David Maria Turoldo- Poesie di un prete ” Resistente” – Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
David Maria Turoldo- Poesie di un prete “ Resistente”
Biografia di David Maria Turoldo nasce il 22 novembre del 1916 a Coderno, in Friuli, nono di dieci fratelli. Nato come Giuseppe Turoldo, a tredici anni entra nel convento di Santa Maria al Cengio per far parte dei Servi di Maria, a Isola Vicentina, là dove si trova la sede del Triveneto della Casa di Formazione dell’Ordine Servita. È qui che trascorre l’anno di noviziato; dopo avere assunto il nome di fra’ David Maria, emette la professione religiosa il 2 agosto del 1935. Nell’ottobre del 1938 pronuncia i voti solenni a Vicenza.
Gli studi accademici
Intrapresi gli studi di teologia e di filosofia a Venezia, nell’estate del 1940 Turoldo viene ordinato presbitero nel santuario della Madonna di Monte Berico dall’arcivescovo di Vicenza ,monsignor Ferdinando Rodolfi. Nello stesso anno viene inviato a Milano, al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso.
Per circa un decennio si occupa di tenere la predicazione della domenica in Duomo, su invito dell’arcivescovo Ildefonso Schuster, mentre insieme con il suo confratello Camillo de Piaz, compagno di studi nell’Ordine dei Servi, si iscrive all’Università Cattolica di Milano. Qui David Maria Turoldo si laurea l’11 novembre del 1946 in filosofia con una tesi intitolata “La fatica della ragione – Contributo per un’ontologia dell’uomo”, con il professor Gustavo Bontadini. Quest’ultimo successivamente gli propone di diventare suo assistente presso la cattedra di Filosofia Teoretica. Anche Carlo Bo gli offre un ruolo come assistente, ma per l’Università di Urbino, cattedra di Letteratura.
Dopo aver collaborato in modo attivo con la resistenza antifascista in occasione dell’occupazione nazista di Milano, David Maria Turoldo dà vita al centro culturale Corsia dei Servi e sostiene il progetto del villaggio Nomadelfia fondato nell’ex campo di concentramento di Fossoli da don Zeno Saltini.
David Maria Turoldo negli anni ’50
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta pubblica la raccolta di liriche “Io non ho mani”, con cui si aggiudica il Premio letterario Saint Vincent, e l’opera “Gli occhi miei lo vedranno”, proposta nella collana Lo Specchio di Mondadori.
Nel 1953 Turoldo è costretto a lasciare Milano, e si trasferisce prima in Austria e poi in Baviera, dove soggiorna presso i conventi dei Servi locali. Nel 1955 viene trasferito a Firenze, al convento della Santissima Annunziata, dove ha modo di conoscere il sindaco Giorgio La Pira e padre Ernesto Balducci.
Obbligato ad andare via anche dal capoluogo toscano, dopo un periodo di peregrinazioni lontano dall’Italia torna in patria e viene assegnato a Udine, al convento di Santa Maria delle Grazie. Nel frattempo si dedica alla realizzazione di un film, con la regia di Vito Pandolfi, intitolato “Gli ultimi” e tratto dal suo racconto Io non ero fanciullo. La pellicola, che rappresenta la povertà della vita rurale in Friuli, viene presentata nel 1963 ma non apprezzata dal pubblico locale, che la considera poco rispettosa.
Gli ultimi anni
In seguito Turoldo individua nell’antico Priorato cluniacense di Sant’Egidio in Fontanella un luogo in cui dare vita a un’esperienza religiosa comunitaria nuova, che coinvolga anche i laici: vi si insedia il 1° novembre del 1964, dopo aver ricevuto il consenso di Clemente Gaddi, il vescovo bergamasco.
Qui fa costruire una casa per l’ospitalità, che prende il nome di Casa di Emmaus in riferimento all’episodio biblico della cena di Emmaus, con Gesù che si manifesta ai discepoli dopo essere risorto.
Alla fine degli anni Ottanta David Maria Turoldo si ammala per un tumore al pancreas: muore all’età di 75 anni il 6 febbraio del 1992 a Milano, nella clinica San Pio X. I funerali vengono celebrati dal cardinale Carlo Maria Martini, che pochi mesi prima aveva assegnato a Turoldo il Premio Giuseppe Lazzati.
“Il caso Turoldo” di Davide Toffoli, (Ladolfi, 2021)
A cura di Gisella Blanco
Due occhi che puntavano come spade, così come fa la dolcezza più tagliente. David Maria Turoldo, il poeta prete “rosso”, è stato l’autore su cui è ricaduta la scelta del titolo della tesi di Davide Toffoli, laureando in Lettere a Roma con Biancamaria Frabotta. Con questa curiosa narrazione, una “anomala prefazione”, formata attraverso gli scambi su Whatsapp della stessa Frabotta con Toffoli, inizia il saggio “Il caso Turoldo – Liturgia e poesia di un uomo”, pubblicato per Ladolfi Editore nel 2021.
Scegliere ciò che poteva essere “altro da sé” in modo radicale era uno degli intenti di Toffoli che, di certo, al momento della decisione, non avrebbe immaginato la “comunione”, seppur laicissima, che si sarebbe venuta a creare tra lui e questo misterioso poeta del Novecento italiano. Con la vestitura, Turoldo scelse due nomi emblematici con i quali da quel momento in poi si sarebbe fatto chiamare: David, il giovane pastore vittorioso su Golia, e Maria, la madre di tutti da cui apprendere l’arte della parola, il “linguaggio dell’Amore”.
Turoldo era un frate antifascista che, però, vedeva nella vita un valore da tutelare in senso sovrapartitico, era un innovatore che desiderava cambiare l’inaccessibilità linguistica della funzione religiosa, era un frate per cui la fede è “entrare in conflitto”.
La sua poesia era un tutt’uno con la vita, le azioni, la resistenza, le iniziative filantropiche, il cinema, gli articoli di giornale, le omelie: “Nessuno creda che si possa staccare la poesia dalla vita; la poesia non è un esercizio letterario”. E, in effetti, come ha specificato Fernando Bandini, “parlare della poesia di padre David coi puri strumenti della critica letteraria, esaminare i suoi testi come mero discorso poetico separandoli dalla testimonianza della sua vita, non sarebbe un’operazione legittima”. Se interpretare i testi di un autore anche attraverso la sua biografia è atto di per sé insidioso, poiché può condurre a rintracciare nelle parole ciò che in effetti non vi risiede, in linea per altro con il pensiero strutturalista, nel caso di Turoldo non si potrebbe fare altrimenti, essendo la sua poetica legata a doppia mandata alle vicende e alle attività di un vissuto sorprendente ed estremamente ricco di esperienze.
“Il poeta è un crocefisso, è un profeta, un povero e grande uomo, molto raro. Così sarà la poesia a salvare il mondo, o meglio, anche la poesia”, e ancora: “Essere cristiani vuol dire essere uomo che resiste anche in funzione della società”, affermava Turoldo, fermamente convinto di come la fede cristiana, e Dio, potessero non risiedere sempre nei dettami della Chiesa. D’altronde, non gli interessavano la figura istituzionalizzata del prete, i giochi di potere istituzionalizzati, i ruoli stereotipati che non avessero una reale base sociale: Turoldo portava scompiglio, metteva in dubbio le piramidi ecclesiastiche e pungolava le coscienze a tutte le latitudini:
“Finalmente ho disturbato
la quiete di questo convento
altrove devo fuggire
a rompere altre paci”.
Con l’amico, confidente e compagno di avventure Padre De Piaz, tra le varie imprese condivise, c’è la proposta della messa in italiano, affinché il sacerdote non fosse l’unica parte attiva della celebrazione. Pur non essendo un prete moderno, poiché era molto attaccato alla tradizione come necessaria sorgente di novità, le sue idee non avevano timore di andare in contrasto con dogmi, preconcetti e ingiuste disuguaglianze. Come specifica Frabotta, tra le voci poetiche per lui più incisive Toffoli individua un poeta come Giorgio Caproni, la sua patoteologia ultima, la sua ricerca dell’inesistenza di Dio per rintracciarne la radice più profonda – e per questo nascosta – nel dramma della condizione umana.
“Sia in Caproni sia in Turoldo si respira la necessità di perdersi, di smarrirsi, per cercare di trovarsi realmente e la consapevolezza che mai si può approdare a qualcosa di effettivamente definitivo. Anche il paesaggio, del resto, li accomuna: una sorta di non luogo che potrebbe essere ovunque (di sicuro lontano dal caos cittadino) e che mette l’uomo in ascolto e al cospetto di se stesso”, sostiene convintamente Toffoli.
Un esistenzialismo kierkegaardiano che non si limitava all’osservazione del disfacimento del reale ma provava a trovare non solo una chiave di lettura teologale ma anche fattiva, in quell’operosità concreta per la quale il suo insegnamento risulta sincero anche alle analisi più scettiche.
I suoi versi, la cui scrittura proteiforme si mostra incredibilmente coesa a livello formale, nonostante il lasso temporale ampio – gran parte della sua vita – che ha interessato la sua attività letteraria, è ricca di umanissime palinodie e continui, legittimi ripensamenti ideali su Dio, sul concetto di divinità, sull’uomo e sul rapporto tra dio e l’uomo.
Lungo l’asse – articolato e fin troppo eterogeneo, forse, per essere unificato – della poesia religiosa del Novecento, tra Rebora, Betocchi, Guidacci e Testori per fare solo alcuni dei nomi più rilevanti tra cui, di certo, c’è anche Turoldo, ma senza dimenticare lo stesso Caproni, e Ungaretti e Luzi, si possono indagare, nella poesia di Turoldo, grandi ascendenze da quell’ermetismo esistenziale che ha fatto emergere alcuni dei linguaggi più eleganti e più penetranti del Secolo Breve.
Eppure, è all’Infinito di Leopardi che Turoldo si riferisce per individuare nel suo contraddittorio e talvolta lugubre Nulla una specie d’eternità che atterrisce e incanta gli esseri viventi, protési in un continuo spasmo verso la speranza, che talvolta coincide con la bellezza, forma più compassionevole e gioiosa del sublime leopardiano. Ma per Turoldo, “se vuoi vedere Dio, devi guardare in faccia un uomo”.
Un uomo, non l’uomo bensì un singolo individuo qualunque, mostruoso e peccatore che sia. Un messaggio che, in favore di una misericordia profondamente fondata sulla realtà, propone un’immagine di dio che soffre e compartecipa delle fragilità del proprio creato. Tutti concetti che sono compatibili con l’altra linea stilistica che, pur non coincidendo pienamente con la scrittura di Turoldo, ne sanciva alcuni degli aspetti formali e, cioè, un “rarefatto realismo”, come ebbe a commentare Zanzotto.
Anche in base a ciò, non stupisce la grande amicizia con Pasolini, con cui condividevano molti topoi delle loro poetiche, seppur con svariate differenze di postura autoriale. Il tema della madre, per esempio, se per Pasolini era elaborato come dramma di non sentirsi mai del tutto uscito dall’utero materno, per Turoldo era la ricerca di una figura originativa, dalle sembianze marianiche e dal timbro non solo educativo ma anche rassicurante. Il Friuli, terra d’origine di entrambi i poeti, era un paesaggio idilliaco, insieme interiore ed esteriore, da cui ritrovare nuovi approdi luminosi.
Il profetismo engagé, pregnante in ambo le poetiche, era forse semplicemente una riflessione così imperniata nel presente da mettere in luce il probabile futuro di tutti. Il cinema era una passione comune, e la ricerca disperata di Dio non lasciava scampo né a Pasolini né a Turoldo, ciascuno con il proprio modo di intendere la divinità anche in base alla percezione del corpo personale e di quello sociale. Se la parola poetica di Pasolini, secondo lo stesso Zanzotto e Agosti, era “fuori di sé”, distorcente anche per via delle ibridazioni con la cronachistica, quella di Turoldo rimase “in sé”, seppur sempre mutevole ed eterodossa.
Le esperienze di Turoldo, dalla missione nei lager, assieme a Camillo De Piaz, in cui sperimentò di camminare sulla “sabbia dolente” degli intrasportabili, uomini bruciati sul posto e, soprattutto, durante la quale si rese conto non solo dell’ostruzionismo ma della corruzione delle autorità italiane, americane ed ecclesiastiche, fino all’avventura di Nomadelfia come vita comunitaria che non piacque al Vaticano per lo “scandalo della fratellanza”, furono molteplici e attivamente politiche, e, per questo, misero in luce gli aspetti più biechi dell’organizzazione della Chiesa, nonché i suoi rapporti non sempre lineari con lo Stato.
Anche l’incontro con Don Milani, altro prete tutt’altro che canonico, fu di grande rilievo, così come l’opinione di Turoldo sul caso Moro e, in generale, sulla possibilità che la cristianità non fosse monopartitica e non si identificasse in modo cieco e ben poco spirituale con una sola fazione politica. La sinistra cattolica, esperienza breve ma significativa cui Turoldo aderì con convinzione, fu l’emblema di come sia possibile, benché complicato, mantenere la propria integrità valoriale contro il pensiero imposto dai gruppi di potere, finanche quelli religiosi.
Nelle opere inerenti all’ultima parte della sua vita, in cui Turoldo fu colto da una grave malattia, il referente, il tu, è sempre più chiaro e, insieme, più dubitativo: dio o non dio?
È dio, ma è anche il sé annichilito – o esaltato – dai sovrumani silenzi leopardiani in cui l’infinito è sostituito da un nulla che atterrisce sia l’uomo che la divinità. Una “alterità che incombi dentro la parte più profonda di noi”. Il Nulla li inerisce entrambi, uomini e divinità, li spaura e ne fa emergere il valore reciproco. Il Grande Male, onnipresente, è anche il piccolo “mio male” di ogni giorno.
Il timore della inutilità del quotidiano fa da contraltare alla paura della morte, un calice amaro necessario, talvolta salvifico, che avvicina il poeta all’esperienza di Cristo (“un volto cercato da tutte le fedi”, ecco che Turoldo dà una soluzione al rapporto tra i non fedeli e Cristo), pur rimanendo uomo e vivendo il dubbio che ha attraversato tutta l’esistenza turoldiana e ne ha reso l’opera trasversale a credenze e fedi.
Il dubbio, d’altronde, “è gravido”, sprona non solo al dialogo con il dio ma anche e soprattutto al confronto. Un confronto violento, reso con l’audace metafora degli amanti (tema comune con Testori) che non trovano pace, e rintracciano nella tensione al tradimento e al peccato gli estremi gesti di richiesta d’amore:
“O forse il peccato
è un gesto folle per cercarti?
Pace non c’è per gli amanti,
lo sai!”.
E ancora:
“Almeno un poeta ci sia
per ogni monastero:
qualcuno che canti
le follie di Dio”:
Così compare un dio che si strugge per l’infelicità e la malattia dei suoi uomini, insalvabili per il loro stesso agognato libero arbitrio. E il poeta è sempre più vicino alla figura cristica, terrena, carnale, disperata.
Turoldo torna all’idea tormentata della necessità di distruggere la divinità per riacquisirne la prossimità ontologica, in un percorso condiviso con il fratello ateo: ecco che Padre Turoldo, sul letto di morte, ha saputo parlare al proprio dolore, e a quello di tutte le donne e di tutti gli uomini, anche non credenti – compresa chi scrive – ma che condividono con lui, cercatore del Verbo tra le parole del creato, il difficile cammino nella coscienza, fideistica e non, in un moto di compassionevole empatia sovrareligiosa e profondamente spirituale da cui tutti dovremmo imparare.
“Dal dubbio germinano
le mie radici
* * *
Le madri sono oggetti contundenti
la mano armata del dio
che vuole in pugno ogni bambino
e vuole romperlo in due – una metà
da stringere forte, l’altra da lasciare
all’abbandono –, sono le madri
un opaco paradiso una promessa
non mantenuta, sono la voce petulante
e cruda che risuona l’ora prima della morte.
Impara presto, bambina, che la crudeltà
è l’ultima salvezza, ricomponi la frattura,
vomita via ogni nome che non sia il tuo,
cercati due occhi nuovi, uccidi la madre
cattiva e poi rinnega quella buona:
non è mai esistita.
*
Il bianco coniglietto di Alice
si è ammalato, non ha più tempo
non ha più corse, la bambina lo guarda
preoccupata, lo pettina con una spazzola
cento e più volte, lo bagna in un’acqua
di sapone e di lacrime, lo accarezza piano
sulla testa, gli sfiora le zampe che si aprono
come piccoli ventagli quando l’aria calda
del fon gli smuove il mantello, bianco
cotone che sprigiona aroma di fieno,
adesso guarisci, gli dice contro il musetto
ingiallito, mentre pensa che dio non esiste,
altrimenti non potrebbe guardare morire
le anime candide, bambini che perdono i denti
da latte coniglietti affamati, le prede del mondo,
corri e nasconditi, gli sussurra, ma lui è già altrove,
nel paese senza meraviglie la Regina di Cuori
ha tagliato il cordone e la bambina precipita,
diventa sempre più piccola, le si apre un vortice
dentro la pancia, al posto dell’ombelico: ora
conosce il bianco orrore della perdita, o della nascita.
*
Occhi neri a precipizio
sempre paura sempre sola
bambina piccina cuore friabile
sbranato a morsi, cresce pane
nel tuo petto per il pettirosso
del libro delle fiabe, cresci obliqua
per non farti male, ferita dal vento in pieno
volto, volo d’ali spiumate, piccola scintilla
di fuoco brucia la città dei balocchi
il dio dei bambini rotti non ti ascolta:
e tu corri a nasconderti dalla fame,
nel luogo segreto dei bottoni
̶ mettili in fila, inghiottili ̶
prima che ti chiudano la bocca.
Va scomparendo
Va scomparendo perfino
l’intelligenza dei fanciulli,
e gli adulti non hanno più memoria:
anche la lingua va morendo,
né ci sarà la Neolingua a salvarci:
ci saranno solo dei segni
e dei grugniti…
se appena qualcuno mostrerà
di comprendere, si dirà:
“è intelligente”!
E continueremo
ad ingannarci:
illusi di aver capito.
*
David Maria Turoldo
“O sensi miei…”
Poesie 1948-1988
Biblioteca Universale Rizzoli (Milano, 2002)
Note introduttive di Andrea Zanzotto e Luciano Erba
Da: Mia Apocalisse
Tempo verrà
Tempo verrà che non avrete un metro
di spazio per ciascuno:
lo spazio di un metro
che sia per voi. Tutti
vi dovrete rannicchiare:
nemmeno coricati!
Se pure non sarete
accatastati uno sull’altro.
Allora uno resterà soffocato
dal ribrezzo dell’altro.
Non avrà spazio
neppure il pensiero
e tutto sarà nel Panottico:
pupilla di un
Polifemo
fissa al centro del cielo:
non ci sarà un solo angolo,
un remoto angolo
per il più segreto
dei pensieri.
Il cuore sarà cavo
come il buco nero
in mezzo alle galassie.
La mente di tutti
una lavagna nera…
Un groviglio di fili
senza corrente
i sentimenti
a terra.
*
David, è scaduto il tempo
David, è scaduto il tempo d’imbarco!
Ora il tuo posto
è la lista d’attesa.
Grazia rara è
se ancora qualcuno conservi
(con molte incertezze) memoria
del tuo nome, almeno
il sospetto
che tu sia esistito.
Premono formicai di anonimi
alle stazioni della metropolitana.
Moltitudini che urlano
invocando di salire,
a grappoli.
Tutti sconosciuti l’uno all’altro
ignoto il proprio volto
perfino a te stesso,
e il volto del proprio padre:
anche lui sbarcato
a forza dal predellino dell’ultimo tram
nella notte.
*
E non hanno
E non hanno neppure
la gioia di andare
come tu andavi (oh David)
imperioso alla conquista!
E non importava sapere di cosa,
bastava la fede
almeno nell’uomo!
Ora nessuno sa
in quale direzione andare,
e tutti cercano una maniglia
nel vuoto:
o appena si affacciano
alla linea gialla della strada
subito vengono
da forze misteriose.
ribattuti indietro.
e continuano a urlare
ma nessuno sa cosa.
Tutti dentro una luce sempre uguale,
al neon:
e sola
continuerà a brillare,
appena sorridente
la gigantografia
in fosforescenza
del GRANDE FRATELLO
onnivedente,
COME STA SCRITTO!
E anche in piccole foto,
o di varia grandezza,
ma sempre uguali, a miriadi
a ogni pulsante appese:
appese agli stipiti e agli archi delle vie,
appese, le più grandi ai frontali dei palazzi
e negli stadi
e dai rosoni delle chiese,
COME STA SCRITTO:
anche le chiese
saranno allora
la STESSA COSA.
Né alcuno che possa dire
che nome porta o chi sia!
E tutti nel feroce
invincibile sospetto
l’uno dell’altro…
Non due fedi
O papa, sorridi
(non ridano solo le tue labbra)
sorridi dentro
spera
confida.
Pace a te, o papa,
non temere!
Allora non affonderai
camminando sulle acque:
altri crederanno per te
nella cruciata ora della decisione.
Non sentirti solo, o papa,
nel giardino dei dubbi.
Credi, ti amiamo
e ti «compatiamo»
filialmente.
Da te stesso liberati, o papa,
uccidi la tua ombra che t’insegue:
il mondo non ti è nemico,
abbi fede in lui
e nel Dio che l’ama
fino alla fine,
e sia un’unica fede.
Non due fedi, o papa.
Credi all’unità
dei giorni e delle opere,
alla creazione che è unica.
Puoi essere voce di due infallibilità
che tutto, chiesa e fabbrica e studi
è inesauribile invenzione
di un medesimo Spirito:
uno è l’uomo,
uno e amorosamente operante
Iddio nell’uomo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
ALTRA SALMODIA ALLA PACE
a «Testimonianze» e a tutti i comitati di pace
La pace è l’Eden,
l’Armonia da sempre agognata,
giardino dell’Alleanza
che sta nel cuore della terra,
giardino da sempre rimpianto.
Anche le fiere dei campi ti piangono, o Pace,
anche il leone e la tigre ti piangono,
con ululati dalle selve piangono
l’orrendo disordine
non necessario.
La coesione della pietra è santa,
la massa compatta delle acque,
santa la coesione degli astri.
Uomini, non violate il Sacrario dell’atomo,
non entrate nel Santo dei santi
perché morirete: Scienziati,
non fate della sua casa
una spelonca di ladri.
La pace è l’Eden che deve inverarsi,
il Sogno reale e necessario
che attraversa l’intera creazione.
Creature tutte all’opera:
che deve venire la Pace
che deve farsi la Pace;
che si faccia la Pace su tutta la terra:
e l’uomo è la sola coscienza
a proclamare che Egli esiste.
Francesco, riprendi a cantare
per frate sole e sora luna
«et per aere et nubilo et sereno»,
perfino alla morte diciamo: o sorella!
Ma siano tutte le creature a cantare.
Uomini, tornate fanciulli,
rompete le spade e nessuno
continui a trafiggere il cuore alle cose
come han trafitto il costato di Cristo.
Questo è l’irreparabile Male
il Male che non ha nome:
l’incubo non della morte,
dell’«0ltre-morte»,
il Grande Nulla che incombe.
Abbiamo violato il Sacrario
profanato il Santo dei santi:
messe le mani sull’atomo,
rotta la diga sull’abisso,
ci siamo creduti «Despoti».
Abbiamo perduta l’Amicizia delle cose,
la Grande Comunione:
tornare indietro
sarà ancora possibile?
Questo è l’Eden che deve inverarsi
il giardino dell’Alleanza,
il Sogno dell’universo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
Il trattato dal titolo “David Maria Turoldo, il Resistente”, a cura di Guerino Dalola, in collaborazione con Donatella Rocco, Antonio Santini, Mino Facchetti, Pierino Massetti, Gian Franco Campodonico e di ANPI Franciacorta, consiste in un importante saggio autoprodotto con il patrocinio di vari enti e associazioni, tra cui la Città di Chiari, il Comune di Coccaglio, il Comune di Cologne, i Servi di Maria – provincia di Lombardia e Veneto e l’associazione Gervasio Pagani.
Padre David Maria Turoldo è un frate morto nel 1992. Su padre David Maria Turoldo, che fu poeta, filosofo, sacerdote, autore, traduttore, fondatore di riviste e giornali, sono stati pubblicati centinaia di libri e documenti, ma senza dare ampia notizia sulla sua partecipazione alla Resistenza del 1943-45 contro il nazifascismo. Padre David Maria Turoldo è stato un grande Resistente a Milano, ma era in contatto anche con la Resistenza bresciana, soprattutto nella zona della Franciacorta.
Secondo Turoldo la figura del Partigiano riveste certamente una eccezionale e fondamentale importanza, ma in uno specifico momento e in una determinata situazione. Invece, sempre secondo Turoldo, essere Resistente è una scelta di vita che non può verificarsi solo in un determinato tempo e in uno spazio contingente. La Resistenza, i Resistenti attuano un impegno quotidiano, da realizzarsi nel percorso di ogni giorno, senza distrazioni, nel corso di una intera esistenza. La liberazione autentica dell’umanità, oltre che dal nazifascismo e dalle dittature, richiede una militanza, una acribia nel tempo, un impegno molto più profondo sul piano culturale, relazionale, politico, sociale, familiare. L’impegno del Resistente non ha fine e scadenze, perché la libertà non si rinnova da sola, ma deve essere sempre riconquistata con l’impegno di ognuno di noi.
Infatti la Resistenza non è mai finita.
Turoldo non ha mai voluto schierarsi con nessun partito politico, perché, lui stesso spiegherà, la libertà, la costruzione di un mondo migliore, i diritti delle persone, la solidarietà, il progresso alternativo che non è tale se non è per tutti, il soccorso a chi vive nell’indigenza, a chi vive nelle difficoltà, a chi vive nel bisogno, il rispetto di tutte le fedi politiche e religiose, non sono istanze appartenenti all’uno o all’altro schieramento partitico, ma sono valori appartenenti alla nostra comune umanità.
Per il Resistente il vero campo di lotta è la normalità, la testimonianza, non solo con le parole, ma con esempi di vita.
Il Resistente non è solo antifascista.
La vera scelta del Resistente è un’alternativa totale, a favore di una società, di un contesto sociale, completamente diversi, per una nuova presente e futura umanità, perché la pace non è solo mancanza di guerra, ma è nonviolenza, è costruzione di convivenza solidale e fraterna.
Le esperienze di Turoldo furono molteplici come Partigiano in una delle vicende più importanti della sua vita: la Resistenza. Ma le fonti storiche non danno ricostruzione storiografica editata di ampio respiro di padre Turoldo per la sua attività nella lotta di Liberazione nazionale e per il contributo notevole che ha offerto nella ricostruzione morale e materiale del nostro Paese. “Una lacuna nella storia del pensiero democratico e antifascista di impronta cattolica alla quale bisognerebbe pensare di porre rimedio”, così scrive Aldo Aniasi, comandante partigiano, assessore e sindaco di Milano, deputato e ministro socialista e presidente della FIAP federazione italiana associazioni partigiane. Scrive sempre Aldo Aniasi, che come uomo della Resistenza padre Turoldo privilegiò sempre una scelta unitaria, lo spirito unitario della Resistenza, lo spirito dell’unità antifascista. Intrattenne rapporti con comunisti, socialisti, azionisti e incontrava personaggi come Eugenio Curiel, Rossana Rossanda e altri importanti dirigenti della sinistra.
Uno dei risultati più significativi dell’intero lavoro di confronto e dialogo realizzato nel convento di San Carlo a Milano per iniziativa di padre Turoldo e padre De Piaz è la nascita e la diffusione – soprattutto da parte di Teresio Olivelli, Claudio Sartori ed altri collaboratori bresciani – del giornale clandestino antifascista “Il ribelle”. Anche la predicazione in Duomo su incarico del Cardinale Schuster diventa espressione della Resistenza di padre Turoldo. Appena dopo la Liberazione del 25 Aprile 1945, saranno ventinove i Lager visitati da padre Turoldo alla ricerca di sopravvissuti e riuscirà a riportare in salvo a casa circa duecento prigionieri. Scrive Turoldo “Una sola possibilità affinché non si ripeta quanto è avvenuto: ricordare e capire, far ricordare e far capire… Così ho visto la sola Europa possibile, quella della solidarietà dei sopravvissuti”.
Scrive Ernesto Balducci “Il grande dono di David è di essere nato povero, in mezzo ai poveri, agli ultimi… David è rimasto un povero. I poveri sono fuori del perimetro della storia”.
In occasione degli appositi referendum, padre Turoldo vota contro l’abrogazione del divorzio e dell’aborto, perché i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione va spiegata e proposta, mai imposta con una legge. Nella primavera del 1978, padre Turoldo, insieme al confratello De Piaz, avvia una trattativa con le Brigate Rosse, per la liberazione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. L’iniziativa a cui partecipa anche il vescovo di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi, viene bloccata dall’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
La Corsia dei Servi e Nomadelfia furono le iniziative più care sia a Turoldo sia a padre De Piaz, basate su concetti di primaria importanza: tanto la fede che le scelte politiche diventano operative e efficaci solo nell’ambito di una cultura che permetta di uscire dall’inerzia di una fede accolta solo per tradizione e pregiudizio, per tentare invece una rigenerazione dalla vera cultura con maggior impulso possibile.
Invitato a un congresso sul disarmo nel febbraio 1978, Turoldo ebbe l’occasione di incontrare Carlo Cassola, che lo invitò al convegno nazionale della LDU- Lega per il Disarmo Unilaterale. Gli aderenti attuali della Lega per il Disarmo Unilaterale sotto la sigla “Disarmisti Esigenti” stanno lavorando all’interno della campagna ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons e con molte altre associazioni del panorama italiano affiliate a ICAN, tra cui anche PeaceLink- Telematica per la Pace, alla ratifica del trattato ONU, il TPAN, per la proibizione delle armi nucleari, varato a New York a palazzo di vetro nel luglio 2017 da 122 nazioni e dalla società civile organizzata in ICAN.
ICAN grazie alla costituzione del trattato Onu per l’abolizione delle armi nucleari è stata insignita Premio Nobel per la Pace 2017.
E poi ricordiamo la Salmodia della Speranza che attraversa la drammatica esperienza dell’Europa prima e durante la Seconda Guerra Mondiale: il trionfo dei dittatori, il nazismo, il fascismo, il razzismo, i grandi massacri, i Lager, Hiroshima e Nagasaki, la Resistenza. Per una Chiesa che accoglie i diversi, gli emarginati, gli oppressi, gli ultimi, le vittime di cui tutti siamo parte nel contesto sociale, comunitario, culturale e nel mondo, nel terribile deserto della sopraffazione e della violenza dove tante voci chiedono libertà, giustizia e verità per tutti quegli innocenti che ancora nascono solo per morire.
Laura Tussi – PeaceLink, Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN”
Fabrizio Cracolici – ANPI sezione Emilio Bacio Capuzzo Nova