Mimma Forlani-Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Mimma Forlani-Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina
Editore CartaCanta
Descrizione Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina il nuovo libro di Mimma Forlani ricostruisce la mappa del comune sentire, pensare, parlare di un paese rurale seguendo il giro delle stagioni negli anni 1958/59. Un momento importante per la civiltà contadina che, rimasta quasi immutata dai tempi di Virgilio, inizia a morire negli anni Sessanta quando i contadini abbandonano i campi per la fabbrica. Per raccontare luoghi e persone ormai scomparsi, l’autrice inventa una lingua che rievoca le sonorità della sua infanzia. Nel suo trattato narrativo di antropologia l’autrice ritorna al dialetto, ritrovato lungo il suo percorso di scrittura, all’italiano popolare-lombardo, senza escludere il latino dei riti della Chiesa pre-conciliare e la lingua colta degli studi successivi. L’autrice fa cosi rivivere la koiné di un piccolo borgo agricolo nel quale il dato realistico non esclude il gioco dell’invenzione e lo slancio lirico sottolineato da frammenti poetici. Si narra un duplice commiato: quello dell’autrice dal mondo contadino e quello di un popolo dalla propria vita. “Il paese delle aie” è un gesto d’affetto e di memoria. La vita faticosa e povera dei contadini sembra essere stata più appagante della nostra.
Estratto del libro di Mimma Forlani- Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina
A quei tempi
Bariano era un paese di aie.
C’era la corte di Jàcom-fólega1
con cavalloni di granoturco stesi
sulla graticola dell’essiccatoio
dove i bimbi sgusciavano come ratti
sui grani caldi.
C’erano le campate dei mezzadri
Àngel de’ Amastini, Pí de’ Ghéta,2 Santo Forlà, Pepi Resmí, Àngel de’ Lansí, Luciano Milani e Peder de’ Perèch
con le pannocchie appese sotto le travi.
- Jàcom-fólega, nato a Bariano il giorno di San Pietro del 1877, era stato chiamato così perché, andando a caccia con il suo schioppettino, qualche volta riusciva a portare a casa una o due folaghe. Sposato con Margherita dei Finazzi, ebbe undici figli, due morti subito e nove sopravvissuti. Il più piccolo di statura e il più furbo, Jacumí-fulighí, nato nel 1917, sposò il 14 settembre del 1946 Maria dei Mossi, figlia a sua volta di Jàcom e di Angela de’ Ferrari, dalla quale ebbe una sola figlia, Jacumína-fulighina detta semplicemente la Fulighina.
- Per Pí de’ Gheta si azzarda l’ipotesi che Ghéta sia una storpiatura di Ghita, mar- gherita; quindi figlio di Margherita. Ghéta, tuttavia, è parola che ha assonanza con ghéda, grembo, che compare nell’espressione tègn i mà ‘n ghéda, per lo più riferita alle donne che, quando stavano sedute, tenevano le mani incrociate sul grembo. Quella era la posizione abituale anche di Pí, Giuseppe, padre tirannico, che, da seduto, sorvegliava e comandava a suon di cinghia i propri figli.
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Là fuori nei campi, vicino al cimitero, c’era la nuova aia de Jacumí-fulighí, settimo dei nove figli vivi di Jàcom-fólega. Poi c’erano le aie dei diavoli.
Di notte, con le zampe caprine, buttavano all’aria la pula
riempivano i sacchi con il grano maturo e scappavano scalciando
Adío Pèp3
La buona farina è finita in crusca.
M’avvio?
La prima parola pronunciata dalla bambina sbucata fuori dalle marcite marzoline fu un grido di gioia strozzato in gola, un’altale- na di gridi gettati al cielo, un fuggi fuggi di zoccoletti sull’aia.
Fu anche altro.
Sicuramente altro: rumori, suoni, guizzi di un’infanzia dispersa da oltre cinquant’anni, che all’alba di una domenica risuona dalle vecchie foto in bianco e nero. In una, di gruppo, presa sul neva- io del monte Menna nell’alta Valle Brembana c’è una bimba con le trecce che spuntano dal fazzoletto legato in testa. Nove o dieci anni? Di certo è lei, la Fulighina, figlia di Jacumí-fulighí, figlio di Jàcom-fólega. Quel soprannome, che nell’infanzia i compagni di scuola le gettavano in faccia come un insulto per l’assonanza irri- dente con Folètina, le appariva ora buffo, persino comico in quel richiamo alla folaga un po’ fola e un po’ folletto.
Incominciò così a raccogliere i ricordi che nascevano sonori nella memoria come l’acqua dai fontanili della pianura, indovinò le singole voci, lasciò emergere gli assolo, i duetti, il coro d’ac- compagnamento e li lasciò suonare sulla pagina insieme alle voci
- Espressione idiomatica del paese per dire al povero Pèpo, che una mattina ave- va trovato il pollaio vuoto, di mettersi il cuore in pace; delle galline non avrebbe più visto neppure una piuma.
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degli animali domestici e delle piante campestri in un’antica lin- gua, d’improvviso ritrovata. Quella mattina, e molte altre nei mesi successivi, dalla sua casa situata nell’antica città delle alte mura, prese a ruzzolare nei campi, a sgranare sul palmo della mano de- stra i chicchi di frumento ormai maturi, li ripulì con dita amorose dalla pula, li rigirò in piena luce, li mise in bocca, e li spezzò come il padre faceva alla vigilia del raccolto. Se il chicco che sfrigolava fuori dalla spina era duro, allora Jacumí-fulighí convocava i fal- ciatori: “Domà m’ regój!”. Domani raccogliamo, diceva a Nando de’ Corvis e a Àngel de’ Lansí. L’ordine veniva dato verso sera; e loro convenivano con il capo: il tempo era arrivato. Sfilavano le ranze dalla corda appesa alla ruvida parete del portico, incomin- ciavano a battere con il martello sulla lama posata su un sòch4 di legno, messo alla giusta distanza dai treppiedi su cui si erano se- duti. Dopo l’ultima sfregata con la cut5 alle lame lucide e sibilanti, infilavano sul manico una mezzaluna di alluminio, strumento ca- pace di tenere unite le spighe tagliate, trasformando l’umile ranza in nobile falce messoria e il misero falciatore in mietitore divino. “Domani, se Dio vuole, si raccoglie”. Già il padrone della treb- biatrice, certo Vittorio detto Mezzo-culo, era stata avvisato. Lui sarebbe stato nel campo alle sei, gli altri dovevano essere a fò6 un po’ prima. Alla vigilia tutti gli umani della corte, prima di andare a dormire, scrutavano il cielo, restavano a lungo lì, sui due piedi, a osservare gli alberi che reggevano il filo dell’orizzonte. Se il sole tramontando aveva lasciato una striscia rossa tra le cime delle pla- tine e delle pioppe,7 gli animi si rinfrancavano perché anche i sassi sapevano che rosso di sera, bel tempo si spera.
Intanto la bambina dalle treccine color terra saltava alla cor- da sull’aia o scalpitava sui sentieri dei campi insieme ai cugini, qualche mese più vecchi di lei, Jàcom de’ Lansí, Jàcom de’ Corvis e Gioàn de’ Mossi che, appena finita la quinta elementare, erano
- Ceppo.
5. La cote, pietra nerastra ricca di quarzo, utilizzata per molare le lame. 6. Dal latino ad foras: fuori, al lavoro nei campi.
7. In dialetto il nome degli alberi è per lo più femminile.
Mimma Forlani < Il paese delle aie
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pronti per essere avviati al lavoro. Forse uno avrebbe voluto con- tinuare gli studi, ma soldi non ce n’erano, l’altro avrebbe fatto un corso professionale; quanto a Gioàn, già i suoi libri li aveva buttati nella mangiatoia e la mucca se li era divorati fino all’ultima pagina, con suo grande sollievo.
Quella mattina scandita dal suono delle campane, la figlia di Jacumí-fulighí rivede i s-cècc, gli schietti, sedersi uno accanto all’al- tro sulle rive rosse di papaveri, alzarsi poi di scatto per inseguire le libellule della Morla, la grande roggia che serviva a decquare8 i campi.
“Mio Dio, dove sono finiti?”
Eccoli tra i filari dei moroni9 carichi di ciciotte scure, nascosti dai soffioni che raccolgono a man bassa. Poi, seduti sulla riva er- bosa del canale, soffiano dentro le bolle i pappi volatili fino a farsi scoppiare le guance. Sentili ora starnutire come puledri pizzicati da qualche incauta mosca infilatasi su per le narici.
“Adesso dove sono?”
Stanno arrampicandosi sul fienile, mettono l’uno dopo l’altro i piedi nudi sui pioli di legno e si tuffano nel fieno maggengo. Ma certo, prima del taglio del frumento a quei tempi c’era quello del maggengo che anticipava l’estate: gioiosa stagione dei raccolti. Perché tutti sapevano allora che si semina nel pianto e si raccoglie nella gioia.
“Chissà se il tempo del raccolto è arrivato…” si chiede da dietro la scrivania la figlia di Jacumí-fulighí.
“Domani m’avvio. M’avvio sulla pagina bianca”.
A passi diversi
Se solo una volta, dico una volta,
i tuoi occhi di galaverna si fossero sciolti in fiocchi di neve, i sentieri dei campi
- Irrigare. 9. Gelsi.
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li avrei percorsi a passi di danza.
Ho invece vagato a passi diversi sui sentieri di ghiaccio di un lago dal gelo sigillato,
e da altro, in verità.
Come folaga dispersa
mi sono infangata tra i giunchi della riva e attendo di volare
nel vento della vita.
Mimma Forlani < Il paese delle aie
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Cenni Biografici di Mimma Forlani
Mimma Forlani, giornalista pubblicista, ha pubblicato libri e saggi quali: Ruth Domino Tassoni, 1996; Sandro Angelini e Città Alta, 1999; Elena Milesi, Città Alta e altri luoghi della sua poesia, 2004; I luoghi di Gianandrea Gavazzeni-tra musica e parola, 2006-2021; Gli Scotti, la baronessa Ninì racconta gli antenati Francesco e Gianmaria, gli amici di casa Gaetano Donizetti e mons. Roncalli, 2009; Filippo Siebaneck, Cittadino esemplare di Bergamo, 2006; Di-sperare in terra di Palestina, 2009-2013; Variazioni sull’acqua (quattro conversazioni poetico-musicali), 2010; Enrico Gonzales, avvocato, socialista, galantuomo (con Francesco Giambelluca), 2012; Storie amene sotto il berceau, I e II,2016-2017; Sulle tracce di Gianmaria Scotti, nobile patriota del Risorgimento. Inchiesta storica sulla gioventù del Quarantotto: luoghi e ideali, 2020. è protagonista di numerose iniziative culturali a Bergamo e provincia.