Poesie scelte di Gertrud Kolmar (1894-1943) “La straniera”, “L’ebrea”, “Il rospo”, “Nel lager”, “Solo la notte ti ascolto”. Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
POESIE SCELTE di Gertrud Kolmar (1894-1943)
“La straniera”, “L’ebrea”, “Il rospo”, “Nel lager”, “Solo la notte ti ascolto”.
Hilde traduzione di Giuliano Pistoso
da Gertrud Kolmar, Il canto del gallo nero, prefazione di Marina Zancan, traduzione di Giuliano Pistoso, Essedue Edizioni-
Lettera alla sorella
Berlino 1.2.42
Mia cara Hilde,
Se non avessi le esperienze che invece ho vissuto, sicuramente sarei d’accordo con te sulla delusione che «sta in agguato», sull’illusione e la realtà; e per molte donne, forse per la maggior parte, parlo di donne sensibili e forti d’animo, vale quello che tu dici. Invece per me… Mi credi se ti scrivo qui: «Non sono mai stata delusa» e «la realtà è sempre impensabilmente più bella di tutte le illusioni?». Mi credi? Per me è stato così.
Non voglio dire con questo che non mi sono mai sentita infelice, che non ho mai provato dolore. Anzi sono stata molto, molto infelice, ho sopportato anche dolori molto forti e profondi che però ho anche amati come una futura madre può amare i tormenti con i quali viene benedetta dal proprio figlio. Ma tutto questo io l’avevo intuito già prima, l’avevo previsto e sopportato in anticipo, conoscevo il prezzo altissimo che avrei dovuto pagare, quindi delusioni per me non ce ne sono state. Le parole «eterno», «costante» e «fedele» (almeno applicate al mio partner) le avevo cancellate dal mio vocabolario sin dall’inizio. Questo probabilmente era dovuto anche al fatto che io non sono mai stata l’unica, ma sempre «l’altra»… Tu riterrai che fossi troppo modesta, invece non lo ero. Avevo una infiammabilità bassa e prendevo fuoco molto difficilmente – un fuoco che poi si spegneva presto, però, se bruciava (quanto raramente), la brace era forte e durevole. Il mio sentimento diventava allora una specie di re Mida capace di trasformare in oro tutto quello che toccava con le sue mani; si levava grande come un sole e indorava ogni stagno, ogni pozzanghera. E infine non aveva più tanta importanza quello che faceva, come si comporta- va la persona cui era dovuto il suo sorgere, il suo calore, il suo irradiare. Il sole splende sopra i giusti e gli ingiusti…
Con tanti cari saluti anche da papà
Trude
La poetessa
Mi tieni completamente nelle tue mani.
Come quello di un minuscolo uccello, batte il mio cuore nel tuo pugno. Tu che leggi, sta attento
perché vedi, stai sfogliando una creatura. Ma se per tè è fatta solo di cartone,
fogli stampati e colla, allora resta muta, non ti colpisce col suo grande sguardo che dai neri segni guarda cercando;
allora è solo una cosa con il destino di una cosa.
Pure s’era cinta di veli come una sposa, s’era adornata perché tu la potessi amare ed, esitante, prega che, per una volta,
tu cacci via la pigra indifferenza
e trema e sussurra a se stessa:
«Non succederà.» Ti fa un cenno e un sorriso. Chi dovrebbe sperare se non una donna?
Il suo intero mondo è quel solo: «tu…»
Con fiori neri e sopracciglia dipinte,
con catene d’argento, con sete, stellata d’azzurro. Da bambina sapeva cose più belle,
ma le parole più belle le ha dimenticate.
L’uomo è molto più saggio di noi. Nei suoi discorsi parla della morte,
della primavera, delle industrie, del tempo. Io dico: «tu…», solo e sempre: «tu ed io.»
Questo libro è un vestito di ragazza,
può essere bello e rosso o poveramente sbiadito e sempre soltanto da dita amate
si lascerà gualcire, qualche volta macchiare.
Perciò sono qui a mostrare quello che mi è accaduto;
quello che un forte candeggio ha sbiadito senza poter del tutto cancellare.
Perciò ti chiamo. Il mio richiamo è leggero, sottile.
Tu senti quello che dice, ma comprendi quello che sente?
L’ebrea
Io sono straniera.
Perché gli uomini con me non s’azzardino, voglio essere circondata da torri
che portano aguzzi berretti di pietra grigia in alto verso le nuvole.
Voi non potete trovare la chiave di bronzo della tetra scala. Essa gira su di sé verso l’alto come la piatta, squamosa testa sollevata
una vipera nella luce.
Ah, questo muro si sgretola come roccia bagnata per millenni dalle tempeste;
gli uccelli dai rudi colli rugosi
si rintanano nelle profonde caverne.
Sotto la volta di sabbia friabile groviglio di rettili con i petti maculati… Vorrei armare una spedizione esplorativa nella mia originaria, antichissima terra.
Posso la sepolta Ur dei Caldei forse da qualche parte scoprire, l’idolo Dagone, la tenda degli ebrei, la tromba di Gerico.
La tromba che abbattè le arroganti mura, brunisce sepolta, piegata, distrutta,
ma un tempo ho respirato il soffio che produsse il suo suono.
Nelle cassapanche coperte di polvere giacciono senza vita le nobili vesti, morente splendore dall’ala della colomba, l’ottusità di Behemot.
Io le indosso stupita. Sono ben piccola,
lontana dai tempi della loro ricchezza e del loro potere,
ma intorno a me si aprono scintillanti spazi come a difesa ed io in essi mi espando.
Ora mi sento strana e non mi riconosco perché ero già prima di Roma, di Cartagine, perché subito ardono per me gli altari
di Debora e della sua schiera.
Dal vaso d’oro nascosto
corre attraverso il mio sangue un doloroso splendore e un canto vuole chiamarmi con nomi
che siano di nuovo fatti per me.
I cieli gridano colorati segnali. Impenetrabile è il vostro volto:
quelli che, timidi, con la volpe del deserto mi circondano, non lo vedono.
Soffiano gigantesche, devastanti colonne d’aria, verdi come giada, rosse come coralli,
sopra le torri. Dio permette che crollino e tuttavia i millenni ancora stanno.
La straniera
A mia sorella Hilde
.
La città è per me un vino colorato in un levigato calice di pietra
che sta e brilla davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.
Esso riflette il suo cerchio più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi, ci colpiscono tutte le cose a noi quotidiane e usuali.
Davanti a me la rigida parete delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro della piccola bottega
si chiude riservato: «Io non t’ho chiamata.»
II selciato ascolta e cerca a tentoni il mio passo pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno si unisce con la colla, là si parla una lingua che non è mia.
La luna palpita rossastra come un assassinio sopra il corpo lontano, sopra la parola smarrita, quando, la notte, contro il mio petto s’infrange il respiro d’un mondo straniero.
Noi ebrei 15.9.1933
Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio, voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa, la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.
E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato, e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità, la mano che si tende a toccare Dio in cielo.
Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei, e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono, gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.
E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante, sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare, e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma, e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli, l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele; Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero. Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre, tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
.
Il rospo
12 ottobre 1933
Il crepuscolo azzurro scende denso d’umidità con il mantello dal largo orlo rosa dorato.
Un pioppo nero si staglia nella morbida luce,
e dolci betulle tremano contro la pallida schiuma.
Come una testa di morto, una mela rotola sorda nel solco, s’accartoccia leggera e perisce la bruna foglia autunnale. Con piccole luci spettrali la città, lontano, s’abbuia.
La bianca nebbia dei prati avvolge i ranocchi.
Io sono il rospo
e amo gli astri della notte. La sera, alto, il Rosso
si gonfia purpureo nello stagno d’improvviso incendiato. Sotto le assi marce della botte per l’acqua piovana
mi rintano accovacciato e grasso;
il tramonto del sole
spia, sofferente, il mio sguardo lunare.
Io sono il rospo
e amo il sussurro della notte. Un delicato flauto
nell’oscillante canneto, nel càrice s’è svegliato, un tenero violino
vibra e scintilla sul ciglio del campo. Tacito ascolto,
mi trascino sulle zampe palmate
sotto una panca fradicia
membro dopo membro fuori dal pantano come un sommerso pensiero
si trae fuori dal groviglio e dal fango. Oltre i cespugli, fra i ciotoli
modesta, buia creatura, saltello;
il rugiadoso gocciolare del fogliame, l’edera verde-nera mi sciacquano via.
Respiro, nuoto
dentro un profondo, tranquillo splendore, umile voce
sotto l’alato piumaggio della notte.
Vieni dunque e uccidi!
Per tè posso essere solo un disgustoso animale:
io sono il rospo
e porto il gioiello.
Nel lager
Quelli che s’aggirano qui sono corpi soltanto, non hanno più anima,
soltanto nomi nel registro dello scrivano, carcerati: uomini, ragazzi, donne,
e i loro occhi fissano vuoti
con lo sguardo sbriciolato, distrutto per ore in una fossa buia,
soffocati, calpestati, picchiati alla cieca.
Il loro gemito tormentoso, il loro pazzo terrore, una bestia, sulle mani e sui piedi, carponi…
Hanno ancora le orecchie
e neppure odon più il loro grido. La prigione distrugge, schiaccia:
nessun coraggio, nessun coraggio più per ribellarsi! Stride leggera la sveglia spaccata.
Si affaticano come dementi, grigi, devastati, separati dall’umanità variopinta,
irrigiditi, timbrati e marcati,
come bestiame da macello che aspetta il beccaio e non conosce che il fetido truogolo e il recinto.
Solo paura, solo orrore nei volti
quando, di notte, uno sparo afferra la vittima… e nessuno ha veduto l’uomo
che silenzioso in mezzo a loro
trascina la croce nuda verso il supplizio.
Lettera alla sorella
Hilde, sorella carissima il 15 12 1942
Un mio conoscente, il dottor H. era uno studioso di Spinoza e un giorno mi ha parlato della sua teoria sulla libertà della volontà umana all’interno della non-libertà. Penso di capire tutto questo attraverso le mie esperienze personali. Non è dipeso da me accettare o rifiutare il lavoro in fabbrica, mi è stato imposto, però ero libera di accettarlo o di rifiutarlo intcriormente; posso eseguirlo con ritrosia o con buona volontà. Dal momento che io l’ho accettato nel mio cuore non me ne sono più sentita soffocata. Ho deciso di considerare questo lavoro un insegnamento e di imparare il più possibile. In questo modo, dentro alla non-libertà, ho scelto la libertà. E così vorrei anche sopportare il mio destino, sia esso alto come una torre o nero e soffocante come una nuvola…
Berlino 23.10.41 ore 4 del mattino
Lettera alla sorella
Cara Hilde,
Di recente mi ha offerto aiuto un breve, piccolo episodio. Durante la pausa per la colazione (un quarto d’ora circa), mi trovavo nella stanza degli armadi e sedevo tutta sola su una panca vicino a una giovane zingara che non faceva nulla, non parlava, guardava completamente immobile fuori, verso il cortile deserto della fabbrica… Io l’ho osservata: non aveva quella faccia angolosa degli zingari con gli occhi inquieti e scintillanti, anzi i suoi tratti erano morbidi, quasi slavi; era di carnagione abbastanza chiara… E non aveva soltanto l’aria cupa, vinta degli animali, dei vecchi cavalli da tiro. Questo inevitabilmente c’era, ma c’era anche qualcosa di più: una chiusura impenetrabile, un silenzio, una distanza non più raggiungibile da una parola o da uno sguardo del mondo esterno… E ho capito che proprio questo avevo sempre voluto possedere senza riu- scirvi e che se adesso l’avessi niente e nessuno dall’esterno mi potrebbe più toccare. Però mi trovo già su questa strada e ne sono contenta… I reumatismi di papà sono migliorati, anche se non molto… Lui naturalmente sta ancora dormendo.
Un caro saluto!
Trude
Lettera alla sorella
Berlino 1.2.42
Mia cara Hilde,
Se non avessi le esperienze che invece ho vissuto, sicuramente sarei d’accordo con te sulla delusione che «sta in agguato», sull’illusione e la realtà; e per molte donne, forse per la maggior parte, parlo di donne sensibili e forti d’animo, vale quello che tu dici. Invece per me… Mi credi se ti scrivo qui: «Non sono mai stata delusa» e «la realtà è sempre impensabilmente più bella di tutte le illusioni?». Mi credi? Per me è stato così.
Non voglio dire con questo che non mi sono mai sentita infelice, che non ho mai provato dolore. Anzi sono stata molto, molto infelice, ho sopportato anche dolori molto forti e profondi che però ho anche amati come una futura madre può amare i tormenti con i quali viene benedetta dal proprio figlio. Ma tutto questo io l’avevo intuito già prima, l’avevo previsto e sopportato in anticipo, conoscevo il prezzo altissimo che avrei dovuto pagare, quindi delusioni per me non ce ne sono state. Le parole «eterno», «costante» e «fedele» (almeno applicate al mio partner) le avevo cancellate dal mio vocabolario sin dall’inizio. Questo probabilmente era dovuto anche al fatto che io non sono mai stata l’unica, ma sempre «l’altra»… Tu riterrai che fossi troppo modesta, invece non lo ero. Avevo una infiammabilità bassa e prendevo fuoco molto difficilmente – un fuoco che poi si spegneva presto, però, se bruciava (quanto raramente), la brace era forte e durevole. Il mio sentimento diventava allora una specie di re Mida capace di trasformare in oro tutto quello che toccava con le sue mani; si levava grande come un sole e indorava ogni stagno, ogni pozzanghera. E infine non aveva più tanta importanza quello che faceva, come si comporta- va la persona cui era dovuto il suo sorgere, il suo calore, il suo irradiare. Il sole splende sopra i giusti e gli ingiusti…
Con tanti cari saluti anche da papà
Trude
da Gertrud Kolmar, Il canto del gallo nero, prefazione di Marina Zancan, traduzione di Giuliano Pistoso, Essedue Edizioni
Biografia di Gertrud Kolmar-10 dicembre 1894 Gertrud Kàthe Chodziesner nasce a Berlino-Mitte/ nella PoststraBe 14/ figlia maggiore dell’ avvocato Ludwig Chodziesner (1861) e di Elise Chodziesner nata Schoenflies (1827). I genitori del padre – trasferitesi da Woldenberg (oggi Dobiegniev) a Berlino -sono merciai/ e questa attività permise ai loro tré figli di studiare giurisprudenza. La madre di Gertrud Kolmar è la figlia di un fabbricante di tabacco emigrato a Berlino da Landsberg sulla Warta (oggi Gorzòv).
1897 Nasce la sorella Margot.
1899 La famiglia si trasferisce in una casa con giardino nel sobborgo residenziale del Westend, nella Ahornallee 37.
1900 Nasce il fratello Georg.
1905 Nasce la sorella Hilde.
1901-1911 Gertrud frequenta le elementari nel Westend e la scuola media femminile di Weyrowitz a Berlino- Charlottenburg.
settembre 1912 Frequenta la scuola femminile di agraria ed economia domestica Arvedshof a Elbisbach vicino Lipsia. Il di- ploma da a Gertrud il diritto di frequentare un semina- rio per insegnanti.
1915 Lavora in una scuola materna.
maggio 1916 Consegue il diploma per l’insegnamento della lingua francese.
ottobre 1916 Consegue il diploma per l’insegnamento della lingua inglese. Acquisisce nozioni di ceco, fiammingo, spa- gnolo e russo.
1916 circa Interrompe una gravidanza e tenta il suicidio.
gennaio 1917 Trascorre un periodo in un luogo di cura con la madre a Kónigstein sul Taunus.
Natale 1917 Per iniziativa del padre la casa editrice Egon Fleischel
& C. pubblica il volume Gedichte (Poesie). Lo pseu- donimo “Kolmar” è il nome tedesco della località Chodziez, da cui deriva il cognome Chodziesner.
novembre 1918 Lavora come interprete per il Ministero degli Esteri e si occupa della censura della corrispondenza del campo di prigionia Doberitz presso Spandau.
1916-1918 E’ probabilmente in questo periodo che comincia a lavorare al ciclo di poesie Napoleon und Marie (Napoleone e Maria).
1919-1926 Lavora come istitutrice e insegnante di lingue presso numerose famiglie di Berlino e assiste i bambini sor- domuti.
1919-inizio anni ‘20 Nascono i primi cicli di poesie.
1920-1921 Durante l’inflazione, per ragioni di carattere economico, la famiglia è costretta a lasciare la villa nel Westend e a trasferirsi a Kurfùrstendamm 43.
1923 La famiglia va ad abitare a Finkenkrug in una casa con un grande giardino, nella Manteuffelstrasse, oggi Feuerbachstrasse. Il padre si dedica alla coltivazione delle rose e alla cura degli animali.
dicembre 1926 metà 1927 Gertrud viene assunta come istitutrice presso una famiglia di Amburgo-Harvestehude.
tarda estate 1927 Frequenta un corso estivo all’Università di Digione e si diploma con la votazione migliore del corso. In- traprende quindi un viaggio di studio in varie città della Francia, fra le quali Parigi. Con questo viaggio termina la crisi creativa di Gertrud Kolmar, iniziata intorno al 1923.
inverno 1927/29 Das preuRische Wappenbuch (II libro degli stemmi prussiani).
1928 Lavora, probabilmente per l’ultima volta, come istitutrice a Peine. D’ora in avanti Gertrud Kolmar pub- blicherà le sue poesie su riviste e antologie. Viene so- stenuta da suo cugino Walter Benjamin, da Elisabeth Langgàsser, Ina Seidel e Victor Otto Stomps.
fine 1928 Ritorna alla casa paterna. Assiste la madre, gravemente ammalata e si occupa della gestione familiare. Partecipa a un corso di notariato e lavora come segretaria per suo padre.
1928/29 E’ probabilmente questo il periodo in cui nasce il ciclo di poesie Bild der Rose (Immagine della rosa).
25 marzo 1930 Muore la madre.
1930 Attraverso le sue pubblicazioni sull’ “Insel Almanach 18 agosto 1930 auf das Jahr 1920” Gertrud Kolmar conosce lo scrittore Karl josef Keller, con cui ha un rapporto d’amicizia fino al 1939.
1 febbraio 1931 Die jùdische Mutter (La madre ebrea).
1927-1932 Mein Kind (Mio figlio), Weibliches Bildnis (Ritratto di donna) e Tiertràume (Sogni di animali).
25 ottobre 1933 Das Wort der Stummen (La parola dei muti) autunno 1933 Das Bildnis Robespierres (Ritratto di Robespierre).
1934 Viene pubblicato il volume di poesie PreuRische Wappen (Stemmi prussiani) per le edizioni Die Ra- benpresse (Berlino) di Victor Otto Stomps. Ma la casa editrice è costretta a sospendere l’attività e gran parte della tiratura va perduta.
14 marzo 1935 Cécile Renault. Dramma in quattro atti.
dal 1936 Lo “Judischer Kulturbund” organizza serate in cui ven- gono recitate le sue poesie. La Kolmar conosce Nelly Sachs e jacob Picard/ che si adopera per la pubblica- zione delle sue poesie.
20 dicembre 1937 Welter” (Mondi).
15 giugno 1938 Nacht (Notte). Leggenda drammatica in quattro atti.
1938/39 Emigrano il fratello e la sorella.
tarda estate 1938 Esce il volume di poesie Die Frau und die Tiere (La donna e gli animali) per lo Judischer Buchverlag Erwin Lòwe (Berlino). Il libro non può più essere pubblicato con lo pseudonimo. Dopo il pogrom del 9 novembre e la successiva interdizione alle case editrici ebraiche il libro viene mandato al macero. dal 9 novembre 1938 Il padre viene tenuto in prigione per quattro giorni.
23 novembre 1938 La famiglia Chodziesner è obbligata a vendere la casa di Finkenkrug entro 24 ore.
21 gennaio 1939 La famiglia è obbligata a trasferirsi nella Speyerer Stra- de a Berlino-Schóneberg.
13 febbraio 1940 Susanna.
dall’aprile 1940 Gertrud Kolmar prende lezioni di ebraico ed è presto in grado di scrivere poesie in questa lingua.
fine 1941 E’ prevista la sua deportazione, ma il capo della fabbrica dove lavora la “reclama” qualificandola come indispensabile.
luglio 1941 E’ avviata al lavoro forzato nella fabbrica di imballaggi Epeco a Berlino-Lichtenberg.
1 aprile 1942 Scrive un racconto andato perduto. settembre 1942 Il padre viene deportato a Theresienstadt. Dalla fine del 1942 svolge lavoro forzato in una fabbrica di imballaggi a Berlino-Charlottenburg.
13 febbraio 1943 Il padre muore a Theresienstadt.
27 febbraio 1943 Durante la cosiddetta “Azione nelle fabbriche” viene arrestata assieme agli altri lavoratori forzati ebrei di Berlino e condotta in un campo di smistamento.
2 marzo 1943 Con il “32° Trasporto all’Est” Gertrud Kolmar viene deportata ad Auschwitz.