Arsenij Tarkovskij -Le più belle poesie -Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Arsenij Tarkovskij -Le più belle poesie-
Arsenij Tarkovskij è senza alcun dubbio uno dei più grandi poeti russi, con una potente intonazione lirica, una grande carica spirituale, per così dire, un poeta in forma pura, per il quale la cosa più importante è la propria concezione interiore della vita. E’ modesto. Non ha mai scritto nulla per diventare famoso. Non ha mai fatto nulla per mettersi in primo piano, per far carriera con la poesia.
Nota dalla recensione di Anna Achmatova a Prima della neve-1962- “Il libro di Arsenij Tarkovskij è un dono inaspettato e prezioso al lettore contemporaneo. Questi versi, che hanno atteso a lungo per venire alla luce, colpiscono per rare qualità, la più sorprendente delle quali è che da noi quotidianamente pronunciate si rivestono chissà come di mistero e suscitano echi inaspettati nel cuore. Se qualcuno non ha ancora questo libro, gli consiglio di procurarselo, in qualche modo, per giudicarlo nel modo più severo. Questo libro non teme nulla.”
E lo sognavo e lo sogno
E lo sognavo, e lo sogno,
e lo sognerò ancora, una volta o l’altra,
e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,
e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.
Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo
un’onda dietro l’altra si frange sulla riva,
e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello,
e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.
Non mi occorrono le date: io ero, e sono, e sarò.
La vita è la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia
solo, come orfano, pongo me stesso,
solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi
di mari e città risplendenti tra il fumo.
E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia.
Primi Incontri
Ogni istante dei nostri incontri
lo festeggiavamo come un’epifania,
soli a questo mondo. Tu eri
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: “Tu sia benedetta”,
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.
Nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e ” Dio mio! ” tu eri mia.
Ti destasti e cangiasti
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tua svelò
il proprio nuovo significato: zar.
Alla luce tutto si trasfigurò, perfino
gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.
Fummo condotti chissà dove.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo”
Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.
Il bosco di Ignatij
L’ardere delle foglie in autocombustione totale
si leva al cielo, e sul tuo cammino
il bosco intero vive di un’eccitazione
pari a quella che viviamo in quest’ultimo anno.
Negli occhi colmi di pianto si riflette la via
come nella golena oscura si riflettono gli arbusti.
Non fare i capricci, non minacciare, non toccare,
non turbare la quiete del bosco sul Volga.
Puoi udire il respiro della vecchia vita:
funghi viscidi crescono nell’erba bagnata,
i lumaconi li hanno rosi fino al cuore
ma una smania umidiccia ne vellica la pelle.
Il nostro passato è tutto simile a una minaccia:
bada, ora torno, bada, ora ti uccido!
Il cielo rabbrividisce e tiene l’acero come una rosa:
che bruci di più, quasi sugli occhi.
Riflessione
Sentivo amaramente di non aver fatto molto,
la mia vita trascorreva senza concretezza,
e in me il bene si ergeva contro il male,
e la verità moriva dinanzi all’iniquità.
Non m’apparteneva l’infanzia,
ma ero dove la vita era latenza,
nel sangue degli avi,
sotto erbe in luoghi inoperosi,
e divenni il bersaglio dove iniziava la lotta
e per miracolo
oggetto della loro disputa.
Quando la sega penetra nel tronco,
quando l’occhio divino dell’animale braccato
è come acqua torbida imbevuta di caligine,
quando un bambino soffre e nei medici non ha più fede,
quando la prima gelata copre
il grano,
la taiga sconfinata arde dinanzi ai miei occhi,
non posso dire: “questo è il destino”,
e amaramente credo d’averne colpa.
La mia anima in tempo di guerra
come le tenebre era nera.
Ma è la vittima di tutte le lotte
che genera come la bestia,
anima mia, – mio genio protettore senza difesa –
inghiottendo la morte
si avvia ad aiutare il bene.
Tutto si tiene a questo mondo e tutto è solidale,
e se da sempre han combattuto per me le fronde del bosco –
fronda io stesso devo diventare
e ad ogni chicco devo prestare la mia voce.
Tutto si tiene a questo mondo e tutto
è solidale:
le costellazioni e la terra, l’uomo
e l’uccello.
E chi fa il bene si getta a capofitto
in un vortice maestoso
e non teme la morte,
emerge ancora e subito, come un nuotatore,
solidale per sempre all’onda
e infine non potrà dire lui stesso cos’è,
se stella, o terra, o uomo,
o uccello.
La lettera
Se oggi m’avessi scritto una lettera
mi sarebbe giunta da sola,
anche senza i francobolli, cassata o timbrata,
anche senza poscritto o profumo di rose sui margini,
anche senza l’indirizzo o le tue parole d’amore,
oltre tutti i postini e i fermo posta militari,
nel rifugio, sottoterra, fino a qui: da sola
mi sarebbe giunta lo stesso!
Mandami almeno una riga, almeno una
cinguettante riga di vocali, qui, al fronte.
Ma cos’è una lettera! D’accordo, che non ce ne siano.
Mi facevi impazzire anche senza di esse.
Volgi il tuo viso ad occidente, oltre i monti,
oltre i mari turchini.
Almeno un istante senza tempo né spazio,
solo ali guizzanti nel sogno ingarbugliato,
trattieni un attimo il respiro mentre spicchi il volo
oltre i mari ed i monti
Ieri ti ho attesa fin dal mattino
Ieri ti ho attesa fin dal mattino,
ma loro sapevano che non saresti venuta.
Ricordi che bella giornata era?
Una festa. Ed io uscivo senza il cappotto…
Oggi sei venuta, e ci hanno preparato
una giornata particolarmente grigia.
La pioggia, l’ora così tarda,
le gocce scorrono per i rami freddi…
La parola non serve a placarle,
né le asciuga il fazzoletto.
-Pubblicate dalla Rivista L’Altrove-
Biografia
Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij (in russo Арсений Александрович Тарковский?; Elisavetgrad, 25 giugno 1907 – Mosca, 27 maggio 1989) è stato un poeta e traduttore russo di origine ucraina, padre del famoso regista Andrej Tarkovskij.
Alla fine degli anni venti Arsenij Tarkovskij inizia la collaborazione con alcune riviste e scrive drammi per la radio sovietica. Nel 1932, accusato di misticismo, deve abbandonare il suo lavoro e si dedica quindi all’attività di traduttore dall’arabo, dall’ebraico, dall’armeno, dal georgiano, dal turkmeno e da altre lingue ancora. Inizia, sempre in quel periodo, a frequentare Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, attirando su di sé ulteriori attenzioni da parte del regime, che gli costeranno una censura durata sino agli anni sessanta.
Arruolato come soldato nella seconda guerra mondiale, nel 1943 viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in battaglia e in seguito, gravemente ferito, deve subire l’amputazione di una gamba. A partire dal 1962 inizia la pubblicazione delle sue poesie, che consisteranno in una decina di raccolte in tutto. Muore a Mosca il 27 maggio 1989.