Roma-Al Teatro Furio Camillo arriva la prima edizione della rassegna Donna, Circo e Libertà-
ROMA-Al Teatro Furio Camillo arriva la prima edizione della rassegna Donna, Circo e Libertà, dal 29 aprile al 4 maggio, che porta in scena spettacoli di circo teatro al femminile, valorizzando l’esperienza di donne autrici, registe, acrobate, illustratrici, attrici e danzatrici con una visione originale del mondo dell’arte, capace di coniugare il linguaggio del corpo e quello del tratto di scrittura o di illustrazione, con differenti tecniche, dal teatro di parola alla danza, dal teatro di figura alle tecniche di circo classico. Sei giornate ricche di eventi in programma, come la presentazione del libro “La rivoluzione in pista”, proiezioni, una mostra di illustrazioni e atti performativi capaci di coinvolgere, in maniera anche diretta, il pubblico di tutte le età.
Roma- Teatro Furio Camillo – Donna, Circo e Libertà
Roma- Teatro Furio Camillo – Donna, Circo e Libertà
na darà vita a un racconto tanto metaforico, quanto reale, sui percorsi che nella storia del teatro e del circo hanno portato donne straordinarie a distinguersi e scrivere la storia dovendo fare i conti con la necessità di essere al tempo stesso un’eccellenza artistica e un esempio di determinazione imprenditoriale. Il virtuosismo delle donne che hanno accompagnato la storia del circo e del teatro è sintomatico del percorso artistico di molte donne nel mondo delle arti.
Roma- Teatro Furio Camillo – Donna, Circo e Libertà
Roma- Teatro Furio Camillo – Donna, Circo e Libertà
Inaugura la rassegna il 29 aprile la mostra di illustrazioni di Chiara Guidi che raccontano donne nelle arti di ogni epoca, con il suo tratto molto ironico e incisivo, sa incantare l’osservatore con colori forti e decisi. L’inaugurazione della mostra verrà presenziata da Diana Gonzalez, madrina della rassegna e simbolicamente tramite di una storia di passaggio tra le donne che hanno fatto la storia del circo nel mondo e chi la sta scrivendo al giorno d’oggi. La Mostra resterà aperta fino al 4 maggio.
A seguire Proiezioni e Performance “le donne nella storia del circo” (dalle 19:30 alle 20:30), le proiezioni curate da Leonardo Angelini, raccolgono immagini di donne di storia del circo e spezzoni di loro numeri che le hanno rese celebri.
Mercoledì 30 aprile dalle 19 alle 22:30 appuntamento con Happening Teatro a porte aperte, un evento rivolto ad allievi delle scuole di fotografia e di cinema che potranno accedere al teatro in gruppi e potranno esercitarsi con foto e riprese durante le attività di backstage.
Roma- Teatro Furio Camillo – Donna, Circo e Libertà
Giovedì 1° maggio va invece in scena “Tienimi che ti tengo” della Compagnia Circo in Rotta (prima replica ore 18:00 – seconda replica ore 21:00), uno spettacolo di circo contemporaneo e danza, una mescolanza di tecniche per parlare con un linguaggio molto fisico ed adrenalinico, dell’amicizia fra donne, della presenza che cuce le ferite, della forza che attraverso l’altra ciascuna riscopre in sé stessa, dello specchio che siamo gli uni per gli altri. Venerdì 2 maggio è la volta di “Da cosa nasce cosa” della Compagnia Circo Puntino (prima replica ore 18:00 – seconda replica ore 21:00), uno spettacolo ironico e dinamico per parlare degli stereotipi sui ruoli delle donne. Attraverso l’acrobatica su ruota tedesca e la folle interazione con il pubblico, Elisa Zanlari crea una situazione divertente che porta il pubblico di tutte le età a risolvere con lei ogni problema più o meno folle.
Successivamente, sabato 3 maggio, appuntamento con “Ca’ Mea” – Compagnia Aga
(prima replica ore 18:00 – seconda replica ore 21:00), spettacolo di circo contemporaneo con discipline quali filo teso, sfera d’equilibrio, verticali, acroportes, della Compagnia Aga con in scena giovanissime artiste di circo con una alta formazione riconosciuta a livello europeo.
Roma- Teatro Furio Camillo – Donna, Circo e Libertà
Sempre sabato 3 maggio dalle 19:30 alle 20:30 il Teatro Furio Camillo ospita Maria Vittoria Vittori, autrice del libro La rivoluzione in pista – Storie di donne, circo e libertà. L’incontro è moderato da Leonardo Angelini, storico del teatro e del circo. Il volume di Maria Vittoria Vittori è l’occasione per uno straordinario viaggio nella storia del circo declinata al femminile. Il racconto dell’autrice si snoda tra la fine dell’Ottocento e la nostra contemporaneità, esplorando molteplici e fertili legami che si creano tra saperi, esperienze e competenze diverse, all’interno del mondo circense.
Infine, domenica 4 maggio (prima replica ore 11:00 – seconda replica ore 17:00) chiude la rassegna “Belisa non buttarlo!”, spettacolo di circo teatro per bambini e ragazzi della storica Compagnia Materiaviva. Lo spettacolo porta in scena una storia dolce di due donne, una barbona che a dispetto delle apparenze non è poi così folle e una ragazza, tanto giovane e tanto abituata a consumare e buttare.
Roma-Teatro Tor Bella Monaca – Arena Teatro Tor Bella Monaca-Spettacoli dal 23 al 27 aprile 2025-
Roma-Teatro Tor Bella Monaca –Il 23 e aprile (ore 21) in Sala Piccola appuntamento con PENSIERO ELETTRICO, spettacolo di Francesco Tozzi e Francesco Lonano, con la regia di Francesco Lonano.Un’unica entità, l’essere umano, diviso in due aspetti: quello femminile, spirituale che cerca un dialogo con un Dio non proclamato e identificato ma semplicemente cercato come identità superiore e posto al pari livello, e quello maschile, concreto alla realtà del contesto che ci circonda e alla società che evolve nel tempo. Un percorso di analisi costruito sul pensiero lucido di una delle più grandi leggende della musica e non solo: Jim Morrison.Tutti noi lo conosciamo come il carismatico ed estroso frontman dei The Doors, ma egli fu anche uno scrittore dal profondo spessore estetico ed esistenziale. Lettore nervoso ed insaziabile, fu intimamente dedito alla poesia, da lui considerata come la sua reale vocazione e ritenuta «l’arte suprema, perché ciò che ci definisce come esseri umani è il linguaggio».
Roma-Teatro Tor Bella Monaca
Dal 24 al 27 aprile (ore 21; domenica ore 18) invece appuntamento in Sala Grande con 49 SFUMATURE DI GIALLO, scritto e diretto da Roberto D’Alessandro.Siete pronti ad assistere ad un thriller comico interattivo dai risvolti fantastici? Quattro persone si ritrovano imbavagliate e legate sul palco di un teatro. Non si conoscono e pensano di essere coinvolti in un gioco divertente, ma comincia il conto alla rovescia e iniziano ad accadere strane cose. Uscire dal teatro non sarà facile e il gioco si trasformerà in un thriller che porterà alla luce l’oscuro rapporto dei quattro partecipanti all’escape theatre. Cosa succederà se non dovessero risolvere i misteri? Riusciranno i nostri eroi ad uscire dal teatro in tempo?La programmazione dei Teatri in Comune 2024-2025 è finanziata dall’Unione Europea, Next Generation EU nell’ambito del PNRR, e rientra tra gli Interventi “Il Giubileo dei Pellegrini: eventi artistici e culturali nella città di Roma, dal centro alla periferia, al fine di favorire la fruizione turistica nel periodo giubilare” (PNRR – M1C3-Inv.4.3 Caput Mundi. Next Generation EU per grandi eventi turistici).
Il Teatro Tor Bella Monaca -Una vera e propria scommessa culturale, per valorizzare un territorio ricco di potenzialità, l’attuale Municipio VI, ha portato all’apertura, il 9 dicembre 2005, del Teatro Tor Bella Monaca, evento fortemente sostenuto e a cui hanno collaborato Roma Capitale – Assessorato alle Politiche Culturali e Assessorato alle Politiche per le Periferie – l’ETI, Ente Teatrale Italiano, la Regione Lazio e l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.
Il Teatro Tor Bella Monaca si propone come un riferimento sociale e culturale per la città, aperto e fruibile, un luogo vissuto, capace di incuriosire, aggregare, stimolare e garantire l’accessibilità della creazione artistica a tutta la comunità territoriale e alla città intera, favorendo la relazione tra produzione culturale locale e scena nazionale.
L’edificio, situato all’interno del grande complesso della sede del Municipio, è stato progettato come un sistema flessibile di spazi: comprende due sale teatrali – la sala grande da 282 posti e la sala piccola da 98 – una sala prove e ulteriori spazi in cui realizzare incontri, mostre, laboratori, momenti formativi.
Dopo due anni di collaborazione con l’Ente Teatrale Italiano, dalla stagione 2007/2008 la gestione del Teatro è passata all’Associazione Teatro di Roma che ha gestito lo spazio fino a gennaio 2013. Nel febbraio 2013, l’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale ha inserito il Teatro Tor Bella Monaca all’interno dell’innovativo Sistema Casa dei teatri e della Drammaturgia Contemporanea gestito da Zètema Progetto Cultura con la direzione di Emanuela Giordano.
Il Sistema si è configurato a tutti gli effetti come un dispositivo di rete e di progettazione partecipata, offrendo per la prima volta nella storia delle politiche culturali della città, la straordinaria possibilità di valorizzare le risorse del settore pubblico, in sinergia con il privato.
Del Sistema, oggi denominatoTIC – Teatri in Comune, fanno parte inoltre il Teatro Biblioteca Quarticciolo, il Teatro del Lido, il Teatro Villa Pamphilj, che, insieme, mettono in rete competenze e visioni accumulate nel corso degli ultimi decenni, si rapportano con i luoghi che li ospitano e puntano a sviluppare reti sociali e culturali con le agenzie del territorio, in un’ottica interdisciplinare, inter-istituzionale e partecipata.
Roma-Una nuova settimana al Teatro Belli con Expo – Teatro Italiano Contemporaneo-
Roma-Una nuova settimana al Teatro Belli con Expo – Teatro Italiano Contemporaneo, Rassegna diffusa di drammaturgia italiana contemporanea, ideata da Società Per Attori, da Franco Clavari e Andrea Paolotti.
Dal 22 al 27 aprile Primavera scritto e diretto da Pietro Gattuso con Giovanni Andrei, Ugo Caprarella, Francesca Gregori, Piergiorgio Mazzarella, Chiara Onofri. Perché́ cerchiamo sempre di far credere ai nostri cari che va tutto bene? Per proteggerli? A volte sarebbe meglio la cruda verità piuttosto che aspettare e causare una catastrofe. Due ragazzi molto giovani, Luca e Francesca, sono giunti alla scelta estrema del suicidio. Lo spettacolo è un alternarsi di vicende legate alle loro vite e ai rispettivi rapporti con le uniche persone a loro care. Per Francesca il padre, Gianmarco, single, pronto a tutto pur di mantenere gli studi della figlia. Per Luca la sorella Cecilia, malata terminale che non ha ancora il coraggio di dirlo al fratello. Quando entrambi li abbandoneranno, Luca e Francesca non vedranno altra soluzione che cercare di “raggiungerli”. La loro conoscenza però farà nascere qualcosa. Amicizia? Amore? Altro? Grazie a questo incontro scopriranno una nuova speranza e, forse per la prima volta nella loro vita, qualcuno con cui condividere tutto.
Roma-Teatro Belli Piazza di Sant’Apollonia 11
EXPO – TEATRO ITALIANO CONTEMPORANEO
rassegna diffusa di drammaturgia italiana contemporanea
PRIMAVERA
scritto e diretto da Pietro Gattuso
con Giovanni Andrei, Ugo Caprarella, Francesca Gregori, Piergiorgio Mazzarella, Chiara Onofri
ll Teatro G. Belli è uno dei più antichi teatri romani.Ospitato in quella che fu la Chiesa del Monastero di Santa Apollonia (da cui il nome della piazza) il Teatro G. Belli era già attivo nella seconda metà dell’800. La storia di questo spazio è ricca di episodi curiosi. Nel periodo in cui era sede del Monastero era qui che avveniva la vestizione della statua della Madonna per la processione che si teneva (e si tiene tuttora) durante la Festa de’ Noantri. Successivamente è proprio qui che fu rinchiusa Lorenza Feliciani, la bella moglie di Cagliostro, da lei stessa accusato di stregoneria. Ed è sempre qui che molto, molto tempo prima, aveva vissuto, scomparso il suo grande amore, la Fornarina di Raffaello. In ogni caso, in quegli anni, esso aveva la precisa funzione di Refugium peccatorum, e la disciplina all’interno era molto severa. Il fatto è che, finito il periodo di pena, non risulta che Lorenza sia uscita dal monastero, e nemmeno che vi sia rimasta: scomparve, e nessuno ha saputo più nulla di lei. Fatto sta che in certe notti d’autunno, per i vicoli di Trastevere passa in silenzio una figura di donna, che nessuno ha mai visto in faccia; rasentando i muri, senza far rumore, arriva al ponte Garibaldi, lo attraversa, e arriva fino a piazza di Spagna. Qui, nel luogo dove Cagliostro fu arrestato, scompare in una chiazza d’ombra mentre dal nulla escono una risata di scherno e un grido: Lorenza!. Ancora oggi più di una persona, tra le tante che hanno lavorato al Teatro Belli pur essendo all’oscuro di questa leggenda, racconta di essersi trovata di fronte a strani fenomeni, mentre si trovava sola all’interno del Teatro.
Dopo che il convento fu chiuso definitivamente (sembra per un’improvvisa epidemia di peste), i locali del Teatro Belli hanno ospitato varie attività, tra cui una celebre taverna trasteverina. Ma è nella seconda metà dell’800 che il Belli diventa finalmente Teatro.
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo ,I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi –
Descrizione del libro di Gad Lerner eLaura Gnocchi-Giangiacomo Feltrinelli Editore-–Che cos’è il fascismo? Siamo sicuri che sia scomparso? I racconti di chi il fascismo lo ha vissuto, e si è ribellato, quando era giovane come voi oggi.
Sono passati ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia da allora ha vissuto in pace, ma vi sarà giunta l’eco di nuove guerre scoppiate all’improvviso, epidemie e disastri ambientali. In questi momenti la Storia può diventare per noi una buona consigliera e può aiutarci a capire oggi con quali pretesti l’umanità venne allora divisa in persone di serie A e di serie B, perché i nonni dei nostri genitori abbiano obbedito a dittatori fanatici.
Erano i tempi del fascismo, un’invenzione italiana del 1919, quando Benito Mussolini prese il potere e trasformò rapidamente il Regno d’Italia in una dittatura. Ma la sua ambizione non era solo quella di comandare, voleva cambiare la testa della gente, fargli il lavaggio del cervello. Il suo regime durò oltre vent’anni, seguiti da venti mesi di guerra civile, nel corso dei quali l’antifascismo divenne Resistenza fino ad arrivare nell’aprile 1945 alla resa del nazifascismo. La Liberazione, appunto, celebrata da allora come festa nazionale ogni 25 aprile.
Le partigiane e i partigiani che abbiamo intervistato ci raccontano com’è andata per davvero e le loro storie ci ricordano che la libertà non è un regalo per sempre, dobbiamo guadagnarcela ogni giorno.
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo-Feltrinelli Editore
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate italiane da inviato o con ruoli di direzione. Ha ideato e condotto vari programmi d’informazione televisiva alla Rai, La7 e Laeffe. Ha diretto il Tg1. Ora scrive su “Il Fatto Quotidiano” e “Nigrizia”. Con Feltrinelli ha pubblicato Operai (1988, 2010), Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità (2005), Scintille (2009), Concetta. Una storia operaia (2017), L’infedele (2020) e Gaza. Odio e amore per Israele (2024). Ha curato, insieme a Laura Gnocchi, Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (2020), Noi, ragazzi della libertà (2021) e Dimmi cos’è il fascismo (2025).
Laura Gnocchiè giornalista. Ha diretto varie testate, tra cui “Il Venerdì di Repubblica”. Il suo ultimo programma televisivo è stato La scelta, ideato insieme a Gad Lerner, con il quale ha curato anche Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (Feltrinelli, 2020), Noi, ragazzi della libertà (Feltrinelli, 2021), entrambi nati dalla raccolta di oltre novecento videointerviste realizzate in collaborazione con l’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia, e Dimmi cos’è il fascismo. I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi (Feltrinelli, 2025, con le illustrazioni di Piero Macola).
Umberto Bellintani nasce a Gorgo di San Benedetto Po il 10 maggio 1914 e muore a San Benedetto Po il 7 ottobre 1999.Fra gli anni 1932 e 1937 studia scultura all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, allievo di Marino Marini.Partito volontario per la guerra, patisce i campi di concentramento di Dachau, Torn, Peterdorf e Górlitz. In guerra comincia a trasfondere in versi il suo forte senso della “poesia della vita”.Alla fine del conflitto, impossibilitato a riprendere la scultura, per breve tempo insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto Po per poi svolgere le mansioni di segretario presso la Scuola Media di San Benedetto Po.In vita dà alle stampe cinque importanti raccolte di versi: Forse un viso tra mille (Vallecchi 1953), Paria (Mondadori 1955), E tu che m’ascolti (Mondadori 1963), Nella grande pianura (Mondadori 1998) e Canto autunnale (Perosini 1998).
Umberto Bellintani -Poeta italiano
POESIE
Per un bambino che non conosce più i passeri
Urlavan lungi dei cani (o eran gufi?).
Urlavan lungi dei cani e c’eran gufi;
e come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri del cimitero
quando il ragazzino si trovò
solo solo nella notte.
E allora egli aveva un urlo strozzato nella gola,
ché un fruscio d’erbe lo soffocava come un serpente
e la luna veramente era cupa tra le fronde degli alberi.
Come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri e i fianchi degli argini,
e fu allora che il bambino perse l’uso della parola,
e perse la vista comune delle viole e dei giocattoli
e il senso naturale delle cose.
Così ora tentenna il capo e nei suoi occhi è una nuvola,
ma pare un angelo divino contemplante
profonde luci assorte in se stesso.
Povera madre che lo sorvegli lungo i sentieri del tuo orto
e ora lacrimi al suo riso ebete sugli asparagi,
io non so dirti s’è sfortuna a lui toccata
o s’è migliore la sua sorte, più benigna
che al fanciullo intento a suddividere
in bianchi e neri i dadi del suo gioco.
Dolce chiude l’ora di sera
Forse non esiste Dio. Forse
solo il rapporto
fra noi esiste e gli alberi
annosi o appena d’anni
uno e le erbe
e i coccodrilli e il buon tepore
della sera. Non v’è
che poi la morte ed altro ancora
innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto
per lei si placa; e in noi s’alterna
timore d’essa e quieta attesa
del suo riposo:
così
oggi è da porre questo giorno fra non quelli
di sofferenza e sgomento: dolce chiude
l’ora di sera col risorgere di una
ampia stellata. Dunque
forse soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce.
Poiché veramente sono fratello
Poiché veramente sono fratello
del topo nella bocca della gatta
che svelta se ne corre via
e sopportare non posso il ragazzo
scemo che inchioda al tronco
dell’acero la lucertola
ecco che uccido il ragazzo
con il cuore e gli tronco le mani,
poi rendo la testa della gatta
in poltiglia con colpi di pietra
ed è davvero perché sono fratello del fossato
della latta arrugginita e dei ciottoli
della strada e di ogni essere che vive o non vive
ecco che amo e odio follemente il mondo.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Più d’una rete
Più d’una rete luceva sulle acque,
stillando al sole; di poi si sommergeva.
Ed era un giubilo d’allodole quando
al pescatore sotto riva lento emerse
il giovinetto da quel fondo, il corpo cereo.
Allora il pianto della madre ruppe in gridi,
e quello muto d’altre donne dilagò
ed era greve. Ma nel cielo
ancora il sole risplendeva e la Riparia
era pur sempre gorgheggiata dalle rondini.
Paria
Poveri affaticati nelle membra,
servi delle gleba, paria,
per noi la morte è riposo.
Tu luna invano risplendi in mezzo al cielo;
e non ci cavi dagli occhi che sudore
antica stella che illumini nei boschi
a maggio il canto malinconico dei cùculi.
Non siam che miseri lombrichi nella mota,
siamo concime, la ruota, la carrucola
e non v’è pena che noi non si conosca.
Angela
Piace il tuo parlare, Angela,
venditrice dell’amore:
c’è il buono di un’anima cristiana,
dolce di cose, del buono della vita.
E c’è tanto della mamma nei tuoi occhi
di un benevolo nero;
e che ti prende, di poi si vergogna.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Fratelli
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato
in questa vita così fatta per gli uomini;
chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino
e ha distrutto le colture, e chi la donna
dell’amico ha condotta a perdizione.
Ma non per questo nessuno v’è che peni;
ognuno soffre la montagna della morte
che gl’impedisce di vedere il proprio figlio
e la sua donna, la casa, il campo amato,
un volto amico, un arnese, umili cose.
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Il gatto che ritto si dorme
Il gatto che ritto si dorme
al sommo del palo in questa quiete
dell’aria al pomeriggio di fuoco,
e la rana che grida terrore
dove il fosso s’incurva,
sono voci dell’arcano, e la cetonia
stremata sul sentiero e l’acqua
infesta di torpore e morte;
voci dell’arcano
che dilagan talvolta allora
che tutto s’addensa nel cuore,
preme e non sai
se di vita diversa un esser vivo
un irrequieto immortale
o d’altri mondi a noi cala la voce.
Altro non sai che tu vivi
di questo senso profondo della vita
che ti snerva e che puoi
affascinato dare il fianco alla morte.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Una pianura tutta verde
Immaginiamola, amici, una pianura tutta verde
e tutta piena di bianchi scheletri.
E ditemi voi se non è bella una pianura tutta verde
di primavera ben coperta di quegli scheletri
distesi al sole e tanti fiori sparsi intorno.
Immaginiamola, amici, una pianura tutta sola
come s’intende cosparsa di margherite.
E ditemi voi se non è bella una pianura verde
tutta gremita di margherite e bianchi scheletri.
Immaginiamola, amici, la morte bianca distesa al sole
con tanti scheletri in quella piana di fresco verde.
A Berto
Case vuote abbandonate
occhi allucinati di finestre
amate case di campagna
lombarde voci della vita
case morte della mia pianura
vite spente della gioia
aie al sole della luce
mia tristezza che non taci mai.
Ancora: forse Dio non esiste,
esiste soltanto esiste
il sempre che vive in noi
eternamente.
Morirete senza tremare
di sgomento
perché nessun figlio resterà
solo. Fonte Poesie dal sito www.italian-poetry.org
APRILE
(Umberto Bellintani)
Tu vivi il tempo di grazia dell’aprile
e tra le canne stormenti dello stagno
se un frullo appena si ode dei palmipedi,
avverti un grido imponente di stupore;
e del tuo cuore se un nonnulla desta un lagno,
il muover d’ali di quell’anatra smarrita,
un piccol sasso, un’inezia ti consola.
È dunque vano che ti dica, e ciò m’allieta,
di come il male della vita qui s’apposta;
è dunque vano che ti parli della nera
nube che incombe sopra l’anima contrita,
se per l’azzurro dei tuoi occhi sempre sosta
ritta sul palo di laggiù l’upupa rara.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
NOSTALGIA
Torna un lamento,
e ne dà l’eco la pallida
ombra del monte al capo viola.
Vedo gli uccelli
sui comignoli dei tetti
di un paese dell’Epiro
e scroscia un fresco scintillato di rugiada.
E mentre trebbiano il grano
dei fulvi cavalli arrivo
ove l’oracolo di Delfo era
nel volto corrucciato del greco
fiero di odiarmi.
Non sarò forse mai,
non avrò più ritorno
a quelle terre ove
di me in cerca s’aggira
un ebbro momento.
Oh triste
esser dispersi nel tempo
e per terra divisi
in parti ed ogni parte la sorella
chiamare vanamente.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Chi era Umberto Bellintani
Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Umberto Bellintani nasce a Gorgo, frazione di San Benedetto Po, provincia di Mantova. Fra il 1932 e il 1937 frequenta a Monza l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Ha come maestri (oltre a Marino Marini, docente di Plastica Decorativa, con cui si diploma in scultura nel 1937) Arturo Martini, Raffaele De Grada, Pio Semeghini, Giuseppe Pagano (architetto), Edoardo Persico. Confesserà in più di una lettera all’amico Parronchi che quegli anni furono intensi e pieni di sogni, fra tutti quello di diventare scultore. Purtroppo, delle opere eseguite da Bellintani in quel tempo è rimasto pochissimo: una scultura denominata Fanciullo, conservata nella raccolta Collezioni Civiche di proprietà del Comune di Monza e Il legionario, scultura a figura intera, conservata in uno dei chiostri della Società Umanitaria a Milano. Richiamato alle armi nel 1940, combatte in Albania e in Grecia. È prigioniero, dal 1943 al 1945, nei campi di lavoro di Górlitz e Dachau in Germania, Thorn e Peterdorf nell’attuale Polonia. Alla fine del conflitto, abbandonata la scultura, dapprima insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto, poi è assunto come applicato di segreteria presso la locale Scuola Media. Sposatosi nel 1940 con Eva Pedrazzoli, ha due figli, Marino e Rita. Il suo esordio poetico avviene nel 1946 quando si colloca al secondo posto ex aequo con Vittorio Sereni al Premio Internazionale “Libera Stampa” (1946-1966) di Lugano e suscita l’interesse da parte della critica più accreditata. Pubblica nove poesie sul Politecnico di Elio Vittorini, due su Paragone di Roberto Longhi, altre su Itinerari. Nel 1953 pubblica la sua prima raccolta di versi Forse un viso tra mille, per la Casa Editrice Vallecchi. Nel 1954, agli Incontri fra generazioni, che avevano sostituito il Premio San Pellegrino, ottiene il Premio Minerva Italica mentre Rocco Scotellaro riceve un premio alla memoria. Nel 1955 pubblica Paria, Edizioni della Meridiana, a cura di Vittorio Sereni, prefazione di Giansiro Ferrata. Nel 1962 vince il Premio Cervia e ottiene la medaglia d’oro al Premio LericiPea. Nel 1963 pubblica E tu che m’ascolti, per la Casa Editrice Mondadori, nella collana Lo specchio. La raccolta comprende anche la ristampa di Paria. Dopo aver raggiunto considerevoli consensi, sparisce dalla scena letteraria e per ben 35 anni non pubblica niente altro. In questo arco di tempo, comunque, non cessa mai né di scrivere né di disegnare e intrattiene rapporti epistolari con letterati e poeti. Nel 1983 Alessandro Parronchi lo convince a esporre alla Galleria Pananti di Firenze, dal 18 al 28 giugno, un gruppo di cinquanta disegni. Umberto Bellintani accetta ma ordina poi a Piero Pananti di distruggere i cataloghi: di essi rimane solo una copia. Nel 1998, poco prima della morte, avvenuta il 7 ottobre 1999, escono due raccolte di poesie: – Nella grande pianura, una cinquantina di inediti, riuniti sotto il titolo Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, una scelta da Forse un viso tra mille e tutto E tu che mi ascolti, a cura di Maurizio Cucchi, Mondadori Editore; – Canto autunnale, quarantacinque componimenti editi e inediti, a cura di Italo Bosetto, per l’Editore Perosini di Verona. Alcune poesie circolavano già, firmate con vari pseudonimi: Tino di Camaino, Federico Fiume, Berto della Rita. Con quello di Virgilio il Greco, coniato da Suzana Glavaš, nel 1995 erano apparsi quattro inediti sulla rivista Da qui.[10], diretta da Giuseppe Goffredo. Nel 1999 vince il Premio di Poesia Circe Sabaudia e il Premio Speciale David Maria Turoldo al concorso letterario Renzo Sertoli Salis di cui ha notizia ma che sarà consegnato postumo, il 29 ottobre, alla figlia Rita.
Nel 2000 il Comune di San Benedetto Po dedica al suo nome la Biblioteca Pubblica e istituisce il “Premio Bellintani di San Benedetto Po”. Il suo archivio è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. Sempre nel 2000, il Comune di Mantova organizza, a Palazzo Te, una Mostra di suoi disegni e, al Centro Culturale Biblioteca Baratta, un percorso fotografico dal titolo Umberto Bellintani, Luoghi, di Piero Baguzzi. Nel 2005, dal 6 febbraio al 20 marzo, un’altra mostra “Umberto Bellintani- Disegni” è stata organizzata da Afro Somenzari alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Viadana. Negli anni Cinquanta, il professor Joja Ricov, un italianista insegnante di croato in due università milanesi, attraverso Salvatore Quasimodo e l’antologia poetica, Poesia Italiana del Dopoguerra, da lui curata e pubblicata nel 1958, conosce la poesia di Bellintani e se ne fa estimatore in patria. Agli inizi degli anni ottanta, Suzana Glavaš, studentessa di lingua e letteratura italiana dell’Università degli Studi di Zagabria allora, e oggi docente di lingua croata all’Università L’Orientale di Napoli, frequenta le lezioni del professor Mladen Machiedo e scopre la poesia di Bellintani. Nel 1984 viene di persona in Italia, a Gorgo, a incontrare il poeta perché vuole dedicargli la tesi di dottorato e lui, nel Natale 1986, le invia in regalo un manoscritto con un gruppo di poesie inedite. Nel 1995 la Glavaš discute e pubblica la sua tesi di dottorato, Iskustvo i mit u poeziji Umberta Bellintanija (Esperienza e mito nella poesia di Umberto Bellintani), Zagreb 1995. Nel 2006, pubblica in Italia, col titolo Se vuoi sapere di me, la settantina di poesie inedite regalatele dal poeta, presso la Poiesis Editrice di Alberobello, Bari, e La Mongolfiera Editrice di Cosenza, nella collana Diwan della Poesia, curata dal poeta e critico Giuseppe Goffredo. Nel 2008 uscirà a Zagabria, a cura della Glavaš, una scelta antologica di poesie di Bellintani da lei tradotte e presentate con testo a fronte e uno studio sulla poesia Notte Incantata. (fonte Wikipedia)
Umberto Bellintani -Poeta italiano
<<Ond’io canti dolcezza e amore, e il cardo fiorito, e te rincorra, nuvola vaghissima del cielo margherita, anche per me nel campo ara il vecchio padre.>> *Versi di ispirazione autobiografica di Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Autore oggi poco conosciuto, legato alla terra ed al mondo contadino, lo scultore e poeta lombardo è stato sempre apprezzato da importanti critici e poeti. Tra loro, il celebre narratore Carlo Emilio Gadda, che ne ammira “la dizione scarna e commossa, la nettezza dolorosa dell’immagine, l’autenticità dell’angoscia poetica”, e lo scrittore Franco Fortini, che lo qualifica come “Esenin rurale”. Ed ancora, Eugenio Montale, il quale scrive in un articolo del Corriere della Sera nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni. Spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola.” Maurizio Cucchi, infine, così definisce nel 1995 il suo universo bucolico: “È un poeta di ruvida violenza espressiva. Il suo mondo parrebbe quello di una realtà sprofondata nella terra, ma dove il poeta legge qualcosa che la oltrepassa, qualcosa di arcano”. Lo stesso Bellintani rievocava la sua attrazione verso l’arte poetica ed il suo amore per la natura in un testo autobiografico del 1959: “Ho incominciato ad essere poeta forse troppo presto, mi pare tra gli otto o i nove anni. Mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii parlare di erbe e di fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi.
Articolo di Valentina Barbieri -• festival letteratura 08 settembre 2014-
Articolo di Valentina Barbieri –Poeta Umberto Bellintani: l’uomo che dava del tu alla natura
Al Campiani l’omaggio al poeta di Gorgo, a cent’anni dalla nascita, con Nella Roveri, Antonio Prete e Fabrizio Dall’Aglio
Articolo di Valentina Barbieri -08 settembre 2014- Eugenio Montale scrisse di lui: «Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola». Ieri, al conservatorio Campiani, si è aperta così la finestra che il Festivaletteratura ha voluto riservare alla memoria di Umberto Bellintani, per il centenario dalla sua nascita. La citazione è partita da Antonio Prete, editore della nuova edizione (a cura di Elia Malagò e Nella Roveri) della prima raccolta di Bellintani, Forse un viso tra mille pubblicata nel 1953. «Mi è strano parlare di Bellintani da editore- afferma Prete- lui ebbe un rapporto così contrastato con l’editoria. Dopo l’uscita di E tu che m’ascolti nel 1963 sparì dalle scene e non pubblicò più nulla per trent’anni. Trovo calzante ciò che scrisse di lui Montale: la poesia vera si rifugia sempre in uomini che sembrano con avere le carte in tavola. Uomini scomodi, spesso distanti, apparentemente lontani dal mondo». Bellintani lontano dal mondo lo era probabilmente solo in senso fisico. Non si allontanava dalla sua Gorgo se non per contigenti necessità, non aveva pretese di pubblicazione, era lontano dall’opportunismo e dalla gloria effimera. Nonostante ciò, per tutta la sua vita, mantenne una corrispondenza costante con quelli che erano, al tempo, i maggiori protagonisti della poesia e letteratura del Novecento. Fortini, Vittorini, Caproni, Sereni, Zavattini, Pasolini. Nella mostra, allestita nel museo civico polironiano a San Benedetto Po, inaugurata a maggio in occasione delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Bellintani, che rimarrà aperta fino al 5 ottobre, sono esposte alcune lettere, tra le più importanti del suo infinito carteggio. «Le carte sono veramente tantissime-aggiunge Nella Roveri- Bellintani scriveva su ogni tipo di supporto: anche sui cartoni della pasta. C’è un immenso materiale che andrebbe studiato approfonditamente». Tra le tante lettere che il poeta di Gorgo scrisse, vi è il carteggio con Don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo. «Nel 1951- racconta Fabrizio Dall’Aglio- Bellintani inviò tutte le sue poesie a Don Primo. Non è una cosa usuale per il poeta di Gorgo che, di solito, non amava inviare bozze delle sue opere. Ma a Don Primo sì. Lo fa, a parer mio, per svelare al parroco la sua vera anima. La poesia diventa per lui un veicolo della confidenza. Con Don Primo scoccherà un’empatia tale che il parroco confessò a Bellintani di “essersi riposato e ricreato nella lettura delle sue poesie”». Dall’Aglio ha segnalato come nelle poesie di Bellintani la fede non assurga mai a trascendenza, bensì ad immanenza. Come il poeta di Gorgo riuscisse a ritrovare nelle cose l’infinito. I versi delle sue poesie si colorano così di immagini, di un bestiario fittissimo di esseri viventi attraverso cui emerge un’adesione alla terrestrità e alla creaturalità. Con Bellintani vi è un ritorno alla letizia e alla natura indagata a partire da Lucrezio e, nello stesso tempo, il terrore che le parole non portino più con sè le cose, che perdano la loro prossimità col mondo, che esauriscano il tu con la natura.
• festivaletteratura 2014
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Poesia di Refaat Alareer-Poeta palestinese , morto nella Striscia di Gaza-
Refaat Alareer (1979 – 2023) era un poeta, scrittore e professore universitario di letteratura comparata presso la Islamic University di Striscia Gaza. Attivista, cofondatore del progetto We Are Not Numbers, nato per raccontare storie di quotidianità con la collaborazione di autori affermati e giovani scrittori di Gaza. La poesia che qui pubblichiamo è stata scritta in inglese il 1° novembre 2023. L’intellettuale gazawi, appassionato di Shakespeare, è stato ucciso nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2023, insieme ad altri 7 membri della sua famiglia, durante un raid israeliano che ha colpito la sua casa.
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Se dovessi morire L’ultima poesia di Alareer, Se dovessi morire (titolo originale: If I must die), ha conosciuto ampia diffusione dopo la sua morte ed è stata tradotta in più di 40 lingue.
SE DOVESSI MORIRE
(Refaat Alareer)
Se io dovessi morire
tu devi vivere
per raccontare la mia storia
per vendere tutte le mie cose
comprare un po’ di stoffa
e qualche filo,
per farne un aquilone
(magari bianco con una lunga coda)
in modo che un bambino,
da qualche parte a Gaza
fissando negli occhi il cielo
nell’attesa che suo padre
morto all’improvviso, senza dire addio
a nessuno
né al suo corpo
né a se stesso
veda l’aquilone, il mio
aquilone che hai fatto tu,
volare là in alto
e pensi per un attimo
che ci sia un angelo lì
a riportare amore.
Se dovessi morire
che porti allora una speranza
che la mia fine sia un racconto!
IO SONO TE
Due passi: uno, due.
Guardati allo specchio:
l’orrore, l’orrore!
Il calcio del tuo M-16 sullo zigomo
la macchia gialla che ha lasciato
la cicatrice a forma di proiettile che si espande
come una svastica,
che serpeggia sul mio viso,
il dolore che scorre
dai miei occhi che gocciola
dalle mie narici che perforano
le mie orecchie che si allagano.
Come è successo a te
80 anni fa
o giù di lì.
Sono solo te.
Sono il tuo passato che ti tormenta
il tuo presente e il tuo futuro.
Mi sforzo come hai fatto tu.
Combatto come hai fatto tu. Resisto come hai resistito tu
e per un momento,
prenderei la tua tenacia
come modello,
non stavi tenendo
la canna della pistola
tra i miei occhi sanguinanti?
Uno. Due.
La stessa pistola
lo stesso proiettile
che ha ucciso tua madre
e ucciso tuo padre
viene usato,
contro di me,
da te.
Segna questo proiettile e segnalo nella tua pistola.
Se lo annusi, ha il tuo e il mio sangue.
Ha il mio presente e il tuo passato.
Ha il mio presente.
Ha il tuo futuro.
Ecco perché siamo gemelli,
stesso percorso di vita
stessa arma
stessa sofferenza
stesse espressioni facciali disegnate
sul volto dell’assassino,
tutto uguale
tranne che nel tuo caso
la vittima si è evoluta, all’indietro,
in un carnefice.
Te lo dico.
Io sono te.
Tranne che non sono il te di adesso.
Non ti odio.
Voglio aiutarti a smettere di odiarmi
e uccidermi.
Te lo dico:
il rumore della tua mitragliatrice
ti rende sordo
l’odore della polvere da sparo
con quello del mio sangue.
Le scintille sfigurano
le mie espressioni facciali.
Smetteresti di sparare?
Per un momento?
Lo faresti?
Tutto quello che devi fare
è chiudere gli occhi
(vedere questi giorni
acceca i nostri cuori.)
Chiudi gli occhi, forte
così puoi vedere
con l’occhio della mente.
Poi guardati allo specchio.
Uno. Due.
Io sono te.
Io sono il tuo passato.
E uccidendomi,
tu uccidi te stesso.
Refaat Alareer-Poeta palestinese-Aquilone
(inglese)
«If I must die,
you must live
to tell my story,
to sell my things
to buy a piece of cloth
and some strings,
(make it white with a long tail)
so that a child, somewhere in Gaza
while looking heaven in the eye
awaiting his dad who left in a blaze—
and bid no one farewell
not even to his flesh
not even to himself—
sees the kite, my kite you made, flying up above
and thinks for a moment an angel is there
bringing back love
If I must die
let it bring hope
let it be a tale»
Refaat Alareer-Poeta palestinese
<<Io sono te. Io sono il tuo passato. E uccidendomi, tu uccidi te stesso.>>
*Versi di Refaat Alareer (Shuja’iyya, 1979 – Gaza, 2023) che equiparano lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti all’eccidio di civili compiuto attualmente dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
Il palestinese Alareer, poeta e docente di letteratura inglese all’Università Islamica di Gaza che documentava tramite i social media le sofferenze del suo popolo nel corso del conflitto arabo-israeliano, morì con due fratelli e tre figli il 6 dicembre 2023 in seguito ad un attacco aereo israeliano che distrusse il palazzo in cui abitava. Secondo diverse organizzazioni umanitarie, il bombardamento sarebbe stato mirato ad eliminare l’accademico, già destinatario di continue minacce online, sacrificando le vite dei condomini dell’intero edificio.
Sul magazine ‘La fionda’, così racconta la vicenda umana dello scomodo testimone lo storico Antonio Bocchinfuso: “Refaat Alareer aveva quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un letterato, un poeta. Il 6 dicembre 2023 rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il ‘pericoloso’ intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito ‘chirurgicamente’. Come poi spesso accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre ‘bombe intelligenti’, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è annientare l’arte e la cultura, costi quel che costi.”
Poche settimane prima della sua scomparsa, aveva pubblicato sul social X la poesia ‘Se dovessi morire’, composta il primo novembre 2023.
La lirica contiene l’invito a proseguire il suo racconto, preziosa eredità morale raccolta dalla sua allieva Amna Shabana, che scrive: “È il marzo del 2024. L’intera università che tanto amava è ormai in macerie. Il dottor Refaat è stato assassinato. L’unica via è la morte continua. Ma finalmente ho capito qualcosa sulle lezioni di Refaat e sul potere che avevano le sue parole: lo hanno tenuto in vita. Nessuno potrà mai privarmi della sua ispirazione. Finché respirerò, racconterò le sue storie e le infinite storie della mia città, occupata e messa a tacere, alla luce dei suoi racconti.”
☞il blog di Refaat Alareer ☟ https://thisisgaza.wordpress.com/ ☞il profilo X di Refaat Alareer ☟ https://x.com/ThisIsGaZa ☞il progetto fondato da Alareer, ‘We are not numbers’, gestito da giovani scrittori palestinesi ☟ https://wearenotnumbers.org #Poesia #Poeti #RefaatAlareer #GuerraAraboIsraeliana #Israele #Palestina #Gaza
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Il poeta e l’ulivo. In memoria di Refaat Alareer Articolodi Antonio Bocchinfuso(articolo ripreso da lafionda.org)
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Ma padre qui c’era un popolo piantato nella terra
E la terra non può darla Dio, ma la fame e l’amore di averla [1]
Uccidere un poeta è un crimine tremendo. Chi uccide un poeta non uccide solo un uomo, ma anche la Musa che quell’uomo si portava dentro e che poteva parlare solo per bocca sua. Si tratta in qualche modo di un duplice omicidio. Come in ogni guerra, anche a Gaza vengono uccisi artisti e poeti in quanto tali. Soprattutto a Gaza. Refaat Alareer era uno di questi. Aveva quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un letterato, un poeta[2]. Il 6 dicembre 2023 Alareer rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il pericoloso intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito “chirurgicamente”[3]. Come poi spesso accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre “bombe intelligenti”, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è annientare l’arte e la cultura costi quel che costi, il genocidio del popolo palestinese richiede questo e molto altro.
Tra migliaia di foto e reportage strazianti provenienti da Gaza il video della demolizione della Islamic University è passato relativamente in sordina[4]. Io invece credo che non lo dimenticherò mai. Quella che poteva essere una delle poche, importanti alternative alla radicalizzazione disperata per i giovani gazawi, un preziosissimo presidio di dialogo ed umanità polverizzato in pochi secondi. Quella stessa università in cui Alareer studiava Shakespeare con i suoi studenti palestinesi, mostrando come fosse più naturale per loro empatizzare, ancor più che con il moro Otello, con l’ebreo usuraio Shylock, proprio in quanto emarginato ed odiato da una società ghettizzante[5]. Probabilmente Refaat avrebbe pubblicato questi studi e molto altro se il governo israeliano non avesse deciso che l’Università, la letteratura e la poesia costituiscono una minaccia per uno degli eserciti meglio armati al mondo. Una minaccia da combattere con tonnellate e tonnellate di esplosivo. Qualche settimana prima di essere ucciso, mentre Gaza precipitava verso l’inferno Refaat ripubblicava sul suo profilo Twitter una poesia che dopo la sua morte è stata letta in tutto il mondo. Gli ultimi versi mi hanno spinto a scrivere queste righe: If I must die, let it be a tale[6].
Ebbene, dubito che io, comodamente seduto in camera mia a Roma, possa avere qualche storia interessante da raccontarvi a proposito di una faccenda così importante e drammatica. Tuttavia non potrei accettare che l’ultimo desiderio di un uomo, morto da poeta e quindi da partigiano, restasse incompiuto. Vorrei dunque riportare poche frasi tratte da una delle storie più belle e struggenti che abbia mai letto, Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa. Il brano racconta la raccolta delle olive nel piccolo villaggio palestinese di ‘Aid Hod, pochi anni prima della Nakba.
“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. […] Quel giorno si pregava all’aperto e con particolare riverenza perché iniziava la raccolta delle olive. Per un’occasione tanto importante, era meglio salire sulle colline rocciose con la coscienza purificata. […] I colpi dei bastoni dei contadini contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle tele incerate e sulle coperte stese sotto gli alberi. Mentre gli uomini faticavano, le donne cantavano ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro.”[7]
L’ulivo, che pianta meravigliosa. Alcuni ulivi, se curati con sapienza, possono vivere millenni. E quando una pianta è vecchia il suo corpo si separa da sé stesso, si divide e nascono quindi due alberi, poi quattro e poi otto, ma che sono in realtà uno. Poco fuori Gerusalemme, nell’orto del Getsemani dove secondo i Vangeli sarebbe iniziata la passione di Cristo, otto ulivi risalenti al XII secolo fruttano tutt’oggi. Queste otto piante presentano un profilo genetico del tutto simile, tanto da far pensare che in origine fossero un unico albero. Lui sì che ne avrebbe di storie da raccontare. Affinché un ulivo possa vivere così tanto servono però uomini e donne che per secoli e secoli lo sappiano amare ininterrottamente, e che insegnino ai loro figli come amarlo. È ciò che accade da millenni sulle coste del Mediterraneo. Questo amore forgia da tempo immemore la cultura palestinese, di cui l’ulivo è il simbolo. Torniamo per un momento alle parole di Vecchioni in esergo: “Ma padre qui c’era un popolo piantato nella terra”. Sì, perché se molti palestinesi oggi vivono dei frutti di un ulivo è perché questo è stato piantato e curato dai loro avi, perché il loro sudore ha innaffiato d’amore il suolo nel quale si sono fortificate le radici. Questo i palestinesi lo sanno bene. Nel villaggio di ‘Ain Hod ringraziare Dio significava venerare l’eterna ciclicità del raccolto, la natura tutta si univa festante al coro della preghiera. Per noi, ormai abituati a frequentare gli anonimi ed impersonali nonluoghi del transito veloce e del consumo, è sempre più difficile comprendere questo radicamento nella terra. Tra centri commerciali, aeroporti e McDonald’s, spazi a-storici ed interscambiabili perché uguali ovunque, pensati per un utilizzo strumentale e passeggero, fatichiamo a comprendere il rapporto ecologico e spirituale tra la terra, i suoi frutti e chi vive della cura di questi. Io credo che questo scarto antropologico, questa differenza nel modo di rapportarsi alla terra sia fondamentale per la comprensione del conflitto in Palestina. Refaat Alareer aveva ben presente una tale distanza. O’Live Tree è il racconto di un ulivo che sa perfettamente che chi ora calpesta le sue radici con stivali pesanti, chi batte le sue fronde con bastoni di metallo non può che essere uno straniero, un usurpatore: But you belong not here/ You do not even know/ How to touch me/ How to gently sqeeze me/ How to hug me/ How to wipe off the dust[8]. E l’umiliazione che l’ulivo pazientemente sopporta è la sofferenza di tutto il popolo palestinese. Ecco l’identificazione, il radicamento: The humiliation, I do not care/ But take me not/ Steal me not/ Even if I burn/ Here I belong[9].
E cosa fa il colonialismo israeliano davanti ad simile legame? Come ci comportiamo con quegli ulivi secolari noi, che abbiamo visto nell’agricoltura intensiva e nello sfruttamento più estremo del mondo l’unica ragione del nostro sviluppo? Li sradichiamo. Sì, perché la pulizia etnica della Palestina prevede di estirpare quelle radici così profonde. Nei territori occupati, tra le mille preoccupazioni della popolazione palestinese c’è anche quella di difendere gli ulivi dalle irruzioni dei coloni e dai bulldozer dell’esercito israeliano. Non dobbiamo limitarci a vedere in queste brutalità semplicemente la distruzione delle risorse palestinesi e la lotta per il controllo del territorio. Estirpare gli ulivi significa cancellare la storia e la memoria di cui sono testimoni. Ricordate la nostra indignazione quando Daesh distrusse i templi di Bel e Baalshamin a Palmira, in Siria? Gli ulivi palestinesi sono monumenti viventi che ci raccontano di generazioni e generazioni di uomini vissuti sul suolo più venerato di tutti i tempi, che ancora nutrono i suoi abitanti. Distruggerli è un crimine contro la storia, contro l’universale senso del Sacro, il danno prodotto non ha prezzo. Simone Weil vedeva proprio nello sradicamento la malattia corrosiva dell’Occidente. Si tratta di un processo iniziato sostanzialmente con la modernità, e consiste secondo la filosofa francese nella perdita di un rapporto pieno con la propria storia ed il proprio passato, nella perdita della propria radice. “L’Europa è stata sradicata spiritualmente, separata da quell’antichità nella quale tutti gli elementi della nostra civilizzazione hanno la loro origine; e a partire dal XVI secolo è a sua volta andata a sradicare gli altri continenti”[10]. Dice poi Weil, sempre a proposito dello sradicamento coloniale: “Quando un conquistatore rimane straniero nel territorio conquistato, lo sradicamento è una malattia quasi mortale per la popolazione conquistata”[11]. Nonostante il riferimento biblico al regno d’Israele, i coloni sionisti rimangono coloni, ed il colono è sempre l’opposto del locale. Con ciò non voglio sminuire il legame spirituale che un ebreo, così come un cristiano, un musulmano o chiunque altro, può avere con la Terra Santa. Quello che voglio semplicemente dire è che il sionismo era e resta un progetto coloniale, e questo è peraltro un fatto abbastanza pacifico per i coloni stessi. Gli sforzi degli archeologi israeliani di dimostrare l’autoctonia israeliana in Palestina, riferendosi ad un passato reale o mitico, non possono modificare una semplice realtà di fatto: quando consolidano i loro possedimenti nei territori palestinesi, i coloni si comportano da coloni, ossia da stranieri, da stranieri che distruggono. Il colonialismo è l’opposto del radicamento, dell’appartenenza profonda ad un luogo. E devono in qualche modo essersene accorti anche, soprattutto le migliaia e miglia di ulivi sradicati dal 1967. La terra non può darla Dio, ma la fame e l’amore di averla.
In Palestina la raccolta delle olive è diventata una forma di resistenza. È usanza qui da noi sminuire ogni condanna del genocidio palestinese precisando, con una certa pedanteria, che bisogna prima prendere le distanze dagli aspetti ingiustificabili della resistenza armata palestinese come il terrorismo. Io non entrerò nella questione, mi limito a dire che finché parte delle mie tasse verrà usata per bombardare, affamare, deportare e sterminare un popolo inerme sarebbe un’offesa alla mia dignità impartire lezioni di dirittumanismo a chi ogni giorno è ucciso dalla nostra accondiscendenza. Eppure, per la gioia (o l’imbarazzo) dei moralisti nostrani, in Palestina la resistenza nonviolenta esiste. Un giorno, spero, gli abitanti dei villaggi palestinesi che ogni anno rischiano la vita per la raccolta, sfidando la violenza dei coloni e dell’IDF, saranno ricordati insieme a Gandhi e Martin Luther King[12]. Donne e uomini coraggiosi che lanciano un messaggio potentissimo: Tutto quello che vi chiediamo è di poter amare queste piante e questa terra, come abbiamo sempre fatto. Un giorno, spero, la Storia saprà leggere questo messaggio sepolto dalla nostra indifferenza. Un giorno ci si ricorderà di quanto è ridicolo, nella sua cieca brutalità, chi si oppone con la forza ad una richiesta simile.
Negli ultimi mesi, lo sterminio fisico della popolazione di Gaza ha monopolizzato l’attenzione di chiunque nel mondo abbia un briciolo di coscienza. Tra questi, quelli che in Occidente contano qualcosa sono pochissimi. Abbiamo scoperto che il potere è un anestetico ben più forte del previsto, ed è capace di disumanizzare chi lo esercita ad un punto che io, che pure credevo di essere un cinico, non ritenevo possibile. Eppure la gente comune, quella che non comanda, è rimasta sconcertata dalle foto dei bombardamenti e dei bambini che muoiono di fame a Gaza, mentre a poche centinaia di metri l’esercito israeliano blocca l’arrivo di aiuti umanitari. Non c’è più alcun dubbio sul fatto che in Palestina stia avvenendo un genocidio, e le stramberie sul “diritto a difendersi” di Israele sono solo appannaggio di un’egemonia incancrenita e putrescente nei media e nella politica occidentale, a cui non crede più nessuno. Eppure ho voluto raccontarvi la storia di Refaat Alareer e del suo ulivo perché credo che al di là dell’evidenza del torto abbiamo ancora molto da riflettere sulle cause profonde di questa mattanza umana e culturale. Quando questo orribile capitolo della nostra storia si sarà chiuso, se vorremo ristabilire rapporti equilibrati con il mondo e con noi stessi dovremo riflettere su cosa ci ha portato a sradicare quegli alberi, e su che fine abbiano fatto le nostre radici. Abbiamo ancora molto da imparare dagli ulivi, che da tempi antichissimi ci raccontano di incontri nel nostro Mediterraneo, testimoni di cura e di pace. Ho voluto parlarvi di Refaat e del suo ulivo perché non voglio rassegnarmi all’idea che una volgare pallottola possa uccidere la poesia. Mahmoud Darwish accolse serenamente la sua ora. Ormai vecchio, consegnò alla Fine la sua “parte d’argilla”[13]. E dopo una vita passata a sbeffeggiare il potere, il grande poeta palestinese si prese gioco anche della visitatrice più temibile: O morte, ti hanno sconfitta tutte le arti/ E allora fa’ di noi, fa’ di te ciò che vuoi. Non può essere tanto facile uccidere una Musa. Come tutto ciò che è divino, anche la Dea dell’arte e della poesia può rivivere nei cuori che sanno cercarla. Per questo da sempre i tiranni hanno tanta paura dei poeti.
Voglio crederlo, lo credo.
[1] R. Vecchioni, Shalom
[2] Refaat Alareer insegava letteratura e scrittura creativa alla IUG. Si occupava principalmente di letteratura inglese, in particolare Shakespeare e Donne. Il suo blog, dove pubblicava poesie e brevi riflessioni (https://thisisgaza.wordpress.com/), il suo profilo Twitter (https://twitter.com/itranslate123) ed il suo attivismo lo hanno reso molto popolare a Gaza. È inoltre co-fondatore del progetto We are not numbers (https://wearenotnumbers.org/), che racconta la vita sotto l’occupazione israeliana attraverso le voci di giovani scrittori e scrittrici palestinesi
[3] Euro-Med Human Rights Monitor, Israeli strike on Refaat al-Aleer Apparently Deliberate https://euromedmonitor.org/en/article/6014
[4] Al Jazeera English, Gaza University destroyed: Israel accused of targeting education centers
[5] R. Alareer, Poems of Mass Destruction at Gaza University, in R. Alareer et. Al. (a cura di), Gaza Unsilenced, Charlottesville 2015
[6] R. Alareer, If I must die. “Se devo morire, che sia una storia”
[7] S. Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 15-16
[8] R. Alareer, O’Live Tree. “Ma tu non sei di qui/ Tu non sai nemmeno/ Come toccarmi/ Come spremermi dolcemente/ Come abbracciarmi/ Come pulirmi dalla polvere”
https://thisisgaza.wordpress.com/category/my-poetry/
[9] “Dell’umiliazione, non mi importa/ Ma non portarmi via/ Non rubarmi/ Anche dovessi bruciare/ Il mio posto è qui”.
[10] S. Weil, Lettre à un religieux, Gallimard, Paris 1951, p. 32
[11] S. Weil, La prima radice, SE, Milano 2013, p. 49
[12] Sulla resistenza nonviolenta degli agricoltori palestinesi, si veda per esempio Rete Italiana ISM, Raccolta delle olive con International Solidarity Movement
Marocco- Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti in mostra a Palermo-
Nicola Fioravanti in mostra a Palermo dal 16 aprile / 22 maggio, “Centro Internazionale di Fotografia Letizia Battaglia”– Un mosaico di colori, architetture ed energia. Il Marocco, con la sua luce mutevole, la forza del vento e del fuoco, i volti delle persone e le scene di vita quotidiana, è il protagonista della mostra “Marocco, Atlante Sentimentale” di Nicola Fioravanti, fotografo di fama internazionale, che si terrà a Palermo, dal 16 aprile al 22 maggio. L’esposizione, ospitata al “Centro internazionale di fotografia Letizia Battaglia” ai Cantieri Culturali alla Zisa, è curata dalla storica dell’arte Daniela Brignone e organizzata dall’Associazione I-design e da Contemporary Concept, con il patrocinio dell’assessorato alla Cultura del Comune di Palermo e del Consolato Generale del Regno del Marocco. L’inaugurazione sarà mercoledì 16 aprile, alle ore 18,00. Ingresso libero.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Il primo incontro tra Fioravanti e il Marocco avviene nel 2010. La sua potenza cromatica diventa subito una fonte di ispirazione, ma servono anni di esperienza prima di riuscire a catturarne davvero l’essenza. Il ritorno, dopo quasi dieci anni, segna un punto di svolta, che è una trasformazione: adesso l’obiettivo non è solo quello di esplorarne i tratti, ma di raccontare l’anima di un popolo e del suo territorio: scoprirne il genius loci per poterlo immortalare. Così nasce “Marocco, Atlante Sentimentale”, una selezione di 40 scatti d’artista di ciò che Fioravanti ha maggiormente amato: le strade e i vicoli, i volti degli abitanti, le architetture di questo straordinario Paese ed è un omaggio alle sue armonie potenti, alle sue combinazioni audaci, all’entusiasmo della sua creatività. Ad ogni angolo si scoprono scene che sembrano disegnate o dipinte, ma che sono in realtà composizioni spontanee di vita quotidiana.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Fioravanti attraversa le città e i villaggi, soffermandosi sulle strade, sulle kasbah labirintiche, sui banchi dei venditori, sull’operosità degli artigiani e sulle espressioni delle persone che incontra. Ogni scatto è un frammento di questo caotico equilibrio di forme e colori, in un’armonia del tutto naturale. Dalle spezie che tingono l’aria con i loro profumi ai giochi improvvisati dai bambini nei vicoli stretti, dagli sguardi profondi degli anziani alla danza costante fra luci e ombre che placa il frastuono del giorno: il Marocco si rivela in ogni dettaglio, in ogni angolo, nella sua vibrante energia. Questa esposizione segna un momento importante, perché nonostante Fioravanti abbia lavorato in tutto il mondo, è la prima volta che la Sicilia ospita una sua mostra.
Dopo Palermo, la mostra sarà presentata a Rabat, dall’1 al 18 dicembre, presso la “Galerie Bab Rouah”, uno degli spazi espositivi statali più prestigiosi del Regno del Marocco. Situata in una storica porta monumentale della città, la galleria è un punto di riferimento per l’arte contemporanea in Marocco e ospita regolarmente artisti di fama nazionale e internazionale. Esporre in questo luogo iconico, significa entrare in un contesto ricco di storia e simbolo dell’impegno del Regno per la promozione culturale.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Da noi, si mangia con gli occhi”, recita un proverbio marocchino: ed è proprio attraverso lo sguardo – quello attento e profondo di Nicola Fioravanti – che questa mostra diventa un omaggio a un paese dalle mille sfumature, un invito a lasciarsi trasportare dalla sua luce, dal suo ritmo, dalla sua storia. Insh’Allah, “se Dio vuole”, è la frase che ricorre, quasi come una cantilena, che affida le sorti di questo popolo e della sua terra ad Allah, al Divino. Su tutto, cala il silenzio della notte che placa gli animi e, recando la voce del deserto, induce al sonno. Dalla Medina di Casablanca, con i suoi mercati, fino alle strade dipinte di blu di Chefchaouen, immersi in un’atmosfera sospesa nel tempo, questa mostra è una lettera d’amore al Marocco e alla straordinaria tavolozza di colori che ne definisce l’anima. Ed è proprio sul colore che si sofferma l’indagine di Nicola Fioravanti, che esplora il cuore delle medine, con le loro caratterizzazioni cromatiche ben definite che identificano l’anima di questi spazi e del Marocco stesso, che da tempo punta proprio sulla forza e l’efficacia espressiva del colore, per meglio connotare e identificare l’identità dei luoghi, attraverso le suggestioni che questo riesce a trasmettere.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Questa mostra non è solo una testimonianza fotografica di grande maestria, ma un viaggio emotivo nel cuore del Marocco – sottolinea la curatrice Daniela Brignone – dove ogni immagine è un racconto affascinante e coinvolgente che evoca il passato e il presente di una terra fortemente proiettata verso il futuro. Il lavoro di Nicola Fioravanti entra nel profondo della cultura e dell’anima di questo paese, presentato in un luogo, Palermo, che risuona ancora delle tante testimonianze derivate dalla dominazione araba. Ogni scatto è un invito a esplorare l’energia vibrante e la bellezza che permeano ogni angolo, ogni volto, ogni dettaglio. Un viaggio visivo che ci porta ad apprezzare non solo la maestosità del Marocco, ma anche la sua quotidianità, ricca di una forza che è allo stesso tempo delicata e potente”.
Clarice Lispector- una delle più importanti poetesse e scrittrici brasiliane del ventesimo secolo-
Clarice Lispector- Dotata di un enorme talento e di una personalità rara, è stata una delle più importanti poetesse brasiliane del ventesimo secolo. Figlia di genitori ebreo-russi costretti all’esilio in Sud America per sfuggire alle persecuzioni antisemite quando lei aveva appena due anni, era nata casualmente in Ucraina, Paese con cui non aveva nessun legame. “Su quella terra -raccontava- non ho letteralmente mai messo piede: mi hanno portata in braccio”.
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
HO PAURA DI SCRIVERE
(Chaja Pinkasivna Lispektor, nota come Clarice Lispector)
Ho paura di scrivere.
Perché scrivere fa paura.
Chi lo ha provato lo sa.
Il pericolo di penetrare
ciò che è occulto
perché il mondo
ha sommerso le sue
radici nel mare.
Per scrivere devi installarti
nel vuoto. Nel vuoto
esisti appena, a pena intuita.
Ma il vuoto è terribile:
da lui estraggo sangue.
Sono uno scrittore che ha paura
dell’agguato delle parole:
le parole che dico ne nascondono altre
quali? Un giorno, forse, le dirò.
Scrittura: pietra gettata
nel fondo di un pozzo.
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
NON È LA MORTE A FARCI MALE
Non è la morte a farci male
ciò che ci ferisce è vivere:
la morte è qualcosa d’altro
qualcosa che preme dietro la porta.
La mania dell’uccello di darsi al Sud
prima che arrivi il ghiaccio:
sfida la latitudine più adatta, ma noi
siamo gli uccelli che rimandano il volo.
Siamo quelli che tremano, alla soglia
delle porte, implorano una briciola
finché la neve, la piena di pietà,
non addestri le nostre piume a tornare a casa.
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
MA C’È LA VITA
Ma c’è la vita ciò
che intensamente
deve essere vissuto.
Vivi fino
all’ultima goccia
senza timore
di morirne.
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
Dammi la tua mano
Dammi la tua mano
voglio dirti ora
come sono entrata nell’inespresso
che da sempre è la mia ricerca cieca e segreta.
Come sono entrata
in ciò che esiste tra il numero uno e il numero due,
come ho visto la linea del mistero e del fuoco,
una linea ambigua.
Tra due note musicali c’è una nota,
tra due fatti esiste un fatto,
tra due granelli di sabbia per quanto uniti siano
c’è un intervallo di spazio,
c’è un sentire che è all’interno del sentire
negli interstizi della materia primordiale
c’è questa linea di mistero e di fuoco
che è il respiro del mondo,
e il respiro continuo del mondo
è ciò che sentiamo
e che chiamiamo silenzio.
***
l’autunno gioca le sue carte a colori
sospira alla finestra e l’appanna
ai primi sbalzi drastici mattutini
non conosce tristezza vola e gioca
coi suoi aquiloni di giallo d’arancio
D’improvviso le cose non hanno più bisogno di avere un senso. Mi accontento di essere. Tu sei?
***
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
Io adoro volare
Già nascosi un amore per paura di perderlo, già persi un amore per averlo nascosto.
Già strinsi la mano di qualcuno per paura, già ebbi tanta paura,
al punto di non sentire più la mia mano.
Già cacciai persone che amavo dalla mia vita, già mi pentii di questo.
Già passai notti piangendo fino a prendere sonno, già andai a dormire così felice, al punto di non riuscire nemmeno a chiudere gli occhi.
Già credetti in amori perfetti, già scoprii che non esistevano.
Già amai persone che mi delusero, già delusi persone che mi amarono.
Già passai ore di fronte lo specchio tentando di scoprire chi sono, già ebbi tanta certezza di me,
al punto di voler sparire.
Già mentii e mi pentii dopo, già dissi la verità e mi pentii lo stesso.
Già finsi di non dare importanza alle persone che amavo, per più tardi piangere ferma nel mio angolo.
Già sorrisi piangendo lacrime di tristezza, già piansi per il tanto ridere.
Già credetti alle persone per le quali non valeva la pena,
già non credetti più a quelle per le quali realmente ne valeva.
Già ebbi crisi di riso quando non potevo
Già ruppi piatti, bicchieri e vasi, dalla rabbia.
Già sentii molta mancanza di qualcuno, ma non glie lo dissi mai.
Già gridai quando dovevo stare zitta, già stetti zitta quando dovevo gridare.
Molte volte rinunciai a dire che pensavo per temermi qualcuno,
altre volte dissi ciò che non pensavo per ferire gli altri.
Già raccontai barzellette e per di più barzellette senza eleganza,
appena per vedere un amico felice.
Già inventai storie con finali felici per dare speranza a chi ne aveva bisogno.
Già sognai troppo, al punto da confondere la realtà
Già ebbi paura del buio, oggi nel buio mi trovo, mi accascio, resto lì.
Già caddi innumerevoli volte pensando di non rialzarmi, già mi rialzai innumerevoli
volte cercando di non cadere più.
Già telefonai chi non volevo appena per non telefonare chi realmente volevo.
Già corsi dietro un’ auto, per togliere lui, che amavo.
Già chiamai la mamma nel mezzo della notte svegliandomi da un incubo.
Ma lei non apparse e fu un incubo ancora maggiore.
Già chiamai persone vicine amici e scoprii che non lo erano.
Alcune persone non ebbi mai il bisogno di chiamarle in nessun modo
e sempre furono e saranno speciali per me.
Non darmi formule certe, perché io non mi aspetto di indovinare sempre.
Non mostrarmi cosa si aspettano da me, perché seguirò il mio cuore!
Non mi facciano essere ciò che non sono, non mi invitino ad essere uguale,
perché sinceramente sono diversa!
Non so amare a metà, non so vivere di bugie, non so volare con i piedi a terra.
Sono sempre me stessa, ma certamente non sarò la stessa per sempre!
Mi piacciono i veleni più lenti, le bibite più amare, le droghe più
potenti, le idee più insane, i pensieri più complessi,
i sentimenti più forti.
Ho un appetito vorace e i deliri più pazzi.
Tu puoi anche buttarmi da una rupe e io ti dirò:
E allora? Io amo volare!
***
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
-Clarice Lispector -Scrittrice brasiliana (Čečel´nik, Ucraina, 1925 – Rio de Janeiro 1977). Figlia di ebrei ucraini emigrati, trascorse l’infanzia e compì gli studî in Brasile, dove poi si stabilì, dopo aver a lungo soggiornato in Europa e negli USA con il marito diplomatico. Nella sua opera narrativa, intensamente psicologica e introspettiva, ha svolto un’angosciosa tematica esistenziale, riferita per lo più a personaggi femminili, facendo ampio uso di sospensioni e digressioni, monologhi interiori, evocazioni istantanee, e puntando a un linguaggio poeticamente innovativo. Oltre a testi di narrativa per l’infanzia, scrisse numerosi romanzi (Perto do coração selvagem, 1944, trad. it. 1987; O lustre, 1946; A cidade sitiada, 1949, trad. it. 2024; A maçã no escuro, 1961, trad. it. 1988; A paixão segundo G. H., 1964, trad. it. 1982; Uma aprendizagem ou O livro dos prazeres, 1969, trad. it. 1981; Áqua viva, 1973, trad. it. 2017; A hora da estrela, 1977, trad. it. 1989; Um sopro de vida, post., 1978, trad. it. 2019) e racconti (tra cui: Alguns contos, 1952; Laços de família, 1960, trad. it. 1986; A via crucis do corpo, 1974, trad. it. La passione del corpo, 1987). Istituto della Enciclopedia Italiana
Clarice Lispector-Poetessa e scrittrice brasiliana
–Giudizio della filosofa Gilda de Melo e Sousa su Clarice Lispector (Čečel’nyk, 1920 – Rio de Janeiro, 1977), una delle più importanti poetesse brasiliane del ventesimo secolo.
–Clarice Lispector -Figlia di genitori ebreo-russi costretti all’esilio in Sud America per sfuggire alle persecuzioni antisemite quando lei aveva appena due anni, era nata casualmente in Ucraina, Paese con cui non aveva nessun legame. “Su quella terra -raccontava- non ho letteralmente mai messo piede: mi hanno portata in braccio”.
Oltre a spiccare come narratrice ed autrice di versi nella nazione carioca, di cui aveva preso la cittadinanza, era considerata da molti critici un’eccellenza della cultura giudaica.
Afferma a proposito lo scrittore statunitense Benjamin Moser: “Se per molti brasiliani Clarice Lispector è un’icona della letteratura nazionale, per me è lo scrittore ebreo più importante dopo Franz Kafka. Clarice si è posta domande, e ha anche trovato delle risposte, sulle più tipiche questioni ebraiche: la bellezza e l’assurdità di vivere in un mondo in cui Dio è morto e coloro che in maniera un po’ folle sono determinate a scovarLo.”
Sfugge ad ogni definizione il suo stile di scrittura, tanto che la critica francese Hélène Cixous asseriva argutamente che nella letteratura brasiliana vi è uno stile a.C. (antes de Clarice, ovvero prima di Clarice) e d.C.(depois de Clarice, dopo Clarice).
L’arte di Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano-
Centro Culturale di Milano.Una grande restrospettiva dedicata all’artista e intitolata Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre, curata da Elena Pontiggia, è esposta dal 17 aprile al 13 maggio presso il CMC Centro Culturale di Milano, con un corpus di circa cinquanta opere, che tracciano l’intenso percorso di una figura di spicco della pittura italiana della prima metà del ‘900.
La mostra ripercorre con andamento cronologico le fasi artistiche che hanno caratterizzato il lavoro di Esodo Pratelli da un’iniziale espressione legata al realismo e più marcatamente al simbolismo, con la realizzazione di opere pittoriche, per poi evolvere nel primo decennio del ‘900 all’adesione al movimento futurista e approdare negli anni Venti al Novecento Italiano. La mostra mette in risalto l’attenzione rivolta dall’artista, oltre che all’olio, anche a numerose tecniche dall’acquerello alla tempera, dal carboncino fino alla lavorazione della ceramica e alla realizzazione di arazzi, evidenziando una spiccata poliedricità. In mostra si ammirano inoltre fotografie e documenti storici che testimoniano il suo percorso artistico e l’attività cinematografica.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Una vita molto intensa, intrisa di una fervida cultura legata al contesto familiare, coltivata grazie a viaggi, permanenze a Parigi, a Roma, oltre a incontri e contatti con importanti esponenti dell’epoca fra cui Boccioni, Carrà, Severini, Marinetti, Gris, Delaunay, Sironi.
Pratelli partecipa attivamente alle iniziative del suo tempo, si ricordano infatti la collaborazione alla nascita della Corporazione delle Arti Plastiche (1923), la docenza e la direzione a Milano della Scuola d’Arte Applicata del Castello Sforzesco (1924 ca. – 1934), la proposta firmata con Sironi, Sarfatti, Funi, Carrà per l’istituzione di un Consiglio superiore per l’arte moderna (1925), la nomina a segretario del Sindacato Fascista Belle Arti di Milano (1927) e l’anno successivo della Lombardia. Decenni molto densi in cui l’artista si è dedicato anche alla creazione di bozzetti per scenografie e costumi di opere liriche, durante i quali non sono mancati momenti di allontanamento dalla pittura, tra il 1935 e il 1950, anni che lo vedono protagonista a Roma, con un’intensa attività in ambito cinematografico, come sceneggiatore e regista.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Un aspetto che contraddistingue la pittura di Pratelli si ritrova nella costante presenza della natura, seppur con declinazioni diverse a seconda della fase artistica nella quale è immerso. Anche nelle tele dove il paesaggio non è il soggetto protagonista, l’elemento naturale emerge in maniera preponderante, cattura l’attenzione e appare carico di significati. Talvolta si tratta di agenti atmosferici, che l’uomo non può controllare e che appaiono ancor più catalizzanti all’interno delle opere.
L’attenzione al segno e alla linearità, accanto alla raffinatezza e all’eleganza del tratto, i toni morbidi e leggeri sono ulteriori caratteri distintivi del lavoro dell’artista, conservati nel corso di tutta la sua carriera. Importanti i maestri cui si è ispirato e ha fatto riferimento nel tempo, da Klimt a Beardsley durante al giovinezza, da Carrà a Sironi in età più matura.
Nell’approfondito testo in catalogo afferma la curatrice Elena Pontiggia in relazione alla sua pittura: “Merita di essere conosciuta per l’intensità di tanti suoi esiti, ma anche per l’esprit de finesse che la percorre. I suoi colori delicati, le sue raffinate composizioni di figure, i suoi temi confidenziali, i suoi paesaggi urbani e i suoi paesaggi senza aggettivi, tutta la sua traiettoria stilistica, insomma, dal simbolismo al futurismo al “Novecento”, cui vanno aggiunti i suoi ultimi decenni tutt’altro che senili, hanno troppo valore per essere relegati nella Scatola delle cose dimenticate, come l’artista intitola un quadro del 1967, che è anche una trasparente metafora della sua vicenda espressiva”.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Nel percorso espositivo fra i lavori degli esordi è presente la maiolica policroma Estate nella notte (1911), citata e descritta nel carteggio con il cugino Balilla Pratella; con lui coltiva un profondo rapporto epistolare nel corso di tutta la sua vita. All’interno della lettera, l’artista oltre a dichiararsi ceramista descrive gli intenti di quel momento facendo emergere il suo interesse per il simbolo e gli elementi naturali.
Del periodo futurista, dettato dall’interesse per il movimento, delle linee che tendono alla verticalità e a colori più vivaci, si ammirano le tele Frammento della primavera (1913), caratterizzato dal roteare di segmenti in gran parte circolari e i bozzetti per le scene e i costumi dell’opera lirica del cugino Balilla dal titolo L’aviatore Dro (1913). Si tratta della sua prima progettazione scenografica ufficialmente futurista, eseguita per la prima volta nel 1920, nella quale, sia che si tratti di scene sia di figurini, si avverte la predilezione per la sintesi, per una linearità ondulata del tratto e di una tensione verso l’infinito.
In linea con il suo avvicinamento al Novecento italiano l’artista volge a delle rappresentazioni in cui emerge la ricerca di una moderna classicità, dove la plasticità, i volumi, la nitidezza delle forme e la supremazia del disegno sul colore assumono un ruolo centrale. Lo si osserva in Maternità (1922) e nel ritratto della figlia Lilia (1925); qui i soggetti dominano la scena con una solida volumetria, una forma precisa e nitida. In questi anni frequenta Mario Sironi, al quale dedica Ritratto di Sironi (1928); con lui condivide l’interesse per la pittura solida, monumentale e viene influenzato nella scelta di soggetti quali cantieri, fabbriche, periferie, ne è esempio Ciminiere (1924).
Sono inoltre in mostra lavori che attestano il successivo allontanamento dal movimento del Novecento italiano verso un maggior interesse per i paesaggi, per una dimensione quotidiana, casalinga, orientata a una visione più serena e cromaticamente più luminosa, in cui predomina la grandezza della natura. Estate (1930) e La favola del bosco (1931), con ambientazioni quasi fiabesche e legate alla vita di tutti i giorni, con scene intime e tenere, ben rappresentano questa inversione di rotta e l’avvicinamento al realismo magico.
Anche nelle opere degli anni Cinquanta, fra le altre Gatto sulla stufa (1957), successive all’isolamento dal mondo pittorico, i temi sono familiari, fino ad arrivare agli anni Sessanta dove la figurazione è legata a particolari, sempre del quotidiano, ma ancor più intimi e quasi nascosti; come nell’emblematica La scatola delle cose dimenticate (1967).
Accompagna la mostra un’importante e dettagliata monografia di Elena Pontiggia, edita da Silvana Editoriale, ad oggi la più completa sull’artista, che traccia un esaustivo ritratto di Esodo Pratelli e del suo lavoro. Accanto alle numerose tavole a colori, oltre un centinaio, sono pubblicati carteggi inediti dell’artista con personalità a lui vicine nel suo percorso di vita e in quello artistico.
Cenni biografici. Esodo Pratelli (1892 – 1983) nasce a Lugo -Ravenna- dove frequenta il ginnasio e la Scuola di Disegno e Plastica, vince il concorso e la borsa di studio, quindi si trasferisce a Roma. Formatosi all’Accademia di Via Ripetta a Roma, dopo un’iniziale adesione al simbolismo, si avvicina nel 1913 – 1914 al futurismo, entrando in contatto con i maggiori esponenti del movimento durante il suo soggiorno a Parigi. Si dedica alla realizzazione di tele, ceramiche e contemporaneamente scenografie e costumi per L’Aviatore Dro, opera del cugino Balilla Pratella, in stile pienamente futurista. Nel 1915 è richiamato alle armi da cui sarà congedato solo nel 1919, quando a guerra conclusa si stabilisce a Milano. Negli anni Venti è nominato segretario del Sindacato Fascista Belle Arti di Milano e successivamente della Lombardia. Si sposa con Elsa Martina e dal loro matrimonio nel 1922, nasce la figlia Lilia e successivamente, nel 1928, il figlio Giuliano. Aderisce al Novecento Italiano ed è annoverato da Margherita Sarfatti nel “vivaio di giovani forze” del movimento; partecipa nel 1926 alla I Mostra del Novecento Italiano alla Permanente di Milano e a tutte le esposizioni successive in Italia e all’estero. Anni significativi sono il 1927 e il 1928 grazie alla presenza alla Biennale di Brera, con le opere Giulia e Laura e Paese toscano, e per la prima volta alla XVI Biennale di Venezia, dove tornerà ad esporre nel ‘30, ‘32 e ‘34.
Nel 1931 è tra gli artisti della I Quadriennale e nello stesso anno alla Exhibition of Contemporary Italian Painting, organizzata dalla Quadriennale di Roma al Museo di Baltimora.
Il 28 ottobre 1932 nel decennale della marcia su Roma si apre a Palazzo delle Esposizioni la Mostra della Rivoluzione Fascista, per cui Pratelli si occupa della parte artistica di tre sale.
Nel 1935 lascia Milano per tornare a Roma, dove si dedica alla scenografia e regia cinematografica, abbandonando sia l’insegnamento che l’attività espositiva. Nella seconda metà degli anni Cinquanta riprende l’attività pittorica, che continua fino agli ultimi anni della sua vita trascorsi a Roma.
Attualmente importanti opere dell’artista sono custodite in musei nazionali e internazionali, gallerie e collezioni pubbliche e private.
Si ringrazia la Fondazione Massimo e Sonia Cirulli per il significativo prestito.
Centro Culturale di Milano. Nato nel 1981 è un originale spazio di dialogo su molti campi della cultura e dell’arte, in collaborazione con istituzioni, enti privati e pubblici a livello regionale e nazionale, diretto da Camillo Fornasieri.
La sede, situata nel centro di Milano tra Duomo e Piazza San Babila, nel palazzo disegnato dallo Studio Caccia Dominioni, è un luogo per meeting, convegni, presentazioni di libri, esposizioni di mostre ed eventi con artisti, scrittori, intellettuali, dall’Italia e dal mondo.
Fra le mostre si ricordano quelle dedicate a Mario Funi, Carlo Carrà, Trento Longaretti, Maurizio Bottoni, Eugene Smith, Dorothea Lange, Lewis Hine, Edward Burtynsky, Ferdinando Scianna.
All’interno del CMC sono visitabili, coperti dalla struttura in vetro, i ruderi delle Terme Erculee romane del II secolo d.C..
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Coordinate mostra
Titolo Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre
A cura di Elena Pontiggia
Sede Sala Espositiva Centro Culturale di Milano – Largo Corsia dei Servi, 4 – Milano
Date dal 17 aprile al 13 maggio 2025
Inaugurazione mercoledì 16 aprile, ore 18
Orari da lun a ven 10 – 13 / 14:30 – 18; sab e dom 15 – 19
Chiuso domenica 20 aprile S. Pasqua
Apertura speciale lunedì 21 aprile Pasquetta 14:30 – 18
Ingresso libero
Info al pubblico www.centroculturaledimilano.it – Tel. 02 86455162
Come arrivare MM1 e MM4 San Babila – MM3 Duomo – Bus 54, 60, 61,73,84 – Tram 15, 23
Parcheggio sotterraneo per autovetture a pagamento
Coordinate monografia
Titolo Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre
A cura di Elena Pontiggia
Edizione Silvana Editoriale
Lingua italiano
Pagine 128
Illustrazioni 100
Formato cm 23×28 cm
Rilegatura brossura
Copertina flessibile
ISBN 978-88-366-5898-5
Prezzo € 26
Ufficio stampa
IBC Irma Bianchi Communication
Via Arena 16/1 – Milano
Lucia Steffenini mob. + 39 334 3015713
Marta Casuccio mob. +39 375 8855909
tel. +39 02 8940 4694 – info@irmabianchi.it
testi e immagini scaricabili da www.irmabianchi.it
Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, Marco Saya Edizioni –Articolo di Ernesto Jannini-
Articolo di Ernesto Jannini-Nella nuova raccolta di Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, edita per i tipi di Marco Saya, la poesia diventa gesto etico e linguistico che unisce l’individuo alla comunità, tra verità e finzione, memoria e desiderio, Si ritorna al tema della Poesia, già affrontato su queste pagine, del suo rapporto con la comunità, su cui esercita la potenza trasformatrice. Si parla non soltanto dei versi scritti, cantati o declamati, ma anche di ciò che si esprime in musica, in pittura, in teatro e finanche nello sport, quando il gesto dell’atleta si fa “arte” attraverso l’unità psico-fisica del linguaggio del corpo. Pertanto il poeta, chiunque artefice esso sia, si trova impegnato a risolvere il gigantesco problema del linguaggio, le cui implicazioni sono strettamente legate al momento storico, al proprio tempo.
E quindi coniugare il proprio personale “sentire”, con ciò che accade ed è accaduto nella storia, richiede un super sforzo che contraddistingue le dinamiche di tutti i veri processi creativi. Di questo si può e si deve parlare; di questo impegno reale che il poeta, con i suoi frutti, offre alla comunità di appartenenza; un impegno che tocca la dimensione morale dell’io.
Così si esprimeva Giuseppe Ungaretti in una prolusione ai Corsi di Cultura per Adulti dell’Unione Coscienza tenuta a Milano nel lontano 1957: «Uno scrittore, il poeta, è sempre, secondo me, impegnato indagando i propri tempi per conoscerli e in rapporto ad essi indagando sé per conoscersi, impegnato a far ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere ed a disseccare».
Ora, qui si accenna al corruttibile, che porta al disseccamento delle fonti, riducendo la coscienza individuale e sociale a un arido cretto argilloso. E dunque si parla di poesia, che porta l’acqua che manca, che salva i semi condannati all’arsura: un frutto che l’artefice pazientemente elabora ed offre a sé stesso e alla comunità. Egli è sempre in ansia di verità, quella che gli è data vedere ed esprimere attraverso la “menzogna” del linguaggio.
«È una bugia per dire la verità». In tal modo rispondeva Pablo Picasso, a coloro che gli chiedevano che cos’è la pittura. Il processo che porta dal subiettivo all’obiettivo, a mettere nero su carta, questo sforzo immane, implica l’accettazione cosciente dei cardini su cui si fonda l’esistenza; una “tensione” esistenziale sempre tesa all’ascolto profondo della parola che vede, che si immerge nei piani profondi della coscienza quando più naviga in superfice, tra le cose del mondo, tra il sorriso e il dolore degli uomini nello scorrere del tempo. Uno sforzo da compiere ogni volta; come se si cominciasse sempre da capo. E questo perché all’origine di ogni poesia c’è un punto origine da sviluppare, nelle coerenze che esso stesso contiene in nuce e che, se maturato, può portare alla realizzazione di un’opera autentica, che diventa “una realtà d’anima” per l’artefice e per chi l’ascolta (Ungaretti, 1957).
E dunque ritornano al pettine i nodi cruciali del destino individuale e delle sorti dell’intero mondo; in quel recinto “sacro” in cui si spendono le nostre esistenze per cercare un senso all’esistenza che, inevitabilmente si intreccia con l’alterità, con quel TU, (fosse anche quel tu che emerge quando l’io interroga se stesso) come emerge con molta chiarezza dalle bellissime poesie di Elena Mearini raccolte nel volume A molti giorni da ieri, uscito per i tipi di Marco Saya Edizioni.
Autrice di poesia e narrativa (vincitore premio Gaia Mancini-vincitore Premio Università di Camerino con Undicesimo comandamento, Perdisa Editore) da diversi anni insegna scrittura creativa. Ha lavorato sui percorsi di scrittura autobiografica nelle carceri e istituti di riabilitazione psichiatrica. Fondatrice della Piccola Accademia di Poesia di Milano, insieme allo stesso editore Marco Saya e a Angelo De Stefano, filosofo e poeta, Elena Mearini con A molti giorni da ieri dà corpo a un florilegio composto da 66 poesie, alcune delle quali volutamente ripetute per sottolineare i gangli nodali tra passato e presente.
È un invito all’ascolto profondo, quello della Mearini; ad aprire i pori della nostra sensibilità verso un mondo che lancia il suo “grido di fondo”; a vedere la perdizione sui volti dei giovani, a sentire che qualcosa di essenziale “ci manca” e per questo la “parola rifiuta di fiorire in voce”; a uscire dall’ombra e dal “chiuso della stanza”; ad aprire i dubbi sulla consapevolezza dell’esserci veramente, quando, al contrario, si ha la certezza della «nostra falcata/quando l’osso/bussava alla carne/ e tu aprivi/ la porta del pane». Insomma, un invito, forse anche una esortazione, a imparare «l’avvio delle cose/ il piccolo punto di partenza/ che fa silenzio/ che fa risveglio/impara l’esordio del tremore/quando la prima luce/nella casa s’accende/la prima foglia/sull’albero oscilla/metti a memoria la nota minore/ripetila quando la voce muore».
La poesia indica, ci accompagna al risveglio, e ciò accade perché l’artefice lavora instancabilmente con le parole perché, come lucidamente scrive Lello Voce nel suo noto Piccola cucina cannibale, «La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili».
Elena Mearini a questo ci introduce, all’apertura spirituale attraverso il linguaggio poetico. Tutto ciò non è semplice. Come affermava Ugaretti, «Avere luce nel cuore è difficile, soffrire e morire non sono che la sorte di tutti».
Elena Mearini
Elena Mearini
Elena Mearini
Nata nel 1978 e vive a Milano. Si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo 360 gradi di rabbia, edito da Excelsior 1881, e nel 2011 pubblica per Perdisa pop il romanzo Undicesimo comandamento. A gennaio 2015 pubblica il romanzo A testa in giù (Morellini editore). Firma due raccolte di poesie: Dilemma di una bottiglia (Forme Libere editore) e Per silenzio e voce (Marco Saya editore). Il suo ultimo romanzo è Bianca da morire (Cairo Publishing 2015).
Nel 2011 nell’ambito della rassegna “Umbria Libri” ha ricevuto il Premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti” per il romanzo 360 gradi di Rabbia, e lo riceve anche l’anno successivo per Undicesimo Comandamento. Nel 2012 le viene assegnato il Premio UNICAM – Università di Camerino, per il romanzo Undicesimo comandamento, terzo classificato al Concorso Nazionale di Narrativa “Maria Teresa di Lascia”.
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