Antonio Gramsci, il diritto e la politica -Biblioteca DEA SABINA
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Antonio Gramsci, il diritto e la politica
Al contrario di quanto fa oggi certa sinistra, Antonio Gramsci riconduce il diritto alla politica, “all’arte di governare gli uomini, di procurarsene il consenso permanente” [1], polemizzando con ogni concezione positiva o trascendente del diritto, il cui storicismo è apparente in quanto assolutizza la tradizione in nome della naturalità della norma giuridica [2]. Quest’ultima a parere di Gramsci è prodotto del conflitto fra gruppi sociali che trasforma la realtà e la norma che la sancisce. Al punto che in caso di contrasto fra diritti, ad esempio fra diritto di coalizione e libera contrattazione individuale della forza lavoro, è sempre la forza a decidere. In tal caso, sono i proprietari a sostenere i diritti individuali di scambio, di contro ai lavoratori che necessitano del diritto di coalizione poiché individualmente i rapporti di forza sono a loro sfavore, sebbene esso possa apparire un residuo del corporativismo medievale [3]. In mancanza di un’adeguata organizzazione dei lavoratori sui luoghi di produzione una volta venduta liberamente la forza-lavoro il suo utilizzo è tutt’ora alla mercé dell’acquirente, con buona pace della Dichiarazione dei diritti dell’uomo [4].
Tuttavia, pur condividendo la critica marxiana alla “naturalizzazione” del diritto quale strumento della borghesia per dare veste universale alla propria struttura sociale, Gramsci è più disponibile a riconoscere il portato progressivo dei diritti dell’uomo e del cittadino [5] e la loro capacità di trasformare i costumi sociali esistenti. La funzione progressiva del loro universalismo si manifesta in particolare di fronte all’emergere sempre più aperto del particolarismo del sistema capitalistico. Nella loro coscienza le masse preservano la reminiscenza delle conquiste rivoluzionarie e dell’universalismo che fu alla base del loro sostegno all’instaurazione dell’ordine sociale borghese. Per tale ragione ancor oggi non vi è corrente ideologica che possa esimersi dal richiamarsi all’ideale della libertà e della sua realizzazione quale diritto imprescrittibile dell’uomo [6]. Allo stesso modo Gramsci mostra come la concezione religiosa dell’eguaglianza sostanziale degli uomini, affratellati fra loro ed egualmente figli di Dio, abbia segnato il superamento del mondo antico fondato sulla schiavitù [7]; mentre il suo sviluppo filosofico – l’eguale capacità di porsi sul piano universale della ragione – ha caratterizzato il passaggio dal mondo feudale al moderno [8]. Più in generale, ogni sommovimento dei ceti dominati prende spunto proprio dalla constatazione della scissione fra l’ideale che pone gli uomini come portatori di identici diritti “naturali” e la differenza reale presente nel mondo storico.
Note:
[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume I, p. 127. D’ora in avanti citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e – dopo i due punti – il numero di pagina di questa edizione.
[2] A dimostrazione dell’uso quantomeno disinvolto della storia da parte di detta scuola, Gramsci mostra come la giurisprudenza romana, cui essa si richiama, sia “un prodotto schiettamente feudale nel senso primitivo di prima del Mille” (5, 123: 643). Gli studi giuridici che si richiamano al diritto romano sorgono dal bisogno concreto “di dare assetto legale ai nuovi e complessi rapporti politici e sociali”. Per tale motivo il richiamo al modello romano dà una veste pseudo-universale allo sviluppo della più minuziosa casistica da cui sono sorte le giurisprudenze locali volte a sancire l’esistente, ovvero la ragione del più forte: “i principi del diritto romano vengono dimenticati o posposti alla glossa interpretativa che a sua volta è stata interpretata, con un prodotto ultimo in cui di romano non c’è nulla, altro che il principio puro e semplice di proprietà” ibidem.
[3] Si pensi alla presunta equidistanza del governo fascista che pretendeva di porre sullo stesso piano i diritti degli uni e degli altri vietando al contempo il diritto di sciopero e quello di serrata. Non potendo ricorrere a tale decisivo strumento di lotta (lo sciopero), la forza lavoro vide progressivamente calare il proprio prezzo nella libera contrattazione, fondata sul rispetto della libertà ed eguaglianza giuridica dei contraenti.
[4] Lo stesso diritto naturale su cui si basano i diritti umani è criticato da Gramsci in quanto in continuità con la concezione giuridica dell’Ancien régime fondata su presupposti metafisici: “concettualmente non i principii della Rivoluzione francese superano la religione, poiché appartengono alla sua stessa sfera mentale, ma i principii che sono superiori storicamente (in quanto esprimono esigenze nuove e superiori) (..), cioè quelli che si fondano sulla realtà effettuale della forza e della lotta” (27, 2: 2315). Del resto il diritto naturale è stato strumentalizzato dalle forze reazionarie – da Burke a Taine – che avevano condannato come artificiali le istituzioni della Rivoluzione francese per aver negato il “naturale” corso del mondo. Le accuse di ideologico e convenzionale rivolte contro le istituzioni rivoluzionarie, astrattamente contrapposte ad una presunta naturalità del diritto costituito, erano funzionali a contrastare ogni tentativo di mettere radicalmente in discussione l’esistente. A parere di Gramsci a essere meramente convenzionale è proprio il mondo storico negato dal progresso reale del genere umano cui si appellano i reazionari: “in verità i peggiori «scientifisti» sono i reazionari che si proiettano una «evoluzione» di proprio comodo e ammettono l’importanza e l’efficacia dell’intervento della volontà umana fortemente organizzata e concentrata, solo quando è reazionaria, quando tende a restaurare ciò che è stato” (2, 91: 249).
[5] “Il principio della volontà formale, della libertà astratta, secondo cui «la semplice unità dell’autocoscienza, l’Io, è la libertà assolutamente indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali» [Hegel, Lezioni di filosofia della storia]” (11, 49: 1471) su cui si basano i diritti umani è fondato concettualmente dall’idealismo tedesco e realizzato praticamente dalla Rivoluzione francese. L’uno e l’altra sono considerati da Gramsci componenti fondamentali della filosofia della prassi. Quest’ultima è da lui pensata quale mediazione e superamento dialettico della cultura popolare (la Riforma) e della cultura alta (Rinascimento), della politica (la Rivoluzione francese) e della filosofia (l’idealismo tedesco), della riforma morale (il calvinismo), intellettuale (lo storicismo) e strutturale (l’economia classica inglese).
[6] A parere di Gramsci l’intero corso storico “è libertà in quanto è lotta tra libertà e autorità, tra rivoluzione e conservazione, lotta in cui la libertà e la rivoluzione continuamente prevalgono sull’autorità e la conservazione” (10, 10: 1230), storia che a partire dal secolo XIX ha preso coscienza di sé. Tale consapevolezza della storia come storia della libertà consente di riconoscere i momenti alti e bassi del corso del mondo sulla base dell’unità di misura offerta dalla capacità dell’uomo di dominare natura e caso. Le possibilità storiche segnano il grado di libertà raggiunto dall’umanità entrando nella sua stessa definizione. Tali potenzialità non devono essere solo astrattamente riconosciute, ma fatte proprie e realizzate storicamente mediante i mezzi necessari a rendere concreta l’astratta volontà. L’ampliamento della libertà dell’uomo non è dunque meramente individuale, ma implica l’azione politica, in quanto ha di mira la trasformazione dei rapporti sociali. La natura umana da mera possibilità formale diviene concreta realtà storica solo mediante l’azione e la trasformazione dei rapporti intersoggettivi costituiti.
[7] Il cristianesimo è considerato da Gramsci la più significativa utopia “apparsa nella storia, essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologia le contraddizioni storiche: essa afferma, è vero, che l’uomo ha la stessa «natura», che esiste l’uomo in generale, creato simile a Dio e perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri uomini, e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, «autocoscienza» dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo, ma di un altro (utopia). Ma intanto le idee di uguaglianza, di libertà, di fraternità fermentano in mezzo agli uomini, agli uomini che non sono uguali, né fratelli di altri uomini, né si vedono liberi fra di essi” (4, 45: 472).
[8] La chiesa quale comunità dei fedeli preservò e sviluppò tale principio dell’eguaglianza degli uomini nel Cristo, in latente opposizione alla chiesa quale organizzazione di intellettuali tradizionali, base ideologica e strumento egemonico dei ceti dominanti. Tale opposizione evolve in contraddizione con la Rivoluzione francese, mediante la quale la rivoluzione dal basso della comunità dei fedeli rompe con la sua rielaborazione-neutralizzazione dall’alto operata dal clero (cfr. 1, 128: 116-17). Lo sviluppo della democrazia moderna è, dunque, influenzato del materialismo metafisico che considera gli uomini eguali dal punto di vista delle scienze naturali e dell’idealismo che lo fonda sull’eguale razionalità. “Nell’idealismo si ha l’affermazione che la filosofia è scienza democratica per eccellenza in quanto si riferisce alla facoltà di ragionare comune a tutti gli uomini, cosa per cui si spiega l’odio degli aristocratici per la filosofia e le proibizioni legali contro l’insegnamento e la cultura da parte delle classi del vecchio regime” (10, 35: 1280-281).
Articolo di Renato Caputo-
Fonte-Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma. Direttore responsabile Fabio Sebastiani