del Festival e alla Galleria d’Arte Moderna. In autunno importante personale al Museo Nazionale Cinese di Pechino.
Inizia il 2004 con due importanti mostre personali: Vilnius, Lituania, al Ciurlionis National Museum of Art e a Canton, Cina, al Guang Dong Museum of Art di Guangzhou. Mostra personale “Homo Ludens” il gioco a Palazzo Doria, Loano. Una personale al Moscow Museum of Modern Art, poi al Museo dell’Accademia di San Pietroburgo.
Il 2005 inizia con una personale al Poldi Pezzoli di Milano, poi vi è un ritorno al cinema con l’ideazione di “Dentro e Fuori/un ritratto di Angelo Pezzana” prodotto dal Museo Nazionale del Cinema di Torino; l’illustrazione di “Mille e una Notte” in edizione pregiata; una personale al Museo del Mare di Genova. Un’ideazione artistica di rilievo internazionale con “Progetto Italiana”, filmato prodotto da Cinecittà, testimonial Giancarlo Giannini.
2006: immagini video e vetrofanie di Nespolo ideate per la Metropolitana di Torino, due mostre personali in occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006 (Galleria Carlina e Centro Arte La Tesoriera). Le illustrazioni, con un filmato, di “Piú veloce dell’aquila” una favola sulla campionessa mondiale di sci Stefania Belmondo.“Casa d’Arte Ugo Nespolo”, rassegna di dipinti, vetri, tappeti, ceramiche e bronzi alla Galleria Bianconi di Milano. Alla Basilica di San Francesco ad Assisi la cerimonia di Natale vede un volo di bianche colombe ideate da Nespolo come simbolo di pace.
Per il 53° Festival Puccini 2007 la Fondazione del Festival Pucciniano affida a Nespolo l’ideazione e realizzazione di scenografie e costumi della “Madama Butterfly” nonché di un filmato artistico sull’opera. Il Comune di Siena ha conferito incarico all’artista di disegnare il “Drappellone” per il Palio di Agosto 2007. Per il Museo Nazionale del Cinema di Torino l’ideazione artistica di “Superglance”, un cortometraggio con testi in collaborazione con il poeta Edoardo Sanguineti. La mostra personale “My way” viene inaugurata ad Alba presso il Palazzo Mostre e Congressi in contemporanea alla Fiera Internazionale del Tartufo. Ancora una personale a cura del Comune di Siena presso il Palazzo Pubblico Magazzino del Sale.
2008: La De Agostini di Novara gli affida la realizzazione di “Nespolo legge Dante”, un prestigioso trittico a tiratura limitata per la lettura della Divina Commedia attraverso l’arte figurativa. Una personale alla Walter Wickiser Gallery, New York a tema prevalente i “Musei” di Nespolo. Il Museo del Cinema di Torino ospita una mostra antologica sull’attività dell’artista nell’ambito cinematografico. Su invito della Direzione di Palazzo Grassi a Venezia partecipa con due opere alla mostra “Italics: Arte Italiana fra tradizione e rivoluzione, 1968-2008” organizzata in collaborazione con il Museo di Arte Contemporanea di Chicago.
La 48a Mostra della Ceramica di Castellamonte inaugura il “Monumento alla Stufa” opera permanente di Nespolo per il Comune piemontese. Castellamonte gli dedica in contemporanea una mostra personale a Palazzo Botton. Vetrate ed arredi scultura per la nuova Parrocchia di Maria Vergine di Borgaro Torinese.
2009: Mostra Antologica “Nespolo, ritorno a casa” presso il Museo del Territorio Biellese, Biella: un prestigioso riconoscimento della terra natia al suo percorso artistico.
“Novantiqua” (8/10/2009 – 10/01/2010). Il Museo Nazionale del Bargello di Firenze dedica la sua 1ª Mostra d’Arte Contemporanea a Ugo Nespolo con questa personale di 40 opere.
La Campari festeggia i suoi 150 anni di attività con l’arte di Ugo Nespolo alla Stazione Centrale di Milano. Il Comune di Pontedera affida all’artista il “Cantiere Nespolo”, progetto di interventi effimeri ed opere permanenti in loco. Estate 2010: mostra personale a Villa Bertelli di Forte dei Marmi promossa dal Comune.
“Il Numero d’Oro” (Utet – De Agostini), libro d’artista realizzato da Nespolo in 425 esemplari e dedicato al tema della proporzione aurea. Esposto al Museo Poldi Pezzoli di Milano, ha riscosso entusiasti ed apprezzati consensi di stampa e critica d’arte.
2011: Maggio/Giugno Mostra personale “La bella intolerancia” Museo Nacional de Bellas Artes de La Habana, Cuba. Giugno: “Nespolo Films & Visions 1967-2010” (DVD+Libro) presentazione presso il MAXXI di Roma.
Settembre: La Città di Bra dedica all’artista una prestigiosa mostra personale, circa 70 opere dagli Anni ’60 ad oggi, nelle sale storiche di Palazzo Mathis.
Dal 21 Ottobre Nespolo è il nuovo Presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino, istituzione d’eccellenza a livello internazionale. La sua elezione è avvenuta all’unanimità da parte del Collegio dei Fondatori del Museo e dei Rappresentanti degli Enti preposti. Per il periodo Natalizio Nespolo ha creato “Illuminando Pompei”, una scenografia di luci decorative che contribuisce a rafforzare l’immagine della Città regina della cultura.
Gennaio 2012: Nespolo ha interpretato per Campari la nuova insegna del “Camparino”, lo storico caffè della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, aperto nel 1915 da Davide Campari.
Aprile/Maggio 2012: “Elogio del Bello”, trent’anni di produzione artistica, mostra personale che la Fondazione Banca del Monte di Lucca promuove ed ospita nelle sale di Palazzo San Martino.
Maggio 2012: Museum Nasional di Jakarta, mostra personale di dipinti e manifesti, con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia.
Giugno 2012: “The Signature Collection” una personale di dipinti e ricami all’Art Centre Bahrain National Museum sotto il Patronato del Ministero alla Cultura del Bahrain.
Luglio 2012: inaugurazione mostra “Ugo Nespolo. Il Numero d’Oro” Ed. Utet, Museo Lev Tolstoy Jasnaja Poljana, Russia, patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura di Mosca.
Ottobre 2012 – Gennaio 2013: GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino, “Nespolo. The Years of the Avantgarde”, primo appuntamento del nuovo progetto espositivo “Surprise” sulla ricerca artistica torinese tra gli Anni Sessanta e Settanta.
Novembre 2012 – Marzo 2013. “Lo sguardo espanso”, Nespolo partecipa alla mostra retrospettiva del cinema d’artista presso il Complesso Monumentale del San Giovanni di Catanzaro.
Gennaio / Febbraio 2013: in Russia il Museo Storico-Architettonico di Tula ed il Museo d’arte di Ulianovsk ospitano la mostra “Ugo Nespolo – Il numero d’oro” con il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura. Maggio / Ottobre 2013: Mostra presso la Galleria Ermanno Tedeschi di Tel Aviv (Israele).
Settembre / Ottobre 2013: “Il Mondo a colori” Mostra personale al Centro de Artes e Cultura de Ponte de Sor, Portogallo.
Gennaio/Marzo 2014: viene esposta l’opera “W la Rai” alla Mostra “1924-2014 La Rai racconta l’Italia” (salone centrale Ala Brasini del Vittoriano, Roma) poi a Milano c/o spazi espositivi Triennale, quindi alla GAM di Torino.
Maggio/Giugno: mostra personale “La Fabbrica del colore” presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Biella.
A Maggio l’artista è stato riconfermato Presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino.
Il Comune di Volterra, coordinatore Vittorio Sgarbi, partendo dal capolavoro “La Deposizione” di Rosso Fiorentino, ha allestito un’interessante rassegna ove è stata selezionata un’opera di Nespolo.
Luglio/Agosto: Liceo Saracco di Acqui Terme “Le stanze dell’immagine”, un’antologica che spazia dai quadri, alla scenografia, ai costumi lirici.
Novembre 2014: il Nuovo Ospedale di Biella inaugura l’allestimento artistico di Ugo Nespolo per la zona ricevimento pazienti.
L’Artista ha curato con immagini di grande richiamo la campagna pubblicitaria per i 150 Anni della nascita del Gianduiotto dell’industria piemontese dolciaria Caffarel.
Dal Festival di Spoleto, Charleston (USA) Nespolo è scelto per creare scene e costumi dell’Opera “Veremonda, l’Amazzone di Aragona” di Francesco Cavalli (ultima rappresentazione risalente al 1653). Andrà in scena a Maggio 2015.
Si ritrova la presenza di Nespolo per Expo 2015 in sei stazioni ferroviarie tra Torino Porta Susa e Rho Fiera. Modello di riqualificazione delle stazioni ove l’artista propone cartellonistica, totem personalizzati e vetrofanie della provincia italiana.
Sempre nel 2015 ad ottobre Nespolo è presente alla Tate Modern di Londra al dibattito che segue la proiezione del suo film “Buongiorno Michelangelo” all’interno del programma “Arte Povera was Pop: Artists’ and experimental cinema in Italy 1960s-70s”; a maggio 2016 al Guggenheim di Venezia per “If Arte Povera Was Pop” e successivamente al Centre Pompidou di Parigi alla Tavola rotonda “Arte Povera Hier et Aujourd’hui (9 e 10 giugno 2016).
Tra le mostre personali del 2016: Pisa, Chiesa di Santa Maria della Spina; Milano, Galleria Magenta; e a Capo Verde, Centrum Sete Sois Sete Luas da Ribeira. That’s life è la personale inaugurata il 2 ottobre presso la Fondazione Puglisi Cosentino a Catania che proseguirà fino al 15 gennaio 2017: 170 opere relative a un periodo compreso tra il 1967 e il 2016; l’antologica riunisce un corpus eterogeneo di opere con una sezione interamente dedicata al cinema sperimentale.
Nel 2017 anche un cartone animato (52 episodi) disegnato da Ugo Nespolo per RAI YoYo. Si tratta di una serie animata storica della rete che Nespolo ha completamente ripensato dando al cartone un taglio profondamente pop. Il lavoro vince il primo premio a Cartoon on the Bay nella sezione Series Preschool 2017.
A giugno una mostra personale al Centro d’arte contemporanea del Montenegro, (Dvorak Petrovica).
Ad ottobre e fino ad aprile 2018, alla sede espositiva Centro Saint-Bénin di Aosta la personale A modo mio Nespolo tra arte, cinema e teatro curata da Alberto Fiz in collaborazione con Maurizio Ferraris e organizzata dall’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta.
A novembre viene presentato contemporaneamente in tutta Italia lo storico calendario 2018 dei Carabinieri dedicato ai “valori etici e sociali dell’Arma”; realizzato con disegni di Nespolo sia nella copertina che nelle dodici tavole interne.
A febbraio 2018 la Swatch festeggia i 35 anni ospitando Ugo Nespolo alla Citè du Temps di Ginevra con una mostra personale dal titolo Numbers dedicata alla passione per i numeri che Nespolo condivide con la nota azienda svizzera. Contestualmente alla mostra vengono presentati due nuovi Swatch realizzati appositamente da Nespolo per l’anniversario.
Con la mostra dedicata ad Ugo Nespolo, dal titolo Il trionfo dei libri, (dal 19 aprile al 25 maggio) la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze rende omaggio ad un artista presente nelle sue collezioni. L’esposizione raccoglie lavori realizzati in più di quarant’anni di attività che trovano la loro giusta cornice nell’Istituto che, più di ogni altro, testimonia gli infiniti aspetti della cultura del nostro paese.
A Palazzo Parnasi a Cannobio, sul Lago Maggiore, la personale Storie di Oggi a cura di Vera Agosti dal mese di maggio ad inizio luglio.
A maggio al Huangpu District di Shanghai in Cina la mostra personale sul cinema di Nespolo “Doppio Schermo” Film e video d’artista in Italia dagli anni Sessanta ad oggi.
Al MEF, Museo Ettore Fico a Torino è presente con due Opere alla mostra “100% Italia” da settembre 2018 al febbraio 2019.
Ad ottobre la Casa Editrice Giunti, a 150 anni dalla prima edizione, pubblica Le avventure di Pinocchio illustrato da Ugo Nespolo con oltre cento tavole a colori.
Il 29 gennaio 2019 l’Università di Torino conferisce ad Ugo Nespolo la Laurea Honoris Causa in Filosofia.
In preparazione nel 2019 mostre personali a Shanghai, San Pietroburgo, Vilnius in Lituania, Berlino e Milano.
Fotoreportage FRASSO SABINO-Il Borgo di Frasso Sabino ha origini molto antiche, appartenendo all’abbazia di Farfa fin dalla fine del X secolo. La prima apparizione è infatti del 955 sul “Regestum Farfense”, dove viene registrato che Sindari e Gauderisio donano all’abbazia terre “locus ubi dicitur ad Frassum-La sua fondazione risale con molta probabilità alla fine del X secolo, epoca in cui appare più volte citata nelle cronache e nei documenti della vicina abbazia di Farfa; c’è da dire, però, che la diffusa presenza di sepolcri e di resti di costruzioni romane testimonia la presenza dell’uomo in epoche ben più remote. Per lungo tempo appartenne all’abbazia di Farfa e quando l’astro di questo centro di potere monastico cominciò a declinare (XII secolo) divenne proprietà della nobile famiglia dei Brancaleone. Nel 1441 passò ai Cesarini, che per un lungo periodo dovettero difenderla dalle mire espansionistiche dei Savelli; la contesa terminò nel 1573 con un atto di concordia, con il quale veniva confermato ai Cesarini il pieno possesso del feudo. Nel 1673, in seguito al matrimonio tra Livia Cesarini e Federico Sforza, passò alla casata Sforza-Cesarini che ne fu l’ultima proprietaria. Il toponimo, di chiara origine fitonimica, deriva dal latino FRAXINUS, ‘frassino’, e con tutta probabilità testimonia la massiccia presenza, in passato, di questa specie vegetale; la specificazione geografica è stata aggiunta nel 1863. Agli Sforza-Cesarini si deve la trasformazione di un preesistente castello, del quale rimane un possente torrione cilindrico, nell’attuale rocca. Il patrimonio storico-architettonico locale annovera inoltre la parrocchiale della Natività e la semplice ed elegante chiesa romanica di San Pietro in Vincoli, risalente al Trecento. Tra i cospicui resti romani sparsi sul territorio comunale spicca, in località Osteria Nuova, la cosiddetta grotta dei Massacci, un sepolcro di epoca incerta (età repubblicana oppure I-II secolo d.C.), edificato con enormi blocchi di pietra. Fonte -Italiapedia
la storia
Il toponimo
Frasso compare nella documentazione farfense nella prima metà del X secolo.
Il castello fu probabilmente fondato in questo periodo per iniziativa signorile, anche se la prima notizia certa della sua esistenza risale al 1055, quando Alberto figlio di Gibbone lo dono’ all’abate di Farfa, Berardo I.
L’atto è di particolare interesse perché descrive con precisione il territorio di pertinenza del centro fortificato.
Il castello di Frasso dovette rimanere in possesso del monastero per non molto tempo. Infatti già nel 1118 non risultava piu’ sotto la sua giurisdizione, pur mantenendo diritti di proprietà sul suo territorio, riconosciuti nel Quattrocento. Per piu’ di due secoli non si hanno notizie sui signori del castello. Sullo scorcio del Trecento ne erano in possesso i Brancaleoni. Nel 1441, quando Frasso era stato occupato da Battista Savelli, Paolo e Francesco Brancaleoni, signori di Monteleone lo donarono, come dote, alla loro sorella Simodea, che aveva sposato Orso Cesarini. Le controversie tra Savelli e Cesarini proseguirono a lungo fino ad estinguersi grazie ad un accordo raggiunto nel 1573.La forma
Il centro di Frasso sorge alto su un colle a quota 405 s.l.m, in posizione elevata sulla riva sinistra del Farfa, con andamento parallelo al corso del torrente. Il sito è circondato da alture verdeggianti e colture di ulivo e non lontano si trovano le sorgenti del Farfa, dette Le Capore, in località Ponte Buida.
La forma complessiva dell’abitato è dettata dalla conformazione stessa del supporto naturale e ne segue l’andamento fino ai bordi estremi. La dominante mole della Rocca dei Cesarini, davvero notevole rispetto alla dimensione dell’abitato, conserva ancora un alto bastione cilindrico con basamento a scarpa e munito di beccatelli nella parte Terminale. La rocca e l’intera struttura dell’abitato, sono state oggetto di continue modifiche che ne hanno cancellato la forma primitiva; anche la torre ha subito sorte analoga con l’abbattimento della parte piu’ alta.
La struttura del centro antico è composta da costruzioni che si attestano lungo un percorso principale che dalla rocca si inoltra verso il margine opposto dove la piccola piazza belvedere si apre spettacolarmente verso la valle del Farfa. Da qui il circuito viario, delimitando il bordo del colle verso valle, segue la mole della rocca, ricongiungendosi al punto di accesso al paese.
Di notevole interesse la chiesa romanico trecentesca di S. Pietro in Vincoli, la cui posizione elevata rispetto al paese, consente un’ampia vista sul paesaggio della valle. A pochi passi dalla chiesa un osservatorio astronomico di recente costituzione è ubicato nei locali di un ex mulino settecentesco.Una lunga via rettilinea esterna all’abitato, parte terminale della diramazione che porta al paese dalla via Mirtense, dà accesso alla parte più antica.
Lungo il suo asse si è sviluppato l’ampliamento urbano di più recente formazione.
Claude Simon “Il Discorso di Stoccolma” Premio Nobel 1985
Edizioni Tracce di Pescara
Biografia di Claude SIMON-Nato nel 1913 in Madagascar, figlio di militare, Claude Simon partecipa attivamente agli sconvolgimenti politici e sociali che attraversano la prima parte del XX secolo. Nel 1936 è a Barcellona per osservare da vicino la Guerra Civile spagnola. Tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50 pubblica, La Corde raide, Gulliver, Le Sacre du printemps, Le Vent e L’Herbe.
Impegnato sul fronte politico contro la guerra di Algeria e su quello letterario nel dibattito animato dai “nouveaux romanciers”, negli anni ’60 pubblica alcune delle sue opere più significative, La Route des Flandres, ispirato alle esperienze vissute durante la Seconda Guerra Mondiale, Le Palace, Histoire e La Bataille de Pharsale.
Dopo un lungo periodo di silenzio artistico, nel 1981 pubblica Les Géorgiques in cui condensa la ricerca sperimentale di una vita per ricreare – in una forma originalissima di narrazione dell’io come pluralità – la complessità dell’esistenza umana.
Nel 1985 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura e pronuncia il suo celebre “Discours de Stockholm”, in cui espone i principi che informano la sua scrittura della complessità.
Nella tarda maturità scrive L’Invitation, L’Acacia, Jardin des Plantes, Tramway, prima di spegnersi a Parigi nel 2005.Scrittore francese (Antananarivo 1913 – Parigi 2005). Dopo un romanzo di chiara tessitura esistenzialista, Le tricheur (1946), e un volume di ricordi, La corde raide (1947), si impegnò in una ricerca di tecnica narrativa (Gulliver, 1952; Le sacre du printemps, 1954), per giungere a una nuova forma di romanzo con Le vent (1957), L’herbe (1958; trad. it. 1961), e soprattutto con La route des Flandres (1960; trad. it. 1962), che lo ricollegarono alla corrente del nouveau roman. Anche nelle opere successive S. privilegiò le leggi autonome della scrittura sulla realtà, sul personaggio, sulla trama. Al di là di ogni possibile separazione fra passato, presente, visione e ricordo, le sue pagine presentano il fluire incessante, frammentario e magmatico di sensazioni, di immagini, di parole: Le palace (1962; trad. it. 1965); Histoire (1967; trad. it. 1971); La bataille de Pharsale (1969; trad. it. 1987); Triptyque (1973; trad. it. 1975); Leçon des choses (1976); Géorgiques (1981); La chevelure de Bérénice (1984); L’acacia (1989; trad. it. 1994). In occasione della consegna del Nobel per la letteratura, conferitogli nel 1985, pronunciò il Discours de Stockholm (pubbl. 1986), in cui analizzò le analogie della propria scrittura con le tecniche e le peculiarità espressive della pittura. La riflessione teorica sulla scrittura-pittura ricorre anche in Orion aveugle (1970), mentre il suo costante interesse per la pittura è testimoniato dai saggi di critica d’arte Femmes (1996) e dalla Correspondance 1970-1984 (1994) con il pittore J. Dubuffet.
Breve biografia di Karin Maria Boye – Poetessa svedese (Göteborg 1900 – Alingsås 1941). L’immoralismo eroico di Nietzsche, l’umanesimo socialisteggiante predicato da E. Blomberg e la psicanalisi formano il sostrato della sua opera lirica e narrativa, in cui si rispecchia il cammino ideale di tutta una generazione: dalla rivolta alla religione tradizionale fino al vitalismo e al nichilismo. Alle prime raccolte di poesie: Moln (“Nubi”, 1922); Gömda land (“Terre nascoste”, 1924); Härdarna (“I focolari”, 1927), seguirono För trädets skull (“Per amore dell’albero”, 1935); De sju dödssynderna (“I sette peccati mortali”, 1941, postumo). L’urgenza di irrisolti problemi morali è eloquentemente illustrata nel romanzo autobiografico: Kris (“Crisi”, 1934) e nell’allegoria politica alla Huxley, Kallocain (1940), sul paventato trionfo d’una dittatura universale. Morì suicida.
Sento i tuoi passi nella sala
Sento i tuoi passi nella sala,
sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi
che nessuno nota altrimenti.
Intorno a me soffia un vento di fuoco.
Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,
e l’anima fa male.
Cammini lontano nella sala,
ma l’aria ondeggia dei tuoi passi
e canta come canta il mare.
Ascolto, prigioniera dell’oppressione che consuma.
Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo tempo
batte il mio polso nella fame.
Come posso dire
Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno nè riposo,
finché non saranno mie.
Ricordo
Quieta voglio ringraziare il mio destino:
mai ti perdo del tutto
Come una perla cresce nella conchiglia,
così dentro di me
germoglia dolcemente il tuo essere bagnato di rugiada.
Se infine un giorno ti dimenticassi –
allora sarai tu sangue del mio sangue
allora sarai tu una cosa sola con me –
lo vogliano gli dei.
Il meglio
Il meglio che possediamo
non lo si può dare,
non lo si può dire
e neanche scrivere.
Il meglio del tuo animo
niente lo può lordare.
Risplende profondo laggiù
per te e per Dio solamente.
È il colmo della nostra ricchezza
che nessun altro possa raggiungerlo.
È il tormento della nostra miseria
che nessun altro possa averlo.
Io non ti perderò mai-
Nessun cielo di una notte d’estate senza respiro
giunge così profondo nell’eternità,
nessun lago, quando le nebbie si diradano,
riflette una calma simile
come l’attimo –
quando i confini della solitudine si cancellano
e gli occhi diventano trasparenti
e le voci diventano semplici come venti
e niente c’è più da nascondere.
Come posso ora aver paura?
Io non ti perderò mai.
Certo che fa male
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro?
Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa di nuovo ora consuma e spinge?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
male a ciò che racchiude.
Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese
si aggrappano al piccolo ramo, si gonfiano, scivolano
il peso le trascina e provano ad aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che trae, che chiama
e lì restare ancora e tremare soltanto
difficile voler stare
e volere cadere.
Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando il timore non più trattiene,
cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione del viaggio –
conoscono in un attimo la più grande serenità
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.
Salva
(da Nuvole, 1922)
Il mondo scorre da fango, vuoto lo riempie.
Ferite, che il giorno ha aperto, si chiudono, quando è sera.
Calma, calma inclino il capo
a una santa visione, il tuo ricordo che indugia.
Tempio; rifugio; purificazione;
santuario mio!
Sulle tue scale lontana la tenebra, salva,
serena come un bimbo mi addormento.
Le stelle
(da Terre nascoste, 1924)
Ora è finita. Ora mi sveglio.
Ed è quieto e facile l’andare,
quando non c’è più niente da attendere
e niente da sopportare.
Oro rosso ieri, foglia secca oggi.
Domani non ci sarà niente.
Ma stelle ardono in silenzio come prima
stanotte, nello spazio intorno.
Ora voglio regalare me stessa,
così non mi resterà alcuna briciola.
Dite, stelle, volete ricevere
un’anima che non possiede tesori?
Presso di voi è libertà senza difetto
lontana la pace dell’eternità.
Non video forse mai il cielo vuoto,
chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta.
(da I focolari, 1927)
Credo che la morte sia come te,
alta e pallida e diritta come te,
tempie ugualmente incurvate,
occhi di mare, occhi di lontananze come te
le stesse labbra chiuse nel dolore.
Sei la morte. Io sono tua,
tua la mano e tua la mente.
Hai stordito tutte le forze della vita,
cullato in un triste torpore
sogno e atto, che appena hanno provato l’ala.
Ma ti amo, mia morte,
tu mia lunga amara morte,
nella cui mano chiusa inaridisce la mia vita.
Tu mia dolce, dolce morte –
Ti benedico ogni istante che tormenti!
Il violoncello profondo della notte
(da Per l’albero, 1935)
Il violoncello profondo della notte
scaglia nelle ampie distese la sua oscura esultanza.
Le immagini vaghe delle cose sciolgono la loro forma
in fiumi di luce cosmica.
I marosi, brillando lunghi,
si frangono onda su onda attraverso l’eternità blu notte.
Tu! Tu! Tu!
Spiegata leggera materia, schiuma fiorente del ritmo,
sospeso, vertiginoso sogno di sogni,
bianco abbagliante!
Un gabbiamo io sono, e su ali plananti
bevo beatitudine salata di mare
molto più ad est di tutto ciò che so,
molto più ad ovest di tutto ciò che voglio,
e sfioro il cuore del mondo –
bianco abbagliante!
Molte voci parlano
(da I sette peccati capitali e altre poesie postume, 1941)
Molte voci parlano.
La tua è come acqua.
La tua è come pioggia,
quando cade attraverso la notte.
Mormora sottovoce,
scende brancolando,
lenta, incerta,
penosamente viva.
Trema come terra
dietro ogni rumore,
stilla e cola
contro la mia pelle,
morbidamente s’avvolge,
mi avviluppa,
riempie le mie orecchie
di ricordi sussurranti.
Voglio sedere in silenzio
dove non posso disturbarti.
Voglio abitare e vivere
dove posso udirti.
Molte voci parlano.
Attraverso tutte queste
odo solo la tua
cadere come pioggia notturna.
Diego Dilettoso-La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli
Editore Biblion
Descrizione-Questo saggio ripercorre gli ultimi otto anni della biografia di Carlo Rosselli (1929-1937), che il militante antifascista trascorre principalmente in Francia e, più precisamente, a Parigi. Gli anni dell’esilio non costituiscono per Rosselli soltanto un momento cruciale della lotta antifascista, con la fondazione di Giustizia e Libertà, la pubblicazione del saggio “Socialisme libéral” (Parigi, 1930), la partecipazione in prima persona ai combattimenti della guerra civile spagnola, fino al tragico assassinio, con il fratello Nello, a Bagnoles-de-l’Orne. L’esperienza d’oltralpe permette a Roselli – in misura senz’altro maggiore rispetto agli altri dirigenti dell’antifascismo in esilio – di entrare in contatto con i milieux politici ed intellettuali locali, lasciando tracce significative del suo passaggio e allargando i propri orizzonti culturali sulla Francia, paese al cuore di quella civilizzazione europea che Rosselli concepiva come naturalmente contrapposta alla barbarie fascista.
Uomo politico (Roma 1899 – Bagnoles de l’Orne 1937); antifascista, allievo di G. Salvemini; prof. (fino al 1926) all’univ. Bocconi di Milano e all’Istituto superiore di commercio di Genova, dopo il delitto Matteotti aderì al Partito Socialista Unitario. Fondatore, con G. Salvemini, E. Rossi e il fratello Nello, del foglio clandestino Non mollare!, poi (1926) con P. Nenni della rivista Il quarto stato, fu uno degli organizzatori dell’emigrazione politica antifascista clandestina; per aver aiutato l’evasione di F. Turati, fu confinato a Lipari, dove scrisse Socialismo liberale (pubbl. in Francia nel 1930), revisione teorica del marxismo in funzione di un socialismo democratico. Evaso da Lipari con F. S. Nitti e E. Lussu (1929), riparò in Francia, dove costituì il movimento Giustizia e Libertà, di cui fu la guida fino alla morte. Combattente (1936) nella guerra civile spagnola a fianco delle truppe repubblicane, venne ferito in battaglia; tornato convalescente in Francia, fu assassinato con il fratello Nello (v.) da cagoulards assoldati dal SIM. Le lettere dei due fratelli alla madre, Amelia Pincherle R. (n. 1870 – m. 1937), autrice di commedie e di libri per ragazzi, sono raccolte in Epistolario familiare. Carlo e Nello Rosselli alla madre (1914-1937), a cura di Z. Ciuffoletti (1979)
Chandra Livia Candiani poesie da “Bevendo il tè con i morti”
Edizioni Interlinea
Chandra Livia Candiani è nata a Milano nel 1952. È traduttrice di testi buddhisti e tiene corsi di meditazione. Ha pubblicato le raccolte di poesie Io con vestito leggero (Campanotto 2005), La nave di nebbia. Ninnananne per il mondo (La biblioteca di Vivarium 2005), La porta (La biblioteca di Vivarium 2006), Bevendo il tè con i morti (Viennepierre 2007) e La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014). È presente nell’antologia Nuovi poeti italiani 6 curata da Giovanna Rosadini (Einaudi 2012).
Verso sera
i morti siedono sui fili della luce
come gocce di pioggia
che è già caduta.
—
Bevendo il tè con i morti
c’è sempre uno
che sottilmente tace
non un silenzio esangue
ma un narrare interdetto
che non vuole
nell’ascolto pace.
—
Il vecchio cedro è caduto
in una notte di litigi
tra la bufera di notizie
della primavera e l’assoluta
stanza dell’inverno.
Non più verticale al sogno
della terra, ora non separa
radici e uccelli ma profumando
esala l’ultimo urlo
di meraviglia della creatura:
«La primavera, possibile,
solo una stagione?»
—
Ti amo come
ho amato il tuo abisso,
di solito degli esseri
io amo il bacio
dell’orma sul terreno,
la tua era scucita
e non lasciava segni
se non come nuvole e uccelli
segni di aria
liberata.
—
Abito nella tua voce e quando tace il silenzio è alato abito sotto la violenza delle tue ali e quando il silenzio è sommerso dai rumori essi sono il cuore del mondo abito nel mondo e le piume del mondo sanno che la bellezza esiste: «Quando arriverà il tuo passo metterò una conchiglia sopra la soglia e nell’aprirla i frantumi volando reciteranno il tuo nome».
Dall’autrice di uno dei più recenti casi editoriali di poesia con La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi) un libro originale: non sulla morte ma sui morti, su un mondo di ombre più vive dei vivi, fantasmi amici e compassionevoli, abitanti di un regno che è la patria della memoria e la compagnia dei solitari. Candiani ci consegna una doppia vista con un linguaggio che ammutolisce grazie a versi che hanno per interlocutore il silenzio. «Candiani vive in un suo pianeta, come il Piccolo Principe, cui molto assomiglia. Traduce testi buddhisti, recita, dipinge… Molti suoi versi non vi usciranno più dal cuore e dalla mente» (Vivian Lamarque).
In copertina Chandra Candiani in un dettaglio da una foto di Melina Mulas.
Grazia Calanna -Intervista a Chandra Livia Candiani-7 luglio 2014
“La poesia è la quintessenza dell’ascolto”
“Quando vuoi pregare, / quando vuoi sapere / quel che sa la poesia, / sporgiti, / e senza esitazione / cerca il gesto più piccolo che hai, / piegalo all’infinito, / piegalo fino a terra, / al suo batticuore”. Quelli di Chandra Livia Candiani (autrice di La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014) sono versi rotondi di rinnovamento, ricostruzione, incanto, incantamento, “sereno disincanto”. Leggendoli, ora ci si sente benamati, “per avere luce / bisogna farsi crepa, / spaccarsi, / sminuzzarsi, / offrire”, ora ci si sente abbandonati, “nella prospettiva fluttuante dell’ignoto”, ora ci si sente parte (tutt’uno) di un universo animato, interminabile, “La mia famiglia sono io / vive all’insaputa di me”.
Quali i ricordi legati alla tua prima poesia? Hanno (forse) a che fare con la possibilità di lasciarsi “guidare dall’orma asciutta della gioia”?
Se la gioia non è (come non è) l’opposto del dolore, allora sì. Perché la mia prima poesia è nata, verso i 9 anni, in morte di un pesce rosso, vinto al luna park. Un giorno, tornata da scuola, l’ho trovato a galleggiare su un fianco. Il mistero della sua presenza vuota mi ha colpito quasi più del dolore e ho scritto una serie di ieri contrapposti a una serie di oggi, era quel suo essere sgusciato fuori dal tempo e avermi lasciato con delle azioni sospese, così, senza preavviso, a disorientarmi, perdevano senso le azioni, anche quella di chiamarlo per nome, infatti la poesia terminava con: ieri ti chiamavo Xxxxx, oggi non ti chiamo più. Ma scrivere era cercare a tentoni la gioia possibile anche nel male, ‘la gonfia gioia del riconoscere’, la definizione che Mandel’štam dà della poesia. C’è sempre questa gioia asciutta della conoscenza che può prendere il posto della pretesa che ci possa andare tutto bene. Bene come? Bene cosa? E secondo quali criteri?
Quali i poeti dell’anima (per quali ragioni, con quali legami)?
Si sono susseguiti vari poeti sul percorso, ma gli intramontabili sono Rilke, Marina Cvetaeva, Pasternak, Mandel’štam, Celan, Emily Dickinson. Ci sono legami tematici e altri linguistici. C’è un male che la poesia mi fa, sento di essere costeggiata da un poeta, sento che faremo un po’ di navigazioni e naufragi insieme quando avverto quello speciale male: è un vuoto vivo nel petto, un mancare che non vuole essere riempito ma colto, un’assenza di nomi e di orientamento che vuole essere vista e abitata. Quei poeti mi portano in luoghi di ‘non so’ sconfinati, mi gira la vita, la sento che gira e gira e perde i riferimenti, allora sono senza mondo e ricevo l’essere senza mondo dell’altro, allora siamo svegli in piena vita. O morte, fa lo stesso. L’assoluta devozione di Rilke alla poesia mi ha aiutato a sceglierla come destino, come Via, come rischio e pericolo di perdersi totalmente e di indirizzarsi a un’assenza di riferimenti mondani che non rende proprio proprio tranquilli. Le sue lettere a un giovane poeta, come le sue elegie, sono istruzioni per inoltrarsi dove non ci sono riferimenti consolanti, grammatiche familiari. E i russi sono stati nostalgia di un’anima feroce e famelica di se stessa e della conoscenza, di quando siamo bestie dell’esperimento di vivere che non osavo senza le loro righe per andare dritta. Sentivo questa sproporzione e non sapevo come addomesticarla, è stata soprattutto Marina a dare un perimetro all’esagerazione e a farne verso di poesia e non solo urlo ferito o fame di amore. Pasternak mi ha dato un passo sereno, una sensazione di poter fare epoca a sé senza perdere il contatto col dolore degli altri, un sereno disincanto. Emily Dickinson ha legittimato tanta mia solitudine, tanto universo immenso in un centimetro di prato e il fitto dell’infinito, i tempi stretti dell’eterno, una Maestra di divinità infantile, di pugni serrati e ossa rotte per fissare in faccia il cielo per uno zero più grande. E Celan è maestro di riduzione, di non concedere niente alla narrazione né alla spiegazione ma avere parole come lame di diverse lunghezze, larghezze, affilature, ma sempre lucide, sempre alla luce. Ho ancora molto da apprendere dal suo coraggio di non compiacere, di essere solo lingua. E dettata e dedicata, cioè lasciare che i versi vengano essenziali non dalla cronaca di sé e che si dedichino a dirci e non noi a dire loro.
Due poesie – una tua, una di altri – alle quali sei più affezionata? Sarebbe bello se volessi riportarle come stessi recitandole…
Adesso che non so più niente
che il vuoto è bella dimora
che ho passi senza arsura
che siedo e imparo
a esitare, adesso
che non sei più al centro
e quello che conta non è più
al centro
ma spostato
tra le mani
dove le dita si disarmano
e fanno un gesto limato,
adesso questa categorica bellezza
di rami e cieli
pugnala solo
perché entri luce.
(Chandra L. Candiani da La bambina pugile
ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014)
*
Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti
tali tratti di naturalezza,
che non si può, dopo averli conosciuti,
non finire con una mutezza completa.
Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi
e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno,
non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia,
in un’incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più d’ogni cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio ciò che è complesso.
(Pasternak dal poema Le onde in Poesie,
Einaudi, 1957, traduzione di A. M. Ripellino)
Per Goffredo Parise la poesia “é qualcosa che arriva da fuori, va e viene, vive e muore, quando vuole lei, non quando vogliamo noi, un po’ come la vita, soprattutto come l’amore”, per Chandra Livia Candiani?
Sottoscrivo, sì, non so se la poesia venga da fuori solamente o da luoghi intermedi e misteriosi, periferie tra dentro e fuori, sottofondi, frontiere. Dentro e fuori sono coniugazioni di uno stesso spazio, di una nostra imprecisione nel percepire e percepirci. Ma certo quello che precede la poesia è la totale assenza di controllo, forse per questo è sempre stata raffigurata come una dea. Non le importa molto di noi, non ha riguardi. Passo lunghi tempi sottoterra, mi sento sciocca, ottusa, opaca e mi sembra che mai più tornerà un verso di mia anima e poi, quando la poesia torna, tornano i miei versi, ecco che proprio quel tempo sotterraneo si rivela come il più fecondo. Soprattutto come l’amore sì, quando si fa la muta, si cambia pelle e pensiero, ci si ritrova estranei a se stessi e io mi guardo nei miei versi nuovi con imbarazzo e timidezza e allora so che sono tra i migliori, perché non ho interferito con le mie consuetudini e le mie concezioni. Lasciarsi disfare e rifare da capo, lasciarsi dire da qualcosa che è un po’ più di noi. Siamo stanchi di noi. Sappiamo già tutto quello che sappiamo. La poesia mi sbaraglia, se no è un’altra cosa, qualcosa di meno.
“Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno amare da chi amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove non sei: è l’inizio della scrittura”. Una considerazione di Roland Barthes per chiederti: oggigiorno quale dovrebbe essere la funzione della scrittura e, più miratamente, della poesia? E, ancora, in che modo potremmo (o dovremmo) muoverci (tra tutte le difficoltà che conosciamo) per preservare il valore autentico della cultura?
Mantenere viva la parola. Fare ancora della parola innanzi tutto una presenza. Vibrante, vera, che pulsa e intimorisce. Essere vivi e mantenersi vivi non è scontato, è lotta dura. Non assomigliare, non compiacere, non chiedere il permesso, non lasciare, per spiccioli di compagnia, la solitudine, non chiudere la faccia agli altri. Distinguere tra vita e mondo, essere vivi, essere al mondo. Tra i due c’è una preposizione in più. Ce n’è di cose da fare. Alloggiare, abitare, dare asilo. Però io non credo allo scrivere per sé, si è sempre sul balcone o all’aria aperta, semmai si sta chiedendo come Pasternak ai bambini che giocano in cortile: “In che secolo siamo, ragazzi?” Ma anche quella è apertura, è essere con l’altro, senza mimarlo, con la propria sproporzione. ‘Con’ è una parola bella che non leva niente alla solitudine interiore, all’etica della non compiacenza. Scrivere senza programmi certo, senza didascalie, né spiegazioni, ma rivolti sì, rivolti fuori. Sì la scrittura è la dove non sei, è vero e si sposta sempre, come l’orizzonte e le si corre dietro e poi magari si scopre che ti sta alle spalle. Penso che l’importante è essere onesti, sapere quando si sta mentendo e quando no. Non c’entra con il dire l’onestà, ma con il leggere e il lasciarsi dire, con lo studio assiduo, con la devozione. Farsi orti, essere zappati dalla vita, anche cattivamente, lasciarsi rivoltare e innaffiare e lasciarsi osservare mentre si fa la fatica di sbocciare e poi guardare quel che è successo. È un momento importante quella sosta del guardare: ecco, è compiuto, come va? Forse non si tratta di pensare alla cultura perché questo fa subito sentire troppo importanti, e fa costruire armature di parole, io preferisco limitarmi a sentire il mondo, compresa me, con i sensi, incluso quell’organo vuoto che prova compassione per il dolore dell’altro e gioia per la sua gioia, quell’organo coltivabile ed educabile a cui sono stati dati tanti nomi che ora sono tutti decadenti e zuccherosi ma che ha molto bisogno di essere di nuovo abitato. Forse la cultura ha bisogno di sapere che le culture sono tante e lasciarsi mutare, parlare con le altre, fare l’amore e lottare, convivere e trasformarsi come fa l’aperto, la natura, bestie e rocce e alberi, tutto quanto. E non dimenticare i regni non umani, lo smisurato essere vivente che è il cosmo e il pianeta di cui siamo responsabili. Ci preoccupiamo di parlare un inglese bellissimo, ma non ci intendiamo con gli animali. E la nostra ancora oggi totale incapacità di frequentare i regni invisibili. Dove vanno i morti? Dove si è prima di nascere?
“La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore”. Perché questo titolo per il tuo nuovo libro?
La bambina pugile è un verso di una poesia che sta dentro il libro, è una faccia che certe mattine ci si ritrova nello specchio, quando si è lottato tutta la notte con le memorie, con l’identità perduta o da conquistare come uno che naufraga e ritrova la terraferma, con la non-voglia di essere al mondo, alla luce, forma tra le forme, con le cattiverie delle persone e le nostre cattive risposte. Ho difeso questo titolo, perché secondo alcuni era aggressivo e non mi si attagliava, ma io in quel titolo vedo l’allenamento, la disciplina, e la precisione è parte essenziale dell’addestramento. Così la precisione dell’amore è la precisione dei colpi che la vita ci sferra, esatti esattissimi per noi e bisogna cercare di essere altrettanto precisi nelle risposte. L’amore è precisissimo, non è romantico, ma matematico, ci insegna come una maestra tradizionale che parte dalle aste e arriva alla fisica quantistica, per me è fatto così. La proposta di unire i due titoli è venuta da Mauro Bersani, responsabile della collana di poesia di Einaudi, perché pensava che La bambina pugile non rappresentasse tutto il libro, ma solo una parte, (il libro è diviso in tre sezioni: La bambina pugile, Pianissimo per non svegliarti, La precisione dell’amore) ed è verissimo, gli sono molto riconoscente perché quel titolo doppio fa riflettere, sia sul pugilato che sull’amore, che sui bambini, tutto alla luce della precisione. ‘Ovvero’, anche questo su suo suggerimento, è una parola meravigliosa che ha qualcosa di settecentesco e ha unito i due titoli rispettandone la differenza e segnando uno spazio vuoto che fa un po’ trasalire, un po’ riflettere. Difendo il titolo, fino in fondo.
Come “sarà la dignità della vita umana, / sorvegliando l’arrivo / della poesia?”.
Citi una poesia che è fatta tutta di domande, per arrivare a chiedersi come sarà la dignità della vita umana che passa in un’attesa accesa e vigile, un’attesa che sorveglia l’arrivo della poesia. Non solo di quella scritta, quella nostra, ma anche poesia del mondo, fare nuovo nel mondo, fare giusto. E la poesia sembra che inviti a scegliersi come si è, un po’ alberi che proprio quando fa più freddo si spogliano, esseri immersi nei paradossi delle meccaniche dell’universo, ma anche un po’ lacrime che non sanno scendere, ferite che non sanno guarire, persone che non sanno parlare, né tenere, né dire il bene. Essere poveracci senza destino ma che sorvegliano l’orizzonte, attenti alla possibilità che arrivi il dono. E in quel sorvegliare c’è la dignità di saper esitare e insieme di fare azione utile e grande nel farsi un po’ da parte, nel farsi fare dal vivere ma non ammazzare dal mondo. E fermare le mani cattive e farsi benedire da quelle buone e non dare le stesse risposte delle domande quando c’è crudeltà, spostare il colpo e il campo, imparare a non colpire chi ci colpisce, ma a non farsi massacrare, fargli trovare lo spazio vuoto davanti, allora sarà la sapienza di quello spazio a fargli intendere come stanno le cose. La poesia come arte marziale.
“Per ascoltare bisogna aver fame / e anche sete, / sete che sia tutt’uno col deserto, / fame che è pezzetto di pane in tasca / e briciole per chiamare i voli, / perché è in volo che arriva il senso / e non rifacendo il cammino a ritroso, / visto che il sentiero, / anche quando è il medesimo, / non è mai lo stesso / dell’andata”. Con i tuoi versi per domandarti: la poesia può (e se può, in che modo?) aiutarci a recuperare la capacità d’ascolto? Può (e se può, in che modo?) ricondurci alla “nudità delle cose”?
Certo che può. La poesia è la quintessenza dell’ascolto, prima di tutto per chi scrive, se scrivo quel che so già, non è poesia. Voglio imparare dai miei versi, varcare frontiere che fanno un po’ spaventare di perdersi, rischiare le derive e dopo sapere qualcosa di nuovo, come nei sogni, quando i maestri ci parlano di notte, per immagini, per salti del senso, che poi danno più senso di qualsiasi poco a poco, piano piano dei metodi rassicuranti. La poesia contiene tanto silenzio, gli a capo, ma non solo, quel silenzio delle parole che non possono essere sostituite con altre. E quelle parole che diresti in punto di separazione, quando il silenzio preme fortissimo. Per ascoltare bisogna aver fame dell’altro, se no si ascolta sempre e solo quello che ci conferma. La poesia dovrebbe far sussultare il sapere condiviso, le consolazioni. E aprire varchi, farci intravvedere altre possibilità. Rendere invisibile il visibile diceva Rilke. Ascoltiamo meglio se la mente tace, se non associa e invece risuona. Per risuonare bisogna essere vuoti. Le domande stanno scomparendo dal mondo. Mi fa il cuore stretto passare ore con persone che non mi fanno nessuna domanda, come se fosse impudico, ma in realtà è assenza di differenze, di interesse, come fossimo tutti senza volto e chiedessimo di confermarci che tutto è opaco, che non c’è niente per cui valga la pena lasciare la casa e inoltrarsi nel non conosciuto. I bambini, quando stanno ancora bene, lasciano la casa ogni volta che parlano. Quando ballano poi…
“«La poesia è conoscenza e passione» / ha detto uno di voi / uno di otto anni”, ancora i tuoi versi per chiederti (ricordiamo che da qualche anno curi seminari di poesia in diverse scuole elementari milanesi) di renderci partecipi di alcuni dei momenti più “lirici” trascorsi in compagnia dei tuoi maestri-bambini poeti. E, ancora, avendola, e avendone voglia, potresti riportare una definizione di poeta formulata da una di quelle tue “giovani belve con gli occhi inflessibili”?
Scelgo le scuole periferiche di Milano, quelle con tanti migranti e figli di migranti e italiani spaesati, poveri, perché c’è più necessità di parole, parole per dire il brutto, il poco, il senza qualità. Uno dei momenti più intensi è quando entro per la prima volta in classe, quando mi ‘vedono’. È una questione di vita o di morte, in pochi secondi ti giochi tutto. Per questo seguo anche da tanti anni una formazione clown, per avere una faccia viva, abitabile, accogliente. Con tanti di loro, c’è solo la faccia, le parole non le capiscono. Ne ho tante di storie, tra tante quella di Ginai, cinese. Entro in classe e parlo di cos’è la poesia. Lui mi fissa e dice: “Maestra in Cina non c’è la poesia!”. Io gli dico: “Ma certo che c’è e antichissima anche, ti porto delle poesie la prossima volta”.
L’ultima lezione, Ginai scrive:
La poesia scapa nel mondo
e la mia mamma non lo sa
la poesia dopo la mia mamma
va cercare nel mondo.
E poi un bambino molto ferito che parlava pochissimo, come se le parole bruciassero. Gli do un titolo: Il silenzio. Lui scrive solo una parola: luna. Quando la legge:
Il silenzio.
Luna.
E noi il silenzio l’abbiamo sentito, toccato: luna.
Non ho definizioni di poeta ma della poesia sì, scrivono quasi sempre una poesia che si chiama Cos’è la poesia.
Anita, 9 anni:
La poesia è come vento
viene
e va
ti lascia sola
e poi ritorna.
È un mare
di parole
che ti colpiscono
o ti uccidono.
La poesia
unisce
ma
non si sa cosa.
Edmondo, 9 anni:
La poesia un insieme di cose inspiegabili
come perché esiste l’universo
o chi l’ha creato
queste cose sono inspiegabili
come la poesia
si sono fatte molte ipotesi ma
la poesia però è sempre un mistero
e quando credi di aver trovato
una risposta in verità
hai trovato una risposta ma cento domande.
Ti invito a scegliere una tua poesia (spiegandoci perché l’hai scelta) per salutare i nostri lettori.
La poesia che dà il titolo al libro, perché è semplice, diretta, parla del dopo, dell’adulto nato da un’infanzia che sfracella, e termina con qualcosa che è anche più del perdono, è la comprensione del dolore dell’altro, della solitudine del tiranno, del suo essere fuori mondo, mostro. E così saluto con l’augurio di non cancellare il male, di accoglierlo tutto, di sentirlo in pieno e di spostare solo dopo l’attenzione sull’altro e di vederne la miseria, che non è condonare niente, ma prospettiva ampia che può portare ad azioni forti, ma sempre calibrate dal sapere che i ruoli si invertono, che la complessità della vita non fa sconti, che è necessario rallentare, perfino fermarsi e lasciarsi riflettere, aspettare una comprensione smisurata come l’universo. Forse si chiama giustizia.
SERGEI ESENIN (1895-1925)-Poeta russo (n. nel distretto di Rjazan´ 1895 – m. Leningrado 1925).Fece parte dapprima a Pietroburgo del gruppo dei poeti contadini e poi dell’immaginismo, una scuola poetica nata a Mosca dopo la Rivoluzione. I suoi primi versi, raccolti nel volume intitolato al rito di commemorazione dei defunti, Radunica (1916), cantano con sommesso lirismo e con toni di umiltà religiosa la campagna attorno a Rjazan´. Esenin accolse la Rivoluzione con entusiasmo, esaltandola in poemi declamatorî e barocchi, quali Preobraženie (“Trasfigurazione”) e Inonija (“Altra terra”) del 1919. Ma ben presto la delusione provata di fronte al dilagare del progresso industriale, che trasformava la primitiva campagna, lo spinse a una vita disordinata di cui è un riflesso nel poema Ispoved´ chuligana (“Confessione d’un teppista”, 1921) e nel ciclo Moskva kabackaja (“Mosca delle bettole”, 1924) che contiene versi allucinati. Invano egli tentò di accostarsi a temi di argomento sovietico; l’alcolismo, la solitudine e la disperazione lo spinsero al suicidio. Egli è in sostanza un continuatore della tradizione di A. Blok, sia per la fluidità musicale dei versi, sia per il gusto della romanza zigana, sia per la sovrapposizione e per il connubio di vita e letteratura.
Tradotto da: Gianluca Coci- Beat Edizioni- Neri Pozza Editore
Descrizione del libro di Natsuo Kirino-Grotesque–Due prostitute di Tokio, Yoriko e Kazue – la prima, figlia di madre giapponese e di padre svizzero, dotata di una bellezza quasi sovrannaturale, le seconda, invece, forte di una caparbia determinazione – sono assassinate in modo feroce, e la loro morte lascia una serie di domande senza risposta. Chi erano queste due brave ragazze che si sono trasformate in donne “grottesche”, mostri di perversione ed eccessi, di irriducibile quanto tragica volontà di indipendenza? Quali eventi hanno condotto la loro vita verso un esito così tremendo, dove si annida l’enigma di una perdizione che nulla sembra poter arrestare? Al loro tragico destino si unisce quello di un contadino cinese immigrato in Giappone, cresciuto con la famiglia in condizioni di estrema povertà, che viene accusato degli omicidi. Ammetterà di aver commesso il primo, di aver ucciso la bellissima Yuriko, ma non è stato l’artefice del secondo, seppure le due violenze siano così simili, e le coincidenze così schiaccianti.More
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