Roberto Bizzocchi -Romanzo popolare-Editori Laterza-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Roberto Bizzocchi –Romanzo popolare
Come i Promessi sposi hanno fatto l’Italia
Editori Laterza-Bari
Descrizione del libro di Roberto Bizzocchi.Per obbligo e per piacere, quasi tutti abbiamo letto i Promessi sposi. Una diffusione enorme che ha reso i personaggi, tanti episodi, tante espressioni tipiche familiari, anzi proverbiali della nostra cultura. Un romanzo che ha davvero fatto l’Italia, almeno nei suoi aspetti migliori, grazie a un messaggio politico e pedagogico che è tempo di riscoprire.
Forse perché lo leggiamo troppo presto o forse perché siamo costretti a farlo a scuola, sta di fatto che, in generale, abbiamo una opinione abbastanza grigia e sfocata dei Promessi sposi. Spesso ci rimanda un’immagine di compunzione religiosa e di moderatismo accomodante simile a certe vecchie fotografie che troviamo nelle case dei nostri nonni e che faticano a parlarci ancora. Ecco, vi invitiamo a (ri)leggere i Promessi sposi in modo un po’ diverso dal solito, cioè in compagnia non di un letterato, ma di uno studioso di storia d’Italia. Scopriremo così che i Promessi sposi hanno un carattere fortemente politico e ci dicono moltissimo sulla nostra storia, non solo quella del Seicento, sul nostro carattere nazionale, sull’impronta che il cattolicesimo ha lasciato, nel bene e nel male, nella nostra coscienza morale. Torneranno alla luce l’importanza e il valore del messaggio ideologico al cuore di questo romanzo: una morale privata basata su libertà di scelta e responsabilità individuale, per uomini e donne; un illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una consapevolezza acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli.
Introduzione
Tutti abbiamo in mente almeno un personaggio, un episodio, una battuta dei Promessi sposi: il romanzo è nella coscienza degli Italiani.
È stato anche molto, e molto bene, studiato, insieme con le altre opere di Manzoni, dagli specialisti di letteratura, che tuttora vi scoprono e ce ne spiegano nuovi pregi e ricchezze; ci dimostrano sempre di più che è davvero una miniera inesauribile. Da parte mia, su Manzoni e sui Promessi sposi assumo in questo libro un punto di vista particolare, quello di un lettore appassionato che di mestiere non fa l’italianista ma lo storico. Mi sono convinto sempre più nel corso degli anni, non solo leggendo e rileggendo ma anche riflettendo su quanto succede nel nostro paese, che il romanzo contenga un programma etico-politico per lo Stato e la nazione italiani molto importante e tuttora vivo e valido. I Promessi sposi ci dicono moltissimo sulla nostra storia, non solo quella del Seicento, sul nostro carattere nazionale, sull’impronta che il Cattolicesimo ha lasciato, nel bene e nel male, nella nostra morale, e lo fanno in un’attitudine non descrittiva ma propositiva, suggerendo, appunto, delle linee di comportamento su questioni cruciali.
La patina di compunzione religiosa e moderatismo accomodante di cui a volte – forse meno oggi che in un passato di forti contrapposizioni ideologiche – si è voluto rivestire il romanzo, così facendogli torto e invecchiandolo, va rimossa anche alla luce di un confronto serrato con la cultura letteraria e politica dell’Italia e dell’Europa del Settecento e dell’Ottocento. Ritengo che tale confronto aiuti a mettere in evidenza alcuni aspetti decisivi sia di modernità che di radicalismo propri di Manzoni: perciò gli ho dedicato molta parte del libro. Tratto i Promessi sposi e le altre principali opere di Manzoni in costante riferimento a quelle dei suoi contemporanei italiani ed europei ed è su questa base che sostengo la positività e l’attualità del messaggio ideologico manzoniano, in quelle che mi paiono le sue componenti essenziali, oltre all’ispirazione cristiana: identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano.
Ho scritto un libro spero non privo di quella che si chiama in linguaggio accademico serietà scientifica, anche se non ho potuto farlo da specialista della materia. L’ho comunque scritto cercando di evitare pesantezze erudite e pensando a un pubblico che comprenda chi voglia rinfrescare una lettura giovanile di Manzoni e del suo romanzo, e anche chi ogni giorno ha il dovere professionale di renderli attrattivi per una classe di adolescenti. Quest’ultimo dev’essere – lo immagino – un compito impegnativo. Ma per le ragioni che ho esposto sopra, e che mi auguro verranno via via illustrate e approfondite nel corso del libro, sono convinto che sia addirittura fondamentale: Manzoni ha parlato agli Italiani della loro storia e della loro identità, ponendo problemi che restano centrali e indicando soluzioni che ancora ci riguardano, noi tutti e non meno degli altri i più giovani fra di noi.
Anche perciò dedico il libro a due Italiani giovanissimi: Samuele e Matilde.
1.
Latinorum
Siccome non ha il coraggio di respingere le minacce dei bravi di don Rodrigo, don Abbondio deve tener buono Renzo, accampando pretesti per non celebrare il matrimonio. Quando comincia a snocciolargli gli ostacoli alle nozze, gli «impedimenti dirimenti», che sono poi una sfilza di parole latine, il ragazzo ha un brusco moto d’impazienza: «Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?».
Qui latinorum è una parola nuova. Prima esisteva solo in latino, come genitivo plurale maschile dell’aggettivo latinus (e dunque da tradurre: dei latini); ma in un discorso in italiano, e in questa accezione polemica, l’ha utilizzata per primo, come reinventandola, proprio Manzoni. Il suffisso -orum si prestava bene a quanto c’era anche di scherzoso nell’invenzione. Clausole quali -orum, -um, -bus evocano spiccatamente, in una percezione popolare, la natura complicata ed esotica del latino; e il gioco non è finito coi Promessi sposi. Ce lo ricorda, nel film del 1961 di Sergio Corbucci I due marescialli, il comico Totò, impersonando un ladruncolo travestito da prete che recita ad alta voce orazioni pseudolatine per evitare l’arresto da parte del maresciallo dei carabinieri Vittorio De Sica: «Dominus […] in autobus, et linoleum mea in Colosseum. Mortis tua e tu’ patri et tu’ nonni in cariolam mea. Omnibus […] Linoleum, linoleum, linoleum […]. Ora pro nobis, ora pro nobis. Autobus, autobus».
I contesti delle due scene sono molto diversi, ma non incomunicabili, e il loro confronto, a prescindere dallo squilibrio dell’impegno e della resa artistica, è molto istruttivo. In quel film Totò impersona un latitante alle prese con l’autorità, il quale per altro cerca di proteggersi proprio sotto il manto di un’altra autorità, la tonaca di un membro della Chiesa, la sacra istituzione che nell’anno di ambientazione del film, il 1943, e anche in quello della sua realizzazione, il 1961, ancora adottava come lingua ufficiale il latino, che avrebbe abbandonato nella liturgia appena poco dopo, col Concilio Vaticano II (1962-1965). Come accade spesso nei film di Totò, la contrapposizione fra l’uomo del popolo e il rappresentante dell’autorità è sfumata, fin quasi all’accostamento fraterno nel caso in cui il secondo sia incarnato da un attore meno elegante e più bonaccione di De Sica: esemplare il brigadiere Aldo Fabrizi in Guardie e ladri (1951) di Mario Monicelli e Steno. Manzoni invece è radicale, perché la sua visione è dicotomica: Renzo è un giovane onesto il quale non fa che reclamare il rispetto dei suoi diritti, mentre il parroco si sta di fatto rendendo complice di una violenza. L’episodio del romanzo propone uno scontro netto, dove la distinzione fra ragione e torto risalta bruciante e il danno subito dalla vittima grida all’ingiustizia e spinge all’insubordinazione. Il potere si è fatto prepotenza e il latino si manifesta come la lingua del sopruso.
C’erano delle ottime ragioni per presentare le cose in questo modo. Per molti secoli – che comprendevano sia il periodo in cui Manzoni scriveva, il primo Ottocento, sia quello di cui scriveva, il primo Seicento – il latino fu in Europa anche il mezzo e il simbolo della discriminazione fra potenti e umili, ricchi e poveri. Era la lingua della Chiesa cattolica (ma non era del tutto sparito neppure dalle confessioni protestanti, benché esse promuovessero la Bibbia in volgare); era la lingua del diritto e della diplomazia; deteneva un ruolo ora rilevante ora addirittura dominante nelle scuole; e veniva anche visto come un vero e proprio status symbol. Insomma era la lingua di chi sa, può, possiede, si mostra e comanda. L’attitudine che si assumeva nei suoi confronti era perciò un affare denso di significato politico.
Ricordiamo alcuni fatti e alcune opinioni – queste ultime sicuramente note a Manzoni – che servono a comprendere in un contesto più ampio la sua posizione. Il grande pensatore John Locke, un padre del liberalismo moderno, scrisse in inglese i suoi Pensieri sull’educazione (1693), ma vi sostenne che la conoscenza del latino era «assolutamente necessaria per un gentiluomo». Appunto, per un gentiluomo. I sovrani riformatori del Settecento illuminato favorirono l’istruzione elementare dei loro popoli e nella Lombardia di Maria Teresa d’Asburgo le scuole primarie, siccome dovevano preparare alle superiori, comprendevano qualche elemento di latino. Quelle scuole erano gratuite, ma per partecipare alle lezioni di latino bisognava pagare una tassa di 20 soldi al mese, dunque i poveri vi rinunciavano. Non sorprende che i legislatori della Rivoluzione francese, per quanto ammiratori – come vedremo – dell’Antichità classica, cercassero di ridurre l’invadenza del latino come lingua (il provvedimento relativo è del 25 ottobre 1795) e che il loro orientamento fosse condiviso dai patrioti italiani del triennio giacobino 1796-1799. Uno di questi, che si chiamava Domenico Sgargi, il 16 piovoso dell’anno VI repubblicano, cioè il 4 febbraio 1798, pronunciò nel primo Circolo costituzionale del Genio democratico di Bologna un infiammato Discorso risguardante li ostacoli, che nel governo dispotico si oppongono al progresso dell’arti, e delle scienze. Imputato principale, il latino: «una lingua da pochi studiata, da pochi intesa, da pochissimi con qualche eleganza parlata», e perciò denunciato come il più subdolo fra i mezzi usati dai tiranni per perpetuare «l’ignoranza del Popolo». Tuttavia appena pochi anni più tardi, sotto il regime progressista ma autoritario di Napoleone, il clima era già cambiato. Durante il Consolato, nel 1802, l’insegnamento nei licei francesi fu riorganizzato intorno alla matematica e al latino, e sotto l’Impero un decreto del 17 marzo 1808 decise che per laurearsi era necessario saper «comporre in latino e in francese su un soggetto ed entro un tempo dati», mentre un altro del 13 agosto 1810 stabilì una regola che ricorda da vicino quella della Lombardia asburgica: «Tutti gli allievi di una scuola dove s’insegni il latino saranno tenuti al pagamento di una tassa».
Leggiamo cosa pensavano del latino due celebri scrittori francesi contemporanei di Manzoni. Il primo, François-René de Chateaubriand, è stato un grande romantico, tradizionalista e spiritualista. Nel suo Genio del Cristianesimo (1802), nello sciogliere un inno poetico all’uso del latino nella liturgia, ha introdotto delle considerazioni liricheggianti e irrazionalistiche che vanno molto al di là dell’accettazione di una pratica ortodossa: «una lingua antica e misteriosa, una lingua che non varia nel tempo, si adatta bene a venerare l’Essere eterno, incomprensibile, immutabile […]. Le orazioni in latino sembrano raddoppiare il sentimento religioso della folla. Come spiegarlo, se non quale effetto naturale della nostra propensione al segreto?». Il secondo, Joseph de Maistre, è stato invece un razionalista lucido e mordace, apertamente reazionario e forcaiolo (è lo stesso dell’elogio del boia e della divinità della guerra), una specie di Voltaire a rovescio. Il suo trattato Sul Papa, concluso nel 1817 e pubblicato nel 1819, comprende una digressione in lode del latino: «Nata per comandare, questa lingua comanda ancora dai libri di coloro che la parlarono. È la lingua dei Romani conquistatori, è la lingua dei missionari della Chiesa romana […]. Quanto al popolo, se non ne comprende le parole, tanto meglio. Il rispetto ci guadagna, e l’intelligenza non ci perde […]. Comunque sia, la lingua della religione deve stare fuori dalla portata dell’uomo».
Manzoni si colloca evidentemente proprio dalla parte opposta: non era meno cattolico né meno latinista di Chateaubriand e de Maistre, ma non condivideva né il latinorum misticheggiante del primo né quello più esplicitamente prevaricatore del secondo.
Ciò detto, si capisce che il latino in sé non si esauriva certo nel latinorum. Benché lingua del comando, dell’imperialismo e – lo abbiamo appena intuito – del colonialismo che si profilava dietro l’evangelizzazione, il latino era stato però fino a tutta l’epoca moderna anche la lingua della cultura e della scienza. Allora l’inglese dell’odierna globalizzazione era ben di là da venire, mentre il francese dei Lumi cominciò a farsi largo solo nel corso del Settecento. Intanto serviva una lingua per capirsi fra intellettuali e studiosi dei vari paesi d’Europa, e questa fu il latino.
Il più rappresentativo intellettuale del Rinascimento, Erasmo da Rotterdam, scrisse in latino le sue opere, fra cui la più famosa, Laus stultitiae, l’elogio della follia (1511). L’esposizione della teoria eliocentrica in un trattato sulle rivoluzioni delle sfere celesti fu fatta dall’astronomo polacco Niccolò Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium (1543). Per restare in materia, Galileo Galilei scrisse in italiano il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), ma la fortuna europea dell’opera dipese dalla sua traduzione latina del 1635. Un altro libro che ebbe un decisivo impatto innovatore, perché distingueva la conoscenza matematica dalle altre come l’unica certa, fu il Discorso sul metodo (1637). L’autore, René Descartes, più universalmente noto come Cartesius, lo pubblicò in francese, ma poi rivide personalmente il testo della traduzione latina. La dimostrazione del carattere storico e relativo della Bibbia e la prima grande affermazione, su questa base, dello spirito critico e della libertà di pensiero furono attuate dal filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza, nel 1670, nel Tractatus theologico-politicus. Anche la teoria della gravitazione universale fu poi esposta da Isaac Newton in latino nei Principia Mathematica (1687), e pure in latino da Linneo la classificazione del mondo naturale nel Systema Naturae (1735). Ancora nel 1791, cioè due anni dopo la presa della Bastiglia, lo scopritore del rapporto tra forza elettrica e moto animale, Luigi Galvani, espose le sue ricerche nel De viribus electricitatis in motu muscolari.
Ma non contava solo l’aspetto della comunicazione europea dei contenuti del pensiero di questo o quell’autore che lavorava nel suo rispettivo paese di appartenenza. Infatti qualcuno di loro, prima ancora di porsi problemi di comunicazione, mostrava di apprezzare le spiccate qualità del latino nell’espressione stessa di quei contenuti. Uno fu Blaise Pascal, uno scrittore e spirito religioso molto ammirato da Manzoni e molto influente su di lui, e sul quale torneremo. Pascal era anche un matematico. In una lettera del 29 luglio 1654 a un collega, dopo aver cominciato a esporgli le sue scoperte sul calcolo delle probabilità nella loro comune lingua francese, si arrestò di colpo: «Par exemple, et je vous le dirai en latin, car le français n’y vaut rien: Si quotlibet litterarum, verbi gratia octo», eccetera. Proprio così: per spiegarsi meglio Pascal abbandona il francese, che non funziona più, e passa al latino.
Fermiamoci qui. Dobbiamo riavvicinarci alla letteratura e a Manzoni. Lo faremo osservando che nel corso del Settecento l’onnipotenza del latino fu messa in discussione da parte di coloro che sottoponevano a critica ogni aspetto dell’eredità del passato, gli Illuministi. Il confronto fra le posizioni di due di loro ci avvierà a capire in quale più precisa direzione si sarebbe ormai trovato incanalato, negli anni di formazione di Manzoni, il precedente universalismo latino. I due sono lo scienziato Jean Baptiste d’Alembert e il filosofo Denis Diderot, i due direttori dell’Encyclopédie, il monumentale manifesto dell’Illuminismo francese. Proprio nel suo Discorso preliminare all’Enciclopedia, risalente al 1751, d’Alembert prendeva già atto, non senza qualche sfumatura di rammarico, che il latino era in crisi e destinato in futuro a un uso residuale. Invece Diderot nel Progetto di una università per il governo di Russia, steso fra il 1775 e il 1776 per la zarina di Russia Caterina II, negò al latino qualsiasi rimpianto: non serve a nessuno, scrisse, «tranne che ai poeti, agli oratori, agli eruditi, e a simili tipi di letterati di professione, il che vuol dire a tutta gente che è la meno necessaria alla società».
Insomma, siamo arrivati al punto: il latino e noi, letterati di ieri e di oggi, cultori, autori, lettori di opere di umane lettere. Nei paesi di lingua neolatina e in primo luogo in Italia, latino e letteratura hanno avuto storicamente un rapporto strettissimo, quasi una vera e propria identificazione. È un’eredità dell’Umanesimo, con la sua riscoperta e promozione, anzi esaltazione, degli autori classici, e dopo circa sette secoli questa eredità mantiene una sua forza. Attenzione, però: fra i letterati di ieri e quelli di oggi, per quanto tuttora affratellati da vincoli non facili da spiegare ma profondissimi, da una sorta di ineffabile omertà di fondo, c’è una differenza decisiva. Se si escludono gli specialisti e gli insegnanti di lingue classiche e qualche altro personaggio di eccezionale competenza (diciamolo col poeta latino Giovenale: «rara avis», uccello raro), i letterati di oggi sono per lo più dei latinisti magari volonterosi, ma un po’ impacciati, e comunque limitati. Per esempio: quanti di loro sono davvero in grado di tradurre all’impronta un capitolo delle storie di Tito Livio? E un’ode di Orazio? E quanti versi di poesia latina ricordano e possono recitare a memoria?
A me, che ho studiato lettere tutta la vita, risuona ancora in mente, circa mezzo secolo dopo averlo imparato, un verso delle Georgiche di Virgilio. Lo ricordo, come mi fu insegnato, proprio in metrica, cioè cogli accenti tutti spostati, ma corrispondenti al ritmo della lettura poetica: «Sèd fugit ìntereà fugit ìrreparàbile tèmpus»: ma fugge intanto, fugge irreparabilmente il tempo. Facciamoci un’idea di confronto. Nella sua autobiografia Vittorio Alfieri, vissuto fra 1749 e 1803, racconta le sue prodezze di collegiale: nei suoi momenti migliori sfiorava i 400 versi delle Georgiche declamati a memoria senza interruzione. Non mi vorrò mica paragonare con Alfieri? Certo che no, ma il problema non è lui, è il suo anonimo compagno di classe con cui Vittorio era sempre in gara: «L’emulazione – scrive il poeta – mi si accrebbe, per l’incontro di un giovine che competeva con me nel fare il Tema, ed alcuna volta mi superava; ma vieppiù poi mi vinceva sempre negli esercizj della memoria, recitando egli sino a 600 versi delle Georgiche di Virgilio d’un fiato, senza sbagliare una sillaba».
Bisogna riflettere su una testimonianza come questa per capire cosa fossero il latino, la poesia latina per i letterati grandi e piccoli di un tempo, anche per i loro più oscuri colleghi o condiscepoli. Ce l’avevano non solo in testa, ma nel sangue, come un modo di pensare e di essere. Manzoni non fa eccezione. Senza diventare un grande filologo, anche grecista, come Leopardi, divorato dall’ardore solitario di uno studio matto e disperatissimo nella biblioteca familiare di Recanati, Alessandro ha però fatto i suoi bei studi classici seguendo il normale percorso di un giovane nobile educato nei collegi religiosi: mentre nutriva una fiera avversione per gli insegnanti, a suo parere ipocriti e mediocri, e scriveva contro di loro qualche intemperante ragazzata di cui si sarebbe poi pentito dopo il ritorno alla fede cattolica, s’impadroniva dei poeti latini e della loro lingua con una passione e una competenza che non lo avrebbero più abbandonato.
Tutti i suoi scritti lungo tutta la sua vita testimoniano una familiarità confidente coi classici, sempre citati con sicurezza e disinvoltura, e c’è un episodio che spiega a meraviglia la sua appartenenza a quella illustre tradizione. Molto dopo gli anni di collegio, nel 1868 – aveva ormai 83 anni –, durante una passeggiata nei giardini pubblici di Milano, vide degli uccelli chiusi in gabbia, e il suo amore per la libertà gli ispirò l’idea che quelli si rivolgessero con un moto d’invidia alle anatre che scorrazzavano sullo stagno. Da questa ispirazione è nata una poesia, una specie di scherzo garbato e serio sulle diverse condizioni dei viventi. Noi, che siamo letterati diversamente, oltre che inferiormente, rispetto a lui, ai volatili prigionieri faremmo dire: «Anatre fortunate cui sorride l’aria aperta, e cui si offre libero nella sua ampiezza lo spazio dello stagno!». Ma l’inventore del latinorum non aveva perso la pratica dell’antico collegiale coi distici elegiaci latini: «Fortunatae anates quibus aether ridet apertus, / Liberaque in lato margine stagna patent!». Sì, Manzoni ha composto la sua ultima poesia in latino: Volucres, uccelli.
Questa familiarità si era già palesata nel modo più intimo e toccante che si possa immaginare. Fra i poeti latini amati da Manzoni il prediletto fu Virgilio, il poeta della natura e dell’amore, della tragedia della guerra e dell’umanità dolorosa. Studiato e tradotto in collegio, gli è rimasto sempre nella mente e nel cuore. Sotto l’ala di Virgilio era avvenuto l’esordio di Alessandro in poesia, a dodici anni, nel 1797, con un’esercitazione sul secondo libro dell’Eneide di cui ci è rimasto un piccolo frammento sul cavallo di Troia. Leggiamolo con la tenerezza che merita il primo balbettamento di un futuro grande poeta: «Destrier si formi, e sia ben vuoto in mezzo, / dentro poniamvi quanti mai vi possano / soldati star». Virgilio fu poi sempre un riferimento dominante per lo scrittore maturo, che fra l’altro gli dedicò una entusiastica analisi in quella mirabile summa di storia della letteratura universale che è il trattato Del romanzo storico, concepito nel 1827 e pubblicato nel 1850. Siccome non è possibile citare tutta quell’analisi, accontentiamoci di farlo con la frase che ne costituisce il succo: «Avere accennato ciò che la poesia vuole, è avere accennato ciò che Virgilio fece, in un grado eccellente».
Il rapporto è ancora più intrinseco, proprio perché la memoria virgiliana di Manzoni toccava davvero le corde più delicate del suo sentimento. Nel sesto libro dell’Eneide, prima di far scendere il protagonista nell’Ade, l’Aldilà pagano, e lì fargli avere la rivelazione della futura grandezza politica di Roma, Virgilio descrive il tempio di Apollo a Cuma e spiega perché Dedalo non è riuscito a raffigurarvi, fra le altre scene, quella della morte del figlio Icaro. Ci si è provato due volte, ma due volte il cuore non gli ha retto e due volte gli sono cadute le mani di padre addolorato: «Bis patriae cecidre manus». Questa espressione virgiliana, che è anche volgarizzata nell’uso quotidiano – mi cadono le mani, mi fai cadere le braccia –, Manzoni l’ha ripresa già nel Cinque maggio, raccontando come Napoleone abbia tentato più volte invano di lasciare ai posteri la sua autobiografia: «E sull’eterne pagine / Cadde la stanca man!». Ma l’ha nuovamente ripresa, a distanza di tredici anni, per un’occasione molto più personale: il giorno di Natale del 1834, primo anniversario della morte prematura della sua amatissima moglie, ha cominciato a comporre un’ode religiosa sul tema (che vedremo per altri versi cruciale) dell’onnipotenza di Dio e dello smarrimento umano di fronte alla morte dei giusti e degli innocenti, Il Natale del 1833. Ne restano una trentina di versi, sofferti, interrotti, incompiuti. Arrendendosi di fronte alla piena del proprio dolore, Manzoni ha siglato la rinuncia con le due parole che gli risalivano dal fondo del cuore: cecidre manus.
Insomma, Manzoni aveva tutte le carte in regola per appartenere alla gloriosa tradizione classica della letteratura italiana, quella cui fra Sette e Ottocento erano appartenuti e appartenevano – ben inteso, ognuno con la sua specifica personalità – Parini, Alfieri, Monti, Foscolo, autori tutti importanti nella sua formazione giovanile. Una tale appartenenza comportava non solo venerazione e dimestichezza rispetto ai poeti classici, specie quelli latini, ma anche volontà di imitarli e proseguirli in uno stile alto e raffinato di scrittura, comprensivo dell’uso della mitologia pagana come fonte d’ispirazione tuttora valida per la poesia moderna.
Su questa linea Manzoni compose fra l’altro, nel 1809, un poema mitologico dedicato a Urania, che sta, per così dire, a mezza via tra la Musogonia di Monti e LeGrazie di Foscolo. Eccone il contenuto. Dopo una tenzone fra poeti greci che aveva visto vincitrice Corinna, aiutata dalle Grazie, lo sconfitto Pindaro viene confortato nel Parnaso, il monte del dio Apollo e delle Muse, da una di loro, Urania appunto, che gli spiega che Giove ha inviato Muse e Grazie sulla terra per ispirare i poeti nella loro funzione civilizzatrice. Il giovane Alessandro si augura di essere annoverato fra questi: «Mi sollecita amor che Italia un giorno / Me de’ suoi vati al drappel sacro aggiunga, / Italia, ospizio de le Muse antico». Come si vede, il poemetto è naturalmente scritto in endecasillabi sciolti, cioè non rimati, il metro regale della storia della poesia classica italiana, usato in una vastissima produzione che si attesta sui livelli qualitativi più diversi, ma che comunque comprende anche i Sepolcri di Foscolo e l’Infinito di Leopardi. Il dato più interessante è però che Manzoni aveva già allora qualche dubbio su quanto stava facendo.
Lo impariamo da due sue lettere all’amico francese Claude Fauriel. Nella seconda, del 6 settembre 1809, forse riferendosi proprio a Urania o forse a un’altra composizione neoclassica cui sta lavorando, Manzoni esprime un giudizio seccamente negativo. Traduco: «Sono molto scontento di questi versi, soprattutto perché non presentano nessun motivo d’interesse; non bisogna farne così; magari in futuro ne farò di peggiori, ma non così». La prima, scritta il 9 febbraio 1806 in italiano, è anche più importante, perché consiste in un esplicito e ampio confronto con la tradizione classica. Il giovane poeta se ne sente e vuole esserne parte, ma sa già sottoporla a uno sguardo critico. Ha ricevuto da Fauriel degli elogi per i suoi versi In morte di Carlo Imbonati, gli stessi che saranno elogiati poco dopo anche in una nota dei Sepolcri. Imbonati era stato il compagno di sua madre a Parigi e Alessandro lo celebra, senza averlo conosciuto, come un «giusto solitario», un modello di rigore morale e dedizione al generoso e disinteressato studio degli antichi. Rispetto all’Urania, qui siamo in un’altra stanza dell’illustre palazzo del Neoclassicismo: intemerata onestà e fierezza, solitudine dell’intellettuale, disprezzo verso il presente «secol sozzo» e dunque esaltazione dei predecessori più indignati, il tragico Alfieri, «che ne le reggie primo / L’orma stampò dell’Italo coturno» (il coturno era lo stivaletto calzato dagli attori delle tragedie greche e romane), e il satirico Parini, «scola e palestra di virtù».
I versi per Imbonati restano fedeli alla linea. Ma la risposta agli elogi di Fauriel è straordinariamente problematica e acuta. L’interlocutore doveva aver scritto qualcosa in favore dell’endecasillabo sciolto, il metro usato anche qui da Manzoni, il quale proprio da questo parte per proporre una concentrata sintesi di critica letteraria fra antichi e moderni: «Lo Sciolto parmi veramente il più bello dei nostri metri, quando è ben maneggiato. Parmi ch’esso abbia, come l’esametro latino, il pregio di prendere ogni colorito». Al solito, i classici incombono, e infatti seguono riferimenti ammirati a Virgilio e Orazio. Poi, tornando alla poesia italiana, un’osservazione non scontata: la rima non è una difficoltà in più, al contrario, coi suoi vincoli essa ispira di per sé nuovi pensieri allo scrittore, sicché sono invece proprio gli endecasillabi non rimati il vero banco di prova delle «virtù poetiche», e «il Parini è sommo scrittore di versi sciolti perché le aveva tutte». Su questa conclusione la partita sembra chiusa nella scia della fedeltà alla linea, sotto il segno di un suo esimio rappresentante, e invece, con uno scarto netto, il discorso si riapre, in un modo, appunto, acutamente problematico.
Manzoni ragiona sul poemetto Il Giorno, l’incompiuto capolavoro di Parini. Si tratta della severa e polemica descrizione di come sciupasse la sua giornata un giovane nobile del tempo. Il nobile milanese Manzoni conosceva benissimo il contesto e le ragioni della satira, perché essa era maturata nella Milano degli anni Sessanta del Settecento, sullo sfondo delle discussioni illuministiche del giornale «Il Caffè», con la presenza dei fratelli Pietro e Alessandro Verri e di Cesare Beccaria, che fra l’altro era stato suo nonno materno. Conosceva di sicuro anche un aspetto particolarmente delicato dei costumi di quell’epoca, che costituisce, per così dire, il quadro della rappresentazione del Giorno, e cioè il fatto che il «giovin signore» protagonista dell’opera fosse un cavalier servente, ovvero un cicisbeo, accompagnatore ufficiale di una dama maritata a un altro uomo, «la pudica d’altrui sposa a te cara», come Parini la definisce mordacemente, rivolgendosi al suo eroe negativo in un verso che torna più volte quasi invariato nel poema. Manzoni ha sempre glissato sul cicisbeismo, che aveva inciso in modo determinante sulla vita di sua madre, e noi ci torneremo, per lo stretto necessario, solo quando più avanti occorrerà parlare delle figure femminili da lui create.
In questa lettera IlGiorno viene esaltato come esemplare nelle intenzioni rispetto allo scopo più alto dell’arte, «d’erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile», ma viene anche fatto oggetto, quanto ai risultati, di un giudizio, a ben vedere, molto negativo: semplicemente, è troppo difficile, quindi alla fin fine poco utile. Parini, «quel sommo uomo», «non ha fatto che perfezionare di più l’intelletto e il gusto di quei pochi che lo leggono e l’intendono; fra i quali non v’è alcuno di quelli ch’egli s’è proposto di correggere». Questo giudizio merita un commento: i corrigendi sono i nobili dal Settecento in poi, a cominciare da quelli dell’illuminata Milano. Davvero gli esponenti del ceto dirigente della Parigi d’Italia non capiscono IlGiorno? Non è che Manzoni sta un po’ esagerando? Facciamo comunque un sondaggio su di noi.
In una delle sezioni del poema, intitolata Il Vespro, s’immagina che sul far della sera il cavalier servente conduca in carrozza la sua bella, pudica sposa d’altrui, ad incontrare altre dame e altri accompagnatori con cui scambiare – diremmo noi – quattro chiacchiere in amicizia sulle ultime novità. Niente di astruso, anzi. Ma il poeta trova ineluttabile che ciò sarà l’occasione per spettegolare malignamente sulle assenti, il cui arrivo per altro è prossimo, e rivolgendosi all’Amicizia, intesa come dea, la invita a moderare le linguacce delle presenti e ad ispirare al «giovin signore» un atteggiamento parimenti discreto e generoso, appunto da vero amico e non da sparlatore. L’ho riportata, riassumendo e parafrasando, a modo mio. Ecco Parini: «Tu fra le dame / sul mobil arco delle argute lingue / i già pronti a scoccar dardi trattieni, / s’altra giugne improvviso a cui rivolti / pendean di già: tu fai che a lei presente / non osin dispiacer le fide amiche: / tu le carche faretre a miglior tempo / di serbar le consigli. Or meco scendi; / e i generosi ufici e i cari sensi / meco detta al mio eroe; tal che, famoso / per entro al suon delle future etadi, / e a Pilade s’eguagli e a quel che trasse / il buon Tesèo da le tenarie foci».
Bello ed elegante, in una felice chiave ironica, ma in effetti non proprio facilissimo. Non saprei dire se davvero nessuno dei destinatari corrigendi poteva capire; quanto a me, mi sono districato da solo fra i versi che giocano sulla repressione della maldicenza nei confronti della dama non ancora arrivata, ma per gli ultimi due ho avuto bisogno di un supporto proprio per apprezzare la felice ironia. Il galante cicisbeo si mostrerà un vero amico se si comporterà come due eroi della mitologia classica: il primo è citato, Pilade, sempre fedele compagno delle peripezie del cugino Oreste; il secondo è Ercole. La definizione di quest’ultimo richiede un’ulteriore spiegazione: fra le sue varie magnanime prodezze c’è quella di aver liberato dall’Oltretomba Teseo, a sua volta definito buono perché vi aveva accompagnato Piritoo (che neppure Ercole riuscì a liberare); le tenarie foci, che traducono le tenarias fauces delle Georgiche di Virgilio, sono appunto il luogo d’entrata (o meglio: uno dei possibili luoghi d’entrata) nell’Oltretomba secondo gli antichi, il capo Tenaro, l’odierno Matapàn, sulla punta della penisola del Mani nel Peloponneso.
È estremamente interessante il modo in cui, nella sua lettera a Fauriel, Manzoni motiva la difficoltà di capire Parini e nell’insieme la poesia classica italiana; la presenta in effetti come un problema di lingua: «Per nostra sventura, lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta». Cioè, sullo sfondo della storica disunione politica, non esiste una lingua condivisa da tutti gli Italiani e naturalmente usata sia nel parlato che nello scritto. A vent’anni Manzoni aveva già ben chiaro un rovello su cui avrebbe riflettuto e lavorato durante tutta la sua lunga vita (anche su questo torneremo), e ciò già nell’ottica, che qui si delinea nelle frasi successive e che egli avrebbe poi sempre mantenuto, del confronto con la Francia, una nazione più fortunata perché da secoli unita e libera. Ma in questo testo rivelatore c’è dell’altro: si legge fra le righe, ma c’è di sicuro. Perché in fin dei conti Parini è comprensibile da qualsiasi italiano che possieda una buona cultura classica, dunque qui non c’è solo la presa d’atto della mancanza di una lingua nazionale, ma anche – inseparabile da questo rilievo – l’insoddisfazione per una letteratura accessibile solo ai pratici sia di «carche faretre» che di «tenarie foci», per una letteratura, insomma, privilegio di pochi intellettuali raffinati, patrimonio – per dirla con polemica impazienza – dei soli esperti di latinorum.
Queste considerazioni ammirate ma critiche sul Giorno contengono la promessa degli Inni sacri, le prime poesie religiose di Manzoni dopo la sua cosiddetta conversione, cioè il suo sofferto processo di riavvicinamento alla fede cattolica che una pittoresca leggenda vorrebbe frutto di una sorta di folgorazione avvenuta il 2 aprile 1810 nella chiesa parigina di San Rocco, la quale, peraltro, commemora in una lapide il presunto miracolo. Tranne la Pentecoste, lungamente elaborata fra 1817 e 1822, gli Inni sacri, composti fra 1812 e 1815, non si possono forse definire dei capolavori, ma la loro prima edizione nel 1815 segna comunque una svolta nella storia della letteratura italiana. Ancora alla vigilia dell’inizio in Italia della polemica fra Classicismo e Romanticismo, Manzoni taglia già i ponti col primo e lo fa in una sua maniera molto peculiare, destinata a segnare la propria adesione al secondo e a condizionare il profilo che esso avrebbe preso nella letteratura italiana. Si tratta di una scelta che ha la forza della coerenza e della semplicità: la letteratura ha senso solo se non è un gioco di corte o d’accademia, ma una pratica morale in rapporto con l’umanità vivente, l’umanità nuova del Cristianesimo; e ha valore solo se può arrivare a tutti gli esseri umani.
Non deve stupire il fatto che Manzoni realizzi il distacco dalla scuola classica che era stata anche la sua, e dunque una innovativa cesura nella cultura letteraria italiana, con delle poesie che celebrano argomenti quali la Resurrezione, il Nome di Maria, il Natale, la Passione, la Pentecoste. La novità stava nella combinazione di due elementi: quelle poesie trattavano di argomenti familiari a tutti e – non meno importante – lo facevano in versi non sciolti ma rimati, come nelle canzonette da imparare a memoria, e in una lingua e in uno stile ‘facili’. Ecco per esempio nel primo degli Inni, La Risurrezione, il tema, così squisitamente cattolico, della carità: «Sia frugal del ricco il pasto; / ogni mensa abbia i suoi doni; / e il tesor negato al fasto / di superbe imbandigioni, / scorra amico all’umil tetto, / faccia il desco poveretto / più ridente oggi apparir».
Ho dovuto prudentemente racchiudere fra virgolette l’aggettivo ‘facili’, perché stiamo pur sempre parlando di poesie del primo Ottocento. Per intenderci: non sono facili, nel senso di facilmente comprensibili a tutti, come i testi di qualche successo popolare di Gianni Morandi o Vasco Rossi, ma facili come i meno astrusi (ce ne sono di più e di meno) fra i libretti dell’opera lirica italiana dell’età di Manzoni. E non per nulla un collaboratore del giornale liberale «Il Conciliatore», Giovanni Battista De Cristoforis, che in materia la pensava diversamente da Chateaubriand e de Maistre, lodò più tardi gli Inni sacri perché gli ricordavano gli antichi canti d’Israele compresi da ogni fedele: «Così dalla sacra poesia intesa e sentita profondamente da tutti, perché dettata nel linguaggio che tutti parlavano, sommo veniva l’interesse al rito; e la preghiera non pronunziavasi da fredde labbra d’idioti che non l’intendessero, ma partiva caldissima dai cuori compunti».
Era una novità che non fu apprezzata da tutti. Lo scarto rispetto a secoli di poesia classicheggiante risultava sovversivo, e – questo non va dimenticato – una sovversione letteraria può adombrarne una anche più pericolosa. Nella cultura della Restaurazione pesava ancora molto un atteggiamento per il quale la definizione più esatta è dopo tutto quella un po’ più generica e onnicomprensiva: tradizionalismo conservatore. C’era, e si esprimeva nelle sedi adeguate delle accademie e delle composizioni auliche, una tradizione letteraria classica da omaggiare e perpetuare, corrispondente a un ordine delle cose che era insieme sociale e culturale, ordine che si stava ricomponendo dopo la bufera rivoluzionaria e napoleonica e che anche in campo ecclesiastico vedeva il ripristino delle antiche gerarchie e la riscossa delle componenti meno aperte e illuminate. Insomma, tutto doveva tornare al suo posto, e tutti al loro; il che poi voleva dire, nell’ambito del sapere, stare da una parte o dall’altra del discrimine segnato dall’appartenenza o meno a un’élite in grado di comprendere, per esempio, IlGiorno di Parini, o almeno di provarcisi.
Senza bisogno di essere de Maistre o Chateaubriand, un cattolico benpensante italiano poteva così reagire a una raccolta di ‘facili’ inni sacri con una ostilità feroce, che per noi risulta molto istruttiva circa la natura dell’opera aggredita. Leggiamo qualcosa dai Dubbi intorno gl’Inni Sacri pubblicati nel 1829, l’anno stesso della sua prematura morte, da un giovane abate empolese, Giuseppe Salvagnoli Marchetti: «Manzoni avea regalato all’Italia molte cose non italiane […]. Non invidio il Manzoni; perché non ho mai invidiato chi segue false immagini di bene e di vero». «Non ho letto i Promessi sposi»: questa ha tutta l’aria di una bugia, dato che nello stesso 1829 Salvagnoli Marchetti scrisse in una rivista romana un articolo contenente un riassunto del romanzo a dir poco offensivo. E quanto propriamente agli Inni, poiché era troppo per un abate criticarne il contenuto, ecco cento e passa pagine di puntigliose e sprezzanti critiche sulla metrica, la lingua, lo stile, tutti contrari a «quell’aurea sentenza del Parini», che in poesia bisogna essere chiari e immediatamente intellegibili.
Gli Inni sacri incomprensibili, all’opposto del Giorno? Non sto forzando il testo. I Dubbi di Salvagnoli Marchetti sono in effetti costruiti interamente su questo assunto che, se proposto in buona fede, costituirebbe un gigantesco paradosso. Sarebbe la dimostrazione di un attaccamento a suo modo commovente a una forma espressiva inseparabile dalle «carche faretre» e dalle «tenarie foci». Ma forse la buona fede dell’abate non era a prova di bomba. C’è un punto della sua argomentazione da cui sembra emergere l’involontaria ammissione di un fastidio poco limpido. Nel suo attacco contro la Pentecoste egli cita i versi sull’elemosina che il ricco deve fare al povero con discrezione, il tema socialmente sensibile che abbiamo appena incontrato nella Risurrezione: «Cui fu donato in copia, / doni con volto amico, / con quel tacer pudico, / che accetto il don ti fa». Ecco il commento: «Confesso la mia ignoranza; ma senza che l’autore mi spieghi con altre parole il suo pensiero, io non so giungere a intendere i quattro ultimi versi di questa strofe, per quanto mi vi affatichi, e mi lambicchi il cervello».
Siamo onesti: le uniche difficoltà di questi versi stanno – ed è, se mai, un piccolo appunto che potremmo muovere noi a Manzoni, ma in senso opposto alle critiche dell’abate – nella contrazione «cui», che vale latinamente «colui al quale», e nella parola «copia». Quest’ultima non significa, ovviamente, «riproduzione identica», bensì, come in latino, «abbondanza», perché «cui fu donato in copia» è una maniera per indicare poeticamente il ricco, colui al quale fu dato in abbondanza. Dunque Manzoni chiede per una volta al lettore uno sforzo di comprensione verso un uso un po’ letterario di una costruzione e di una parola, riavvicinate alla matrice latina. Figuriamoci se Salvagnoli Marchetti ignorava questa matrice! E comunque l’abate non ha giustificazione nella sua pretesa ignoranza di un concetto che ha una fonte famosa, e, soprattutto, evangelica: «Quando fai elemosina non sappia la tua mano sinistra cosa fa la destra, perché la tua elemosina resti segreta».
Ma è proprio qui il problema: questo lettore di gusto classico e di cultura conservatrice non accetta il respiro sinceramente evangelico, e dunque propriamente egualitario, che Manzoni è riuscito a dare alla sua stupenda rappresentazione della manifestazione dello Spirito Santo. In questo rifiuto non c’è distinzione fra contenuto e linguaggio poetico e le critiche al linguaggio hanno un nocciolo ideologico durissimo, perché rifiutare la poesia degli Inni sacri era il modo di restare legati a un classicismo socialmente connotato, in quanto riservato a pochi. Quando ostentava di non capire – e senza spiegarne, come correttezza avrebbe imposto, il motivo – l’abate stava comunque dalla parte del latinorum di don Abbondio: ciò che davvero lo disturbava era un inquietante sentore di insubordinazione.
2.
La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni
Il latinorum non era però solo letteratura, ma anche storia – e che storia! Il titolo di questo capitolo è un endecasillabo scritto dal giovane Manzoni nel 1801 e si riferisce ad alcuni dei più gloriosi protagonisti della storia dell’antica Roma.
I Fabi erano i membri della gens Fabia, un clan patrizio che si era assunto il compito di combattere, come singola famiglia ma nell’interesse della Repubblica, dei nemici insidiosi, gli abitanti di Veio, che oggi sarebbe Isola Farnese, un borgo situato una quindicina di chilometri a nord di Roma (le prime imprese dell’Urbe caput mundi avevano una scala un po’ ridotta). Purtroppo, però, il 13 febbraio del 477 a.C. i Fabi, resi imprudenti da qualche precedente successo, si fecero cogliere alla sprovvista presso il fiume Cremera dai Veienti, che li sconfissero e li massacrarono tutti: per la precisione 306, come ci informa Tito Livio, lo storico principale cantore della grandezza romana, il quale per altro non manca di aggiungere che il Fabio n. 307 era stato lasciato a casa perché ancora bambino e che così questa eroica gens poté continuare a produrre alla patria uomini illustri, preziosi per i momenti difficili.
Difficilissimo fu, due secoli e mezzo più tardi, il momento della minaccia portata a Roma da Annibale. Per fortuna c’era, appunto, a disposizione un discendente del n. 307, Quinto Fabio Massimo, detto Cunctator, cioè il Temporeggiatore, colui che evitando una battaglia campale logorò le forze del condottiero cartaginese, salvando così la Repubblica. E con questo (e ormai in una dimensione molto maggiore) siamo arrivati ai più importanti fra gli Scipioni, che erano un ramo di un’altra gens patrizia, la gens Cornelia: Publio Cornelio Scipione, detto Africano perché vincitore contro Annibale della battaglia di Zama e della seconda guerra punica, e il suo nipote adottivo Publio Cornelio Scipione Emiliano, trionfatore della terza guerra punica e distruttore delle città di Cartagine e di Numanzia.
Noi oggi abbiamo bisogno di rinfrescarci la memoria, ma quando scriveva questo verso il sedicenne Alessandro aveva ben presenti quei fatti esemplari (tale, nella sua risonanza mitica, anche la battaglia del fiume Cremera). Aveva soprattutto le idee chiare: la «gran madre» dei Fabi e degli Scipioni è Roma antica come patria eletta della Libertà. Infatti, nei versi fra cui si trova quello citato, la Libertà in persona appare al giovane poeta tenendo in mano lo spadone, «il brando scotitor de’ troni», col quale gli antichi Romani hanno vinto e soggiogato i nemici oppressori, costringendoli ad abbassare le loro già tracotanti fronti, a «curvar l’alte cervici umili e proni». Non si tratta dunque di una Libertà qualsiasi, indifferenziata e per tutti gli usi, ma della libertà di una patria repubblicana, generatrice di valorosi combattenti, indomita contro i tiranni; insomma, una libertà rivoluzionaria.
In effetti, il poemetto comprendente tutto ciò, intitolato appunto Del Trionfo della Libertà, riguarda la Rivoluzione francese. L’adolescente Manzoni ne celebra i contenuti a suo parere più autentici: il radicalismo giacobino, l’intransigenza anticlericale, l’integerrimo distacco dal denaro, il generoso spirito di sacrificio per il bene pubblico; tutti valori che però gli sembrano ora traditi nella realtà del dominio francese in Italia, sicché non spende una sola parola d’elogio per il Primo Console Napoleone (potrà legittimamente ricordarlo nel Cinque maggio definendovi se stesso «vergin di servo encomio»), mentre celebra la morte eroica del giovane generale Desaix, il quale con la sua intrepida carica contro gli Austriaci ha propiziato la vittoria della Rivoluzione a Marengo.
D’accordo: chi da ragazzo non è rivoluzionario – diceva Winston Churchill – è senza cuore (non commentiamo il seguito: chi lo rimane da vecchio, è senza cervello). Ma cosa c’entrano i Fabi e gli Scipioni? E non basta, perché nel poemetto dedicato alla rivoluzione contemporanea questi antichi Romani sono in prestigiosa e numerosa compagnia di concittadini non preoccupati dei propri rischi, ma solo del trionfo della Libertà: «Un bel drappello eletto / Di lor che sordi furo al proprio danno, / Caldi d’amor di Libertade il petto». Il secondo dei quattro canti dell’opera elenca questi eroi ed eroine della tradizione, che forse molti di noi hanno già incontrato sui banchi di qualche classe scolastica: Collatino che si è vendicato dello stupro commesso dal figlio del tiranno Tarquinio il Superbo, sua moglie Lucrezia che ha preferito il suicidio all’infamia, Lucio Giunio Bruto che ha avuto la fermezza di mandare a morte i figli complici di Tarquinio (sì, viene ammirato anche lui), Muzio Scevola che non ha temuto di porre sul braciere la sua imprecisa mano destra, Clelia che è scappata dal nemico attraversando a nuoto il Tevere, Orazio Coclite che ha retto l’assalto di un intero esercito sul ponte Sublicio; e altri ancora, fino a culminare nell’eroe per eccellenza della Libertà, il tirannicida per antonomasia, il secondo Bruto, Marco Giunio Bruto, quello che con Cassio ordì la congiura delle Idi di Marzo contro Giulio Cesare (e cui Manzoni qui fa pronunciare, con un bel colpo di divinazione, una dura invettiva contro il Papato: «Ahi cara patria! Ahi Roma! ah! non più Roma…»).
Insomma, la Rivoluzione evoca l’antica Roma: e questa non s’identifica certo tutta col latinorum reazionario! Anzi, qui latinità si accoppia con libertà (potenzialmente o attualmente rivoluzionaria): un binomio da fare inorridire l’abate Salvagnoli Marchetti, per non dire de Maistre, ma sicuramente non meno valido né meno importante dei loro: latinorum e conservazione, o latinorum e sopraffazione. Nella storia della cultura politica italiana ed europea il modello di Roma antica, spesso insieme con quello delle città greche, Atene e soprattutto Sparta, aveva ispirato – per dirla in termini un po’ semplificati – non il regresso ma il progresso, non l’obbedienza ma la ribellione.
Certo, non fu sempre così: Roma era anche un modello imperiale, anzi il modello imperiale per eccellenza. Qui non c’entra l’uso fatto di quell’imperialismo in epoca fascista (con tanto di effetti tuttora vistosi nel profilo urbanistico e monumentale della nostra capitale); ben prima era stato il nostro poeta sommo, Dante, a pensare a Roma proprio in quel senso, tanto da condannare i cesaricidi Bruto e Cassio nel fondo dell’Inferno, mostrandoli addirittura maciullati insieme con Giuda, il traditore per antonomasia, dalle tre bocche di Lucifero, «sì che tre ne facea così dolenti». Tuttavia, in tanti non sono poi stati per nulla d’accordo con Dante; il ripensamento che hanno fatto della storia dell’antica Roma si è manifestato come elogio della libertà e teorizzazione della democrazia. Durante l’età moderna quasi tutti veneravano l’Antichità in quanto tale, come maestra di pensiero e di vita, sicché dominava comunque il Classicismo; ma per molti, e molto importanti autori di quell’età, fino a comprendere il giovane Manzoni, ciò significò più in particolare esaltazione della virtù repubblicana, con buona pace del latinorum dei letterati cortigiani e reazionari.
Bisognerebbe partire dai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, dove a inizio Cinquecento Machiavelli propone a modello gli atti eroici dei primi tempi di Roma narrati da Livio sotto Augusto, primo imperatore, il quale però si presentava come il restauratore dei più autentici e originari valori romani. Ma è più stringente, oltre che più rapido, concentrarsi sulla cultura del Settecento, toccandone due aspetti: la riflessione sulla grandezza degli Antichi (in generale, perché ci sono anche i Greci, ma soprattutto antichi Romani) svolta dai pensatori della Francia dei Lumi (che naturalmente avevano letto anche Machiavelli); la celebrazione degli Antichi da parte dei letterati italiani (occorre appena aggiungere che anche loro avevano letto Machiavelli). Per Alessandro in collegio valeva ovviamente questa seconda celebrazione; ma per Manzoni maturo, profondo conoscitore della cultura francese, sarebbe poi stata anche più importante la prima riflessione.
Montesquieu ha dato un contributo essenziale alla nascita del pensiero politico liberale, con la teoria della divisione dei poteri e della necessità di limitare l’esercizio della sovranità. Nella parte iniziale del suo capolavoro, Lo spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, c’è una elaborata distinzione fra i vari sistemi di governo, comprendente una famosa equazione fra quello repubblicano e la pratica della virtù. Leggiamo un breve passo (IV.4) che ci farà capire come lo spirito di questo maestro di liberalismo, razionalità e moderazione si scaldasse al ricordo delle imprese degli eroi antichi. Montesquieu non riporta l’elenco che Livio ha diffuso fino a Manzoni e oltre, ma noi intendiamo comunque bene cosa ha in mente: «La maggior parte dei popoli antichi vivevano sotto governi che avevano la virtù per principio; e quando questa vi era in pieno vigore, vi si facevano cose che oggi non vediamo più, e che sbigottiscono le nostre piccole anime».
Rousseau si spinge anche oltre. La sua presenza è cruciale, perché di lui Manzoni scrisse una volta che le sue idee sono all’origine di tutti i più decisivi cambiamenti avvenuti poi nella società europea; e lo scrisse a ragione. Qui concentriamoci sul trattato Il contratto sociale (1762), che ha definito i termini della democrazia e della sovranità popolare. In questo capolavoro Rousseau analizza sistematicamente le istituzioni dell’antica Roma, ritenendole evidentemente un punto di riferimento per il moderno governo democratico, e a questa analisi dedica quasi per intero il libro quarto dell’opera (quarto su quattro, non su quaranta). In un altro suo scritto, sul governo della Polonia (1772), se n’è uscito in una battuta di ammirazione complessiva che ricalca quella che abbiamo letto qui sopra di Montesquieu: «Quando si legge la storia antica, si è come trasportati in un altro universo, e fra altri esseri […] Le anime forti degli antichi sembrano agli altri delle esagerazioni della storia». Torna di nuovo in mente la galleria eroica che già conosciamo e che Rousseau rielaborò in vari luoghi della sua produzione nell’ottica politicamente radicale che gli era propria: nell’interesse generale il popolo sovrano deve saper resistere anche ai ricatti dell’umanitarismo. Ciò, fino all’estremo: il secondo Bruto deve difendere la Repubblica uccidendo Cesare, e il primo deve farlo decretando addirittura la morte dei propri figli.
Nel corso del Settecento, soprattutto della seconda metà del secolo, simili fieri e talora spaventosi esempi di virtù favorirono una profonda trasformazione nella cultura artistica e letteraria, introducendovi una gravità morale e un impegno politico che potevano far presagire cambiamenti tempestosi. Nel caso delle opere figurative il proposito degli autori non è sempre facile da intendere univocamente. Per fare solo un esempio, il famoso dipinto di Jacques-Louis David rappresentante i littori (cioè gli ufficiali) che riportano a Bruto i corpi dei figli giustiziati, eseguito precisamente nel 1789, è ed era interpretabile, in chiave antirussoviana, anche come manifestazione di raccapriccio verso un rigore orrendamente eccessivo. Ma per la formazione del giovane Manzoni contavano i poeti, e le loro parole erano più esplicite. Ascoltiamo quelle del più significativo a questo riguardo, Vittorio Alfieri, di cui già sappiamo dai versi in morte di Imbonati che «nelle reggie primo / L’orma stampò dell’Italo coturno».
Negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione francese Alfieri compose le due tragedie Bruto primo e Bruto secondo, rispettivamente dedicate al punitore dei propri figli e al cesaricida. Lo fece anche in polemica con Voltaire, che oltre mezzo secolo prima aveva rappresentato un Brutus (è il primo Bruto) che irritava il tragediografo italiano perché la dura vicenda esemplare vi veniva annacquata da una complicazione amorosa e il rigore libertario vi appariva minacciato da qualche cedimento filomonarchico: «Che Bruti, che Bruti di un Voltaire? – scrisse in quella stessa autobiografia dove aveva riferito le gare di memoria sulle Georgiche di Virgilio – io ne farò dei Bruti, e li farò tutt’a due». Il contenuto ideologico della sua ispirazione lo si trova esplicitato in un suo scritto quasi contemporaneo, il trattato Della Tirannide (1777): «Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi sé stessi: nelle tirannidi all’incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa». Ecco il succo – evidentemente – del Bruto primo, ma in realtà anche del Bruto secondo, perché Alfieri vi fa propria la tradizione secondo cui Cesare, amante della madre di Bruto, ne sarebbe stato il padre naturale. Dunque le due tragedie esibiscono lo stesso eroico patriottismo superiore a ogni affetto privato: come il primo Bruto manda a morte i figli, il secondo partecipa, consapevolmente, all’uccisione del padre.
Del resto, fra i due Bruti, somiglianza ed emulazione, in una gara di magniloquenza enfatica per la quale non è facile assegnare la palma della vittoria. Qui e là, senza neanche l’ombra di una donna, solo amanti della libertà, tiranni e popolo. È tutto uno snudare brandi, gonfiare petti e offrirsi in sacrificio. Smentendo il pensoso Virgilio, che nell’Eneide (VI.823) lo aveva definito infelice, e animato, oltre che dall’amor di patria, da un’infinita brama di gloria («laudum immensa cupido»), il primo Bruto di Alfieri chiarisce il punto ai suoi concittadini: «In me non entra / per ciò di stolta ambizione il tarlo: / d’onori, no, (benché sien veri i vostri) / ebro non son: di libertade io ’l sono; / di amor per Roma; e d’implacabil fero / abborrimento pe’ Tarquini eterno». Agli stessi cittadini poi, nel finale, mentre si concede la debolezza di non contemplare l’esecuzione dei figli che egli stesso ha imposto, raccomanda però di far tesoro dell’esempio: «Farmi del manto è forza / agli occhi un velo… Ah! Ciò si doni al padre… / Ma voi, fissate in lor lo sguardo: eterna, / libera or sorge da quel sangue Roma». Memore di tanta grandezza, il secondo Bruto, nel cercare di convincere Cesare a deporre il potere, gli spiega, citando il proprio antico omonimo, che un libero romano non potrà mai riconoscersi figlio di un tiranno: «Ho nome / Bruto; ed a me sublime madre è Roma. / Deh! Non sforzarmi a reputar mio vero / genitor solo quel romano Bruto, / che a Roma e vita e libertà, col sangue / de’ proprj suoi svenati figli, dava». Ma Cesare ormai è schiavo della sua corruzione politica, sicché in chiusura della tragedia non resta che il tirannicidio con le sue cruente ripercussioni. Bruto proclama: «A morte, / a morte andiamo, o a libertade.» Il popolo risponde: «A morte, / con Bruto a morte, o a libertà si vada».
Quando Alfieri scriveva questi versi altisonanti, la Rivoluzione francese non era ancora scoppiata, ma quella americana era già finita con successo; e non per nulla il Bruto primo è dedicato «al chiarissimo e libero uomo il generale Washington», con la motivazione che «il solo nome del liberator dell’America può stare in fronte della tragedia del liberatore di Roma» (il Bruto secondo è dedicato «al popolo italiano futuro»). Poco dopo sono comunque comparsi per davvero anche i rivoluzionari francesi, e fra di loro i più romanamente severi: i giacobini.
Abbiamo percorso un po’ in fretta un cammino molto importante e arduo, ma siamo abbastanza preparati a constatare come il progetto rivoluzionario si sia rispecchiato nel modello delle repubbliche antiche e a leggere, in proposito, le parole di Robespierre. Il suo celebre discorso del 18 piovoso dell’anno II (5 febbraio 1794) Suiprincipi di morale politica che devono guidare la Convenzione nazionale non è necessariamente solo un’esaltazione del Terrore, ma certo lo è della lezione degli Antichi, ripensata, in un momento cruciale dell’attualità politica, riprendendo in termini drastici le interpretazioni di Montesquieu e Rousseau: «Ora, qual è mai il principio fondamentale del governo democratico o popolare, cioè la forza essenziale che lo sostiene e che lo fa muovere? È la virtù. Parlo di quella virtù che operò tanti prodigi nella Grecia ed in Roma, e che ne dovrà produrre altri, molto più sbalorditivi, nella Francia repubblicana. Di quella virtù che è in sostanza l’amore della patria e delle sue leggi». Ma l’ora è drammatica, e per reagire ai pericoli incombenti non si può tacere quanti danni abbia prodotto l’azione della tirannide e del servilismo, allontanandoci da quelle condizioni ideali di virtù. Sparta è caduta; in Atene vi sono molti abitanti ma non più veri Ateniesi. «E che cosa importa mai che Bruto abbia ucciso il tiranno? La tirannia sopravvive ancora nei cuori, e Roma non esiste più se non in Bruto».
Quando, due anni più tardi, le armi di Napoleone portarono la Rivoluzione in Italia, Robespierre e i giacobini erano ormai stati rovesciati, ma l’entusiasmo rivoluzionario per l’antica virtù era ben vivo, e nella nostra letteratura trovò un terreno fertile: come abbiamo visto, la fecondazione era già precedente; e del resto, dove trovare maggior convinzione della grandezza di Roma che presso i poeti italiani? In questi suoi figli ed eredi diretti le idee politiche sovversive dei Francesi infusero una carica travolgente: rottura netta col degrado presente maturato sotto regnanti stranieri ed indegni (e, appaiati a questi, i sovrani pontefici); emulazione con la cultura francese, oggetto di ammirazione ma anche stimolo alla presa di coscienza della propria identità italiana, volontà appassionata di partecipare alla costruzione di qualcosa di glorioso e capitale. Una rivoluzione, appunto, ma che continuava a trarre energia dall’esempio degli Antichi. Quando si leggono le opere di quei letterati non bisogna sottovalutare l’effetto esplosivo di questa miscela: essi vivevano un dramma enorme, sproporzionato ai ritmi e agli eventi comuni, e un po’ di sovreccitazione è da mettere in conto e con essa la tendenza a evocare, in appoggio, la classicità come il modello inevitabile di ritmi ed eventi eccezionali. Del resto lo avevano già detto Montesquieu e Rousseau: quegli eventi erano così eccezionali da apparire addirittura «esagerazioni della storia che sbigottiscono le nostre piccole anime».
La tendenza fu diffusa; e, specie nei primi anni del dominio francese, precisamente un tono che non è irriguardoso definire di sovreccitazione fece da denominatore comune alle produzioni letterarie italiane, fossero esse ancora entusiaste o già più critiche – come nel caso di Manzoni – verso la figura individuale di Napoleone. Il fenomeno non riguardò solo gli scrittori più immaturi o più modesti: al contrario. Nell’imbarazzo della scelta in un materiale sovrabbondante conviene puntare su Vincenzo Monti: un uomo, è vero, sempre incline ad accendersi per l’una o l’altra corrente dominante, ma pur sempre il sovrano poeta di quell’età di passaggio e di repentini rivolgimenti.
Quando nel 1797 compose la sua canzone
L’autore-Roberto Bizzocchi
Roberto Bizzocchi, professore dell’Università di Pisa, si è occupato di vari temi di storia politico-culturale e sociale dell’età moderna. Ha pubblicato, tra l’altro, Chiesa e potere nella Toscana del Quattrocento (Bologna 1987), Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna (Bologna 1995, traduzione francese Parigi 2010) e ha curato Il carattere degli Italianidi Simonde de Sismondi (Viella 2020). Per Laterza è autore di In famiglia. Storie di interessi e affetti nell’Italia moderna (2001), Guida allo studio della storia moderna (2002, traduzione rumena Bucarest 2007), Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (2008, traduzione inglese Londra 2014 e francese Parigi 2016) e I cognomi degli Italiani. Una storia lunga 1000 anni (2014).
Edizione: 2022
Pagine: 200
Collana: i Robinson / Letture
ISBN carta: 9788858149171
ISBN digitale: 9788858150405
Argomenti: Letteratura: testi, storia e teoria, Storia moderna
I Promessi Sposi, un romanzo di lotta e un atto d’amore di Manzoni per l’Italia
Francesco Mannoni intervista Roberto Bizzocchi
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Roberto Bizzocchi, in un saggio a 150 anni dalla morte dello scrittore, analizza gli aspetti più profondi dell’opera: «Al centro ci sono i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti. Il lavoro sulla lingua unì la penisola»
Francesco Mannoni | L’Eco di Bergamo | 4 gennaio 2023
Oltre all’ispirazione cristiana, nei «Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni, c’è ben altro, e precisamente: «Identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano».
Questa particolarità critica, nel centocinquantenario della morte di Alessandro Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – 22 maggio 1873) la sostiene Roberto Bizzocchi, docente di storia moderna dell’Università di Pisa, in un saggio che analizza con il microscopio d’una critica attenta e sottile gli aspetti più autentici e profondi del grande «Romanzo popolare» (Laterza, 200 pagine, 20 euro, ebook 12,99 euro), spiegando, con un procedimento diagnostico, «Come i Promessi Sposi hanno fatto l’Italia».
Una rilettura appassionante dei «Promessi Sposi» la sua, professore, che ci fa vedere un mondo che forse ci era sfuggito. Alla luce del suo studio approfondito, i «Promessi Sposi» è un romanzo o più un trattato socio-politico?
«È un romanzo, e bellissimo, ma con una caratteristica forte, che lo distingue dagli altri bellissimi romanzi dell’Ottocento europeo: non racconta gli eventi e i personaggi e le loro azioni in modo oggettivistico, limitandosi a riprodurre la realtà, ma vi aggiunge sempre il suo giudizio morale. Gli uomini possono comportarsi bene o male, le cose che succedono possono essere giuste o ingiuste; e noi dobbiamo avere ben viva la coscienza di ciò, perché la Provvidenza non esime gli uomini dalle loro responsabilità individuali. In questo atteggiamento il cattolico Manzoni resta un uomo dell’Illuminismo, la cultura in cui si era formato, la quale insegna a non arrendersi mai di fronte alle storture del mondo, bensì a combatterle, per rendere meno brutta la nostra vita. Quindi, senza parlare di trattato, si può dire che il romanzo ha un deliberato intento programmatico e pedagogico».
Da quali elementi di rilievo inizia la sua radiografia dell’opera manzoniana?
«Sono partito dall’impressione di “romanzo di lotta” che i Promessi Sposi mi hanno sempre fatto, fin dalla mia prima lettura ginnasiale, e poi sempre di più nelle letture in età matura. Bisogna liberarsi dal pregiudizio su Manzoni moderato e accomodante, mettendo subito in chiaro che il rifiuto della violenza e l’obbligo del perdono – quelli che padre Cristoforo ricorda a Renzo – sono, semplicemente, coerenti con la fede di un vero cristiano, quale Manzoni fu. Per il resto, il quadro della società del Seicento è severo fino all’indignazione: governanti cialtroni (quasi tutti), signorotti prepotenti (don Rodrigo), funzionari e avvocati (Azzecca-garbugli) asserviti al malaffare, intellettuali condizionati da sciocche superstizioni (don Ferrante), per non dire del parroco don Abbondio inadempiente per vigliaccheria. Manzoni moderato? A me pare un radicale, perfino troppo duro nella rappresentazione di un secolo che – gli storici di oggi ce l’insegnano – non aveva solo brutture».
Quali fatti e azioni rendono l’epoca dei «Promessi Sposi» vicina in qualche modo ai nostri giorni? Possiamo dire che tante deficienze sono ancora presenti nel nostro super mondo in cui pandemie e guerre ancora imperversano e si ripetono le solite ingiustizie di sempre?
«In effetti proprio l’intransigenza di Manzoni ha fissato nel romanzo delle descrizioni che sembrano eterne. Impossibile non pensare ad alcune drammatiche vicende che abbiamo vissuto negli ultimi anni, quando rileggiamo le pagine grandiose sulla tragedia della peste, e anche sullo smarrimento umano di fronte a calamità che sembrano inarrestabili. Oggi abbiamo strumenti di difesa ben maggiori; ma i Promessi Sposi contengono un ammonimento doloroso sulla nostra fragilità, che non dovremmo dimenticare».
Manzoni, secondo lei, era cosciente del ritratto epocale che tracciava nel romanzo o agiva solo da romanziere ispirato?
«Coscientissimo. Il romanzo è frutto di un’ispirazione meravigliosa, ma ciò non toglie che Manzoni avesse un intento programmatico e pedagogico. Teniamo presente che negli anni Venti dell’Ottocento, quando concepì e scrisse il suo capolavoro, i patrioti come lui speravano in un’Italia unita e libera dal dominio straniero. Gli altri letterati del tempo ambientavano di preferenza i loro romanzi nel Medioevo, cioè prima della perdita della libertà italiana; invece Manzoni volle trattare proprio il periodo più buio della decadenza e della soggezione, perché era giustamente convinto che per costruire la cultura letteraria e politica della nuova Italia del Risorgimento bisognasse fare i conti con le epoche peggiori della nostra storia».
Come anticipano la Storia d’Italia le pagine dei «Promessi Sposi»? In che cosa individuano la storia del Paese?
«Pensiamo al tema cruciale del cattolicesimo della Controriforma. Molti intellettuali europei contemporanei di Manzoni, e liberali illuminati come lui, rimproveravano all’Italia e agli Italiani come una colpa irrimediabile il fatto che dal Cinquecento il Paese e il suo popolo si fossero piegati all’obbedienza alla Chiesa. Attenzione: Manzoni era italiano non meno che cattolico; pensava che il potere temporale del Papato dovesse cedere al diritto dell’unità d’Italia; sapeva peraltro che il cattolicesimo era, oltre che la sua personale fede, un carattere saliente dell’identità italiana. Nei Promessi Sposi ha avuto il coraggio di rappresentare la Chiesa cattolica nelle sue luci – il cardinale Federigo, padre Cristoforo – ma anche nelle sue ombre, perché oltre a don Abbondio c’è il Provinciale dei cappuccini che trama col Conte Zio rendendosi complice di un crimine».
Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio e tutti i deboli protagonisti, specchio d’un potere sempre più organizzato che ha in Don Rodrigo e in altri esponenti i maggiori rappresentanti dell’iniquità sociale?
«Come ho detto, ritengo i Promessi Sposi un romanzo di lotta; e la lotta per i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti è la sigla forse più tipica del libro. Manzoni è stato un denunciatore fervente dell’ingiustizia sociale. E non dimentichiamo che – più in esteso nella Storia della colonna infame, collegata al romanzo – ha attaccato anche l’ingiustizia delle istituzioni nel processo aberrante contro i pretesi untori. Aggiungo un altro aspetto importantissimo: ha denunciato anche l’ingiustizia di genere. Quella di don Rodrigo che pretenderebbe far suo il corpo di Lucia; ma anche quella del padre di Gertrude, che violenta la volontà della figlia imponendole il monastero. Manzoni tocca non a caso i vertici della sua arte nel ribellarsi contro il sacrificio di una giovane donna soggetta al sopruso di un maschio padrone».
Lei parla di messaggio ideologico al cuore del romanzo: come potremmo riassumerlo? Come un messaggio d’amore?
«Amore per l’Italia, e proprio perché chi la ama davvero esamina impietosamente le fasi e gli aspetti peggiori della sua storia per prepararne il riscatto. Anche la famosa risciacquatura dei panni in Arno, cioè la riscrittura fiorentineggiante dei Promessi Sposi per l’edizione definitiva del 1840 – quella che di solito leggiamo – è un atto d’amore: oltre che un po’ fiorentinizzata, la lingua del 1840 è molto più popolarizzata rispetto alla precedente stesura, enormemente di più rispetto ad altre opere letterarie del tempo. Manzoni ha fatto una rivoluzione culturale che è anche politica: ha scelto per primo due popolani come protagonisti del suo capolavoro, e lo ha scritto in un modo che anche gli uomini e le donne del popolo potessero, una volta alfabetizzati, leggerlo».
Visto nell’ottica di questa rilettura, chi era veramente Manzoni? Solo uno scrittore o anche un grande analista del tempo in cui viveva?
«Un analista geniale, che ha messo il suo sommo talento letterario al servizio del progetto più generoso: permettere a tutti gli uomini e le donne della nuova Italia di riflettere insieme con lui sulla nostra storia, la nostra identità, la nostra religione dominante; e anche, più in generale, sui temi fondamentali della vita: giustizia, ingiustizia, responsabilità individuale, libertà di coscienza. I Promessi Sposi contengono un messaggio alto, impegnativo e sempre valido e attuale».