Donne e Uomini della Resistenza in Sabina.
Ricerca storica a cura di Franco Leggeri per ANPI Comitato antifascista della Sabina.
Capradosso di Petrella Salto -La storia di Nice, Cleonice Tomassetti, staffetta partigiana di Capradosso fucilata a Fondotoce di Verbania Cusio Ossola il 20 giugno 1944.Cleonice Tomassetti non era una maestra di scuola, non era una staffetta, non aveva un marito tra i partigiani. Non fece neppure in tempo a combattere la guerra di liberazione. Era una donna che aveva fatto la propria scelta spontaneamente. Non amo la parola “martire”, ma se c’è una martire – cioè una testimone – della Resistenza italiana, è Cleonice Tomassetti.
LA STORIA-
Era il 20 giugno del 1944 quando la giovane staffetta reatina, incinta di quattro mesi, venne massacrata nell’eccidio di Fondotoce (oggi Verbania Cusio Ossola). Unica donna del gruppo di 43 partigiani catturati dai nazifascisti nel corso dei rastrellamenti effettuati nei giorni precedenti. Era una maestra che aveva lasciato la sua terra per insegnare a Milano, quando nell’aprile del ’44 decide di seguire il suo compagno nella resistenza in Val d’Ossola, per compiere le missioni assegnatole.
Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani fucilati dai nazifascisti a Fondotoce. Nella foto allegata, è presente in prima fila, proprio sotto il cartello sul quale gli aguzzini, in modo provocatorio hanno messo la scritta “Sono questi i liberatori/ d’Italia/ oppure sono i banditi?”, visibilmente rassegnata al suo destino. Le donne di Novrego, provincia di Milano, vedendo Cleonice con le vesti strappate dalle botte e sevizie subite, le avevano offerto un abito nuovo, un omaggio alla salvaguardia della dignità anche se destinata a compiere l’ultimo viaggio. Dal racconto di un sopravvissuto, l’avvocato e magistrato Emilio Liguori pare che ai propri aguzzini, poco prima di essere condotta alla fucilazione, la Tomassetti abbia detto loro: “Se volete mortificare il mio corpo è superfluo il farlo, esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, quello non lo domerete mai”.
Cleonice Tomassetti-Foto originale
Articolo di Sergio Silva
Cleonice Tomassetti
Petrella Salto (Rieti) 1911 – Fondotoce (Verbania) 1944
La fotografia del corteo la ritrae in prima fila. Sono 42 uomini e una donna che vanno a morire. I nazifascisti li fanno sfilare sul lungolago di Intra. Davanti hanno messo i due prigionieri più alti, che reggono un cartello: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”. Lei è in mezzo, sotto la scritta. È vestita con cura, quasi con eleganza: scarpe nere con il tacco, maglia chiara, gonna scura, un cappello bianco, una borsa stretta al grembo. Ma non sono i suoi vestiti. Fino a poche ore prima indossava stracci coperti di sangue. Le mogli di altri prigionieri le hanno portato qualcosa da mettersi, per andare incontro alla fine con dignità.
Cleonice Tomassetti
Fuori dal paese li fanno salire su un camion per il trasporto del bestiame. Ma li fanno scendere al paese successivo, Pallanza, per mostrarli agli abitanti. Poi di nuovo un tratto in camion, e un’altra sfilata, a Suna. Infine l’ultima tappa, Fondotoce, dove vengono fucilati al crocevia subito fuori il paese.
Cleonice Tomassetti
Nel loro libro di memorie, Il Monterosa è sceso a Milano, Pietro Secchia e Cino Moscatelli la chiamano Cleonice Tommasetti e scrivono che è una maestra di scuola, staffetta partigiana, incinta di quattro mesi del marito, anche lui salito in montagna. È la versione che si ritrova in tutte le opere in cui la donna di Fondotoce viene citata. Fino a quando nel 1981 un altro partigiano, Nino Chiovini, pubblicherà una sua inchiesta (ora ristampata da una piccola casa editrice di Verbania, la Tararà), che restituisce alla vittima la sua storia e la sua identità, a cominciare dal nome.
Penultima di sei fratelli, Cleonice nasce il 4 novembre 1911 a Petrella Salto, nella frazione di Capradosso. Il suo nome significa “gloriosa nella vittoria”. Petrella è un villaggio sulle montagne tra il Lazio e l’Abruzzo, passato alla storia perché lassù visse segregata Beatrice Cenci (1577-1599), la ragazza che con i fratelli uccise il padre che la violentava e fu per questo decapitata a Castel Sant’Angelo, davanti a una folla in tumulto. Anche Cleonice ha un padre che la tormenta. Famiglia contadina, un piccolo podere, più pietra che terra. La madre muore, il fratello Aldovino e la sorella Pierina vanno a Roma a cercare lavoro. Lei è una ragazza molto intelligente, ma deve abbandonare la scuola per lavorare a casa e nei campi. A 16 anni resta incinta. Cleonice fugge dalla violenza paterna e si rifugia a Roma dalla sorella, ma il bambino nasce morto. Trova lavoro come cameriera.
Cleonice Tomassetti
A 22 anni lascia anche Roma e arriva a Milano, dove lavora come commessa e cameriera. Conosce un assicuratore, Mario Nobili, che ha lasciato la moglie dopo aver scoperto che lei lo tradiva con un sacerdote. Nobili è antifascista. Si incontra con un gruppo di amici che condividono le sue idee: si vedono a Milano in Galleria. Ci sono Melina Mistretta, proprietaria di una pensione in via Santa Radegonda, dove Cleonice è stata a lavorare, Piero Paci, violinista, e un sarto, Eugenio Dalle Crode. La sua testimonianza è importante, perché è nella sua bottega che matura il destino di Cleonice Tomassetti, che a Milano chiamano la Nice.
(1vedi nota a fondo pagina)-
Eugenio è zoppo, detesta i fascisti e nel ’24 brucia in pubblico una copia del loro giornale, “L’eco del Piave”; le camicie nere lo costringono a marciare per il paese, saltellando sulla sua unica gamba, con il gagliardetto nero in mano. A Milano diventa amico di Mario Nobili e poi di Cleonice Tomassetti.
Cleonice Tomassetti
“Ai primi del ’44 il mio amico Mario Nobili fu ricoverato all’ospedale con la meningite: dopo pochi giorni morì. Aveva 36 anni. Dopo la morte di Mario, Nice veniva quasi tutti i giorni nella mia sartoria a lavorare qualche ora. Un giorno del mese di giugno del ’44 passò da me a provare un vestito Sergio Ciribi, il figlio maggiore di una famiglia di miei vecchi clienti. Era presente la Nice. A un certo punto Sergio mi disse: “Sa, signor Eugenio, che hanno chiamato la mia classe, il primo semestre del ’26? È sul giornale di oggi. Ma io non mi presento – continuò, conoscendo le mie idee antifasciste -, vado in montagna con i partigiani”. Sergio non aveva ancora finito di parlare, che la Nice disse: “Allora ci vengo anch’io”. Lei, le decisioni le prendeva così, all’improvviso. Sergio in principio disse che non era possibile, che dove sarebbe andato non era posto per donne, ma lei insistette […].Partirono qualche giorno più tardi”.
Sergio Ciribi e Giorgio Guerreschi decidono di unirsi alla formazione Valdossola. Con loro c’è Cleonice Tomassetti. E c’è Edvige Ciribi, la madre di Sergio, che non vuole lasciarlo viaggiare da solo e ha portato anche l’altro figlio quindicenne, Giancarlo.
Il rischio è pazzesco, perché anche i tedeschi stanno andando a cercare i partigiani. L’11 giugno è cominciato un grande rastrellamento; ma la Nice e gli altri non lo sanno. Arrivano in treno a Laveno, prendono il battello per Intra, poi si incamminano a piedi. Sergio e Giorgio credono di riconoscere il sentiero che sale in Val Grande, Nice li segue, la madre di Sergio torna indietro. Non lo rivedrà più. “Non seppi nulla fino alla fine della guerra – ha raccontato Edvige Ciribi -.
Cleonice Tomassetti
Sergio, Giorgio e Nice risalgono la valle a piedi. Camminano per tutto il giorno, fino a quando non arrivano in una baita isolata, dove accendono il fuoco e passano la notte, mentre fuori infuria un temporale. Al mattino Nice si accorge di avere una zecca conficcata in una gamba, i ragazzi gliela tolgono. Appoggiato a una parete c’è un fucile, collegato con un filo a una bomba, che per un soffio non esplode. Si sente sparare in lontananza, poi si vedono i primi tedeschi: è il rastrellamento che avanza.
21 giugno 1945-Ritaglio giornale prima commemorazione ricorenza dell’eccidio
I tre fanno appena in tempo a nascondere il fucile e a concordare una versione comune: scartata l’idea di inventare storie improbabili, decidono di confessare; sono in montagna a cercare i partigiani per unirsi a loro, ma non li hanno ancora trovati. I tedeschi e le SS italiane li prendono subito a calci e pugni; poi cominciano gli interrogatori. Ha raccontato Giorgio Guerreschi: “Noi dicemmo, come d’accordo, la verità, ma capimmo subito che non eravamo creduti. Allora la donna, che ci vedeva come ragazzini, disse che noi non avevamo colpa, che era stata lei a convincerci a salire in montagna. “Sono ancora ragazzi, la colpa è soltanto mia” aggiunse. (…) a un certo punto cominciò a inveire in romanesco contro di lui, mandandolo a quel paese. Era una donna decisa. Ci misero tutti e tre contro un muro della baita e piazzarono un mitragliatore che lasciò partire una lunga raffica sopra le nostre teste; era chiaro che volevano terrorizzarci con una finta fucilazione”.
Si scende a piedi verso il lago, poi la notte ci si stende per terra su teli mimetici. Prosegue la testimonianza di Guerreschi: “La Nice fu assegnata a un giaciglio, con un ufficiale. Durante la notte, da quella parte, vennero rumori come di colluttazione; immaginai che qualcuno stava tentando di farle violenza. Sia per la distanza dal punto in cui si trovava, sia per il mio stato di prostrazione, non posso affermare niente di preciso, ma quell’impressione mi è rimasta in mente. Il mattino successivo intercettai alcune occhiate allusive tra i soldati”.
Lungo la strada il reparto incontra un partigiano ferito, con un proiettile nella coscia: lo finiscono con una raffica di mitra. I prigionieri subiscono altre torture: le SS vogliono sapere dove sono i compagni. Assicurano una corda a un albero, la avvolgono attorno al collo di Nice, che viene sollevata da terra, più volte; quando sta per svenire, le gettano addosso un secchio d’acqua; poi ricominciano. Ma lei non può raccontare cose che non sa. Allora la colpiscono sulla schiena con un bastone. Alla fine Cleonice Tomassetti e Sergio Ciribi vengono chiusi nelle cantine di Villa Caramora, una casa ottocentesca sul lungolago di Intra, insieme con decine di partigiani e di sospetti catturati nel rastrellamento. Tra loro c’è un medico antifascista. Il suo nome è Emilio Liguori. Dopo un mese di carcere a Torino sarà liberato e scriverà di getto un memoriale, Quando la morte non ti vuole, che è anche l’unica testimonianza della breve e dolorosa prigionia di Cleonice.
“La scena che si presentò al mio sguardo, dopo l’ingresso in cantina di tanti disgraziati, fu delle più penose alle quali io abbia mai assistito. Penso che un branco di lupi famelici, quando capita in mezzo a un gregge di pecore, usi verso le proprie vittime una ferocia meno accesa, meno sadica di quella dei soldati tedeschi verso i poveri partigiani rastrellati in Val Grande. I pugni, le pedate, i colpi di calcio di moschetto, le nerbate non si contavano più. Era una vera gragnuola che si abbatteva inesorabile su dei miseri corpi già grondanti sangue, su dei visi già tumefatti. Gli aguzzini sembravano presi nel turbine di un sadico furore. Notai che tra i partigiani vi era una donna, di statura media, di colorito bruno, sui venticinque anni. Anche a costei non furono risparmiati i maltrattamenti, anzi, starei per dire che la dose delle angherie sia stata nei suoi confronti maggiore. Mi parve che, quando arrivava il suo turno, il nerbo si abbassasse sulle sue spalle con maggior furore e più violenti fossero i calci che la raggiungevano da ogni parte. Eppure la coraggiosa donna non solo incassò ogni colpo senza emettere un grido ma, calma e serena, faceva coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia bestiale”.
Cleonice Tomassetti
Verso le cinque del pomeriggio si sentono arrivare soldati e automezzi. I guardiani si preparano. Alcuni si sistemano la divisa, altri si tolgono la mimetica e restano in camicia e pantaloncini marroni. Qualcuno verifica il funzionamento dell’arma. Tutti si pettinano, poi controllano nello specchietto che hanno con sé che la riga dei capelli sia in ordine: saranno scattate delle fotografie. Annota il medico prigioniero: “Mi pareva di essere stato portato nei camerini degli artisti, prima che essi diano inizio alla rappresentazione”. La donna fu colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso. Non si scompose; incassò impassibile, e poi fiera, con aria ispirata, quasi trasumanata, disse parole che per mio conto la rendono degna di essere paragonata a una donna spartana, o meglio ancora a un’eroina del nostro Risorgimento: “Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che la vostra è opera vana; quello non lo domerete mai”. Poi, rivolta ai compagni: “Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti!” gridò con voce squillante. Anima grande! So (per avermelo confidato un poliziotto, un bolzanese che accompagnò il triste corteo fino al luogo dove avvenne l’esecuzione e vi assistette) che, durante tutto il tragitto di circa cinque chilometri da Intra a Fondotoce, essa continuò a conservare una calma e una serenità incredibile in una donna: e tale calma e tale serenità seppe, per virtù dell’esempio, comunicare agli altri suoi compagni di sventura. Avanzò per prima verso i carnefici, guardandoli fieramente negli occhi. Le sue ultime parole furono: “Viva l’Italia!”. Come lei morirono sotto le raffiche delle mitragliatrici i suoi quarantadue compagni. Ignoro il nome di questa donna, ma farò di tutto, quando tempi migliori e maggior libertà me lo consentiranno, per conoscerlo e additarlo alla pubblica ammirazione”.
Il racconto del dottor Liguori è un documento eccezionale, ma contiene due errori.
Cleonice Tomassetti
Non ci si deve stupire che sia stata una donna a trasmettere calma e serenità a 42 uomini destinati alla morte; e non tutti i compagni di Cleonice Tomassetti spirarono sotto i colpi del plotone d’esecuzione. Uno di loro, Carlo Suzzi, ferito, sopravvisse per miracolo, tornò a unirsi ai partigiani della divisione “Valdossola”, scelse il nome di battaglia “Quarantatré”; e poté testimoniare come la Nice si comportò.
Prima i tedeschi mettono i condannati in fila con la faccia verso il lago, armeggiano alle loro spalle, sparano in aria per simulare l’esecuzione. Poi li caricano sui camion, ma a ogni raggruppamento di case li fanno sfilare col cartello. Si arriva così a Fondotoce. Neppure il prete può avvicinarsi. Tutti devono sdraiarsi per terra, e tre alla volta passano sotto le raffiche del plotone. Nice è la prima a morire. Ha raccontato Carlo Suzzi, il superstite: “Bisognava vedere il coraggio di questa ragazza, che durante il percorso ripeteva a tutti: “Mostriamo a questi signori come noi sappiamo morire”. E lei per prima è caduta da eroe”.
“Ero in contatto con il Cln di Milano – scrive ancora Edvige Ciribi -. Quando c’era un’esumazione venivo avvertita; fui presente al disseppellimento dei fucilati di Baveno, poi in un altro luogo. Quando esumarono quelli di Fondotoce, ero là: riconobbi subito mio figlio dai capelli cortissimi, perché in prigione a Como era stato rasato a zero. Aveva la fronte squarciata. Conservo ancora alcuni ritagli dei vestiti che indossava. Avevo saputo che tra i fucilati c’era una donna. Quando vidi il cadavere, non feci fatica a riconoscerlo per quello della signorina Nice. Decidemmo di portare a Milano la salma di nostro figlio e quella della signorina. Erano morti nello stesso luogo; che riposassero insieme. Furono sepolti nel cimitero di Greco, poi furono trasferiti al cimitero Monumentale, nel campo della gloria”.
Cleonice Tomassetti non era una maestra di scuola, non era una staffetta, non aveva un marito tra i partigiani. Non fece neppure in tempo a combattere la guerra di liberazione. Era una donna che aveva fatto la propria scelta spontaneamente. Non amo la parola “martire”, ma se c’è una martire – cioè una testimone – della Resistenza italiana, è Cleonice Tomassetti.
Nota 1. “Sono nato a Susegana, in provincia di Treviso – ha raccontato Eugenio Dalle Crode -. Nell’autunno del 1917 abitavo a Nervesa, sulla riva destra del Piave. Gli austriaci avevano sfondato a Caporetto e si avvicinavano al fiume. La gente fuggiva; un giorno partì anche la mia famiglia; tutto il paese, anzi. Eravamo sulla strada per Montebelluna; nel cielo passò un aereo, che si abbassò e sganciò alcune bombe su di noi: una scheggia mi colpì alla gamba destra, che mi dovettero amputare sopra il ginocchio. Avevo soltanto otto anni. Quando fui in età di lavoro imparai il mestiere del sarto: è un lavoro che si può fare anche con una gamba sola”.
La foto a colori allegata al post è stata elaborata da Julius Backman Jääskeläinen giovane Architetto svedese che fra l’altro è abilissimo nel trasformare a colori le immagini storiche, generalmente in bianco e nero.
La Casa della Resistenza di Fondotoce ha scritto a Julius Backman Jääskeläinen chiedendogli di sottoporre alla colorazione l’immagine dei nostri martiri, ritratti il 20 giugno 1944 prima della loro barbara fucilazione.
Ecco il sorprendente risultato!
Vedere i loro volti, i loro abiti, le divise militari e l’ambiente circostante a colori crea una emozione unica, ci fa avvicinare a quel terribile istante, ci rende vivida e tragica la loro sorte.
“La storia è accaduta a colori”, così come a colori furono visti i nostri poveri martiri da pochi testimoni e che oggi grazie a Julius, anche a noi è data la possibilità, attraverso un ipotetico viaggio nel tempo, di avvicinarci così tanto a loro e alla loro sofferenza.
La Casa della Resistenza di Fondotoce sorge entro un parco di 16.000 mq. adiacente al luogo in cui il 20 giugno 1944 furono fucilati dai nazifascisti 43 partigiani e copre una superficie di circa 1.600 mq.
-Ricerca storica ia cura di Franco Leggeri-
Poesia di Franco Leggeri.
Pensiero per Nice –Cleonice Tomassetti-
Petrella Salto (Rieti) 1911 – Uccisa dai nazifascisti-Fondotoce (Verbania) 1944
Cleonice Tomassetti
NICE/ROSSO SABINA e L’età nuda dell’anima.
Nice, tu ,come Gramsci , hai odiato gli indifferenti.
Nice differente dall’indifferenza
Hai respirato Gramsci
Nice hai inciso le note libere della tua voce
Tra la Rocca di Petrella
Dove indugia la dolcezza della nebbia.
Nice aspettavi la luna rossa,
tu che conoscevi solo quella nera.
Nice hai contato, con rabbia, pazientemente,
mille lune per un’alba di libertà
Nice hai spaccato il gelo della fonte
Dove hai bagnato il pane
E bevuto l’acqua ,
Nice hai corso a perdifiato tra i castagni
e i chiaroscuri paralleli all’alba.
Nice hai quasi, finalmente, raggiunto le braccia della libertà
Mentre il tuo sogno metteva radici
in una terra lontana,
dove la luna brucia le onde del lago,
ma uno sguardo freddo ha ucciso
le trame dolci dei tuoi capelli.
Nice ora sei libera dalle maglie della catena,
vola Nice, vola in alto , lontano dalla terra brulla,
terra rossa del tuo sangue .
Nice, ti prego, corrodi la notte con i tuoi occhi e libera il tuo grido di libertà.
Nice ho raccolto, una ad una, le tue lacrime per dissetare il seme di una Italia libera.