Franz Kafka, “Il processo”, 1925-Adelphi editore-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Franz Kafka, “Il processo”, 1925-
Adelphi editore-Articolo di Venceslav Soroczynski
Articolo diVenceslav Soroczynski– Libro di Franz Kafka “Il Processo”·Sognando un tribunale internazionale contro i crimini di guerra che agisca prima che sulle strade di mezzo mondo si asciughi il sangue degli innocenti, mi rigiro fra le mani questo imponente libretto di 170 pagine. Thomas Bernhard, in Estinzione, dice che uno dei pochi autori di lingua tedesca che non scrive come un impiegato è Kafka (che, guarda un po’, faceva proprio l’impiegato). E che il suo libro migliore è questo. Bernhard aveva ragione o no? Non posso rispondere, perché autori tedeschi non ne ho letti molti – però La morte a Venezia non sembra proprio scritto da un impiegato – ma una cosa la posso affermare: se è tanto che non avete un incubo e volete procurarvene uno bello definito, articolato, insistente, di quelli che la mattina dopo non si dimenticano, leggete “Il processo”.
Il processo è una metafora di quella frustrazione e di quell’angoscia connaturate agli uomini che devono vivere in una civiltà nella quale il singolo non conosce il suo nemico, non conosce il suo destino né chi l’ha ordito e non ha strumenti per esercitare i propri diritti e per difendersi. E, forse, non conosce nemmeno la propria psiche, dunque è vittima di tutto ciò che va oltre la propria coscienza. Nello sfondo – che si pure si fa protagonista – del romanzo, ogni elemento è ostile al protagonista: ogni relazione, ogni evento, ogni istituzione, ogni collega, ogni sottoscala.
La metafora è costruita raccontando tutto ciò che non funziona nella giustizia, nelle sue procedure ufficiali, nelle prassi, nei locali in cui si celebra, negli uomini che la subiscono e in quelli che la esercitano. Naturalmente, tutto è un po’ esagerato – e, infatti, pare che l’Autore e i suoi amici ridessero mentre il primo leggeva ad alta voce ai secondi il testo – ma non troppo, se siete stati ascoltatori di Radio Radicale negli anni Ottanta e, ahinoi, anche dopo. Io non riesco proprio a ridere in nessuna pagina: ho anzi i brividi mentre il signor K. è costretto a vivere esperienze assurde, frustranti e schiaccianti, che facilmente possiamo figurarci nel nostro mondo contemporaneo, di cui le fantasie di Kafka paiono soltanto un’approssimazione per eccesso.
Il protagonista, che peraltro non è uno spacciatore dei giardinetti, ma il procuratore di una banca, viene arrestato a casa sua da due persone che non sono nemmeno poliziotti. Le quali, mentre aspettano che lui si vesta, gli mangiano la colazione e non gli dicono neppure perché sono andati a prenderlo. L’accusa, inoltre, non viene mai dichiarata, quindi il sospettato si dibatte come un pesce in fin di vita, che non ha neanche capito se il pescatore aveva veramente fame o lo sta suppliziando per mero sadismo. Ogni tanto, qualcuno gli chiede se è innocente e lui risponde sì, ma naturalmente anche questa risposta può essere sbagliata, visto che non si sa di cosa è accusato e… chi può dire di essere innocente di qualsivoglia reato?
E non è tutto, visto che non è individuato neanche il pubblico ministero e tantomeno il giudice, e che il tribunale è insediato in un luogo indegno e plurimo, che assume in ogni sede un aspetto diverso e sempre meno solenne. I brani in cui il povero K. visita i palazzi di giustizia sono davvero un brutto sogno e non è neanche il peggiore, ché le ultime pagine sono ancora più oscure e penose. Tanto per darvi un’idea, io le ho lette con 31 gradi centigradi eppure sentivo addosso quel freddo brutto che si sente solo quando si ha davvero paura – ché ne ho letti di libri horror da ragazzo, ma pochi erano spaventosi come questo. Dracula, L’esorcista e Shining, al confronto, sono storielle per spaventare i bambini, poiché se pochi di noi hanno visto vampiri demoni e morti viventi, tutti hanno visto tribunali in centro città, pubblici ministeri in televisione e raccomandate di colore verde nelle mani del postino.
Citiamo solo di passaggio l’avvocato di K., che non si capisce bene riceva i clienti dal suo letto, perché maltratti i suoi assistiti, perché non riferisca esattamente lo stato del processo e perché pare non avere alcuna strategia difensiva. In più pare che tenga a servizio una ragazza che si innamora così facilmente dei clienti. Il sospetto è che lo stesso avvocato non capisca molto di quello che sta facendo, né di ciò che sta facendo il tribunale. Merita invece d’essere studiato attentamente il complesso delle reazioni e relazioni del povero K., spaventato dalla propria vicenda, incapace di reagire freddamente, tardo nelle contromisure di contenuto logico. Sembra che egli, da un lato, prenda di petto la sua disgrazia per sciogliere subito i dubbi che causano la sua incriminazione e, dall’altro, si muova troppo di lato, faccia giri troppo larghi, sbagliando completamente strategia.
Sembra che tutti ne sappiano più di lui sul mondo, sugli uomini, sulle regole che governano ogni meccanismo, sul suo stesso processo. E che egli vaghi sempre nel corridoio sbagliato, che varchi sempre il cancello proibito, che si affidi solo a personaggi di dubbio peso. Le emozioni che questa lettura suscita si situano in un punto equidistante fra l’inquietudine e l’oppressione psicologica. Quindi, questa volta, non so se consigliarvi la lettura, non vi conosco abbastanza e non me la sento. Fate voi. Ma, se avete deciso di cominciare, vi consiglio di attendere la prossima stagione calda: se non sarà ancora finita la guerra permanente che pare mossa dalla necessità del caos e della distruzione, invece di scegliere fra la pace e il condizionatore, avrete Il processo come terza opzione.