Professore Marco Catania-Eugenio Montale è stato uno tra i più importanti poeti del Novecento – Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Professore Marco Catania-
Eugenio Montale è stato uno tra i più importanti poeti del Novecento –
Eugenio Montale è stato uno tra i più importanti poeti del Novecento, capace di interpretare la crisi dell’uomo contemporaneo, avendo vissuto in prima persona le esperienze delle due guerre e la dittatura fascista.
Nelle sue opere ha cantato il male di vivere e la fine delle speranze, delle illusioni, ricollegandosi alla poetica di Giacomo Leopardi, senza avere certezze o verità assolute, ma impegnandosi sempre nel cercare una ragione e un significato, un valore individuale e collettivo per cui la sofferenza possa essere vinta. Quello di Montale è dunque un pessimismo attivo che si pone delle domande sul senso della vita, per cercare di intravedere la verità, in una posizione capace di stare nella disperazione, nella nostalgia di una serenità perduta, tipica del Leopardi, al fine di comprendere meglio la realtà.
La poesia che apre la sua prima, celebre raccolta, intitolata Ossi di seppia è una vera e propria dichiarazione di poetica in cui l’autore si rivolge al lettore invitandolo a meditare sulla crisi di certezze dell’uomo contemporaneo, che spesso cade nell’inganno di poter trovare una formula risolutiva o una spiegazione sicura alle sue inquietudini, alle vicende della storia. Il poeta è colui che sa di non avere certezze e che può soltanto esprimere “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, cioè l’impossibilità stessa di avere una qualche risposta.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Sempre della stessa raccolta, I limoni è un’altra dichiarazione di poetica da parte di Montale che nei primi versi prende le distanze dai “poeti laureati”, come Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio, che “si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati”; egli, invece, ama il linguaggio comune e familiare, assumendo l’umile pianta dei limoni come simbolo della sua poesia che qui richiama lo stile crepuscolare. La tipica figura dannunziana del poeta vate è quindi ben lontana dalla visione di Montale, nonostante consideri d’Annunzio un autore con il quale è necessario confrontarsi per ogni letterato.
Il compito di Montale sarà quello di andare oltre le apparenze, le costruzioni artificiose dei versi, indagando la condizione esistenziale dell’uomo moderno, seguendo l’esempio di autori come Luigi Pirandello e Italo Svevo. Proprio quest’ultimo venne scoperto e amato da Montale quando era ancora ignorato in Italia dai critici. Nel 1925 pubblicò sulla rivista mensile L’esame l’articolo Omaggio a Italo Svevo, in cui sottolinea l’importanza e l’originalità del capolavoro La coscienza di Zeno. Montale ebbe inoltre il merito di essere uno dei primi estimatori, ad oggi il più autorevole, del poeta Dino Campana.
Nato a Genova nel 1896, trascorse sin dall’infanzia le vacanze estive a Monterosso, nelle Cinque Terre, nella villa costruita dal padre. Il paesaggio marino avrà un ruolo decisivo nella raccolta Ossi di seppia. Diplomatosi ragioniere, mostrò però sin da subito interessi nella lettura e nella musica. Seguì allora i consigli della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia e si formò da autodidatta, in particolare su Dante, Petrarca, Boccaccio e d’Annunzio.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, nel 1922 uscirono le sue prime poesie in una raccolta dal titolo Accordi, che mostra il suo interesse musicale. Il giovane Montale cercò nella letteratura il riscatto da una vita minacciata da un senso di fallimento e di inettitudine. Apprezzò subito il Simbolismo francese, soprattutto Paul Verlaine e Charles Baudelaire; evidenti nelle poesie di Accordi sono i tentativi di scrivere una poesia che sia soprattutto musica, sull’esempio di Verlaine, e la ricerca di corrispondenze tra uomo e natura, tipico della poetica di Baudelaire.
Due sono le figure femminili decisive in questi anni: Anna degli Uberti, cantata con il nome di Arletta o Annetta nelle sue poesie, e Paola Nicoli. Saranno diverse le muse ispiratrici del poeta.
Il 1925 è l’anno di uscita della sua prima raccolta, Ossi di seppia appunto, mentre a livello politico si schiera in opposizione al regime di Benito Mussolini.
Due anni dopo si trasferì a Firenze, dove entrò in contatto con i maggiori intellettuali dell’epoca, tra cui Carlo Emilio Gadda e soprattutto Umberto Saba, iniziando a collaborare con la rivista Solaria. Fondamentale in questo periodo è la figura di Irma Brandeis, giovane studentessa americana giunta a Firenze per studiare Dante. Saranno a lei dedicate Le occasioni, la seconda raccolta dell’autore, edita nel 1939 da Einaudi. La relazione con Irma durò fino al 1938, quando la donna, di origine ebraica, dovette lasciare l’Italia a seguito della promulgazione delle leggi razziali.
Dal 1939 Montale vivrà con Drusilla Tanzi, detta Mosca, con cui si unirà in matrimonio nel 1962. Insieme si trasferirono nel 1948 a Milano, dove il poeta venne assunto dal Corriere della Sera. Milano è in questi anni la capitale industriale di un’Italia in cambiamento, che negli anni cinquanta conobbe il cosiddetto “boom” economico.
A livello sentimentale, tra i molti incontri di questi anni fu decisivo quello con la giovane poetessa Maria Luisa Spaziani, detta Volpe nel terzo libro intitolato La bufera e altro, uscito nel 1956. La raccolta, più varia rispetto le precedenti, allude allo sconvolgimento causato dalla guerra; Montale manifesta la propria sfiducia nella storia e l’impossibilità di portare avanti qualsiasi impegno politico. Nelle poesie domina ancora la presenza di Irma Brandeis, che diviene la figura mitologica di Clizia, l’amante di Apollo, donna angelicata portatrice di salvezza, sorta di Beatrice moderna. Dall’altra parte vi è anche la figura carnale di Volpe, espressione di un amore sensuale e concreto, lontano da quello ideale rappresentato da Clizia.
Comincia poi un lungo periodo di silenzio poetico interrotto solo nel 1964 con la morte della moglie Drusilla, a cui dedica una bellissima poesia, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale. Nominato senatore a vita nel 1967, Montale ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1975, succedendo così a Pirandello, che lo aveva ricevuto nel 1934 e Salvatore Quasimodo, nel 1959.
Si spense a Milano nel 1981 presso la clinica San Pio X dove era ricoverato. I funerali di Stato furono celebrati due giorni dopo in Duomo, venendo poi sepolto a Firenze vicino alla moglie.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Ossi di seppia
Il titolo della prima raccolta di Montale è ripreso da un’immagine presente nell’Alcyone di d’Annunzio e può assumere un duplice significato. Il primo è quello della leggerezza dell’osso di seppia che galleggia sulla superficie del mare abbandonandosi al flusso delle correnti; il secondo è quello della morte e dell’abbandono, da cui si ricava la metafora di una soggettività alla deriva. Le simbologie marine, presenti in quasi tutti i testi, costituiscono il motivo unificante dell’opera.
Il paesaggio è dunque fondamentale nei versi di Montale, un paesaggio i cui tratti distintivi sono le coste brulle e scoscese, una vegetazione scarsa e arsa dal sole, orti e prati polverosi. La simbologia del paesaggio è molto importante in quanto esprime i temi principali del poeta, cioè la difficoltà dell’esistere e il male di vivere. Per esempio l’immagine ricorrente del muro, alto e invalicabile, come nella poesia Meriggiare pallido e assorto, che in cima ha cocci di bottiglia appuntiti, è l’emblema della finitezza dell’uomo, del suo destino segnato dalla sofferenza e dall’impossibilità di andare oltre. Si parla in questo caso di correlativo oggettivo, cioè l’associazione di una precisa emozione ad un singolo oggetto, un’esperienza concreta che evoca subito una sensazione dell’animo.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Il componimento è tra i più antichi del libro, in quanto l’autore lo ha datato 1916, anche se lo ha corretto e modificato nel 1922. Come spesso accade nella raccolta ad una prima parte descrittiva segue la seconda, conclusiva, di tipo filosofico ed esistenziale. Il paesaggio è quello ligure estivo, brullo e assolato, che presenta oggetti e animali semplici come muri, orti, cicale e formiche. Vi sono molti riferimenti a grandi poeti e ad alcuni topoi letterari. Il verbo “Meriggiare” si ritrova in d’Annunzio e assume il significato di “trascorrere il mezzogiorno”; le rime “sterpi : serpi” e “formiche : biche” sono presenti nella cantica dell’Inferno di Dante; la lingua poetica rimanda a quella di Pascoli e dei crepuscolari; infine il muro vede come illustre precedente la siepe leopardiana de L’infinito. Se però in Leopardi la siepe è un elemento positivo perché, ostruendo lo sguardo, attiva la facoltà di immaginazione, qui è una dura realtà che fa riflettere il poeta sulla propria condizione.
Nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato viene affrontato il tema del male di vivere, in un modo simile a Non chiederci la parola, il primo testo della raccolta, in quanto anche qui il poeta non può fare altro che riportare i fatti che avvengono nella propria vita, con un linguaggio scarno ed essenziale, senza offrire nessuna soluzione esistenziale definitiva. Il sentimento del male di vivere è rappresentato da tre immagini: il “rivo strozzato”, cioè il ruscello impedito nel suo scorrere; la “foglia riarsa”, secca e accartocciata; il “cavallo stramazzato”, crollato a terra per la fatica. Ad esse ne vengono contrapposte altrettante nella seconda quartina: la “statua”, la “nuvola” e il “falco”. Quest’ultime tre, al contrario delle precedenti legate alla terra, raffigurano una dimensione verticale e una tensione verso l’alto in quello che nella poesia è una climax ascendente.
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Le occasioni
Il secondo libro di Montale è stato composto durante il clima politico del fascismo, divenuto regime. Per quegli scrittori non allineati alle scelte di Mussolini non restava che ritirarsi in una “cittadella delle lettere”, per questo l’opera nacque a Firenze, un tempo culla del Rinascimento e ora vivace centro intellettuale che guardava alla tradizione e ai valori umanistici, sede di riviste come Solaria e Letteratura.
Il rifiuto e la presa di distanza dal regime si manifestano sul piano dello stile, più selezionato rispetto alla prima raccolta, e della metrica, più raffinata e priva di sperimentalismo, capace di valorizzare metri più tradizionali come l’endecasillabo. Le occasioni sono eventi particolarmente importanti, rivelazioni che possono cambiare il corso monotono dell’esistenza.
L’opera è dedicata a “I.B.”, sigla con cui indica la giovane studentessa Irma Brandeis con cui fu legato da una relazione amorosa soprattutto epistolare. Molti componimenti, tra i quali Lo sai: debbo riperderti e non posso, si alternano tra l’assenza e la presenza dell’amata, che in questo libro non viene ancora nominata, mentre nella Bufera sarà cantata col nome di Clizia.
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’Inferno è certo.
In alcune lettere ad Irma, Montale dichiara che il componimento è ispirato alla partenza della donna dal porto di Genova per fare ritorno negli Stati Uniti. L’ambientazione è infatti quella portuale, in particolare dei grandi e ombrosi portici di Sottoripa, vicini al mare, le cui arcate chiuse impediscono che entri la luce della primavera. Montale rappresenta la città come un inferno di voci e rumori, facendo riferimento a Dante: le grida del porto richiamano quelle dei dannati nel Canto III; la “selva” del v.8 è invece la celebre “selva oscura” del canto d’apertura. Questo scenario diviene l’unica realtà possibile se manca colei che, sola, può dare significato alla vita del poeta.
Molto poetico è l’incipit del componimento Non recidere, forbice, quel volto, in cui l’autore si rivolge al tempo supplicandolo di non cancellare dalla sua memoria anche il ricordo più importante, quello del viso dell’amata. La forbice è in questo caso il correlativo oggettivo del tempo inesorabile. Nella seconda quartina questa perdita si consuma; la dolorosa esperienza viene descritta con un’immagine realistica, cioè il colpo deciso di potatura che recide un ramo di acacia da cui cade, il guscio vuoto di una cicala. In questi versi è importante l’arrivo improvviso del freddo, il quale spazza via la bella stagione, anch’essa caduta nel primo fango d’autunno, nella “belletta”, termine dantesco e dannunziano.
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Il tema della memoria e del ricordo, già caro al Leopardi, è espresso dal componimento, datato 1930, La casa dei doganieri. La poesia è costituita da quattro strofe con alternanza di cinque e sei versi che hanno in prevalenza endecasillabi. Il poeta e l’amata hanno vissuto un momento di vita vera e autentica presso la casa dei doganieri, ma i loro destini sono ora separati: il poeta vive ancora, mentre la donna è perduta e forse morta. Lui è però rimasto legato al ricordo di quel momento e del luogo dell’incontro; lei lo ha invece dimenticato.
Oltre al ricordo, anche il tema della giovane morta prematuramente è ripreso da Leopardi, nella celebre A Silvia. Nonostante siano simili, i due testi presentano però delle differenze. La lirica leopardiana espone nell’incipit una domanda che introduce una comunione di affetti con l’interlocutrice, “Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale?”, mentre per Montale la comunicazione è negata sin da subito, “Tu non ricordi la casa dei doganieri”. Non vi è quindi alcuna speranza nell’animo di Montale, sebbene non ci dica con certezza che la donna è morta, forse è assente perché perduta, mentre Silvia è una povera ragazza stroncata dalla morte che Leopardi ricorda con toni d’affetto.
Montale rievoca dunque un incontro con l’amata mentre si trova da solo una sera nello stesso luogo che ne era stato lo scenario anni prima, cioè la vecchia stazione dei finanzieri a picco sul mare nei pressi di Monterosso. È quindi probabilmente un ricordo della sua giovinezza e la figura femminile quella di Anna degli Uberti, Arletta. La rievocazione di quel momento non è in grado però di conservarne viva la memoria. L’idea di memoria è debole e incerta nella poetica di Montale. La poesia non può rendere eterno l’istante, l’attimo privilegiato, ma solo esprimerne la precarietà, come nel componimento precedente.
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura.
e il calcolo dei dadi più non torna
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende …)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
La bufera e altro
Il titolo della raccolta, inizialmente La bufera, uscita nel 1956, venne parzialmente cambiato l’anno successivo da Mondadori in La bufera e altro. Esso allude allo sconvolgimento causato dalla guerra. Gli anni di composizione dell’opera vanno dal 1940 al 1954 e corrispondono ai momenti più drammatici vissuti dall’autore, sia sul piano pubblico che su quello privato. Oltre alla guerra si parla infatti nelle poesie anche dei lutti della madre, della lontananza di Clizia e della malattia di Mosca. A seguito della guerra vi sono poi gli anni della delusione politica: Montale manifesta una totale sfiducia nella storia e dichiara l’impossibilità per lui di portare avanti qualsiasi impegno politico. Per questi motivi la simbologia degli oggetti, tipica dei suoi versi, diviene oscura e indecifrabile.
Questa terza raccolta è il libro più vario e complesso dello scrittore, costituito da sette sezioni, che presenta un andamento romanzesco, Romanzo era stato infatti uno dei titoli alternativi.
La poesia A mia madre è una sorta di preghiera laica composta alla fine del 1942 in occasione della morte della madre e pubblicata nel 1943 prima di entrare a far parte del libro. Nel Novecento il tema della preghiera alla figura materna rappresenta un vero e proprio topos letterario che aveva i suoi precedenti in Umberto Saba e nel capolavoro di Giuseppe Ungaretti Alla madre. Si ritroverà in seguito anche in Pier Paolo Pasolini e Giorgio Caproni. In Montale, grazie al ricordo di chi se ne va da parte di chi resta, alla memoria dei gesti, la madre rimarrà sempre tra i vivi.
Ora che il coro delle coturnici
ti blandisce nel sonno eterno, rotta
felice schiera in fuga verso i clivi
vendemmiati del Mesco, or che la lotta
dei viventi più infuria, se tu cedi
come un’ombra la spoglia
(e non è un’ombra,
o gentile, non è ciò che tu credi)
chi ti proteggerà? La strada sgombra
non è una via, solo due mani, un volto,
quelle mani, quel volto, il gesto d’una
vita che non è un’altra ma se stessa,
solo questo ti pone nell’eliso
folto d’anime e voci in cui tu vivi;
e la domanda che tu lasci è anch’essa
un gesto tuo, all’ombra delle croci.
Fonte – ilsommopoeta.it
marco.catania@ilsommopoeta.it
Biografia di Eugenio Montale, Poeta italiano (Genova 1896 – Milano 1981). Tra i massimi poeti italiani del Novecento, già dalla prima raccolta (Ossi di seppia, 1925; ed. defin. 1931) fissò i termini di una poetica del negativo in cui il “male di vivere” si esprime attraverso la corrosione dell’Io lirico tradizionale e del suo linguaggio. Questa poetica viene approfondita nelle Occasioni (1939), dove alla riflessione sul male di vivere subentra una ‘poetica dell’oggetto’: il poeta concentra la sua attenzione su oggetti e immagini nitide e ben definite che spesso provengono dal ricordo, tanto da presentarsi come rivelazioni momentanee destinate a svanire. M. ricercò una densità e un’evidenza simbolica del linguaggio, portando a perfezione lo stile alto novecentesco, dove i termini rari o preziosi si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza.
Vita e opere
Dopo aver seguito studi tecnici, si dedicò per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi (1917-19), prese parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ebbe rapporti anche con l’ambiente torinese, collaborando al Baretti di P. Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove frequentò il caffè delle Giubbe Rosse e fu vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 fu direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, incarico da cui fu rimosso nel 1938 perché non iscritto al Partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di B. Croce). Svolse allora un’intensa attività di traduttore, soprattutto dall’inglese (da ricordare il suo contributo all’antologia Americana di E. Vittorini, 1942). Iscritto per breve tempo al Partito d’azione, collaborò con Bonsanti alla fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si trasferì a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria (e di quella musicale sul Corriere d’informazione). Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975).
Con la sua prima raccolta di poesie (la già citata Ossi di seppia, pubblicata a Torino da Gobetti,) M. fissò i termini, che sarebbero divenuti popolari, di una filosofia scettica e pessimista in cui il “male di vivere” discende infallibilmente dalla inaccessibilità di ogni trascendenza. Nelle due raccolte successive che probabilmente costituiscono il risultato più alto della poesia di M. (Le occasioni, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932; La bufera e altro, 1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), a un approfondirsi della crisi personale, cui non furono estranei i drammatici avvenimenti dell’epoca, corrispondeva la ricerca di una densità simbolica e di un’evidenza nuove del linguaggio, con la rinuncia a quanto di impressionistico e ingenuamente comunicativo sopravviveva negli Ossi (nei loro modi di ascendenza pascoliana-crepuscolare, e vociana-ligure secondo la linea Sbarbaro-Roccatagliata Ceccardi) e con il coraggioso riconoscimento della inevitabile parzialità della rappresentazione e della inaccessibile privatezza dei referenti.
Prendeva forma così quella peculiare interpretazione montaliana della lezione simbolista (per la quale si è parlato di “correlativo oggettivo” e il suo nome è stato accostato a quello di Th. S. Eliot), che è altresì all’origine dello stile illustre novecentesco proprio da M. portato a perfezione: una sorta di classicismo virtuale, in cui il poeta riesce a fornire un equivalente (e non un’imitazione) delle forme chiuse e della precisa definizione dell’enunciato, proprie della tradizione, e a far convivere l’aulico e il prosaico in un processo di scambio delle rispettive funzioni, dove i termini rari o preziosi naturalmente si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza così come le parole del linguaggio quotidiano e “parlato” si caricano di un più inquieto rapporto con le semplici cose da esse designate. L’ultimo tempo della poesia montaliana, inaspettatamente fecondo e cordiale, prende l’avvio da Satura (1971), in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia (1966), scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi, e prosegue, come un’ininterrotta rivelazione, attraverso Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1981), una raccolta quest’ultima già anticipata nell’ed. critica complessiva, L’opera in versi (a cura di M. Bettarini e G. Contini, 1980), che comprende anche il Quaderno di traduzioni (1948; ed. accr. 1975), con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc., e offre una sezione di Poesie disperse edite e inedite.
Ma proprio la finale correzione di tiro compiuta da M., con l’esplicitezza dei riferimenti alla società contemporanea, la passione militante delle prese di posizione e l’ammirevole stile colloquiale degli ultimi libri, autorizza una lettura unitaria di tutto il suo percorso, evidenziandone, sia pure in una sorta di esagerazione didattica, l’aspirazione di fondo a far uscire la poesia fuori di sé, nella direzione di una ritrovata pertinenza e concretezza. Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono gli altri libri di M.: dai “bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe” riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969) alle prose di viaggio di Fuori di casa (1969), dalle prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972) a quelle riunite in Sulla poesia (1976). Accanto al critico letterario, cui si deve fra l’altro il “lancio” italiano di Svevo (sulla rivista L’esame, 1925), va ricordato il critico musicale di Prime alla Scala (1981). Postumi sono apparsi un volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983), risalenti al 1917, il Diario postumo, prima parte: 30 poesie (1991), a cura di A. Cima. Dell’epistolario si hanno edd. parziali, tra cui quella del carteggio con Svevo (1976); dei Mottetti, che costituiscono la 2ª parte delle Occasioni, D. Isella ha curato un’ed. separata con commento (1980); una Concordanza di tutte le poesie di E. M. è stata pubblicata da G. Savoca (2 voll., 1987).
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