ROMA. Antiquarium Comunale del Celio. La storia di un museo invisibile. Biblioteca DEA SABINA-
Biblioteca DEA SABINA-
ROMA. Antiquarium Comunale del Celio. La storia di un museo invisibile.
Articolo di Thomas Villa
Roma-Antiquarium Comunale del Celio- C’è un consenso piuttosto ampio sul fatto che i primi musei aperti al pubblico (nel senso moderno del termine) siano i Musei Capitolini, inaugurati nel 1734 da Clemente XII Corsini. Nonostante la loro straordinaria storia, non tutta la collezione archeologica di competenza comunale di Roma è però fruibile da parte dei visitatori. Ovviamente esporre tutto il patrimonio non avrebbe senso, e le scienze della museologia e della museografia, in quanto scienze prettamente sociali, devono selezionare attentamente il patrimonio in grado di suscitare interesse e curiosità nel pubblico contemporaneo, portandolo ad approfondire quel mondo non più esistente. Per usare il termine di Krzysztof Pomian, uno dei più rilevanti studiosi della storia dei musei della nostra epoca, gli oggetti esposti “rendono visibile l’invisibile”. Eppure la società cambia, e così i gusti e le sensibilità, e pertanto evolve in continuazione anche la museologia. Alcuni oggetti un tempo visti come secondari, appartenenti alla vita comune delle persone più umili, sono oggi utilizzabili dallo storytelling museale in maniera particolarmente efficace.
È questo il caso della collezione un tempo ospitata all’Antiquarium Comunale di Roma, chiuso ormai da ben ottantaquattro anni, da quel lontano 1939 in cui l’edificio del Celio serrò le porte per problemi strutturali dovuti ai lavori di apertura della linea metropolitana che passava nelle vicinanze. Nell’ottica dell’Esposizione Universale Romana del 1942, infatti, la linea metropolitana B avrebbe dovuto collegare la Stazione Termini con il quartiere EUR (tant’è vero che la linea avrebbe dovuto chiamarsi ferrovia dell’E42), passando proprio al di sotto della struttura dell’Antiquarium Comunale. I lavori sottostanti provocarono dei danni così gravi che l’edificio, da allora, non fu più stato riaperto. Ma qual è la storia dell’edificio del Celio?
Dopo la Breccia di Porta Pia e il trasferimento della Capitale da Firenze a Roma, iniziò un periodo di profonde trasformazioni urbanistiche per la Città Eterna. Innumerevoli ville e spazi verdi furono trasformati in zone edificabili, portando così alla scoperta di un enorme patrimonio rimasto addormentato per secoli, pochi metri sotto terra. All’epoca l’unico museo statale di Roma era il Museo Kircheriano, presso il Collegio Romano. In breve fu evidente a tutti che gli angusti spazi a disposizione dell’edificio, che ospitava anche il Liceo Ginnasio Ennio Quirino Visconti e la Biblioteca Nazionale Centrale, non erano più sufficienti a ospitare le straordinarie opere, spesso di grandi dimensioni, che si andavano recuperando in quegli anni. Il luogo prescelto per il nuovo edificio museale fu il colle del Celio, a ridosso del Foro Romano e con una vista straordinaria sul Colosseo e sull’Arco di Costantino. Il progetto vincitore, realizzato nel 1885 dall’architetto Costantino Sneider, rispecchiava l’architettura museale eclettica di sapore beaux-arts di fine Ottocento, e avrebbe visto Roma perfettamente allineata con i nuovi musei che proprio allora stavano nascendo negli Stati Uniti e nelle isole britanniche. L’edificio, che si sarebbe sviluppato su una lunghezza di quasi duecento metri, avrebbe permesso l’allestimento congiunto sia della collezione di antichità di proprietà del Comune di Roma (lasciando intatte le collezioni storiche ai Musei Capitolini) che di quella di pertinenza statale (opere rinvenute, ad esempio, nel lavoro di edificazione dei grandi edifici ministeriali su Via XX settembre). L’edificio avrebbe dovuto ospitare dunque il Museo Urbano e il Museo Latino, articolandosi su un brillante progetto espositivo ideato da Rodolfo Lanciani. Era un’idea ambiziosa, destinata però a naufragare in breve tempo per via dei contrasti tra le istituzioni comunali e quelle statali a proposito della distribuzione proporzionale dei costi e degli spazi espositivi disponibili. A seguito anche del mutato clima politico, nel 1889 venne pertanto preferita l’ipotesi di collocare la collezione statale presso le Terme di Diocleziano, ipotizzando persino una grandiosa facciata dal sapore neoclassico ideata dall’architetto Pietro Rosa sulla Piazza delle Terme (neppure questa portata a compimento).
Da allora l’edificio parzialmente costruito sul Celio restò di proprietà comunale e divenne un Magazzino Archeologico. Nel 1894, su proposta sempre di Lanciani, il Magazzino venne musealizzato e aperto alle visite, sia pure con una struttura ben più piccola rispetto al progetto originale. Nel frattempo, il patrimonio archeologico comunale non faceva altro che aumentare. Giungiamo dunque al 1925, quando venne aperto un nuovo museo sul Campidoglio, presso la Villa Caffarelli, un tempo sede dell’ambasciata prussiana. Scimmiottando evidentemente il Musée Napoleon della Parigi rivoluzionaria, il museo prese il nome di Museo Mussolini, utilizzando la pretestuosa ricorrenza del terzo anniversario della Marcia su Roma. Aperto il museo, occorreva trovare capolavori da esporre. Fu pertanto in questa occasione che la collezione di statue del Magazzino Archeologico del Celio venne privato delle sue opere, portate al nuovo museo sul Campidoglio e presso l’adiacente giardino.
Il nuovo allestimento dell’edificio del Celio dovette attendere il 1929, quando venne riaperto ritrovando una sua fisiologia precisa, concentrando il discorso museografico sulle arti decorative e quelle che allora venivano considerate come “arti minori”, ivi trasportate da Palazzo dei Conservatori. “Il criterio che ha guidato l’ordinamento delle raccolte è stato prevalentemente estetico: le opere d’arte sono riunite secondo la materia in cui sono eseguite: una sala raccoglie i vetri, un’altra i bronzi, una terza gli avorii e gli ossi, due le terrecotte”, scriveva Antonio Muñoz, responsabile del nuovo allestimento. L’edificio venne poi chiuso, come abbiamo visto, nel corso dei lavori per la realizzazione della linea B della metropolitana. Già nel 1943 l’edificio risulta parzialmente abbattuto e ridotto a uno stato di rovina.
Il Museo Mussolini, in seguito al termine della Seconda Guerra Mondiale e all’avvento della democrazia e della Repubblica in Italia, venne ribattezzato Museo Nuovo e riaprì in occasione del Giubileo del 1950. Anch’esso però mostrava dei problemi strutturali considerevoli, tant’è vero che fu chiuso alla fine degli Anni Cinquanta ed è ancora oggi in attesa di un suo completo recupero. Tra gli ambienti quello più iconico era la Sala VIII, che accoglieva la maggioranza delle opere. L’ambiente in questione ospitava la Cappella della comunità evangelica all’epoca in cui Palazzo Caffarelli era la sede dell’ambasciata prussiana. Come ricordano Claudio Parisi Presicce e Alberto Danti, “l’allestimento di questa sala era costituito da sculture romane, copie o rielaborazioni di originali di arte greca di V secolo a.C., che facevano da coronamento al saggio di scavo praticato al centro da Antonio Maria Colini, dove erano emersi alcuni blocchi di cappellaccio pertinenti alle fondazioni del Tempio di Giove Capitolino”. Dopo una chiusura di sei decenni, questi stessi ambienti al piano terra di Villa Caffarelli furono scelti per ospitare l’epocale mostra I Marmi Torlonia. Collezionare capolavori, che ebbe luogo tra il 2020 e l’inizio del 2022.
La situazione dell’Antiquarium Comunale del Celio, irrisolta ormai da oltre ottant’anni, è legata a doppio filo con la vicenda degli ambienti del Museo Nuovo a Villa Caffarelli: sarebbe relativamente poco costoso riqualificare entrambe le sedi ed esporre in maniera consona una selezione rappresentativa dell’enorme patrimonio dell’Antiquarium Comunale, attraverso esposizioni a rotazione oppure tematiche. In fin dei conti, per il Museo Nuovo in Campidoglio, non si tratterebbe che di un parziale ritorno a casa, e consentirebbe di aumentare il numero degli oggetti esposti.
Oggi il pubblico dei musei, come è noto, non è più attratto solamente dai grandi capolavori, ma è anche alla ricerca di una storia, di un racconto che passi attraverso gli oggetti, i quali possono essere la testimonianza della vitalità di un popolo a noi ancora sorprendentemente affine. La cosiddetta Nouvelle Museologie degli Anni Sessanta ha infatti stabilito linee guida sull’allestimento e sulla presentazione delle opere forse meno monumentali ma ugualmente evocative di un’epoca passata o di una cultura apparentemente remota.
Numerosi furono nel corso dei decenni i richiami al diritto alla fruizione dello straordinario patrimonio inaccessibile dell’Antiquarium Comunale. Un grande paladino fu l’instancabile Federico Zeri. Ecco come si esprimeva nel leggendario evento organizzato da Italia Nostra presso il ridotto del Teatro Eliseo il 18 maggio 1967: “Si potrebbe spostare da Palazzo Caffarelli sul Campidoglio quegli uffici che nulla hanno a che fare con la grande tradizione di studi germanici che in quel palazzo trovarono sede quando il centro di Roma aveva ancora una sua vita culturale, ed immettervi i materiali del vecchio Antiquarium. Un altro edificio che potrebbe essere utilizzato per ospitare questo museo è quello situato ai piedi del Campidoglio (angolo via della Consolazione e via del Foro Romano). Ora vi risiede un corpo di vigili (nel 1967, N.d.R.). Un assurdo che ricorda quello del Corpo dei Vigili sul Celio. Con la differenza che quelli guardano sul Palatino e questi sul Tempio di Saturno e la Basilica Giulia nel Foro Romano. I locali dell’antico Ospedale della Consolazione (dove curò gli appestati e morì San Luigi Gonzaga) ben si adatterebbero a museo”.
Lo stesso Zeri torna più volte sull’argomento, che divenne per lo studioso un vero e proprio cavallo di battaglia. In un programma del 1996 della serie Rai L’arte negata, Zeri dedica uno speciale all’Antiquarium del Celio dall’eloquente titolo L’arte in scatola. Le immagini del programma, che ritraevano in maniera impietosa le centinaia di casse in legno che contenevano i tesori dell’Antiquarium, fecero parecchio scalpore. “Quattrocentosessanta casse di legno nelle quali è imballato un museo che c’era una volta e non c’è più da oltre mezzo secolo: l’Antiquarium Comunale di Roma”, affermava la voce fuori campo, mostrando un ambiente stipato all’inverosimile all’interno del Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale. Secondo il servizio il record sarebbe stato raggiunto nel 1986, in occasione della ristrutturazione del Palazzo delle Esposizioni, quando si giunse a contare addirittura 781 casse di proprietà dell’Antiquarium Comunale.
E oggi, a distanza di 27 anni? Le ultime stime riferiscono di un migliaio di casse che contengono circa ottantamila pezzi. Si tratta di una collezione che, come rilevava giustamente Zeri, “va dalle origini della Roma preistorica fino alla fine della città antica, quindi V-VI secolo”. Molti oggetti provenivano dall’abbattimento della Velia, una collina su cui erano presenti ville romane di grande pregio. Durante l’apertura di Via dei Fori Imperiali la modesta altura venne completamente spianata. La conclusione del servizio Rai del 1996 risulta dolorosamente attuale. “Resta invisibile una collezione pubblica di estrema importanza storica oltreché di grande suggestione”, affermava Zeri. “La speranza non è ancora spenta. Quello che temo si stiano spegnendo siano molti dei reperti. […]. A parte quelli che sono stati rubati nel giardino dell’Antiquarium […] tutto il resto, quando potremo rivederlo?”. Una domanda che solo oggi sta iniziando ad avere una qualche timida risposta attraverso una programmazione di esposizioni temporanee.
Va detto che nel corso degli Anni Sessanta si succedettero numerosi progetti per realizzare un edificio di grande dimensione su Via San Gregorio al Celio, come quello di Giulio Pediconi e Mario Paniconi del 1959-62. Un altro tentativo infruttuoso fu quello del 1997 di Ugo Colombari e Giuseppe de Boni. Eppure la priorità fu data sempre ad altri progetti, ignorando con colpevole sufficienza il sempre maggior interesse che le cosiddette “arti minori” iniziavano a suscitare all’interno di una società in fase di rapida modernizzazione. Le testimonianze quotidiane sono invece oggi un supporto fondamentale per i musei archeologici e per la divulgazione delle dinamiche sociali. Una narrazione di questo tipo è apprezzata in particolar modo da parte dei visitatori stranieri, abituati al fascino moderno della Nouvelle Museologie che rifugge dall’ampollosità dei vecchi musei basati esclusivamente su uno storytelling incentrato sulle élite, sull’opulenza dell’aristocrazia e sulla monumentalità privata, religiosa o pubblica.
Sono notizie recenti (risalgono all’aprile 2022) quelle relative all’inserimento del progetto del restauro dell’Antiquarium del Celio all’interno del programma di interventi finanziati dal PNRR. “Con i fondi del PNRR dovremmo innanzitutto recuperare l’edificio dell’ex Antiquarium al Celio per esporre molti dei materiali che vi erano custoditi, legati alla storia di Roma, e poi c’è sempre il progetto di realizzare il Museo della Città che manca alla Capitale. Ci sono infatti molti musei di scultura antica ma non uno che racconti la vita, il gusto e il contesto sociale dell’antica Roma”, affermava all’ANSA l’anno scorso Claudio Parisi Presicce. Nel frattempo, una serie di mostre allestite negli spazi espositivi temporanei al terzo piano di Palazzo Caffarelli ripercorre cronologicamente all’interno del ciclo di esposizioni Il racconto dell’Archeologia la ricchezza archeologica dell’Antiquarium. È questo il caso della mostra La Roma dei Re del 2018 e La Roma della Repubblica del 2023, che si concluderà il 24 settembre prossimo. Anche la mostra aperta fino al 24 maggio prossimo presso i Mercati di Traiano, dal titolo 1932, L’Elefante e il Colle Perduto, è un tentativo di portare alla luce grazie alle esposizioni temporanee parte dello sterminato patrimonio archeologico dell’Antiquarium Comunale. Continua infatti Parisi Presicce, co-curatore della mostra: “La mostra è nata attorno all’esposizione dei resti fossili dell’elephas antiquus, ma l’obiettivo è ricomporre il contesto paesaggistico e archeologico recuperando per quanto è possibile tutta la stratificazione legata all’asportazione della collina della Velia realizzata negli anni Trenta. Centinaia di manufatti sono stati recuperati tra i materiali depositati all’ex Antiquarium, un patrimonio complessivo di decine di migliaia di oggetti, resi invisibili dal 1939, quando dopo il dissesto statico dell’edificio per i lavori della metro B vennero stipati in 1000 casse e migrarono in vari depositi. Dal 2007 abbiamo riaperto le casse e iniziato a catalogare i reperti”.
Non resta dunque che tenere ben alta l’attenzione e augurarci di poter tornare ad apprezzare la collezione dell’Antiquarium Comunale del Celio, magari con un allestimento condiviso anche con i recuperati spazi inferiori di Palazzo Caffarelli, nell’ottica di un rinato Museo Nuovo.
Autore: Thomas Villa-Fonte: www.artribune.com,